CAVALLERIA
La c. medievale si definisce attraverso due funzioni che polarizzano il significato della parola e che, se non vengono accuratamente distinte e articolate, rischiano di confondere gli oggetti, le 'cose', che nella lingua italiana tale termine designa.Da una parte, la c. è l'insieme dei combattenti a cavallo e il suo studio riguarda essenzialmente la storia delle istituzioni e delle tecniche militari. Dall'altra, però, il termine latino medievale militia qualificava la dignità cavalleresca, vale a dire un rango che si conseguiva all'interno dei gruppi solidaristici di guerrieri legati a un medesimo capo (i comitatus, secondo un termine che Tacito ha reso famoso) e che era segnato da speciali cerimonie d'iniziazione (gli 'addobbamenti') e dall'assunzione di corrispettive insegne, che a partire dal sec. 13° ca. si sarebbero formalizzate (sproni; elsa della spada e morso del cavallo dorati; cinturone arricchito di rinforzi metallici, dorati anch'essi; mantello foderato di vaio). Se nel corso del sec. 10° il termine miles aveva soppiantato tutti gli altri termini fin ad allora usati per qualificare l'abilitazione al servizio armato e l'inserimento all'interno di una catena di relazioni vassallatiche e, in ambito laico, gli si erano potuti contrapporre solo i termini rusticus o pauper (a qualificare rispettivamente colui che lavorava la terra o che era bisognoso dell'altrui tutela), già a partire dal secolo successivo si erano registrati con sempre maggiore frequenza, all'interno delle 'masnade' guerriere, combattenti che usavano il cavallo ma non avevano ricevuto iniziazione di sorta e che, dunque, 'cavalieri' sul piano militare, tali non potevano dirsi però sul piano socioculturale. La cooptazione del combattente a cavallo da parte dei suoi colleghi non era quindi automatica. Già questa distinzione preludeva al progressivo affermarsi della tendenza alla 'chiusura' del ceto cavalleresco, fenomeno che si sarebbe presentato nel corso del sec. 12° e che sarebbe stato, a quel punto, legittimato dalle monarchie feudali in via di consolidamento. Sarebbe stato allora affermato, con molte varianti locali, il principio secondo il quale il cingulum, la cintura cavalleresca, si sarebbe potuto legittimamente attribuire solo a coloro che avevano già, tra i loro ascendenti, dei cavalieri.Secondo Bloch (1939) la chiusura del ceto cavalleresco e la formalizzazione dei riti dell'addobbamento avrebbero costituito, nel corso del sec. 12°, il discrimine fra aristocrazia di fatto (qualificata dall'esercizio delle armi e delle prerogative inerenti alla compartecipazione alla catena feudosignoriale) e nobiltà di diritto, caratterizzata da diritti di ereditarietà formalmente riconosciuti. Poste comunque le premesse per una normativa di questo genere, si ponevano immediatamente anche quelle della sua deroga. I sovrani si arrogavano il diritto di promuovere cavaliere anche chi non disponeva di ascendenti di rango cavalleresco mediante la concessione di particolari 'lettere di nobilitazione'; molti grandi feudali e capi militari continuavano a conferire, magari sul campo di battaglia e in forma compendiosa, l'addobbamento, mostrando di non aver dimenticato che esso era inizialmente un rito di cooptazione e di non intendere rinunziarvi; infine i comuni italiani e poi, nelle città della penisola, le organizzazioni 'popolane' pretendevano a loro volta di avere il diritto di 'far cavalieri', dando con ciò prova di ritenere tale diritto parte del loro libero esercizio del potere.La lotta che si era ingaggiata fra istituzioni diverse attorno a una qualifica, la detenzione della quale comportava peraltro prerogative in linea di massima onorifiche e formali - anche se la dignità cavalleresca era richiesta per es. per quanti nell'Italia comunale volessero intraprendere la carriera del podestà o del capitano del popolo nei vari centri urbani -, si giustifica in larga misura qualora si ponga mente all'alto prestigio del quale il nome di cavaliere e la funzione cavalleresca godevano a partire dal sec. 11°, da quando cioè la letteratura epica aveva fatto dello chevalier una sorta di Idealtypus del laico militarmente valoroso ed eticamente impegnato nella difesa della giustizia. Ma questo nodo tematico - dal quale dipesero fortuna e diffusione della letteratura cavalleresca - non si spiega se non s'indugia un istante appunto sugli avvenimenti dei secc. 10°-11° e se non si riflette sul valore paradossalmente 'antiguerriero' della figura etica del cavaliere, che pure dalla guerra e dall'esercizio delle armi trae la sua ragion d'essere.Il guerriero altomedievale, anche se e quando, pur spostandosi a cavallo, combatteva a piedi, era l'erede di quelle culture 'delle steppe' eurasiatiche abituate ad attribuire al cavallo un ruolo culturale che andava ben al di là del suo stesso pur grande valore funzionale e che trovava le sue giustificazioni più profonde nel mito. Già animale trionfale e funereo, solare e ctonio nella civiltà ellenistico-romana, il cavallo aveva un posto speciale nei mondi nordiranico, celtico, germanico, uralo-altaico, come dimostrano le 'sepolture equestri' appunto diffuse in tali mondi.D'altro canto il combattimento a cavallo, poco stimato e poco efficace nel sistema militare greco e in quello romano (dove tuttavia i 'cavalieri' potevano costituire un ordine sociale privilegiato), era andato acquistando importanza anche in relazione a sensibili miglioramenti sul piano tecnico-strumentale, quali l'introduzione del morso, della ferratura e soprattutto della staffa, che avrebbero permesso l'affermarsi di nuovi sistemi di combattimento equestre basati sullo scontro frontale e possibili solo grazie alla più forte solidarietà statica fra uomo e cavallo che appunto la staffa permetteva. Non si può tuttavia sopravvalutare questo aspetto della genesi tecnico-militare dello scontro fra cavalieri armati di lunga lancia, deterministicamente riducendolo all'introduzione dell'uso della staffa. Le fonti, specie quelle iconiche, di cui si è in possesso dimostrano che da un lato il combattimento 'd'urto' fra cavalieri armati di lunghe e pesanti lance era già in uso nell'Asia antica (rilievi rupestri di Ṭāq-i Būstān in Iran), mentre dall'altro il combattimento basato sul volteggio e sul maneggio dell'asta 'a giavellotto' continuò per secoli anche dopo l'introduzione della staffa (ricamo di Bayeux; Bayeux, Tapisserie de Bayeux).Certo è comunque che un guerriero, pesantemente armato, issato su un grande cavallo da guerra e abilitato allo scontro d'urto con asta lunga e pesante, è senza dubbio il prototipo - almeno a livello morfologico - del cavaliere medievale. Tale la sensazione che le fonti tardoantiche forniscono allorché presentano il catafratto sarmatico, ausiliario molto prestigioso, anche se, in realtà, non si sa quanto veramente funzionale, nelle armate bassoimperiali.Il mondo delle c.d. monarchie romano-barbariche favorì l'impiego di combattenti a cavallo, collegandoli strettamente alle disponibilità economiche di coloro che, essendo liberi, erano tenuti al servizio militare; si vede già nelle fonti pubbliche longobarde e franche del sec. 8° come procurarsi cavalcatura e armamento pesante costituisca una forte spesa, che molti potevano sostenere solo consorziandosi. Fu a partire da allora che il combattere a cavallo - e quindi il detenere o il procurarsi i cospicui mezzi economici a ciò necessari - prese a divenire una discriminante e a essere costantemente raccordato al servizio vassallatico; da allora si andarono sviluppando, all'interno del comitatus guerriero, base per il successivo ritterliches Tugendsystem, gli stretti rapporti interpersonali di fedeltà e di amor socialis, notitia contubernii.Le incursioni barbariche dei secc. 9°-10°, con le loro veloci scorrerie, obbligarono il mondo guerriero europeo a concentrarsi sempre più sull'uso del cavallo per rapidi spostamenti: il 'campo di maggio' carolingio, riunione annuale di tutti i liberi attorno al sovrano, si cominciò a tenere appunto in primavera inoltrata per consentire il reperimento di foraggio abbondante per le cavalcature.Nell''anarchia feudale' dei secc. 10°-11° il guerriero pesantemente coperto del suo giaccone di cuoio o di stoffa rinforzato di metallo (bruina), al quale solo nel secolo successivo si sarebbe sostituito l'usbergo di maglia di anelli di ferro strettamente intrecciati, divenne l'incubo delle campagne europee. "Non militia, immo potius malitia", si disse allora con frase destinata a restare proverbiale. Dinanzi a questi guerrieri che ormai riconoscevano - nella generale polverizzazione delle istituzioni - solo i legami vassallatici, presero a organizzarsi a partire dalla Francia centrale e meridionale, nella seconda metà del sec. 10°, 'leghe di pace' sostenute dalle chiese locali, gli scopi delle quali erano obbligare i turbolenti guerrieri-possessores a recedere dalle loro guerre private o quanto meno ad accettarne una disciplina che le sospendesse durante certi giorni (tregua Dei), nonché in certi luoghi o nei confronti di persone inabili a difendersi, come ecclesiastici, vedove, pellegrini (pax Dei).Il movimento della pax e tregua Dei segnò quindi un primo passo nell'ambito di un complesso percorso di limitazione e di moralizzazione della guerra dal quale sarebbero scaturiti i fondamenti dell'etica cavalleresca. I pontefici riformatori della seconda metà del sec. 11°, e soprattutto Gregorio VII, contribuirono dal canto loro al processo in corso elaborando una figura nuova, quella del miles sancti Petri che spendeva la sua vita nel difendere la causa della Chiesa riformata. Venne così a modificarsi l'immagine tradizionale della militia Dei o militia Christi. Tali espressioni, originariamente impiegate a indicare i martiri e quindi i monaci e gli asceti, vennero usate di nuovo dalla pubblicistica dei riformatori per qualificare quei guerrieri che accettavano di impegnarsi con le armi per sostenere il programma di riforma ecclesiastica. D'altro canto, i riformatori gregoriani incoraggiarono anche spedizioni armate contro gli infedeli, come le crociate in Terra Santa o la Reconquista in Spagna; intanto anche le peraltro ancor fluide cerimonie di addobbamento si andavano caricando di elementi simbolico-rituali sempre più esplicitamente riferiti all'intensificarsi di questa nuova vocazione etica dei cavalieri. Per converso nasceva la dimensione dell''anticavaliere', vale a dire del guerriero che, non intendendo dimettere gli antichi costumi di violenza e porsi al servizio dei deboli assecondando il programma di riforma anche morale della Chiesa, veniva dichiarato indegno della cintura cavalleresca.Le chansons de geste e più tardi il romanzo d'aventure avrebbero diffuso gli ideali cavallereschi, a sostegno dei quali sarebbe stata prodotta, dal Duecento in poi, anche un'abbondante letteratura di tipo etico-allegorico sui significati delle armi e dei riti dell'addobbamento. Tale cerimonia però sarebbe stata recepita solo tardivamente (fine sec. 13°) dalla Chiesa nel numero dei riti liturgici ufficialmente accolti, anche se la benedizione delle armi, non diversamente del resto da quella di molti altri strumenti, si praticava dal sec. 10° e forse anche da prima.Da allora in poi si sarebbe andata configurando la dimensione del cavaliere come miles pacificus, guerriero portatore di una pace che era a sua volta anche e prima di ogni altra cosa giustizia, e quindi impegnato nella difesa della cristianità sia ad intra, contro tyranni e praedones, sia ad extra, contro gli infedeli. Lo sviluppo della cultura cortese e della 'filosofia' della fin'amor avrebbe interiorizzato e spiritualizzato questa tematica introducendovi i sottili e inquietanti elementi del servizio d'amore alla dama e della ricerca di sé simbolizzata dal mito del Graal.È stato d'altronde notato che questi esiti della Weltanschauung cavalleresca rappresentarono la risposta propriamente 'laica' a un'ulteriore offensiva della Chiesa, specie nei suoi ambienti più mistici, tesa a determinare una più vasta e integrale chiericalizzazione della societas christiana. Tale offensiva si sarebbe concretata nella fondazione di speciali ordini monastici che accoglievano anche taluni fratelli laici di condizione cavalleresca. Quello del guerriero che dopo una vita di dissolutezza entra nel chiostro era un vecchio tópos agiografico. La conversio comportava però che il cavaliere, entrando nel monastero, abbandonasse ovviamente le armi. Tale norma era così forte, e così naturale, che polemisti gregoriani imponevano ai loro seguaci di condizione cavalleresca di non cedere al richiamo della vita monastica per non abbandonare il fronte della lotta armata della quale la Chiesa riformata aveva bisogno. Le cose cambiarono con le crociate, che da una parte misero in luce il fatto che in effetti era forte, all'interno del ceto militare, il bisogno di penitenza, mentre dall'altra posero con forza il problema del presidio delle nuove terre conquistate dalla cristianità. Fino dall'indomani della presa di Gerusalemme del 1099, gruppi spontanei di pauperes milites si erano riuniti con il proposito di non abbandonare la Terra Santa, bensì di rimanervi a presidio dei santuari cristiani e in aiuto dei pellegrini. Le necessità contingenti e l'autorevole parere di Bernardo di Chiaravalle consentirono l'avvio di un'esperienza nuova, quella di ordini monastici che al loro interno fossero dotati di un nucleo di guerrieri e nei quali la guerra contro gli infedeli o la difesa dei pellegrini fossero un compito precipuo.Gli ordini, definiti per questo religioso-militari, con compiti di guerra - come nel caso dei Templari (v.) - oppure di assistenza ai pellegrini - come nel caso degli Ospedalieri (v.) di s. Giovanni oppure di quelli di s. Maria, detti anche Teutonici (v.) -, vennero fondati in Terra Santa ed ebbero un tale successo che in poco tempo divennero molto ricchi, ottennero in dono beni fondiari e, nel caso dei Templari, avviarono perfino una fiorente attività bancaria. Ben presto essi impiantarono anche sedi in Europa, dove importarono i loro tenaci reciproci odi e dove in effetti acquistarono presto una fama di superbia, di avidità e di brutalità che non li fece amare e che ai primi del sec. 14° avrebbe costituito il fertile terreno sul quale s'impiantarono il processo e lo scioglimento dei Templari. Il modello religioso-militare si affermò dovunque vi fossero pagani da combattere e confini da presidiare: nuovi ordini nacquero nella penisola iberica (Ordine di Santiago de Compostela, di Calatrava, di Alcantara, di Aviz, di Montesa) e nell'Europa nordorientale (Ordine dei Portaspada).Molti membri della c. 'mondana', molti nobili laici, presero la consuetudine di recarsi alcuni mesi nei luoghi nei quali ferveva la 'guerra santa' contro i pagani per adempiervi un servizio sentito come impegno cristiano e al tempo stesso tirocinio guerriero. In fondo, si trattava di una forma di mercenariato; ma chi ne faceva esperienza, la viveva come un'aventure. Perché infatti l'aventure - questa magica dimensione esistenziale cara al romanzo cavalleresco, dove vi sono sempre fanciulle da salvare, castelli da conquistare e draghi da uccidere - aveva pure le sue forme concrete. Esse interessavano gli iuvenes, i giovani guerrieri che da poco avevano ricevuto l'addobbamento e che nel volgare italico del tempo si definivano 'cavalieri novelli'. Ed erano anzitutto il servizio presso un dominus prestigioso, e, inoltre, l'ingaggio mercenario, la crociata, e ancora la giostra e il torneo dai quali si potevano ricavare premi e fama diffusa dai poeti di corte. In realtà, il vero obiettivo al quale gli iuvenes ambivano era un ricco matrimonio, preferibilmente con una dama di condizione più agiata. La letteratura cavalleresca rivestiva tuttavia queste mondane ambizioni del 'sogno d'una vita più bella'.Quel sogno tuttavia non era così lievemente astratto dalla vita politica e pratica come ha preteso, in un libro divenuto un classico, Huizinga (1919). In esso si proiettavano in realtà aspirazioni, elementi immaginari, progetti estremamente concreti. Ne sono prova i c.d. ordini cavallereschi di corte, fondati fra Trecento e Quattrocento un po' da tutti i sovrani d'Europa su un modello ispirato lontanamente agli ordini religioso-cavallereschi e più da vicino alle narrazioni romanzesche. I riti di ordini come quello borgognone del Toson d'oro, quelli francesi della Stella o di s. Michele, quello inglese della Giarrettiera, quello lorenese del Bagno, quello angioino della Nave sono appoggiati a una complessa mitologia letteraria all'uopo costituita, ma sono anche - al di sotto delle loro istituzioni 'onorifiche', che hanno ingannato molti studiosi inducendoli a pensare a innocui, estenuati giochi fastosi e costosi di un'aristocrazia ormai decadente - la manifestazione esteriore del passaggio dalla monarchia feudale allo Stato assoluto e di un corrispettivo modificarsi degli ideali cavallereschi, nei quali veniva immesso il nuovo criterio di fedeltà alla Corona, analogicamente impostato sugli ormai tradizionali valori di fedeltà a Dio, alla Chiesa, al signore e alla dama che della c. erano propri.Non erano solo attività ludiche, allo stesso modo, le giostre, i tornei e gli altri giochi guerrieri ai quali dal sec. 11° si dedicavano le aristocrazie cavalleresche europee, con la riprovazione della Chiesa, la quale nei tornei vedeva una peccaminosa ostentazione di lusso, di violenza e di sollecitazioni erotiche. In effetti, nei tornei non ci si limitava a rischiare la vita: si attuavano i meccanismi di scambio di una società che andava modificandosi e i cui parametri sfuggivano sempre più al controllo delle gerarchie della Chiesa. Occasione di sprechi e di sollecitazioni mondane, il torneo era d'altro canto il luogo nel quale, accanto agli adulteri, si allacciavano relazioni che avrebbero portato a matrimoni importanti, quali il ceto cavalleresco aspirava a realizzare.Poco a poco, la cultura cavalleresca diveniva così una 'cultura d'apparato' e le cerimonie equestri momenti di una complessa teofania del potere, della quale insegne e prestigio cavallereschi erano cornice. Tra Quattrocento e Cinquecento gli stessi tornei si andarono rapidamente mutando in veri e propri spettacoli teatrali: 'tornei a tema', pas d'armes, pasos honrosos, spunti per narrare una storia complessa a carattere romanzesco della quale lo scontro armato era la scena principale.Così ridotta a ornamento di corte, la c. sarebbe sopravvissuta a lungo a se stessa tramandando nei secoli il suo messaggio di valore, di moderazione, di onore, di fedeltà e di lealtà: un messaggio i cui caratteri originali sembrano antichissimi e che pur si rinnova a ogni generazione proiettandosi sempre però in un passato mitico nel quale questi valori sarebbero stati carne e sangue di tutto un mondo.Vi fu tuttavia un lungo momento nel quale lo scollamento fra realtà e schemi culturali dovette sembrare drammatico. Esso fu vissuto dall'Europa fra Duecento e Cinquecento, quando - mentre la c. diveniva sempre più una qualificata forma di distinzione sociale - il prestigio propriamente militare del combattente a cavallo andò progressivamente esaurendosi.Il cavaliere del tempo delle crociate è quel che si vede nel citato ricamo di Bayeux: vestito d'una lunga tunica rinforzata di cerchietti di ferro, al di sotto della quale porta una camicia un po' più lunga; elmo conico - più tardi fornito di nasale - e scudo lungo, 'a mandorla', completano l'armamento difensivo, mentre quello offensivo è costituito da lunga spada a lama triangolare e asta fornita di pennoncello. Successivamente, nel corso del sec. 12°, s'introdusse largamente la maglia di ferro, che - prima adottata sotto forma di lunga camicia - tese a divenire una sorta di tuta fornita di cappuccio e manopole che fasciava il guerriero. A contatto con l'Oriente, si lasciò l'uso della camicia sottostante e si adottò invece una sorta di sopravveste, spesso colorata o ricamata. Nel corso del Duecento entrò in uso l'elmo 'a secchia', cioè a tronco di cono, mentre lo scudo diveniva più piccolo e di forma triangolare e l'usbergo si arricchiva di pezzi d'armatura 'a piastra' (gomitiere, ginocchiere, gambiere). Sempre nel Duecento tornò in auge la vera e propria corazza, arma difensiva sagomata a protezione del torace. L'armamento si complicò e si appesantì nel corso del Trecento e del Quattrocento per ovviare in qualche modo ai danni che potevano derivare dalla caduta dal cavallo in corsa in seguito al combattimento basato sullo scontro frontale; ma anche perché, frattanto, si andava sviluppando una fanteria armata di lance lunghe, archi 'inglesi' e balestre, che contendeva ai cavalieri il primato sul campo.Dalla fine del Duecento in poi la c. pesante subì una serie di smacchi a opera delle fanterie. Per arrestare questo processo si tentò di tutto, perfino di far scendere i cavalieri dalle loro cavalcature e farli combattere come una fanteria pesante. Ma l'avvento delle artiglierie a polvere e dei massicci quadrati di picchieri, nell'arte militare tardoquattrocentesca e primocinquecentesca, decretò la definitiva eclissi della c. pesante sui campi di battaglia. Essa restava regina dei tornei, delle parate, delle corti, dell'immaginario. Ma l'immagine del prode cavaliere smontato e circondato dai brutali fanti armati, incapace di difendersi come un povero crostaceo fuor d'acqua, ha da allora in poi animato le fantasie letterarie e le nostalgie etiche. L'oro, ornamento del cavaliere medievale, sarebbe passato agli eserciti moderni come colore distintivo dell'ufficialità; e con esso la spada, l'onore, il culto della parola data e della fedeltà indipendente dagli esiti di quelle scelte che il cavaliere sente di dover fare in omaggio al suo esser tale. L'azione cavalleresca, nella sua accezione atemporale e metatemporale, non richiede uno scopo pratico né punta al successo.
Bibl.: J. Huizinga, Herfsttij der middeleeuwen, Haarlem 1919 (trad. it. L'autunno del Medioevo, Firenze 1944); M. Bloch, La société féodale, Paris 1939 (trad. it. La società feudale, Torino 1949); E. Köhler, Ideal und Wirklichkeit in der höfischen Epik, Tübingen 1956 (trad. it. L'avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della Tavola Rotonda, Bologna 1985); R. Barber, The Knight and Chivalry, London 1970 (trad. it. Il mondo della cavalleria, Milano 1986); G. Duby, Terra e nobiltà nel Medio Evo, Torino 1971; D. Delcorno Branca, Il romanzo cavalleresco medievale, Firenze 1974; Das Rittertum im Mittelalter, a cura di A. Borst, Darmstadt 1976; F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1981; J. Flori, L'idéologie du glaive. Préhistoire de la chevalerie, Genève 1983; M. Keen, Chivalry, New Haven-London 1984 (trad. it. La cavalleria, Napoli 1986); B. Arnold, German Knighthood 1050-1300, Oxford 1985; Das ritterliche Turnier im Mittelalter. Beiträge zu einer vergleichenden Formen- und Verhaltensgeschichte des Rittertums, a cura di J. Fleckenstein, Göttingen 1985; L'epica, a cura di A. Limentani, M. Infurna, Bologna 1986; J. Flori, L'essor de la chevalerie. XIe-XIIe siècles, Genève 1986; La società in costume. Giostre e tornei nell'Italia di antico regime, Foligno 1986; A. Barbero, L'aristocrazia nella società francese del medioevo. Analisi delle fonti letterarie (secoli X-XIII), Bologna 1987; E. Cuozzo, ''Quei maledetti normanni''. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989.F. Cardini