cavalleria
Una citazione dell’Arte della guerra (da qui in poi Adg) riassume il punto di vista di M. sul ruolo della c. in un esercito: «Debbesi bene avere de’ cavagli, ma per secondo e non per primo fondamento dello esercito suo» (II 79). Questa citazione aiuta a leggere nella corretta prospettiva alcune relazioni, impietosamente sarcastiche, rese da M. circa le prodezze della c. – come quella delle Istorie fiorentine a proposito dello scontro tra i fiorentini e le truppe del duca di Calabria, a Poggio Reale, il 7 settembre 1479:
sanza aspettare non che altro di vedere il nimico, alla vista della polvere si fuggirono [...]: di tanta poltroneria e disordine erano allora quegli eserciti ripieni, che nel voltare uno cavallo o la testa o la groppa dava la perdita o la vittoria d’una impresa (VII xvi 2-3).
In effetti la polemica machiavelliana, nel Principe, nei Discorsi e nell’Adg non si svolge contro la c. in quanto tale, ma contro il sistema delle truppe mercenarie e dei condottieri che hanno «tolto reputazione alle fanterie» (Principe xii 32) e hanno, di conseguenza, dato alla c. un ruolo preponderante che non le spetta. Bisogna insomma tenere a mente che M. non mette mai in questione la necessità della c. in un esercito. Vanno quindi considerati unitariamente l’enfatizzazione strategica del ruolo della fanteria, l’assegnazione alla c. di specifiche funzioni (nei Discorsi II xviii e in diversi luoghi dell’Adg) e l’impegno di M., nel 1510-12, per «descrivere uomini per militare a cavallo in tutte le terre e luoghi del dominio fiorentino» (L’Ordinanza de’ cavalli, § 2).
L’errore politico consistente nell’abbandonare le armi proprie e preferire le armi mercenarie ha una conseguenza di ordine squisitamente tecnico-militare. I condottieri, infatti, hanno dato la preferenza alla c. sulla fanteria:
L’ordine che gli hanno tenuto è stato prima, per dare reputazione a loro propri, avere tolto reputazione alle fanterie: feciono questo perché, sendo sanza stato e in su la industria, e’ pochi fanti non davano loro reputazione e gli assai non potevano nutrire; e però si redussono a’ cavagli, dove con numero sopportabile erano nutriti e onorati: ed erono ridotte le cose in termine che uno esercito di ventimila soldati non si trovava dumila fanti (Principe xii 32).
Ora, per M., gli esempi moderni (ha in mente gli svizzeri e, in particolare, la battaglia di Novara del 1513) come quelli tratti dalla storia romana dimostrano che aver dato un peso preponderante alla c. è un grave errore. I condottieri e i principi italiani, scegliendo quell’ordine e sminuendo il ruolo della fanteria, «hanno fatto Italia serva de’ forestieri» (Discorsi II xviii 12). Nello stesso capitolo M. riprende l’argomentazione di Principe xii 32 a proposito di questo «disordine»:
per mantenersi più in riputazione, levarono tutta l’affezione e la riputazione da’ fanti, e ridussonla in quelli loro cavagli: e in tanto crebbono in questo disordine che in qualunque grossissimo esercito era una minima parte di fanteria (Discorsi II xviii 16).
Nell’Adg si trovano i medesimi argomenti, con parole molto simili (si nota, tra l’altro, il ricorrere della parola peccato):
Dico, pertanto, che quegli popoli, o regni, che istimeranno più la cavalleria che la fanteria, sempre fieno deboli e esposti a ogni rovina, come si è veduta l’Italia ne’ tempi nostri; la quale è stata predata, rovinata e corsa da’ forestieri, non per altro peccato che per avere tenuta poca cura della milizia di pie’, e essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo (II 78).
A conferma dell’esempio offerto dai Romani, che stimavano «più la milizia a piede che a cavallo, e sopra quella fonda[vano] tutti i disegni delle forze loro» (Discorsi II xviii 2), M. adduce l’esperienza della battaglia di Novara, durante la quale si videro novemila svizzeri «andare ad affrontare diecimila cavagli e altrettanti fanti, e vincergli» (Discorsi II xviii 27).
Approfondendo la questione dal punto di vista tecnico, sia nei Discorsi II xviii sia nell’Adg II 86-100 – e anche in questo caso con argomentazioni e parole quasi identiche –, M. ragiona sui «naturali impedimenti» (Adg II 97) che limitano l’impiego dei cavalli. I fanti possono «andare in di molti luoghi dove non può andare il cavallo» (Adg II 87); ci sono «disparitadi d’animo» (Arte II 90) che possono creare disordini («molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da un uomo vile, e uno cavallo vile da uno animoso», Discorsi II xviii 8).
È dunque chiarissimo che in tutti i suoi testi M. sostiene – con gli stessi argomenti, gli stessi esempi, le stesse parole – la sua idea di una superiorità incontestabile della fanteria sulla cavalleria.
«Non è per questo però che i cavagli non siano necessarii negli eserciti» (Discorsi II xviii 11). Nel Principe, benché la natura della critica che M. sviluppa a favore delle armi proprie e dell’«ordine terzo» della fanteria non gli consenta di mettere in luce l’utilità della c., ci sono già alcuni elementi che mostrano come quest’ultima possa avere una sua forza e una sua necessità. Si pensi, per esempio, al Regno di Francia che «sarebbe insuperabile, se l’ordine di Carlo [VII] era accresciuto o preservato» (Principe xiii 23); Carlo VII aveva appunto creato «l’ordinanza delle genti d’arme e delle fanterie» (xiii 18) e se suo figlio, Luigi XI, non avesse «spen[to] quella dei fanti» (xiii 19), «non è dubio che li basteria l’animo a defendersi da tutti e’ principi» (Ritratto di cose di Francia, § 20), con un esercito proprio composto sia di «genti d’arme» (cavalleria pesante) sia di fanti. Oppure si veda come, quando allude alla sfida di Barletta, che vide opporsi tredici cavalieri italiani e altrettanti francesi, M. metta in luce «le forze», «la destrezza», «lo ingegno» di questi combattenti a cavallo (Principe xxvi 17). Infine, anche quando parla della battaglia di Ravenna per sostenere la proposta di un «ordine terzo» della fanteria, M. non esita a ricordare che «se non fussi la cavalleria che gli aiutò», i fanti tedeschi sarebbero stati «consumati» dagli spagnoli (xxvi 24).
Ma è soprattutto nei Discorsi e nell’Adg che M. si chiede se la c. sia necessaria e utile in un esercito e in che modo. Quando Cosimo Rucellai domanda a Fabrizio Colonna: «Faresti voi ordinanza di cavagli per esercitargli a casa, e valersene col tempo?», il capitano risponde in modo netto: «Anzi è necessario; e non si può fare altrimenti, a volere avere l’armi che sieno sue, e a non volere avere a tôrre di quegli che ne fanno arte» (Adg I 263-64). È dunque necessario avere l’ordinanza dei fanti e quella dei cavalieri: l’abbiamo già notato a proposito dell’ordinanza di Carlo VII, lo vedremo anche, più avanti, a proposito di quella fiorentina.
L’idea di una specifica, e in ciò limitata, utilità della c. viene espressa in modo chiarissimo nell’Adg:
ma, quanto alle giornate e alle zuffe campali che sono la importanza della guerra e il fine a che si ordinano gli eserciti, [i cavalli] sono più utili a seguire il nimico, rotto ch’egli è, che a fare alcuna altra cosa che in quelle si operi, e sono alla virtù del peditato assai inferiori (II 79).
Nell’Adg e nei Discorsi leggiamo parole molto simili: la c. è utile «per fare scoperte, per iscorrere e predare i paesi, per seguitare i nimici quando ei sono in fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli avversari» (Discorsi II xviii 11); «a fare scoperte, a correre e guastare il paese nimico, a tenere tribolato e infestato l’esercito di quello e in su l’armi sempre, ad impedirgli le vettovaglie, sono necessarii e utilissimi» (Adg II 79).
È da notare che Colonna – egli stesso capitano di c. durante tutta la sua carriera – pensa che la milizia a cavallo sia «meno corrotta che quella de’ fanti; perché, s’ella non è più forte dell’antica, ell’è al pari» (Adg II 319) – il che spiega anche perché tutti i suoi sforzi siano volti a riordinare la fanteria. Se ci sarà una buona fanteria, aggiunge Colonna, ci sarà anche, «di necessità», una buona milizia a cavallo: «ordinate che sono bene le fanterie (che sono il nervo dello esercito), si vengono di necessità a fare buoni cava-gli» (Adg VII 186).
Bisogna esercitare i cavalieri, come bisogna esercitare i fanti: «Farei ancora, come gli antichi, esercitare quegli che militassono a cavallo; il che è necessariissimo, perché, oltre al sapere cavalcare sappiano a cavallo valersi di loro medesimi», dichiara Colonna (Adg II 128) e aggiunge che, come facevano i Romani, li si dovrebbe allenare con i «cavagli di legno» (II 129). Quando poi parla del modo di armarli, partendo dalle missioni che avranno da compiere, M. pensa soprattutto ai cavalli leggeri:
quanto allo armargli, io gli armerei come al presente si fa, così i cavagli leggeri come gli uomini d’arme. Ma i cavagli leggeri vorrei che fussero tutti balestrieri con qualche scoppiettiere tra loro; i quali, benché negli altri maneggi di guerra sieno poco utili, sono a questo utilissimi: di sbigottire i paesani e levargli di sopra uno passo che fusse guardato da loro, perché più paura farà loro uno scoppiettiere che venti altri armati (Adg II 321-22).
Nei passi successivi dell’Adg, Fabrizio spiega in quale proporzione i cavalieri dovrebbero essere presenti nei suoi battaglioni e precisa anche il numero di «carriaggi» secondo lui necessari, chiaramente con l’idea di seguire il modello romano e tedesco, alleggerendo l’esercito e rendendolo in questo modo più mobile e più rapido:
Venendo al numero, dico che, avendo tolto ad imitare la milizia romana, io non ordinerei se non trecento cavagli utili per ogni battaglione; de’ quali vorrei ne fusse cl uomini d’arme e cl cavagli leggeri; e darei a ciascuna di queste parti uno capo, faccendo poi tra loro xv capidieci per banda, dando a ciascuna uno suono e una bandiera. Vorrei che ogni dieci uomini d’arme avessero cinque carriaggi e, ogni dieci cavalli leggeri, due; i quali, come quegli de’ fanti, portassero le tende, i vasi, e le scure e i pali e, sopravanzando, gli altri arnesi loro. Né crediate che questo sia disordine [...]; perché si vede nella Magna quegli uomini d’arme essere soli con il loro cavallo; solo avere, ogni venti, uno carro che porta loro dietro le cose loro necessarie. I cava-gli de’ Romani erano medesimamente soli; [...]. Quello, adunque, che facevano i Romani, e quello che fanno oggi i Tedeschi, possiamo fare ancora noi, anzi, non lo faccendo, si erra (Adg II 323-27).
La posizione di M. sulla c. è quindi legata logicamente alla sua tesi centrale della necessità di armarsi con «arme proprie» che devono essere composte dalle «populazioni armate», e il cui nerbo principale deve essere una fanteria «la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti» (Principe xxvi 25). La c., anche per i suoi costi (mantenere un cavallo è ben altra cosa che possedere una picca), non può essere al centro di un tale dispositivo, politico prima ancora che militare. La sua funzione militare tuttavia è importante: se non consente di vincere una battaglia, se la forza d’urto è ormai quella dei fanti, secondo il modello romano e svizzero, la c. serve a molestare il nemico, a impedirgli di stare in sicurezza negli accampamenti (e i cavalli leggeri hanno prevalentemente questa funzione nei testi machiavelliani). Seconda per importanza alla fanteria, la c. lo è anche nell’ordine temporale dell’organizzazione.
Nella Cagione dell’ordinanza, § 9, M. scriveva che «chi considera uno esercito, a dividerlo grossamente, lo truova composto di uomini che comandono e che ubbidiscono, e di uomini che militano a piè e che militano a cavallo». Per il Segretario,
bisognava, come tutte l’altre discipline, cominciarsi da la parte più facile; e sanza dubbio egli è più facile introdurre milizia a piè che a cavallo, e è più facile imparare ad ubbidire che a comandare. E perché la vostra città e voi avete ad essere quelli che militiate a cavallo e comandiate, non si poteva cominciare da voi, per essere questa parte più difficile (§§ 9-10).
L’argomento della ‘facilità’ serviva a convincere i cittadini e adombrava la tesi che l’insieme dei testi di M. esprime chiaramente: i fanti sono il nerbo dell’esercito. Ma importa qui notare innanzitutto che già nel 1506 la necessità di prevedere anche l’ordinanza dei cavalli era presente, seppur rimandata a un secondo momento. E il momento venne, nel 1510, quando si temeva che scoppiasse la guerra tra il re di Francia Luigi XII e Giulio II, e quando la fanteria fiorentina cominciava ad avere una sua reputazione persino presso i francesi (si veda un giudizio di Florimond Robertet, riferito in LCSG, 6° t., p. 488). Così M. venne mandato, con delibera dei Dieci del 7 novembre 1510, «a fare una descrizione di cavalli leggeri»; come precisa Jean-Jacques Marchand, «tra novembre 1510 e marzo 1511 le milizie a cavallo [furono] istituite in Valdichiana e in Valdarno di Sopra» (cfr. J.-J. Marchand, in SPM, p. 523). Il testo dell’Ordinanza de’ cavalli è una bozza e la provvisione definitiva fu votata dal Consiglio maggiore solo il 30 marzo 1512 (non c’è prova che sia stata scritta da M.: cfr. Marchand, in SPM, pp. 522-23). Nella bozza del 1510, M. chiarisce che si tratta di un modo per «accrescere e fortificare» l’ordinanza dei fanti. Il testo precisa l’armamento dei cavalli leggeri («non possendo portare detti uomini così descritti, circa le arme per offendere, altro che la balestra o lo scoppietto ad elezione del descritto, oltra alla spada e pugnale», § 4); indica la possibilità di fare le riviste insieme con i fanti («possino detti spettabili Nove ragunare detti descritti a cavallo nella mostra grossa cogli scritti a piè della loro provincia», § 36), e la necessità di «conducere e tener sempre condottieri per instruire e esercitare detti scritti a cavallo» (§ 37). Seguono numerose notazioni di ordine economico, poiché una c. ha un costo ben più alto della fanteria, notazioni che appaiono anche nelle lettere e negli scritti di governo (cfr. LCSG, 7° t., pp. 77-79, 8384, 124): bisogna pagare gli «scritti», verificare che abbiano un buon cavallo e che non lo abbiano «accattato», pensare allo «strame» per nutrire i cavalli. Fondamentalmente, tuttavia, i punti di maggiore rilevanza che abbiamo visto nei testi, sono già ben presenti nella bozza dell’Ordinanza de’ cavalli: la posizione di M. sulle armi, posizione chiaramente politico-militare, si dimostra dunque assolutamente coerente nel tempo.
Bibliografia: J.-C. Maire Vigueur, Cavaliers et citoyens. Guerre et société dans l’Italie communale, XIIe-XIIIe siècles, Paris 2003 (trad. it. Bologna 2004); F. Chauviré, Bayart chevalier ou cavalier? Le combat de cavalerie à la Renaissance, «Bulletin de la société archéologique et historique de Nantes», 139, 2004; F. Chauviré, Histoire de la cavalerie, Paris 2013.