CAVOUR, Camillo Benso, conte di
Nacque il 10 agosto 1810 a Torino, capoluogo allora d'un dipartimento dell'impero napoleonico. Lo tenne a battesimo, per procura, e gli diede il nome, il principe Camillo Borghese, di cui suo padre, Michele, era ciambellano. I Benso venivano da Chieri e avevano avuto titolo marchionale, ai tempi di Carlo Emanuele III, con Michele Antonio, signore di Santena. Per parte di madre, Adele di Sellon, che nell'ottobre del 1811 abiurò al calvinismo per farsi cattolica, Camillo era imparentato con l'aristocrazia protestante e liberale di Ginevra, dove ebbe specialmente cari i De la Rive; mentre per la nonna paterna, Filippina di Sales, della famiglia di S. Francesco, allacciavasi all'alta società della Savoia. Inoltre due sue zie materne, sposate l'una al conte d'Auzers, l'altra al duca Clermont-Tonnerre lo avvicinavano al patriziato legittimista francese. Questi diversi influssi concorsero a temprargli l'animo e la mente; ma egli fu anzitutto figlio del Piemonte e da questa vecchia terra di nobili e di soldati trasse l'impulso alle sue idealità politiche e nazionali.
Suo primo maestro fu l'abate Frézet, degno e colto sacerdote, di cui conservò sempre gradito ricordo. Poi, come cadetto - il fratello maggiore, Gustavo (v.), attese a studî filosofici - entrò nell'accademia militare e vi rimase sei anni (1820-1826), durante i quali fu anche per breve tempo (1824) paggio di Carlo Alberto. Studiò allora fervidamente le scienze esatte e la matematica, che era insegnata da Giovanni Plana, ma poco profittò nelle discipline letterarie, che nell'accademia erano ritenute di secondaria importanza e meno si confacevano, del resto, all'indole del suo ingegno. Ufficiale del genio a sedici anni (1826), fu a Torino, poi a Ventimiglia (1828), a Exilles (1829) e a Genova. In quest'ultima città, dopo la rivoluzione del luglio 1830, manifestò idee poco ortodosse, onde fu richiamato a Torino e poi trasferito, quasi in punizione, a Bard (5 maggio 1831). Là, tra le montagne valdostane, finì di convincersi che i doveri della rigida disciplina militare non convenivano al suo carattere indipendente e ostinato: ottenuto quindi il permesso della famiglia, chiese e ottenne la dimissione (12 novembre 1831).
Smessa così l'uniforme, si dedicò all'agricoltura e alle scienze economiche e sociali. L'ambasciatore francese, barone di Barante, e il giovine conte di Haussonville, di cui divenne amicissimo, lo aiutarono a liberarsi dalle idee rivoluzionarie che avevano dapprima sedotto la sua ardente giovinezza e a condurlo a quel liberalismo pratico che egli professò poi con maggiore risolutezza e con più profonda consapevolezza, ma che era in sostanza, sin d'allora, nello spirito di tutta, o quasi, l'aristocrazia piemontese. Nel 1832 l'Austria, giudicandolo "uomo pericolosissimo", gli chiuse le frontiere del Lombardo-Veneto. Nel 1834, in poche dozzine di nitide pagine, scrisse un Extrait dei pesanti volumi dell'inchiesta inglese sulla tassa dei poveri e lo pubblicò, per desiderio del ministro De L'Escarène, nel gennaio 1835. Fu questo il suo primo lavoro. Già da alcuni anni gli studiosi di parte liberale volgevano la loro attenzione alle classi disagiate col proposito di sollevarle economicamente e moralmente. La beneficenza civile prendeva il suo posto accanto a quella esercitata dal clero. Il C. studia il problema del pauperismo nell'Inghilterra, dove la miseria era oggetto di provvedimenti legislativi intesi a combatterla, e ricava e difende il principio della "carità legale" che deve integrare, non sopprimere quella privata. Egli era allora a Ginevra, donde, nel febbraio, passò a Parigi. Bramoso di conoscere uomini e cose, frequentò il Parlamento, l'università e i ritrovi aristocratici e intellettuali delle signore Svacchine e di Haussonville, delle duchesse di Abrantès e di Rouan, della contessa Anastasia Circourt e della principessa Cristina di Belgioioso; volle vedere istituti agrarî, officine, fabbriche, scuole, carceri, ospedali, e non lasciò in disparte i circoli mondani e le sale da giuoco, dove anzi una volta perdette ventimila lire! Recatosi a Londra nel maggio, si fece presentare ai più insigni statisti: poscia, attraverso il Belgio, dove s'incontrò col Gioberti, fece ritorno in patria nel luglio 1835. Suo padre era stato nominato proprio allora vicario della città di Torino, cioè prefetto di polizia, e non si sentiva più in grado di attendere all'amministrazione dei beni della famiglia. Camillo si assunse quest'incarico, sperando anche di migliorare le proprie condizioni economiche di cadetto, e, fattosi agricoltore, rimase a Leri, nel Vercellese, salvo brevi intervalli, sino al 1848. Il Piemonte era allora un paese a economia prevalentemente agricola, ma proprietarî e fittavoli, chiusi nei vecchi sistemi patriarcali, ripugnavano a quelle applicazioni scientifiche ch'erano già state introdotte, con profitto, nell'Inghilterra, nella Francia, nella Svizzera e anche, in parte, nella Toscana. Il C. si mise risolutamente nelle nuove vie e, una volta lanciato negli affari, si provò anche nel campo delle industrie. Certo, non tutte le sue imprese riuscirono; ma le esperienze di Leri, mentre non furono senza importanza per lo sviluppo della vita economica del Piemonte, contribuirono a moderargli la naturale tendenza ai giudizî arrischiati e ai gesti audaci, gli acuirono il senso delle cose possibili, gli fecero conoscere l'intima struttura economica e finanziaria del paese, di cui apprese quindi anche a inquadrare i problemi politici in una chiara visione della realtà.
Nel dicembre del 1836, dopo un viaggio nel Lombardo-Veneto, fu nominato membro della Commissione superiore di statistica. Dal 1837 al 1839 si occupò di asili d'infanzia e di scuole popolari, fondando, insieme con C. Boncompagni, F. Sclopis e R. d'Azeglio, una società per facilitarne la diffusione. Nel 1841 costituì a Torino la Société du Whist, circolo aristocratico di giuoco e di conversazione sul modello dei clubs di Londra e di Parigi. Nel 1842 fu tra i fondatori e gl'ispiratori dell'Associazione agraria che nei contrasti d'idee e negli antagonismi personali arieggiò quasi le assemblee politiche, e, nel 1843, nella Gazzetta di quel sodalizio, come anche nella Bibliothèque universelle di Ginevra, trattò di poderi modello e di altri simili argomenti. In quest'ultima rivista, nel 1844 dopo un nuovo viaggio a Londra, pubblicò uno studio molto lodato sulla questione irlandese, e nel 1845, sempre occupandosi della legislazione inglese, sostenne, a proposito del commercio dei cereali, il principio del libero scambio, ch'era allora energicamente affermato da R. Cobden e fu accolto l'anno successivo, con qualche riserva, dal ministero di R. Peel. Di qui ebbe anzi origine lo studio che, nel 1847, iniziò nell'Antologia italiana del Predari intorno alla nuova politica commerciale dell'Inghilterra e all'influsso che essa avrebbe esercitato sul mondo economico in genere e sull'Italia in ispecie. L'importanza delle forze economiche interne ed esterne nel movimento politico italiano non sfuggì affatto alla sua penetrazione. L'anno innanzi (1° maggio 1846), per consiglio del duca di Broglie e a proposito del libro del conte Ilarione Petitti sulle strade ferrate, aveva pubblicato nella Revue nouvelle di Parigi una Étude des chemins de fer en Italie, in cui il problema delle ferrovie era trattato non solo sotto l'aspetto degl'interessi materiali, ma anche e soprattutto sotto quello delle idealità politiche e nazionali.
Questi studî potevano farlo apprezzare in certe sfere, non conquistargli l'anima del popolo. Suo padre, come vicario, aveva nemici che lo accusavano persino di affarismo. Il 17 giugno 1847 il marchese Michele si dimise. Il 29 ottobre Carlo Alberto, gettandosi nella via dischiusa da Pio IX, concesse alcune riforme, tra cui una moderata libertà di stampa. Così, il 15 dicembre, apparve il Risorgimento, giornale quotidiano, di cui il C. fu direttore, redattore-capo e gerente. La vocazione alla vita pubblica, che già a vent'anni gli faceva sognare di svegliarsi un giorno primo ministro del regno d'Italia, s'era venuta in lui consolidando col tempo e con gli studî. La sua ora sembrava suonata. Gentiluomo di campagna, sicuro di sé, aperto alle voci della sua terra subalpina, ma poco o nulla sensibile ai ricordi classici ch'erano e sono tanta parte della coscienza della nazione, non si lasciava abbagliare dalle fulgide visioni del Gioberti e non ammetteva affatto con lui "che nulla potesse farsi senza il papa". Piuttosto consentiva con le idee del Balbo, che, attraverso alle memorie del 1821, meglio rispondevano alle tradizioni secolari del Piemonte; ma, mentre questi dichiarava di mirare solo all'indipendenza, egli poneva come condizione di questa la libertà, anzi tutte le libertà, economiche, religiose e politiche, compatibili con l'ordine pubblico.
Il 7 gennaio 1848, in un convegno di giornalisti provocato dalle agitazioni di Genova, propose che si chiedesse al re la costituzione, e fu appoggiato da R. d'Azeglio, da P. Santarosa, da A. Brofferio e da Giacomo Durando, non da L. Valerio e da altri democratici sospettosi ch'egli mirasse a prendere loro la mano. Proclamato lo Statuto (4 marzo), ne rivendicò la perfettibilità per consenso di principe e di popolo e propose egli stesso il senato elettivo e l'aperta dichiarazione della libertà dei culti. Nelle discussioni per la legge elettorale si adoperò affinché il diritto di voto fosse concesso a tutti gl'individui capaci di esprimere un consapevole proposito politico. Il 23 marzo, con un famoso articolo, incitò Carlo Alberto a rompere gl'indugi e a marciare in soccorso di Milano. Nelle elezioni del 26 aprile rimase soccombente, ma in quelle suppletive del 26 giugno fu eletto in quattro collegi. Optò per Torino e, il 4 luglio, prese per la prima volta la parola alla Camera. Gli mancavano le qualità esteriori che aiutano a dominare le assemblee. Bassotto e fatticcio, aveva la fronte eccessivamente ampia, gli occhi cerulei, vivaci, scintillanti sotto gli occhiali d'oro a stanghetta, i capelli biondi come la barba che gli cingeva l'ovale del viso a guisa di soggolo, lasciando il mento e il labbro superiore senza un pelo. Larga la bocca, ora atteggiata a disdegno, ora sorridente d'ironia; il collo breve piantato su poderose spalle, largo il petto, le gambe corte, le mani quasi sempre dietro la schiena. Abituato all'uso continuo del francese, si esprimeva male e stentatamente in italiano, con voce ingrata e con gesto volgare. Così, dapprima, non ebbe fortuna; ma, sentendo che non è possibile stare in un'assemblea senza possedere una relativa facilità di parola, e che questa non si acquista se non con la pratica, non si trattenne d'allora in poi dal parlare quando gli paresse opportuno, e tanto si esercitò che, se non poté gareggiare con i più provetti, come il Valerio e il Brofferio, riuscì peraltro a superarli per la lucidezza del pensiero, la serrata disposizione logica delle argomentazioni, la meravigliosa elasticità dello spirito pieno di espedienti e di risorse. Giornalista e deputato, conobbe pertanto a fondo gli uomini, come già la terra e gli affari. Sostenne i ministeri Balbo, Casati, Alfieri-Pinelli e Perrone-Pinelli, ma, nel caos prodotto dalla guerra e dalla libertà, non andò immune neppur lui da imprudenze e da errori. Nelle elezioni del 22 gennaio 1849 gli fu preferito certo cav. Ignazio Pansoya, onde rimase fuori del Parlamento, ma ciò non gl'impedì di schierarsi col Gioberti nella questione dell'intervento in Toscana a favore del Granduca. Nel marzo accettò la guerra come una necessità. Il 15 luglio fu nuovamente eletto a Torino, e anche a Finalborgo. Nelle discussioni sul trattato di pace con l'Austria appoggiò il ministero, ma il 19 dicembre, essendo corsa la voce che si volesse restringere la libertà di stampa, insorse con un articolo: Non si tocchi la stampa. Consigliava invece il d'Azeglio ad accentuare la tendenza liberale. Il discorso del 7 marzo 1850 per l'abolizione del foro ecclesiastico segnò il suo primo decisivo trionfo. Allora appunto una parte della destra, separandosi dal Balbo, ostile alla legge, si raccolse intorno a lui, che divenne così capo di un gruppo, centro destro, sul quale il ministero poteva particolarmente appoggiarsi. La legge passò. Di lì a poco, essendo morto P. Santarosa il d'Azeglio offrì al C. il portafoglio dell'Agricoltura e commercio. Il re, non senza ripugnanza, firmò il decreto l'11 ottobre 1850.
Si poteva prevedere che sarebbe diventato presto il padrone. Libero scambista, convinto che il Piemonte dovesse sempre più e meglio confondere la propria vita economica con quella delle potenze occidentali, firmò subito un trattato di commercio e di navigazione con la Francia (5 novembre 1850), poi un altro col Belgio (24 gennaio 1851) e un terzo con l'Inghilterra (27 febbraio 1851). Il 19 aprile 1851 passò alle Finanze, e in tale ufficio, valendosi dell'opera del conte Ottavio Thaon di Revel, suo avversario politico, fece un prestito a Londra, riuscendo a sottrarre il Piemonte dalla dipendenza della casa Rothschild; né, poiché i prestiti si traducono in tasse, rifuggì dall'impopolarità di nuove gravezze. Impaziente di salire più in alto e poco scrupoloso nella scelta dei mezzi, dopo il colpo di stato del 2 dicembre, essendosi rianimato anche in Piemonte il partito reazionario, decise di fare un passo verso la sinistra parlamentare. D'accordo con l'amico Michelangelo Castelli, fece pertanto eleggere alla presidenza della Camera, malgrado l'opposizione del d'Azeglio, Urbano Rattazzi, capo del centro sinistro, onde il ministero dovette dimettersi (16 maggio 1852). Nel rimpasto il C. fu lasciato fuori; ma il d'Azeglio, assalito dai clericali e non difeso dai liberali, si trovò presto costretto a dimettersi nuovamente e a designare come suo successore lo stesso C., che intanto era tornato da un nuovo viaggio nella Francia e nell'Inghilterra. Così, il 4 novembre 1852, il C. assunse la presidenza del Consiglio, riservando per sé il portafoglio delle Finanze e conservando in gran parte l'antico gabinetto; ma, poco dopo, entrò nel ministero il Rattazzi, e in tal modo, come disse il Revel, fu conchiuso contemporaneamente il divorzio dall'antica destra e il connubio col centro sinistro. Il C. aveva ormai la sua maggioranza, e il Piemonte il suo grande ministro.
S'era conquistato il suo posto nel pieno vigore delle forze fisiche e intellettuali, dopo una preparazione quanto mai larga e sicura. "L'umanità", diceva, "è diretta verso due scopi, l'uno politico l'altro economico. Nell'ordine politico essa mira evidentemente a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare sempre un numero maggiore di cittadini alla partecipazione del potere; nell'ordine economico mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori e ad un migliore riparto della terra e dei capitali". Con questa visione dell'avvenire si accinse all'opera. Non era un dottrinario né un fanatico dalle idee fisse: vero uomo politico, osservava, studiava, pronto a cogliere l'attimo fuggente e ad andare, con audacia rivoluzionaria, allorché le circostanze propizie gli si presentassero, assai più oltre di quello che avesse prima immaginato. Anzitutto voleva fare del Piemonte uno stato moderno, capace di attirare a sé le simpatie delle potenze occidentali e di esercitare un'attrazione irresistibile su tutti gli spiriti colti della penisola. Perciò attese con grande energia a svolgere la ricchezza pubblica e privata, a riordinare l'amministrazione e le finanze, a riformare l'esercito (opera insigne di Alfonso Lamarmora), a promuovere l'istruzione e l'educazione popolare, a dare impulso ai lavori pubblici, soprattutto ferroviarî (cura precipua del ministro Paleocapa). La ferrovia Torino-Genova, che apriva ai paesi subalpini un grande sbocco sul mare, e, riavvicinando gl'interessi delle due città, affievoliva le antiche gelosie regionali, e specialmente il traforo del Fréjus, incominciato nel 1857, furono opere degne d'una grande potenza. Questi e altri lavori esigevano sacrifici che il popolo sopportava malvolentieri, tanto più che la nuova politica doganale aveva prodotto una passeggera crisi nei commerci e nelle industrie. Ma il C., sebbene i suoi avversarî lo accusassero anche d'illecite speculazioni personali, e la plebaglia si recasse persino a tumultuare sotto le sue finestre, persistette coraggiosamente nella sua via, convinto che la nazione avrebbe ricavato a suo tempo, nel campo economico e in quello politico, largo frutto della sua dura fatica. E intanto, non perdendo mai di vista le supreme idealità nazionali, protestava a Vienna per il sequestro dei beni degli emigrati lombardi che s'erano fatti sudditi piemontesi e, non ottenuta soddisfazione, rompeva i rapporti diplomatici col governo austriaco, mentre faceva votare dal Parlamento un sussidio di 400 mila lire per le vittime della rappresaglia del Radetzky. In quella circostanza tre lombardi furono nominati senatori e il secondo collegio di Torino, morto Cesare Balbo, elesse a suo rappresentante Giorgio Pallavicino, uno dei martiri dello Spielberg (1853).
La guerra d'Oriente gli offrì l'occasione di compiere un atto importantissimo. L'idea che l'Austria, ove in qualche modo fosse riuscita ad estendersi nella Penisola Balcanica, avrebbe spontaneamente rinunziato all'Italia, era popolare in Piemonte. D'altra parte, i ricordi del 1849 in Ungheria lasciavano supporre che Francesco Giuseppe avrebbe finito con l'accorrere in aiuto della Russia. Il C. aveva subito pensato ad allearsi, per ogni evenienza, con le potenze occidentali, ma nel 1854 l'Inghilterra si limitò a chiedergli un corpo di truppe mercenarie. Egli respinse questa proposta. Allora, il 26 gennaio 1855, fu conchiuso un trattato per il quale il Piemonte aderiva all'alleanza franco-inglese e, mediante un prestito di un milione di sterline, s'impegnava a mandare in Oriente 15 mila soldati. Mancava però qualsiasi garanzia di compensi territoriali in Italia, e questo spiega l'opposizione che l'accordo incontrò nella Camera e nel paese. Lo stesso ministro degli esteri, G. Dabormida, si dimise per non assumerne la responsabilità. Ma il C., che non faceva mai il secondo passo avanti il primo, era soddisfatto del prestigio militare e politico che intanto veniva al Piemonte: poi, alla pace, "sarebbe stato più vantaggioso", diceva, "sedere nella sala delle deliberazioni che restare alla porta". Finalmente, dopo lunghi dibattiti, il trattato riscosse i suffragi del parlamento e, sulla fine di aprile, le truppe, al comando del Lamarmora, salparono da Genova per la Crimea. Il re si accomiatò da loro con un senso d'invidia. "Beato lei", disse a Giovanni Durando, "che va a combattere i Russi: a me tocca combattere frati e monache".
Con queste parole alludeva alla legislazione ecclesiastica che, proprio in quei giorni, per poco non costrinse il C. ad allontanarsi dal governo. Il 2 marzo la Camera aveva approvato un disegno di legge col quale si abolivano alcune comunità religiose e se ne incameravano i beni a vantaggio dell'erario e, insieme, dei parroci poveri. Occorreva però ancora l'approvazione del Senato e del re. Quest'ultimo aveva perduto, tra il gennaio e il febbraio, la madre, la moglie e il fratello, e la sua coscienza religiosa era turbata perché alcuni cattolici rappresentavano quelle sventure come segni dell'ira divina. Si rivolse quindi per consiglio al vescovo di Casale, monsignor Nazari di Calabiana, senatore, il quale, d'accordo con Roma, fece una proposta utile al Tesoro, ma contraria affatto allo spirito della legge. Il C., risoluto a non ridurre una questione di principio a una questione di finanza, offrì le dimissioni (27 aprile); ma il re, ammonito coraggiosamente dal d'Azeglio, fece forza a sé stessi e non le accettò. La legge fu poi approvata, il 22 maggio, con notevoli modificazioni che tuttavia non soddisfecero il papa.
Il valore che i Piemontesi spiegarono alla Cernaia (16 agosto) fu un conforto per il re soldato e una prima soddisfazione per il suo grande ministro. Verso la fine dell'anno andarono insieme a Parigi e a Londra. Nel marzo 1856 si tenne nella capitale francese il celebre congresso dove, per l'abilità del C., l'esistenza d'una questione italiana, nei riguardi soprattutto dell'Austria, venne solennemente affermata. La cosa ebbe un'eco immensa. Il Piemonte si ergeva, in cospetto all'Europa, rappresentante legittimo delle aspirazioni patriottiche di tutta la penisola. Così aveva voluto il Gioberti in tempi non ancora maturi. Tuttavia il C. era contento a metà. Aveva persuaso Napoleone III che solo le armi avrebbero risolto la questione italiana, ma tornava a Torino, dopo una rapida corsa a Londra, senza neppure un ducato in tasca. Ripreso il portafoglio degli esteri, che aveva momentaneamente ceduto al Cibrario, accentuò il carattere antiaustriaco della sua politica: i Lombardi aprirono una sottoscrizione popolare per un monumento all'esercito sardo, che fu infatti innalzato sulla piazza Castello a Torino, e Italiani d'ogni paese, anche emigrati all'estero, inviarono somme per fornire cento cannoni alla fortezza di Alessandria. Ma la conseguenza più importante del prestigio acquistato dal Piemonte fu la forza di attrazione che il regno sardo esercitò d'allora su tutti i liberali: i moderati, già regionalisti e dinastici, diventavano unitarî, gli unitarî, già repubblicani, si volgevano alla monarchia. "Io, repubblicano", aveva proclamato dal suo doloroso esilio di Parigi il Manin, "pianto il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi e lo difenda chiunque vuole che l'Italia sia, e sarà. Il partito repubblicano dice alla casa di Savoia: Fate l'Italia, e sono con voi: se no, no. E ai costituzionali dice: Pensate a fare l'Italia e non ad ingrandire il Piemonte: siate italiani e non municipali, e sono con voi, se no, no". Era il Rinnovamento del Gioberti e, più indietro, la lettera del Mazzini a Carlo Alberto nel 1831. Su queste basi sorse (agosto 1857) la Società nazionale, di cui fu presidente il Manin e, lui morto, il Pallavicino, vicepresidente il Garibaldi, segretario il siciliano G. La Farina. Il C. non era allora unitario: poiché l'Italia non poteva fare da sé, e bisognava ricorrere all'alleanza della Francia, le sue speranze non andavano oltre un regno italico che, insieme col Piemonte, comprendesse il Lombardo-Veneto e i ducati, paesi annessi già nel 1848, più forse qualche provincia dello Stato della Chiesa. Ma la Società nazionale, spezzando il partito repubblicano e raccogliendo in tutta la penisola le migliori energie per porle disciplinate al servizio del Piemonte, si prestava mirabilmente ai suoi disegni. Perciò la protesse e la sorvegliò, pronto a valersene in campi più vasti se le circostanze lo consigliassero.
Nel gennaio 1857 l'Austria tolse il sequestro ai beni degli emigrati in Piemonte, ma, due mesi dopo, le relazioni diplomatiche si ruppero di nuovo. Sulla fine dell'anno, per l'affare del Cagliari, cioè del bastimento col quale il Pisacane era sbarcato a Sapri, il C. mostrò verso Ferdinando II maggior fermezza della stessa Inghilterra. Al principio del 1858 il Rattazzi, che non aveva saputo impedire né il moto mazziniano di Genova (giugno 1857) né la vittoria di parecchi reazionarî nelle recenti elezioni, si dimise, e allora il Lanza prese il portafoglio delle Finanze e il C. quello dell'Interno. L'attentato Orsini (14 gennaio 1858) parve compromettere tutta l'opera faticosamente compiuta per giungere a un'alleanza offensiva e difensiva con la Francia; ma la legge De Foresta contro gli eccessi della stampa politica (29 aprile) calmò lo sdegno di Napoleone. Il 21 luglio, in un segreto colloquio a Plombières, Napoleone stesso e il C. stabilirono i patti dell'alleanza: la Francia avrebbe avuto la Savoia e Nizza, il Piemonte si sarebbe ingrandito col LombardoVeneto, i ducati, le legazioni, le Marche sino ad Ancona, e avrebbe formato, insieme con la Toscana, lo Stato pontificio e le Due Sicilie, una federazione sotto la presidenza del papa. Il 1° gennaio 1859, durante il ricevimento solenne del corpo diplomatico, Napoleone lanciò il primo squillo di guerra: il 10, inaugurando la nuova legislatura, Vittorio Emanuele pronunziò il memorabile discorso che corse la penisola come una fanfara d'imminente battaglia. Il 18 il trattato e l'annessa convenzione militare furono firmati a Torino, e, il 30, il principe Girolamo Bonaparte sposò, com'era convenuto, la principessa Clotilde, figlia del re. Ma allora, mentre fervevano i preparativi bellici, vennero per il C. giorni terribili di trepidazione e di angoscia. L'Inghilterra, temendo che l'Italia cadesse sotto la supremazia francese, si adoperava per la pace. La Russia proponeva un congresso, e l'Austria vi acconsentiva purché il Piemonte disarmasse. Napoleone sembrava esitare. Il C. respingeva il disarmo e chiedeva che almeno al congresso fossero ammessi, con voto deliberativo, tutti gli stati italiani. Il 25 marzo partì per Parigi, e tornò il 1° aprile irritatissimo per non aver nulla ottenuto. Minacciava di pubblicare le promesse che Napoleone gli aveva fatte in iscritto. Tra schermaglie diplomatiche-venne così il 18 aprile, quando giunse il dispaccio del Walewsky con le definitive proposte anglo-francesi e con l'ordine al C. d'assentirvi senza indugio: disarmo simultaneo del Piemonte e dell'Austria, ammissione degli stati italiani al congresso a titolo consultivo. Il C. dovette cedere, ma cadde in tale scoraggiamento che pensò persino a uccidersi per non sopravvivere alla distruzione della sua opera. L'amico Castelli lo confortò e il 19 arrivarono telegrammi di Napoleone e del principe Girolamo che gli ridettero qualche speranza. Contemporaneamente giunse la notizia che l'Austria respingeva le proposte anglo-francesi ed aveva anzi già spedito un ultimatum per imporre essa stessa al Piemonte il disarmo entro tre giorni. Era la vittoria del grande ministro. Il 23 aprile la Camera diede al re poteri dittatoriali, e il 26 l'ultimatum austriaco ebbe l'atteso rifiuto. "Alea iacta est !", esclamò tutto felice il C., stropicciandosi le mani, "esco dalla tornata dell'ultima Camera piemontese: la prossima sarà quella del regno d'Italia. Abbiamo fatto della storia. E ora andiamo a pranzo".
L'armistizio di Villafranca (11 luglio) fu per lui un nuovo colpo: dopo tante speranze la guerra terminava con l'acquisto della sola Lombardia, senza Mantova e Peschiera. L'Italia centrale, sospese le sorti di Parma, doveva tornare agli antichi sovrani! Il C. accorse a Monzambano e consigliò il re a non firmare l'armistizio e a continuare per suo conto la guerra, ma, sebbene trascendesse persino a parole poco rispettose, non poté indurlo a quella follia. Diede quindi le dimissioni e tornò a Torino per consegnare il potere a un ministero Rattazzi-Lamarmora. Era al colmo dell'esasperazione e dell'ira, non voleva sentire scuse, e fece al Pieri, amico e confidente di Napoleone, una violenta scenata: "Il vostro imperatore mi ha disonorato... Ma ve lo dico io: questa pace non si farà... Mi farò cospiratore, mi farò rivoluzionario, ma questo trattato non sarà eseguito. No, mille volte no. Mai, mai !". Tuttavia, quando seppe che della cessione della Savoia e di Nizza non si sarebbe più parlato, ritrovò l'equilibrio e comprese in breve che l'Italia, riacquistata a Villafranca la sua libertà di movimento, senza perdere per questo le simpatie napoleoniche, poteva trarre da quella pace insperati vantaggi. L'energia della Società nazionale e del Farini e del Ricasoli nell'Emilia e nella Toscana, l'abilità di Costantino Nigra a Parigi, il mutato atteggiamento dell'Inghilterra, che divenne allora favorevole alla formazione d'un grande stato italiano, spianarono la via alle annessioni. Il 20 gennaio 1860 il re, passando sopra ai suoi risentimenti personali, richiamò al governo il C.; nel marzo, col consenso della Francia e dell'Inghilterra, si fecero i plebisciti nell'Emilia e nella Toscana; il 2 aprile finalmente fu inaugurato a Torino il Parlamento dell'Italia settentrionale e centrale. In quel medesimo mese, secondo lo spirito dei patti di Plombières, la Savoia e Nizza furono consegnate alla Francia.
A questo punto il C. avrebbe voluto fermarsi "per qualche anno", ma il moto unitario aveva preso ormai tale slancio ch'egli non osò opporsi alla partenza dei Mille (6 maggio), anzi, affinché incontrando la flotta borbonica non incorressero in un disastro che avrebbe suscitato contro di lui i più gravi sospetti, li fece scortare dalle navi del Persano sino nelle acque della Sicilia. Dopo la liberazione di Palermo (6 giugno) l'impresa passò sotto la sua diretta responsabilità. Bisognava rifornire i garibaldini d'armi, di denari e d'uomini, e in pari tempo salvare le forme nei riguardi del giovane sovrano, Francesco II, ch'era congiunto di Vittorio Emanuele; impedire, con l'appoggio della Francia, un intervento europeo, e, a questo scopo, arrestare a Napoli la marcia del Garibaldi, che voleva invece proseguire su Roma; sventare infine le trame dei repubblicani e porre tutto in opera affinché la liberazione di tanta parte della penisola non avvenisse con danno del principio monarchico e del prestigio della casa di Savoia. Tutto questo fu fatto dal C. con abilità somma, senza nessuno scrupolo nella scelta dei mezzi, alternando, secondo le circostanze, la prudenza dello statista all'audacia del rivoluzionario. Intorno a Francesco II fece il vuoto all'interno e all'esterno. Si adoperò, sebbene invano, affinché Napoli si liberasse da sé prima dell'arrivo del Garibaldi, al quale oppose il voto del Parlamento, allorché si ostinava a procrastinare le annessioni. Nel settembre, volendo a ogni costo che il re non si lasciasse sfuggire la direzione del movimento nazionale, accordatosi con Napoleone, mandò l'esercito nelle Marche e nell'Umbria. Il 18 il Cialdini sconfisse i pontifici a Castelfidardo; il 29 Ancona si arrese al Persano. Il 1° ottobre avvenne la battaglia del Volturno, e poco dopo il Garibaldi, facendo forza a sé stesso, ordinò i plebisciti (21-22 ottobre). Qualche giorno innanzi, il re era entrato nel territorio napoletano proclamando, affinché sentissero ugualmente i mazziniani e l'Europa, che veniva a impedire che l'Italia diventasse "il nido delle sette cosmopolite" a servizio "della reazione e della demagogia universale". Il 7 novembre, già caduta Capua, fece il suo ingresso in Napoli; il 9 il Garibaldi partì per Caprera, come "un limone spremuto", lasciando al re l'onore di condurre a termine, con gli assedî di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, l'impresa ch'egli aveva guidata da Calatafimi al Volturno.
Il 14 marzo 1861 fu proclamato il regno d'Italia. La rivoluzione aveva dato forza alla diplomazia, ma, senza la diplomazia, la rivoluzione non avrebbe nulla conchiuso. Ora però lo spirito rivoluzionario, imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto l'anima d'un partito detto di azione che, insofferente di indugi, pretendeva di imporsi allo stato e di trascinarlo alle più arrischiate avventure. Forti del nome di Garibaldi, questi uomini volevano recidere con un colpo di spada il nodo gordiano delle intricate questioni di Venezia e di Roma, né erano disposti ad ascoltare i consigli della moderazione e della prudenza. Il C. era capace di tutto, e lo aveva dimostrato a Napoli, quando si trattava degl'interessi supremi della dinastia e del paese, e sentimento e ragionamento lo spingevano, ora come sempre, a muovere incontro alle aspirazioni nazionali. Così appunto da piemontese s'era fatto italiano. Mentre pertanto, non dimenticando Venezia, volgeva l'animo a future alleanze contro l'Austria, tentò di risolvere anzitutto la questione romana, come quella che toccava corde più profonde e offriva alle agitazioni maggiori pretesti, e, sulla fine del 1860, valendosi dell'opera del dottor Pantaleoni e del padre Passaglia, si mise in rapporti diretti col papa. L'accordo, fondato, secondo egli intendeva, sulla formula: Libera chiesa in libero stato, avrebbe dovuto non solo risolvere la questione territoriale, ma anche regolare stabilmente le relazioni tra i due poteri, religioso e civile. Era già la legge delle guarentigie. Ma il tentativo fallì. Allora il C. provocò alla Camera l'interpellanza Audinot che gli diede modo di spiegare come la questione romana dovesse essere risolta con mezzi morali, d'accordo con la Francia, con la completa reciproca indipendenza dello Stato e della Chiesa e con la più ampia libertà del pontefice nell'esercizio del suo alto ministero spirituale. Con queste premesse, Roma fu acclamata capitale d'Italia (27 marzo 1861), e quel voto tagliava corto, per il momento, anche alle impazienze di coloro che, adducendo ovvie ragioni topografiche, negavano la possibilità di mantenere la capitale a Torino. Seguirono subito, per mezzo del Nigra, del Vimercati e del principe Girolamo, trattative con Napoleone per il richiamo dei Francesi da Roma. Le condizioni erano quelle stesse che poi, nel 1864, furono accolte dal Minghetti, tranne la clausola del trasporto della capitale a Firenze, ma per allora non si conchiuse nulla, perché il C. improvvisamente morì.
Gli ultimi suoi giorni furono contristati dal violento attacco che, il 18 aprile, gli mosse alla Camera il Garibaldi a proposito dell'epurazione dell'esercito meridionale. I due grandi patrioti si riconciliarono di lì a poco, ma certe cose, in certi momenti, producono effetti incancellabili. Il C. non aveva abitudini di vita ordinata, ed era inoltre scosso dal lavoro e dalle emozioni. Il 29 maggio si mise a letto; il 2 giugno tornò allo studio e vi persistette sino alla sera, quando lo colse di nuovo la febbre. Sin dal 1856, temendo la sorte di P. Santarosa, s'era assicurato l'assistenza del frate Giacomo da Poirino, vice-parroco della Madonna degli Angeli, che poi fu gravemente punito dallo stesso Pio IX. Sebbene non fosse cattolico praticante e poco sentisse i problemi religiosi, voleva morire nel seno della chiesa e nella fede dei suoi avi. Tra le molte notizie allora diffuse, fu detto che si spegneva mormorando nel delirio al sacerdote che lo confortava con le ultime benedizioni: "Frate, libera chiesa in libero stato". Erano le sei e tre quarti del 6 giugno 1861.
Sin dalla prima giovinezza il C. aveva avuto l'ambizione d'essere il grande ministro d'un paese costituzionale all'inglese. La fede nella libertà, patrimonio delle aristocrazie, e la persuasione, comune al suo tempo, ch'essa potesse poggiare soltanto sugli ordini rappresentativi, sono le sue caratteristiche e costituiscono l'unità mirabile della sua vita. Nel 1861 avrebbe potuto ripetere ciò che nel 1852 aveva detto alla Camera: "Dovessi rinunziare a tutti i miei amici d'infanzia, dovessi vedere i miei conoscenti più intimi trasformarsi in nemici accaniti, non fallirei al dover mio, non abbandonerei mai i principî di libertà ai quali ho votato me medesimo, del cui sviluppo ho fatto il mio compito ed a cui per tutta la mia vita sono stato fedele". Meno sentì il problema nazionale. Piemontese anzitutto, mirò a realizzare, per le vie tracciate dall'esperienza del 1848, quel regno sabaudo dell'Alta Italia ch'era stato l'ambizione e il tormento di Carlo Alberto; ma quando si accorse che si doveva e si poteva ottenere di più, non esitò a farsi italiano e a mettersi risolutamente alla testa del movimento unitario. Il Piemonte era preparato a questa missione unificatrice, e favorevoli erano le condizioni europee, entro le quali essa doveva compiersi. Il C. ebbe la visione esatta della realtà, anzi di tutte le realtà, sino agli estremi limiti del possibile; e tutto il possibile volle conseguire sfruttando tutte le circostanze con sommo ingegno, con ferrea tenacia, con calda passione di artista della politica. Qui è la sua grandezza e la sua originalità. Soprattutto fu un grande diplomatico, ma le risorse della vecchia diplomazia in lui si unirono con l'impeto del rivoluzionario e l'audacia del giocatore d'azzardo. Nessuno può dire che cosa avrebbe fatto per compire l'unità politica della nazione, per risolvere i problemi ideali che il Risorgimento implicava, per dare il . soffio di una vita sua originale al rinnovato popolo d'Italia. Morì, come il Nelson, nella gloria d'un trionfo che pochi anni innanzi era follia sperare; e si può conchiudere che morì in tempo per la sua fama.
Opere. Ediz. nazionale in corso di pubblicazione (Bologna 1926 segg.).
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