CELESTINA
. Dramma spagnolo della fine del sec. XV, celebre per il suo valore artistico e per l'ampia fortuna avuta nella letteratura castigliana. La prima edizione che ce lo conserva apparve a Burgos nel 1499 con il titolo Comedia de Calisto é Melibea, il quale si mantenne nelle edizioni successive. Si ripubblicò a Siviglia nel 1501, con una lettera di prefazione dell'anonimo autore, che afferma di svelare il suo nome nei versi acrostici che seguono: "El bachiller Fernando de Rojas, nacido en la puebla de Montalván". Egli assicura anche che la commedia gli appartiene per gli ultimi quindici atti, svolti sulla traccia del primo, che pretende attribuire a Rodrigo de Cota e a Juan de Mena; ma si tratta d'una civetteria letteraria.
Dai documenti, venuti alla luce in questi ultimi anni, è accertata l'esistenza del Rojas ed è ravvalorata definitivamente la paternità dell'opera. Testimone in un processo dell'Inquisizione di Toledo (1517-18), è ricordato una seconda volta per un processo a carico del suocero (1525-26): risulta che il Rojas era un ebreo convertito, bachiller y autor de Melibea, sposo a Leonor de Montalván, e naturalizzatosi a Talavera, in cui esercitava la professione legale. Di questa città infatti fu alcalde dal 15 febbraio al 21 marzo del 1538, e ivi sottoscrisse il suo testamento, in data del 3 aprile 1541: tra i libri letterarî, che egli lascia alla moglie, figura la commedia di Calisto é Melibea, e insieme molte opere castigliane e altre tradotte dal latino e dall'italiano, che complessivamente formarono la sua cultura artistica e lasciarono traccia nella sua unica opera.
Alle prime due edizioni, che hanno lo stesso testo, seguirono altre redazioni, con ampliamenti e con aggiunte: la terza (Siviglia 1502) modifica il titolo Comedia in Tragicomedia, e porta da 16 a 21 gli atti che diventano 22 nella ristampa di Valenza del 1514.
L'ordito della commedia ha uno sviluppo assai lineare: Calisto, giovane nobile per il casato e l'indole, è preso dall'amore di Melibea, giovinetta ignara e ritrosa. Nella solitudine disperata, la passione gli tormenta l'anima, tanto che ricorre - inconsapevole della via ignobile a cui si affida - alle male arti di Celestina, la vecchia mezzana. Alla sua parola insinuante si piega anche la purezza di Melibea, sicché l'amore dei due giovani, pur nutrendosi dell'impulso sentimentale - sempre ideale e disinteressato - si chiude tuttavia entro le spire di questa realtà malsana e spregiudicata, fino a far loro obliare le norme etiche più elementari. Attorno a loro si muovono figure di amanti triviali e azioni plebee; e il loro linguaggio, passionale e sognante, è come sopraffatto dalla parola volgare di un'esperienza peccaminosa. Ma quanto più meschina è la condotta umana che li circonda, tanto più improvvisa e tragica è la sorte finale, che li distacca entrambi nella sfera del sacrificio. La trasgressione morale e la fatalità della passione li trascinano alla morte: casuale quella di Calisto, vittima delle tenebre notturne che lo proteggevano durante un colloquio d'amore; volontario e però redentore il suicidio di lei, che si lascia cadere dall'alto della torre, per seguire oltre la vita la sua colpa.
L'opera è frutto d'una esperienza di vita e di un'arte assai profonda: se segue modelli già largamente diffusi nella letteratura spagnola, come il Libro de Buen Amor dell'arciprete de Hita e il Corbacho dell'Arciprete de Talavera, e conserva gli schemi e i procedimenti della commedia plautina e terenziana, oppure attinge a piene mani alle opere di precettistica morale del Medioevo e del Petrarca - e perfino del Boccaccio -, tuttavia si armonizza in una salda e attuale concezione. C'è soprattutto una saggezza psicologica che si è esercitata nella diretta visione della realtà umana, e che si configura in una prosa classicheggiante e costruita. La figura di Celestina è centrale, e in essa si riflette la contingenza nei suoi aspetti più maliziosi; e poiché la vita ch'essa simboleggia è quantitativamente più intensa e più pittoresca, la tradizione letteraria intese e riprese dalla commedia questo suo realismo, tanto vicino alle nuove predilezioni picaresche e alla commedia del Rinascimento italiano. Questa sovrabbondanza di massime empiriche e di dottrina veristica, che sovente si ripete e cade nel generico, impaccia la semplicità della trama e soverchia il processo drammatico. In questo senso le ampie inserzioni delle redazioni successive alla prima, rientrano nelle abitudini stilistiche dell'opera, e non se ne deve negare l'autenticità, tanto più che derivano anch'esse dalle stesse fonti culturali da cui il Rojas ripeteva la sua caratteristica informazione.
Bibl.: Per l'ed. di Burgos 1499, cfr. R. Foulché-Delbosc, in Bibl. hispánica, XII (1902), e in facsimile a cura della Hispanic Society, New York 1909; per l'altra di Siviglia 1501, l'ed. di R. Foulché-Delbosc, in Bibl. hisp., I (1900); e per il testo in genere, lo stesso Foulché, Observations sur la Célestine, in Revue hispanique, VII e IX (1900 e 1902), pp. 28-80 e 171-199. Per il testo nelle sue varie redazioni: ed. E. Krapf e M. Menéndez y Pelayo, Vigo 1899-1900, voll. 2, con una ricca introduzione; J. Cejador y Franca, in Clásicos Cast., XX e XXIII, Madrid 1913; F. Holle, in Bibl. romanica, 142-145; e cfr. K. Haebler, Bemerkungen zur C., in Revue hisp., IX (1902), pp. 139-170, e J. Givanel Mas, Contribución al estudio bibliográfico de C. y descripción de un rarísimo ejemplar d dicha obra, in Rev. crit. Hisp.-Amer., V (1919), pp. 77-121. Il titolo di Celestina appare per la prima volta in una traduz. ital. (Roma 1506), per opera di A. Ordóñez, sull'ed. in 21 atti del 1502; e in Spagna solo nell'ed. di Alcalá del 1569, sebbene con il titolo di Celestina è ricordata già da Juan de Valdés (Diálogo de la lengua, 1535) e dal primo imitatore, Feliciano da Silva, La segunda C., Medina 1534.
Per il Rojas: M. Serrano y Sanz, Noticias biográficas de F. de R., y del impresor Juan de Lucena, in Rev. de Archivos, VI (1902), pp. 265-299; e per il testamento, in Rev. de fil. esp., XVI (1929), p. 366 segg., pubbl. da F. del Valle Lersundi. Per lo studio critico, oltre all'introd. alle singole ediz. cit.: M. Menéndez y Pelayo, Origenes de la novela, III, 1910, pp. i-clix, e dello stesso, La Cel., in Estudios, s. 2ª (1912), pp. 75-104; A. Bonilla y San Martín, Antecedentes del tipo celestinesco, in Rev. hisp., XV (1906), pp. 372-386; F. Castro Guisasola, Las fuentes de la Celestina, Madrid 1925.