CELESTINO III
Per tre aspetti, di grande importanza, la figura di C. acquista notevole rilievo in un contesto riferito a Federico II: il suo collegamento con quel clero romano che proprio nel sec. XII va assumendo un'autonomia di funzioni e una coscienza delle sue potenzialità politiche non necessariamente vincolate alla politica del papa; l'approfondita conoscenza delle condizioni in cui si trovava nel sec. XII il patrimonio della Chiesa; il prolungato rapporto con Enrico VI di Svevia, padre di Federico II.
Giacinto Bobone, figlio di Pietro Bobone, cui, secondo una tradizione non univoca, si fa risalire l'origine degli Orsini, era nato agli inizi del sec. XII. Entrato nella carriera ecclesiastica fu prior canonicorum Lateranensium nel 1126. Dopo aver studiato teologia a Parigi con Abelardo, lo difese al concilio di Sens contro Bernardo di Chiaravalle; condannato Abelardo, Giacinto non ebbe a soffrirne, in quanto, grazie all'amicizia del cardinale del titolo di S. Marco, Guido da Castello, forse suo condiscepolo presso Abelardo, fu dallo stesso (divenuto Celestino II nel 1143) creato cardinale diacono di S. Maria in Cosmedin nel 1144. La personalità, la cultura e la saggezza politica di Giacinto, comunque, si affermarono autonomamente dalla protezione dell'amico, il cui pontificato durò appena cinque mesi, essendo Celestino II morto l'8 marzo 1144: dalla Spagna, per predicare la crociata contro i saraceni, in Germania, dopo Besançon, per mediare tra la Curia e il Barbarossa (in seguito al rifiuto di accogliere l'interpretazione data da Rolando, futuro Alessandro III, della dipendenza dalla Chiesa del Regno) in Francia, in esilio con lo stesso Alessandro durante lo scisma di Vittore IV, di nuovo in Spagna nel 1172-1174, attivo nella preparazione della tregua di Venezia tra Alessandro e Federico Barbarossa (1177). Ottimo conoscitore della situazione patrimoniale della Chiesa in Italia centrale, Giacinto, a differenza dai personaggi con i quali ebbe occasione di contatto e di collaborazione (papi Anastasio IV, Adriano IV, Alessandro III e Clemente III, Abelardo, Tommaso Becket e altri), mantenne atteggiamenti di grande cautela politica, di favore per soluzioni di mediazione o addirittura di compromesso, che si rivelarono preziosi non solo per il mantenimento di rapporti accettabili con i Regni europei e con lo stesso Impero, ma anche con il collegio cardinalizio che proprio nel sec. XII aveva raggiunto un'influenza decisiva nella conduzione del governo della Chiesa. Una delle conseguenze ‒ felice al di là dell'intenzione per la documentazione della storia amministrativa del Papato ‒ di questo atteggiamento tuzioristico fu l'attenzione rivolta, come si è detto, alla situazione patrimoniale dell'organismo ormai decisamente politico in cui si riassumeva l'antico Patrimonium beati Petri; parlando di atteggiamento tuzioristico si deve intendere che nella prospettiva di una prosecuzione dell'antica diatriba tra Papato e Impero circa i diritti delle rispettive parti per quanto concerneva le terre dell'Italia centrale (non solo i beni matildini) era parso opportuno alla Curia, anche prima che Giacinto Bobone diventasse papa, che si compisse una precisa ricognizione delle pertinenze della Chiesa romana, specialmente dopo che la guerra di libelli, che aveva accompagnato la lotta delle investiture, aveva immesso nella documentazione relativa a quelle pertinenze numerosi falsi.
Per l'opera di ricognizione dei censi dovuti alla Chiesa romana, C. si servì dell'aiuto decisivo del camerario Cencio (futuro Onorio III, quasi certamente non appartenente alla famiglia Savelli), che aveva incominciato a raccogliere e sistemare compilazioni concernenti l'amministrazione finanziaria della Curia che erano state approntate precedentemente: la Collectio del cardinale Deusdedit (cardinale di S. Pietro in Vincoli), il Liber politicus del canonico di S. Pietro Benedetto (scritto durante il pontificato di Innocenzo II), gli scritti del camerario Bosone (che coprono un periodo che va dal pontificato di Eugenio III a quello di Alessandro III; Bosone era stato cardinale prete di S. Pudenziana), i Digesta pauperis scolaris Albini (1183 ca.; Albino è forse da identificarsi con il cardinale vescovo di Albano). Cencio s'era servito già sotto il pontificato di Clemente III, predecessore di C., delle raccolte predette, ma impresse al materiale un carattere di sistematicità, che certamente rispondeva non solo a un bisogno di sicura consultazione ma alla necessità di certezze in materia di beni della Chiesa, che doveva animare, nel 1192 quando si iniziò l'opera di Cencio, lo stesso pontefice, che lo aveva voluto, anche dopo la morte dello stesso Clemente, come suo collaboratore. Questo segno di continuità con uno dei più importanti indirizzi politico-amministrativi di Clemente III ‒ ma anche, come si è visto, di Celestino II ‒ non può non essere inquadrato nella riconsiderazione che s'impose al Papato nei rapporti con gli Svevi, dopo la rottura di quel margine di incipiente intesa che a Verona (1184) s'era stabilita tra Federico Barbarossa e Lucio III, che insieme avevano condannato la diversarum haeresium pravitas, pur nell'inasprirsi del contrasto circa l'elezione dell'arcivescovo di Treviri; dopo il rifiuto dello stesso Lucio III di consacrare imperatore Enrico VI che aveva duramente colpito i seguaci del candidato papale a quella cattedra metropolitana Volcmaro; dopo il rifiuto di accettare una composizione del contenzioso circa i beni contesi tra Papato e Impero, proposta dal Barbarossa, che offrì di compensare la rinunzia papale a ogni rivendicazione in cambio della cessione di un decimo e di un nono delle rendite imperiali in Italia, rispettivamente al papa e ai cardinali; dopo che era stato approntato ‒ altro antecedente del Liber Censuum di Cencio ‒ il Liber ecclesiae Romanae censualis di Gerardo cardinale di S. Adriano; dopo che, essendo papa Urbano III, Federico I s'era alleato con la Lega lombarda, Enrico VI s'era unito in matrimonio a Milano con Costanza d'Altavilla (27 gennaio 1186), venendo incoronato e consacrato re d'Italia; dopo che, nel 1187, Gerusalemme era stata espugnata dal Saladino. Se, come fu scopo precipuo del successore di Urbano III, era considerata prioritaria la riconquista di Gerusalemme, si imponeva una pacificazione con Federico I e con Enrico (VI) e diveniva improcrastinabile una soluzione a breve termine del contenzioso patrimoniale apertosi con l'Impero circa le terre rivendicate da Papato e Impero nell'Italia centrale, anche al di là delle terre matildine. Una ricognizione dei diritti s'imponeva, non solo nell'interesse della Chiesa, ma anche in quello dell'Impero, come mostra la lettera inviata dallo stesso Barbarossa a Lucio III sin dal luglio del 1183. Con Gregorio VIII, nonostante la brevità del pontificato (21 ottobre-17 dicembre 1187), le relazioni tra Papato e Impero presero decisamente una piega diversa: ci furono dei contatti per risolvere le questioni pendenti ‒ arcivescovato di Treviri e atteggiamento verso Enrico (VI) ‒; un uomo di fiducia del Barbarossa, accetto anche alla Curia, Leone "de Monumento", nobile romano filoimperiale, raggiunse Gregorio VIII a Pisa, città dalla quale il papa sarebbe dovuto rientrare a Roma. In questo contesto ‒ con l'insistenza già espressa dal papa appena defunto sul tema della crociata e con la necessità di un rientro a Roma ‒ non stupisce che proprio la presenza del nobile romano avesse un peso consistente nella scelta del successore, Clemente III, Pietro Scolari. A questi, l'imperatore restituì alcune terre occupate in precedenza nell'Italia centrale (specialmente Umbria e Tuscia) senza tuttavia pregiudicare i diritti imperiali sulle stesse ("tam de proprietate quam de possessione"). Questa linea, in termini più o meno analoghi e con lo stesso sottinteso, sarebbe stata quella che tutti gli Svevi fino a Federico II avrebbero mantenuto e alla quale dovette inchinarsi lo stesso C., al quale comunque, oltre la preziosa collaborazione del camerario Cencio, Clemente III lasciò in retaggio, non ancora perfezionata, la questione dell'incoronazione di Enrico VI e di Costanza, accampati con il loro seguito nei pressi di Roma sin dalla fine di marzo: tra il 20 marzo e il 10 aprile del 1191 Clemente III, infatti, si spegneva (v. in proposito W. Baaken, Zu Wahl, Weihe und Krönung Papst Coelestins III., "Deutsches Archiv", 41, 1985, nr. 1, pp. 203-211).
C. non si trovava soltanto a dover perfezionare l'incoronazione di Enrico VI, ma doveva assumere una posizione rispetto alla situazione che si era determinata con la morte di Guglielmo II d'Altavilla, che aveva lasciata erede Costanza, moglie dello stesso Enrico VI (novembre 1189). Il predecessore Clemente III aveva ottenuto sin dal 1188 da parte di Guglielmo II il riconoscimento dei diritti feudali della Chiesa sul Regno normanno, che Enrico rifiutava, anche in presenza delle rivendicazioni di Tancredi conte di Lecce, appartenente a un ramo secondario degli Altavilla e ovviamente sostenuto da Clemente III, che aveva trattato con gli Svevi solo per quanto concerneva le terre oggetto del contenzioso tra Papato e Impero nell'Italia centrale e settentrionale. Ma Clemente III non prese alcuna decisione. C. non poté esimersi dal farlo, no-nostante la riluttanza a compiere un passo che avrebbe potuto compromettere tutto il lavorio diplomatico che s'era compiuto dopo la morte di Urbano III. È forse eccessivo sostenere che C. non si sentisse vincolato dagli impegni assunti da Clemente III: se così fosse stato non avrebbe avuto bisogno di ritardare la propria consacrazione a papa al giorno di Pasqua (14 aprile 1191), rinviando la consacrazione imperiale di Enrico VI e di Costanza d'Altavilla al lunedì dell'Angelo (15 aprile 1191). In realtà, la spedizione dello Svevo contro Tancredi di Lecce e il suo esito negativo, culminato nella cattura della stessa Costanza d'Altavilla, lo scoppio di un'epidemia e il rientro di Enrico in Germania suggerirono la conclusione di un accordo con Tancredi a Gravina (1192), che consentiva a C., in cambio del riconoscimento della successione al trono di Guglielmo II, di ottenere la soppressione di tutti i privilegi del sovrano di Sicilia in materia ecclesiastica all'interno del Regno, e la dichiarazione di sudditanza feudale dello stesso Tancredi al papa. Sempre nel 1192, d'altra parte, era pronto l'elenco 'eterno' dei censi dovuti alla Chiesa, che venne via via aggiornato sino al 1195. Negli anni successivi al 1191 la situazione dei rapporti tra C. ed Enrico VI ‒ impegnato a risolvere una difficile situazione in Germania, per il riemergere di lotte tra una fazione guelfa e una ghibellina, complicate da un permanente conflitto anglo-francese ‒ non parve migliorare. Solo la consegna di Riccardo Cuor di Leone da parte del duca Leopoldo d'Austria a Enrico VI, con conseguente richiesta di un imponente riscatto da parte del sovrano tedesco, che era riuscito a liberare Costanza dalla custodia di Tancredi mentre una scorta l'accompagnava a Roma proprio per l'interessamento di C., ripropose al papa, negli stessi termini del 1191, la questione dei rapporti con l'Impero. C. era pressato dal condizionamento dei nobili romani che si fronteggiavano dal tempo dello scisma del 1130 (Frangipane-Pierleoni, Orsini-Conti) e dal 'popolo', capeggiato da Benedetto Carushomo, che riuscì a impadronirsi della Sabina e della Marittima, sia pure per poco, sino all'avvento di Giovanni Capocci, che fu senatore di Roma dal 1194 a tutto il 1196. Ma si trattava di una pausa dettata dal prevalere di un esponente di una determinata famiglia nobile contro un esponente del 'popolo', non di un vero alleato del papa. Forse si può ipotizzare che i buoni rapporti esistenti tra la famiglia Capocci e Cencio camerario contribuirono a rendere meno assillante il controllo sulla persona e sulla politica del pontefice, peraltro sempre più indotto a servirsi dell'ausilio dei cardinali, a loro volta punte di diamante dei gruppi di potere nobiliare all'interno di Roma. Le difficoltà interne, le conseguenti incertezze di atteggiamento di C. nei confronti della mai sopita volontà di Enrico VI di occupare il Regno di Sicilia, a ciò spinto anche dalla moglie Costanza sostenitrice di una sorta di autonomismo normanno ('autogoverno nazionale') sia di fronte alla Chiesa sia anche ‒ pur in diversa misura ‒ di fronte all'Impero, resero confusa e ambigua la politica di C. negli ultimi anni del pontificato. La stessa assunzione della croce da parte di Enrico VI nel 1195, per quanto C. avesse sollecitato un'impresa mirante al riacquisto dei Luoghi Santi, sembrò disorientare il papa, che solo dopo molte esitazioni si dispose ad appoggiare l'iniziativa di Enrico VI con l'invio di alcuni cardinali per predicare la crociata; nel contempo, tuttavia, interveniva nelle questioni interne della Chiesa di Sicilia, provocando l'energica reazione dell'imperatrice Costanza. La nomina da parte di C. di un legato generale per la Puglia e la Calabria (forse il cardinale diacono di S. Maria in Via Lata), la nomina ad arcivescovo di Siponto di Ugo di Troia, l'intervento nella nomina ad abate del monastero di S. Giovanni degli Eremiti di un personaggio considerato traditore della causa dell'imperiale maestà si collocavano nella linea degli accordi già stipulati da C. con Tancredi di Lecce a Gravina e pertanto non ritenuti validi né da Enrico VI né dalla moglie Costanza. La stessa nascita di un figlio a Costanza (Iesi, 26 dicembre 1194), il giorno dopo la cerimonia dell'incoronazione di Enrico VI a Palermo quale re di Sicilia, complicò ulteriormente i problemi di Celestino III. L'imperatore infatti non fece mistero di ambire a una vera e propria successione ereditaria dinastica, che in un primo tempo fu anche accolta da un buon numero di principi tedeschi, salvo poi dar luogo a un ripensamento. C. si oppose al progetto che avrebbe in pratica notevolmente ridotto le possibilità di controllo del Papato sull'Impero e rifiutò anche l'offerta di Enrico VI di accollarsi l'onere di una rendita di notevole consistenza a favore del papa e dei cardinali. Né seppe o poté il papa trarre partito dalle difficoltà incontrate dall'imperatore in Sicilia nel 1197, allorché dovette affrontare una rivolta suscitatasi per la revoca dei privilegi già goduti dai nobili siciliani (aprile-luglio 1197), riuscendo vittorioso e vendicandosi duramente dei rivoltosi, fossero essi o non fossero in combutta, come volle una certa qual fama di ispirazione germanica, con l'imperatrice Costanza. C., che probabilmente aveva aiutato nell'ombra i rivoltosi, dovette registrare un'altra sconfitta: Enrico VI non accettò di riconoscersi, per il Regno di Sicilia, vassallo del papa, né, fallita l'offerta di accollarsi l'onere finanziario per il Papato e i cardinali, volle rinunziare in maniera inequivoca a ogni forma di controllo delle terre rivendicate dal Papato in Italia centrale. Così, morto l'imperatore (28 settembre 1197), C. si trovava più o meno con gli stessi problemi ereditati da Clemente III, problemi che né la minore età di Federico (II) né la reggenza di Costanza d'Altavilla resero sostanzialmente di più facile soluzione.
Il tentativo di C. di barattare la concessione della sepoltura di Enrico VI con la restituzione del riscatto imposto a Riccardo Cuor di Leone ‒ tentativo che secondo Ruggero di Hoveden il papa avrebbe compiuto subito dopo la morte dell'imperatore ‒ non ebbe successo.
Un fallimento, essenzialmente, la fine del suo pontificato, come dimostra la volontà respinta dai cardinali di abdicare a condizione di poter scegliere un successore: circondato da diffidenza e disprezzo, C. moriva l'8 gennaio 1198.
Fonti e Bibl.: per esigenze di sintesi si rimanda a V. Pfaff, CelestinoIII, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma 2000, pp. 320-326.