Celestino V
. Di nome Pietro, di modesta famiglia, nacque verso il 1210 a Isernia, o piuttosto a Molise o a S. Angelo di Limosano. Entrato nel monastero benedettino di S. Maria di Faifoli, verso il 1231 decise di vivere vita eremitica; passò tre anni sul Palleno, poi si recò a Roma per essere ordinato sacerdote e quindi si stabilì sul monte Morrone. Dopo cinque anni, insieme a due compagni, si trasferì, cercando più aspra solitudine, sulla Maiella. La sua fama di santo e di taumaturgo attirò ben presto devoti e discepoli. L'eremo di S. Spirito di Maiella divenne così il centro di una congregazione di eremiti che una bolla di Urbano IV del 1263 incorporava nell'ordine benedettino.
Quando giunse notizia che nel concilio di Lione si pensava, riprendendo la costituzione del concilio Lateranense, di sopprimere le nuove famiglie religiose, Pietro decise di recarsi a Lione. Ne riportò una bolla (22 marzo 1275) che prendeva atto dell'aggruppamento di monasteri dipendenti e di possessi intorno a S. Spirito di Maiella, confermandolo nella regola benedettina. La congregazione continuava ad ampliarsi. Il suo fondatore lasciò a Francesco d'Atri il governo e si ritirò a S. Giovanni d'Orfente, poi a S. Onofrio sul Morrone. Ai piedi del monte prendeva sviluppo S. Spirito del Morrone, che diventava nel 1293 sede e titolo dell'abate da cui dipendevano ormai una quarantina di monasteri. Il 5 maggio 1294, il conclave riunito a Perugia - la vacanza papale durava dal 4 aprile 1292 - elesse pontefice Pietro da Morrone. La straordinarietà di quell'improvvisa scelta ebbe varie spiegazioni: le pressioni di Carlo II d'Angiò che a Figuieras aveva concluso un trattato segreto con Giacomo d'Aragona per la Sicilia, che richiedeva per essere divulgato l'approvazione papale (e sappiamo che Carlo II si recò a Perugia e poi chiese l'intervento del santo eremita, che sollecitasse per il bene della Chiesa l'elezione papale); la stanchezza per l'irresolubile rivalità tra gli orsiniani e i colonnesi, che comprometteva lo stesso governo di Roma (Orvieto in quei giorni si era ribellata); la tensione tra i cardinali per l'improvvisa morte del fratello del cardinale Napoleone Orsini. Un accenno al messaggio di Pietro del Morrone, da parte del cardinale Latino Malabranca, si tradusse d'improvviso in una concorde decisione. Ma l'eletto pontefice non si recò a Perugia. All'Aquila fu consacrato vescovo (tra il 17 e il 21 agosto) e incoronato pontefice (29 agosto) col nome di Celestino V. Alla nomina di dodici nuovi cardinali, su suggerimento di Carlo II, seguì la decisione di fissare la residenza papale a Napoli. Una paurosa inesperienza di problemi del governo della Chiesa, una condiscendenza senza misura ai desideri di Carlo II, inesauribile nel chiedere favori, un ‛ nepotismo ' monastico eccessivo verso la congregazione celestiniana, dimostrarono ben presto l'infelicità della scelta del vecchio eremita; il quale, rendendosi conto della sua incapacità e della sua tremenda responsabilità, cominciò a pensare all'abdicazione. Chiese consiglio su questa possibilità: nonostante che la notizia, trapelata, avesse suscitato reazioni in Carlo Il, nei celestiniani, nel popolo napoletano, egli perfezionò la sua decisione, con l'aiuto del canonista cardinale Benedetto Caetani, con una costituzione in cui si affermava che un papa aveva diritto di abdicare e con un'altra che ribadiva l'obbligo di un immediato conclave, dopo la morte o la rinuncia del pontefice. Il 13 dicembre del 1293, riunito il consistoro, rinunciò al papato. Il 24 dicembre gli succedeva Benedetto Caetani, Bonifacio VIII. Celestino V, ora Pietro del Morrone, avrebbe voluto riprendere la vita eremitica, la vocazione che egli sentiva di avere pericolosamente tradito nei mesi del suo pontificato. Ma Bonifacio VIII temeva che Pietro potesse essere riadoperato, da chi aveva perduto per quell'abdicazione, come strumento di ribellione o di scisma, e voleva controllarlo da vicino. E invece Pietro fuggì: verso Sulmona, poi nell'antico suo romitorio del Morrone. Riuscì a sottrarsi alle ricerche degli uomini di Bonifacio VIII, per qualche tempo: poi decise di portarsi in Grecia, dove già si era rifugiato, in un'isola vicino alla costa di Acaia, un gruppo di spirituali. Ma una tempesta gl'impedì il passaggio, e fu arrestato sulla spiaggia a Vieste (Foggia). Bonifacio VIII decise di custodirlo nel castello di Fumone (Frosinone); Pietro, eremita-prigioniero, vi visse con due compagni celestini dal giugno 1295 al maggio del 1296, quando morì (leggendaria la soppressione violenta per mano di sicari). Il processo per la sua canonizzazione, iniziato nel 1306, si concluse il 5 maggio 1313, con la solenne proclamazione della sua santità.
Il nome di Celestino V non ricorre espressamente nell'opera dantesca. Ma vi si allude chiaramente in If XXVII 104-105, quando Bonifacio VIII persuade Guido da Montefeltro al consiglio fraudolento, promettendogli anticipatamente l'assoluzione: però son due le chiavi / che 'l mio antecessor non ebbe care. Ed è ipocrita, beffarda ironia, che non comporta, nel confronto, necessariamente un giudizio positivo di D. sul pontefice che quelle chiavi aveva lasciato nelle mani del successore simoniaco. Del quale si dice (If XIX 56-57) che non temette di tòrre a 'nganno / la bella donna, e poi di farne strazio: dove l'accenno all'esser divenuto Bonifacio lo sposo della Chiesa, con inganno - anche l'autorità di Roberto d'Angiò sarà giudicata illegittima e fraudolenta contro il figlio di Carlo Martello, per li 'nganni (Pd IX 2) - si riferisce alla storia della rinuncia al papato di Celestino V, ingannato dal consiglio sulla liceità e necessità della rinuncia da parte di Benedetto Caetani, che avrebbe ottenuto anche perciò la designazione a successore da C. stesso, spaventato dalla sua incapacità di governo della Chiesa; o ingannato (secondo le accuse che furono mosse contro Bonifacio VIII dai colonnesi, dagli spirituali, dal re di Francia, e furono largamente diffuse e raccolte dalle Cronache - G. Villani VIII 5-6 - e da molti commentatori danteschi) da notturne voci, attraverso canne collocate nella cella del papa eremita, e apparizioni predisposte dal Caetani, che esortavano, quasi voci e apparizioni celesti, il credulo e semplice C. all'abdicazione.
Un'allusione all'avvenuta canonizzazione di Celestino V potrebbero essere, secondo il Nardi (Saggi e note, pp. 102, 330), i versi di Pd XXI 97-103: D. riceve incarico da Pier Damiano di riferire tra i mortali che vi sono segreti della mente divina inconoscibili: La mente, che qui luce, in terra fumma: riferimento alle menti di Clemente V, di Filippo il Bello e di quanti avrebbero voluto quella canonizzazione " offuscati dal fumo di passioni politiche ". Ma tale proposta interpretativa ci pare, in quel contesto, difficilmente probabile; più che un'allusione a un fatto concreto, quel ‛ fummo ' deve intendersi la caligine dei sensi e del peccato, che offusca la mente dei mortali.
Problema lungamente discusso è invece l'identificazione in Celestino V del personaggio che tra la setta d'i cattivi, / a Dio spiacenti e a' nemici sui, è l'ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto (If III 59-63). Gli argomenti contro l'identificazione in Celestino V, di là dalla congerie di argomenti che certa critica controversistica ha accumulato, possono essere raccolti sostanzialmente in due questioni. D. non poteva condannare C. perché nella sua concezione ecclesiale il papa ‛ angelico ', pauperista, il papa degli spirituali, doveva rappresentare una figura positiva; e giustificata perciò la rinuncia, non fatta per viltà, ma per consapevole senso di responsabilità, scelta tra un intrico di complicità di una Chiesa mondana e l'aspra solitudine di una vita ascetica. La seconda questione verte sul fatto che D. non poteva collocare nell'Inferno C. perché canonizzato dalla Chiesa.
Per il primo argomento si può opporre che gli unici due accenni espliciti di D. alla storia di Celestino, non sono propriamente positivi. Quanto alle certe consonanze col mondo degli spirituali, gioverà osservare che quel mondo non è affatto univoco: oltre alle perplessità di Iacopone da Todi, di fronte all'elezione di Celestino V, si dovrà avvertire che la rinuncia di C. fu variamente discussa nella sua validità e diversamente giudicate le sue conseguenze nei confronti dei successori da Corrado da Offida, da Angelo Clareno, da Ubertino da Casale, da Pietro di Giovanni Olivi. Bisognerà inoltre, più che dedurre da consonanze, osservare che per D. quella rinuncia fu valida se Cristo fu catto ad Anagni nel vicario suo (Pg XX 87); e all'accordo tra Clemente V ed Enrico VII D. guardò con speranza nell'Ep V, e nell'appello ai cardinali italiani (Ep XI) chiese la restituzione a Roma del Papato per mezzo di una responsabile scelta: né le parole di Pietro possono essere intese come denuncia di un'illegittimità canonica di Bonifacio (Pd XXVII 22-24 Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio / ... che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio), ma bensì di un'indegnità totale di colui che ha tolto a 'nganno / la bella donna e ne fa strazio (If XIX 56-57), sicché per quell'alleato di Satana il Papato è di fatto vacante, anche se così non appare agli uomini, nel giudizio del Figlio di Dio.
Quanto al problema della canonizzazione, che non poté rimanere ignota a D. perché, se non altro, legata, per ovvie ragioni, al clamoroso processo contro la memoria di Bonifacio VIII, si volle affermare che mai D., anche se avesse posto C. all'Inferno prima dell'avvenuta canonizzazione, avrebbe potuto lasciarvelo dopo la solenne definizione. Ma fu osservato che la canonizzazione dei santi non è dogma di fede; è dovere per fede ecclesiastica, onde, chi non crede, commette peccato di ribellione o di temerità o di empietà ma mai di eresia. E però non mi pare necessario attribuire a D. la precisa consapevolezza di questa distinzione teologica, né ovattare la responsabilità di un suo giudizio, in quanto l'anonimato del personaggio del ‛ gran rifiuto ', antesignano dei vili tutti innominati, non avrebbe reso obbligatorio un ritocco del testo, se avesse alluso a Celestino V, dopo l'avvenuta canonizzazione.
Una rassegna dei primi commentatori di D. dimostra che l'identificazione del personaggio in C. fu sicura e concorde, e non fu affatto avvertita la difficoltà della canonizzazione (Iacopo, Bambaglioli, Lana). Solo dopo il 1328, dopo la condanna della Monarchia (e le accuse del Vernani, e la proibizione di " tenere libri o libelli composti in volgare da quello che chiamasi Dante " del Capitolo provinciale fiorentino dei domenicani), cominciano ad avvertirsi perplessità, come nell'Ottimo: " vuole alcun dire che l'autore intenda qui che costui sia frate Pietro del Murrone... fue di santa vita e aspra penitenza "; e così Pietro: " nominat fratrem Petrum de Murrono, ut credo ". Più decisamente il Petrarca, polemizzando con il giudizio dantesco di viltà, nel De Vita solitaria: " quod factum solitarii sanctique patris, vilitati animi quisquis volet attribuat, licet enim in eadem re, pro varietate ingeniorum, non diversa tantum, sed adversa sentire ", affermandosi dunque che la diversità d'opinione, più che violare l'ortodossia, violava semmai la verità storica sancita dalla Chiesa. Ed ecco apparire le giustificazioni per D.: essere avvenuta la collocazione tra gl'ignavi " nel 1308 ", prima della canonizzazione; oppure doversi identificare il personaggio in Diocleziano (così Pietro, in una nuova stesura del suo commento) o in Esaù (Boccaccio); la lista dei candidati si sarebbe poi allungata, per ipotesi di dantisti, con i nomi di Pietro, di Pilato, di Romolo Augustolo, di Ottone III, di Alfonso X di Castiglia, di Giano della Bella, di Vieri de' Cerchi, di Venceslao IV di Polonia...
Va invece sottolineato che le parole del riconoscimento di D. " esprimono una tale intensità e freschezza di sdegno e repulsione che difficilmente potrebbero adattarsi ad altri che ad un contemporaneo del Poeta " (Parodi, in " Bull. " XXIII [1916] 10). L'allusione dantesca doveva, per essere efficace, essere trasparente e immediata per i contemporanei, di là da ogni giudizio storico in eventuale contrasto. E fu recepita concordemente come allusione a Celestino. Antesignano dei vivi, C., che invece di " portar ritto il gonfalone ", rispondendo alle speranze di un rinnovamento della Chiesa, fece per viltà il gran rifiuto, per fiacchezza di volontà, per incapacità di prendere partito, di assumere responsabilità; grande il rifiuto, in rapporto alla somma responsabilità cui era stato chiamato, e alle tremende conseguenze che ebbe il suo gesto, per la successione di Bonifacio. Che se questi ‛ ingannò ', l'essere stato ingannato non era giustificazione, ma suggello di una dappochezza, inetta a reagire, a difendersi; né la canonizzazione, pena eresia, imponeva un diverso giudizio: non fu sentita così dai primi commentatori. Per D., non necessariamente chiamato a rispondere a un problema teologico, pur proponibile, e a impegnarsi in distinzioni nella sua presa di posizione contro una tormentata decisione papale, valeva il suo giudizio, coincidente, per vocazione di profeta, con quello divino, del ‛ Figliuol di Dio ʼ. Dunque C., l'ombra del gran rifiuto, con quel margine, in questo caso, d'incertezza che l'anonimato comporta.
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