CALCAGNINI, Celio
Nato a Ferrara il 17 sett. 1479 da una facoltosa famiglia dell'aristocrazia di servizio presso la corte estense, era figlio naturale del protonotario apostolico Calcagnino - fratello del primo, signore di Fusignano al centro del feudo familiare - e di Lucrezia Costantini.
Ricevuta la prima istruzione dal padre, che era un canonico assai colto, compì gli studi universitari nella scuola di "umanità" della sua città natale, sotto la guida di Battista Guarini nelle lettere classiche, Antonio Cittadini nella filosofia, Niccolò Leoniceno nelle scienze mediche e naturali. Ebbe, tra i migliori condiscepoli, lo storico G. Sardi e l'erudito L. G. Giraldi, che esalterà nei Carmina.
A quindici anni, insieme con il padre, fece parte della "missione" ferrarese che doveva riportare in Italia il nipote di Beatrice d'Aragona vedova di Mattia Corvino, il cardinale Ippolito d'Este, già arcivescovo di Esztergom e primate d'Ungheria.
Assunto nell'ufficio del Collaterale (la tesoreria dell'esercito ferrarese), nel 1496 circa si arruolò nelle nùlizie imperiali di Massimiliano - sceso in Italia per contrastare l'aggressione francese di Carlo VIII - partecipando alla spedizione in soccorso di Pisa; nel 1506 faceva parte del contingente estense dell'armata pontificia condotta da Giulio II contro i Bentivoglio di Bologna.
Alla fine della sua esperienza nùlitare - che dovrebbe occupare, pur con ampi intervalli, quasi tutto il decennio 1496-1506 e che comunque non gli impedì di continuare i suoi studi di erudizione greca e latina - il C. entrò come funzionario nell'ufficio della segreteria ducale. L'anno successivo (o forse solo nel 1509) ebbe la cattedra utriusque linguae nell'università ferrarese e, quasi contemporaneamente (1510), veniva assunto in qualità di cancelliere nella segreteria del cardinale Ippolito, che egli aveva esaltato, nel suo Commentarius in Venetae classis expugnationem, come eroe della battaglia di Polesella (22 dic. 1509). Entrò così a contatto con una delle più colte e vive corti letterarie del primo Cinquecento italiano, stringendo cordiali rapporti - tra gli altri - con Ludovico Ariosto e impegnandosi, come poeta cortigiano, nella produzione encomiastica in lingua latina.
All'attività accademica e a quella amministrativa si venne ben presto sovrapponendo quella di agente diplomatico. Un lavoro che il C. ci presenta fortemente acculturalizzato sotto forma di orationes (per esempio a Giulio II e a Leone X). Sono documentate: due missioni al Senato veneziano; una all'ambasciatore spagnolo a Venezia (1512); una a Roma presso il pontefice (1513). Al centro di questa azione diplomatica si trovava quasi sempre il conflitto che veniva ad opporre gli Estensi al Papato per dispute territoriali.
Nel 1510 aveva abbracciato, certamente su sollecitazione del suo signore, anche la carriera ecclesiastica. Ordinato sacerdote, veniva provvisto, tramite l'intervento di Ippolito, di un canonicato nella cattedrale di Ferrara; di ricche prebende (a S. Giacomo di Ferrara e di Porotto), di ampi benefici a Riolo (nella diocesi di Faenza), a Ferrara (chiesa di S. Maria Bianca), a Fusignano (chiesa arcipretale), a Roverdicré (un giuspatronato nel Polesine rovigiano). Fu quindi insignito del titolo di protonario apostolico e nel 1514 si addottorò - nello Studio della sua città - in diritto civile e canonico.
Nel 1517 Ippolito - facendo togliere l'incarico al vecchio Pellegrino Prisciani - propose il C. come storico ufficiale del ducato di Ferrara e della, casa degli Estensi. Il 10 settembre, ad istanza del cardinale, che aveva raccomandato il suo candidato per "il stilo accomodato" e perché aveva "adito alle cose" più segrete dello Stato, fu radunato, sotto la presidenza di Antonio Constabili, il Consiglio dei savi, che decise - con una deliberazione pubblica - di affidare al C. l'ufficio di storiografo di corte, purché questi, quando era in patria, non rinunciasse all'insegnamento universitario.
Sempre nello stesso anno decise, insieme con altri letterati della corte ferrarese (Ludovico di Bagno e Andrea Marone), di accompagnare in Ungheria Ippolito d'Este, che vi si recava per prendere possesso della diocesi di Eger (4 dicembre). Quivi il C. trascorse un anno e mezzo circa reggendo la segreteria vescovile e potendo continuare i suoi studi eruditi.
Se da una parte infatti si implicava nelle maggiori questioni politiche magiare (Dieta di Bács, elezione del conte palatino, difesa di Belgrado), come si può vedere dall'orazione De concordia dedicata a Gyórgy Szatmári vescovo di Pécs e cancelliere del Regno, dall'altra stabiliva una serie proficua di contatti culturali, soprattutto epistolari, con i migliori circoli umanistici ungheresi contemporanei (Ferenc Perényi arcivescovo di Nagyvárad, László Szalkán, Sebestyen Mághy) nonché con i connazionali residenti a Budapest (tra i quali bisogna ricordare il medico femarese Giovanni Manardi archiatra della corte e Girolamo Balbi veneziano già precettore di Ludovico II e funzionario della sua cancelleria, poi familiare del Szatmári). Di particolare importanza fu la conoscenza che fece.con Jakob Ziegler, un bavarese al seguito del vescovo Szalkán, il quale contribuì in modo determinante a orientare i suoi interessi verso i problemi scientifici: una scelta che, tra l'altro, raccoglieva anche una precisa sollecitazione del cardinale Ippolito il quale se ne occupava da tempo come dilettante. Dalle loro discussioni di astronomia e di matematica (lessero uno dopo l'altro un prezioso codice tolomaico della biblioteca di Mattia Corvino a Budapest) il C. trasse motivo per scrivere un trattatello di commento ai tre libri aristotelici sulle meteore, nonché il più famoso Quod caelum stet, terra moveatur.
Nella primavera del 1518 presenziò, insieme con il cardinale Ippolito, alle nozze tra il re di Polonia Sigismondo I Jagellone e Bona Sforza figlia di Gian Galeazzo duca di Milano e di Isabella d'Aragona. è in questa occasione che il C. fu insignito dei titoli onorifici della szlachta polacca. Durante il soggiorno cracoviano, approfittando della maggiore vicinanza della Polonia Minore con il territorio russo meridionale, si mise in viaggio per arrivare fino al Dnepr e studiare la vita delle popolazioni ucraine: un'esperienza che poi affidò alla descrizione letteraria De moribus Scytharum.
Nel 1519 si trovò a partecipare direttamente alla questione dell'elezione imperiale. Ludovico II, re d'Ungheria e di Boemia, era infatti uno dei sette principi elettori dell'Impero e si trovava per minorità sotto la tutela di Sigismondo I re di Polonia, suo zio, che poteva essere influenzato dal parere di Ippolito d'Este. A questo fine agenti diplomatici di Carlo d'Asburgo e Francesco I di Valois erano venuti in missione a Budapest. Il cardinale, che aveva già deciso di appoggiare il primo in considerazione degli interessi particolari dello Stato ferrarese, inviò il C. a Francoforte, perché vi risiedesse durante tutto il periodo dei lavori della Dieta imperiale facendo politica a favore dell'Asburgo.
Alla fine della missione diplomatica tedesca il C. dovette fare un viaggio in Italia, al fine di sistemare alcune questioni private connesse al godimento dei suoi privilegi ecclesiastici. Durante la sua assenza era accaduto infatti che avevano cercato di strappargli i benefici di Riolo; era stato occupato abusivamente il giuspatronato di Roverdicré per la morte del vicario; non venivano più pagate le decime della chiesa di S. Maria Bianca a Ferrara. Per cercare di risolvere tutti questi casi egli decideva di recarsi personalmente a Roma (ottobre 1519) dove, tra l'altro, aveva anche in sospeso un procedimento relativo alle sue contrastate proprietà romagnole.
In questa occasione venne in contatto diretto con alcuni eruditi della corte umanistica di Leone X, tra cui Girolamo Aleandro e Paolo Giovio, e con lo stesso pontefice, cui parlò in termini estremamente lusinghieri dell'attività scientifica di Ziegler che, qualche tempo prima, per interessamento dello stesso C., aveva ricevuto da Ferrara l'offerta di una cattedra di matematica. In particolare strinse allora amicizia con Marco Fabio Calvi e con Raffaello Sanzio impegnati nel progetto di ripristino dell'urbanistica romana e ne trasse indicazioni preziose per affrontare successivamente gli studi di archeologia.
Il 3 sett. 1520 venne a morte Ippolito d'Este, e il C. (che tenne la commemorazione funebre ufficiale nella chiesa cattedrale di Ferrara), interrotta la sua attività politico-diplomatica, si stabilì definitivamente nella sua città prendendo stanza nella canonica, secondo le disposizioni che erano state date dal cardinale prima della morte.
Da questo momento in avanti il C. si dedicherà quasi esclusivamente agli studi di erudizione classica e di scienze naturali oltre che all'insegnamento universitario. Non portò avanti invece il progetto di storia ferrarese che gli era stata commissionata, nonostante avesse sempre ricevuto e ricevesse tuttora dei regolari compensi (via via anche aumentati) e che nel 1536 Ercole II lo confermasse nell'incarico affidandogli ufficialmente la mansione di conservatore dei diritti estensi e della città di Ferrara. Altri erano infatti gli studi e le occupazioni che egli in quel tempo preferiva: per esempio, annotare e commentare la Storia naturale di Plinio; catalogare e illustrare il medagliere estense (una importante raccolta di novecento pezzi antichi d'oro); preparare i molti studenti che seguivano il suo insegnamento; partecipare alla riorganizzazione della cultura cortigiana. Tra gli amici migliori di questo periodo dobbiamo ricordare, nell'ambito dei letterati: il verseggiatore Daniele Fini, archivista del Comune e segretario dell'università, il precettore estense Pellegrino Morato, il "teorico" della tragedia Giambattista Giraldi Cinzio (che sarà poi suo successore nella cattedra di lettere classiche); in quello dei medici: il vecchio Manardi e Antonio Musa Brasavola (per il quale curò la revisione dei Commentaria et annotationes pubblicati a Basilea nel 1541); in quello degli archeologi: Bonaventura Pistofilo e Pierio Valeriano. Dello Ziegler serbò sempre un grato ricordo, e quando nel 1527 venne a Ferrara come segretario di Georg Frundsberg (il condottiero dei lanzichenecchi ammalatosi a Bologna) e vi si trattenne quasi un anno, conducendo a termine un importante commentario pliniano, il C. riuscì a farlo pubblicare a spese di Alfonsino Trotti "fattor generale" del duca Alfonso.
In quegli anni (1525) volle anche partecipare alle grandi controversie religiose del suo tempo. Partendo dall'erasmiano De libero arbitrio scrisse un De libero animi motu contro il "servo arbitrio" luterano. In questo modo entrò in corrispondenza epistolare con Erasmo da Rotterdam, (con il quale si era incontrato nel 1508 durante un breve soggiorno ferrarese) che apprezzò molto il suo intervento ortodosso. Il suo impegno antiluterano fu anzi così deciso che finì per coinvolgere anche il teologo domenicano Vincenzo Zaccari, il quale poi gli dedicherà il primo dei suoi quattro trattati Adversus Lutheranam impietatem pubblicati nel 1537. Questo atteggiamento lo portò anche a scontrarsi con l'amico Morato (1538) che difendeva apertamente, con la figlia Olimpia, la dottrina della giustificazione per sola fede.
Nel 1530 il C. fu visitato da Richard Croke, venuto per commissionare alle facoltà teologiche delle università italiane e a singoli esperti alcuni pareri giuridici sul divorzio di Enrico VIII. Il C. si pose al lavoro, mettendosi dalla parte del re d'Inghilterra, ma non riuscì a concludere il progettato trattato. Si premurò tuttavia di perorare la causa di Enrico presso il Collegio dei teologi dello Studio ferrarese nonostante il duca cercasse con ogni mezzo di non compromettersi con l'imperatore. La difficile situazione si risolse per la improvvisa partenza del Croke dall'Italia e il C. - nonostante non fosse riuscito nell'intento di procurare i pareri richiesti - volle scrivere una lettera di scuse al sovrano inglese protestando la propria devozione e partecipazione alla sua causa.
Nel maggio del 1539 il C. ebbe occasione di svolgere un altro servizio di stato ripresentandosi nella sua veste di diplomatico. Fu inviato da Ercole II, insieme con il suo rappresentante ufficiale, Gurone d'Este, in missione presso il papa Paolo III Farnese, per sancire la definitiva riconciliazione tra il ducato di Ferrara e lo Stato della Chiesa. Come oratore ufficiale della delegazione estense fu designato il C. che pronunciò in concistoro un così elegante discorso che gli valse l'ammirazione di Paolo III e l'inizio di una corrispondenza epistolare privata negli anni seguenti.
Nel 1541 partecipò alla fondazione della prima accademia letteraria ferrarese, quella degli Elevati, che raccoglieva tutti i migliori intellettuali della corte estense, nella casa dell'umanista Alberto Lollio.
Morì il 24 apr. 1541, lasciando in eredità al convento domenicano di Ferrara (nella cui chiesa volle anche essere sepolto) una pregiatissima biblioteca di ben 1249 volumi - in gran parte di carattere scientifico - con la clausola che fosse destinata a uso pubblico.
Lasciò inoltre una grande quantità di opere manoscritte, alcune compiute, la più parte in frammento, nelle mani di Giovanni Girolamo di Monferrato che provvide, insieme con il Brasavola e a spese del duca di Ferrara, a pubblicarne un certo numero presso un grande editore basileese (Caelii Calcagnini Opera aliquot, Basileae, Froben, 1544).
Fra i numerosi scritti del C. (l'edizione basileese ne conta 48, oltre alle lettere, 5 dialoghi, 8 apologhi ed uno spicilegio di dicta moralia) due solamente presentano ancor oggi qualche interesse scientifico o filosofico. Il suo enciclopedismo, la varietà dei suoi interessi culturali, il gusto per l'erudizione peregrina che domina in tutte le sue pagine gli impedirono di consegnare il frutto di un pensiero originale in un'opera destinata a lasciare un'orma profonda nel suo tempo. Fu filosofo cristiano nei Dialoghi e negli Apologhi, fu teologo negli opuscoli De Trinitate, In sacramentum Eucharistiae e De libero animi motu, senza peraltro staccarsi mai dall'ortodossia cattolica né sviluppare concetti propri. Si occupò di tutto: di politica, parafrasando Aristotele, come di fisica; di medicina come di retorica, di antiquaria come di egittologia, di magia, di diritto. Non bisogna dimenticare però che tale dispersione in mille direzioni è la conseguenza di una globale concezione della scienza, all'interno della quale non vi è soluzione di continuità; tutte le discipline sono per lui legate fra loro in un tutto organico al cui vertice stanno teologia e filosofia. Dell'occasionalità degli scritti del C. è indice anche la sua opera forse più nota, Quod caelum stet, terra moveatur, in cui si è voluto vedere un'anticipazione delle teorie copernicane. Il che non è esatto, non solo perché il C. scrive non da astronomo ma da filosofo, difendendo il movimento della Terra perché offre una spiegazione ragionevole dei fenomeni celesti, ma soprattutto perché egli tratta solo della rotazione della Terra su se stessa, concepita al centro dell'universo. Inoltre non è possibile distinguere con sicurezza da chi avrebbe potuto il C. attingere la notizia di tale teoria, nella complessa rete di influenze reciproche tra i vari astronomi: oltre che di Copernico - le cui teorie esposte nel Commentariolus egli avrebbe potuto conoscere, tramite anche l'astronomo J. Ziegler - si son fatti i nomi del Toscanelli, D. M. Novara, G. A. Widmannstadt o dei dotti accorsi a Ferrara per il concilio. Dal canto suo il C. ricorda come suoi precursori il pitagorico Iceta (da lui detto Nicetas), Platone nel Timeo, Archimede (non Eraclide Pontico) e cita versi di Esiodo, Omero, Virgilio. è certo che egli scrisse il trattato durante il suo soggiorno in Ungheria, nel 1518-19, per compiacere al cardinale Ippolito, appassionato di astronomia, a cui aveva dedicato una Parafrasi dei tre libri delle meteore di Aristotele precedentemente composta; in effetti dopo la morte del cardinale non si occupò più di astronomia né riprese in mano l'opuscolo quando le teorie copernicane suscitarono un'accesa polemica tra i dotti.
Nel suo opuscolo, dopo aver messo in guardia dagli inganni dei sensi e sottolineata la necessità che sia la ragione a guidare i nostri giudizi, il C. afferma che non è il cielo a muoversi bensì la Terra, sia perché ai corpi eterni e celesti, sempre uguali a se stessi, non si addice il movimento, sia perché la sfericità ed il peso della Terra non possono che costringerla a ruotare. Il moto di rotazione, costante ed uguale, trae con sé gli uomini e le cose senza pericolo né danno; esistono infatti gli antipodi, anzi ogni giorno noi diventiamo antipodi di noi stessi. È necessario che l'asse attorno a cui avviene la rotazione sia obliquo, per spiegare la diversa durata del giornoe della notte e le differenze climatiche. L'unico punto per il quale il C. offre dati matematici - errati ma ragionevoli - riguarda la velocità di rotazione che dovrebbe avere il cielo, dieci milioni di passi ad ogni istante, il che rende quel movimento impossibile; la Terra invece, secondo i dati di Eratostene, ruota alla velocità di solo 200.000 passi all'ora. L'argomento dell'assurda velocità del cielo, come quello delle maree, per comprovare il moto della Terra, saranno ripresi, con ben altra consapevolezza, da Copernico e da Galileo. La confessione - con cui si chiude lo scritto - di non aver letto le opere di Niccolò da Gusa, da cui forse gli sarebbero venuti più solidi argomenti per la dimostrazione della sua tesi, dimostra non solo che il C. non derivi da quello la sua teoria, ma che, più che uomo di scienza, fu un colto e amabile divulgatore, che ragionava con argomentazioni dialettiche e non con dimostrazioni scientifiche, per le quali egli non possedeva né gli studi né i mezzi.
Occasionale è pure l'altro noto trattato del C., De libero animi motu, scritto a Ferrara nel 1525 in seguito alla lettura della Diatriba de libero arbitrio di Erasmo. In questo scritto in difesa del cristianesimo umanistico, il C. prende una decisa posizione contro le dottrine luterane, definite "Lutheranum ulcus"; lo stesso Lutero è designato come un feroce cinghiale che devasta la vigna del Signore. Affiancandosi ad Erasmo, che aveva affermato la libertà del volere servendosi dei testi sacri, il C. ricorda che la questione del libero arbitrio era stata lungamente dibattuta già dagli antichi scrittori non cristiani, e passa in rassegna le posizioni, favorevoli o contrarie, dei filosofi greci, da Democrito, gli stoici, Epicuro, Carneade, Platone, fino ad Aristotele, il cui pensiero al riguardo resta incerto. Rifiutato l'argomento di coloro che negano la libertà umana a causa dell'onniscienza di Dio, il C. afferma con Cicerone che la libertà è necessaria razionalmente per ammettere la virtù, il premio e il castigo, saldando le alte parole dei filosofi con le Scritture. Erasmo lesse il manoscritto di quest'opera, la trovò in accordo con le sue idee e degna di pubblicazione, tolto il passo in cui egli stesso veniva descritto come spettatore inattivo dell'eresia. Comunque il C. non poté evitare le accuse dei più zelanti nemici della Riforma - come monsignor Fontanini - anche per aver partecipato, seppur solo inizialmente, alle sedute dell'Accademia estense di Renata di Francia.
Curioso delle novità ma alieno dalle tormentose inquietudini del pensiero, nei suoi scritti filosofici, veri intarsi di citazioni, il C. si fonda ampiamente sul principio d'autorità, pur non esagerandone il valore, anche se talvolta si trova in polemica con i commentatori di Aristotele e l'Accademia platonica di Firenze sulla pretesa di trarre dagli scrittori pagani argomenti filosofici per spiegare i dogmi. In entrambi i testi esaminati si cercherebbe invano profondità di riflessioni o larghezza di vedute, anche se vi sono toccate due delle dottrine più rivoluzionarie dell'evo moderno, quella copernicana e quella luterana.
A. De Ferrari
La personalità letteraria del C. è tipicamente quella di un intellettuale di stampo umanistico che egemonizza vaste aree del sapere riducendole a una fondamentale dimensione retorica. Perciò forse l'opera sua più rappresentativa è costituita dai Carmina - che Giovan Battista Pigna volle pubblicare, unitamente alle poesie latine dell'Ariosto, come appendice ai quattro libri delle proprie liriche (Venetiis 1553) - ove le curiosità del letterato, le velleità satiriche o moraleggianti, le ambizioni didascaliche, la serietà connessa ad un messaggio ecumenico e la licenza concessa ad una scrittura cortigiana si fondono in una varietà, ancora scarsamente sondata, di metri e di stile, e lasciano scoprire delle precise matrici culturali. Ciò che appare soprattutto notevole in questa esperienza lirica, parallela a quella, in latino e in volgare, dell'Ariosto, è la rimozione di ogni schema petrarchistico e l'accoglienza, invece, di motivi "volgari" cui aveva fatto ricorso la letteratura di ispirazione riformistica sulla fine del Quattrocento e che ritornano ora ad affacciarsi alla fantasia del C. sotto il velo molto trasparente dello "horologii aenigma" (p. 175, sul tema dello scorrere ineluttabile del tempo), o nell'eloquente e ascetico rifiuto della ricchezza enunciato sotto la didascalia "Bona fortunae precaria esse" (p. 179), quando addirittura la poesia dello scrittore ferrarese non reinterpreta in forma epigrammatica il paradigma savonaroliano del ben vivere e del ben morire ("Ut tibi mors felix contingat, vivere disce, / ut felix possis vivere, disce mori", p. 204). Sì che almeno nei primi due libri dei Carmina, che sono poi quelli più interessanti e più vari per la tematica e le soluzioni stilistiche, domina l'impressione che il tema morale contrasti con una più schietta tendenza edonistica sostanziata di reminiscenze ovidiane quanto alla ricchezza di spunti descrittivi ("Ad noctem", p. 186), volta al ripristino di smaglianti figure mitologiche ("De Niobe", "Casus Icari", p. 208), o spinta sino alla voluttà di pure lascivie verbali riscontrate nei modelli classici (Orazio, Martale) tramite la poesia umanistica, poniamo, di Michele Marullo. Sino al punto in cui non ci si avvede che queste tessere diverse dell'intarsio non sono che pretesti per esercitazioni retoriche condotte a freddo, anche se con una notevole padronanza degli strumenti, e l'intero corpus dei Carmina (a parte certe prove di maggiore sostenutezza discorsiva, ma anche più sciatte formalmente, contenute nel terzo libro: il poemetto intitolato "Masinissa Sophonisbae", un improbabile travestimento elegiaco del viaggio in Russia, De moribus Scytharum) appare come un repertorio di luoghi tradizionali frequentati dalla musa se non svogliata certo indifferente del Calcagnini, il quale non a caso consegue i toni più felici allorché si misura con temi di scontata occasionalità, si tratti di riprodurre sull'agile ritmo del distico elegiaco un esemplare plastico ("In statuam discoboli", p. 198), o di ironizzare su luoghi e metodi di vita ("De Roma et Bononia", "De Venetiis", p. 2 19), ovvero di rappresentare un carattere ricorrendo alla maliziosa brevità di un epigramma, come avviene nella lirica "Iulii statua in tormentum conflata" (la statua di Giulio II modellata da Michelangelo che i Bolognesi atterrarono nel 1511 e che Alfonso I d'Este acquistò per farne un'arma): "Iulius eram: subiit rigor ille in viscera notus, / Esseque tormentum me mea fata iubent, / Et natura prior manet et furor insitas olim: / Unum dissimile est: mollior ante fui".
Una parte considerevole, forse la più appariscente, dei Carmina è occupatadagli elogi o dalle commemorazioni di amici mediocri (Benedetto Lampridio, Celio Rodigino, Lilio Gregorio Giraldi) o famosi, Ariosto (che ricordò il C. nell'OrlandoFurioso, XLII, 90, ricevendone una menzione nel dialogo intitolato negli Opera "Equitatio", una difesa - assieme al Bembo - contro un ignoto "detractor", p. 200 dei Carmina, e un epitaffio, ibid., p. 205), Raffaello, significativamente lodato, più che come artista, come studioso dell'antica topografia romana che l'urbinate aveva tentato di restaurare con l'aiuto di Marco Fabio Calvi ("Ille decus faciemque antiquam redderet unus / si modo fata sinant, maxima Roma, tibi…"). Lo scrittore ferrarese condivise inoltre le curiosità egittologiche di Pierio Valeriano (che gli dedicò il VI libro degli Hieroglyphica, Venetiis 1604) componendo un "De rebus Aegyptiacis" che furono inclusi negli Opera;partecipò con un "De re nautica" e con un "De talorum, tesserarum, et calculorum ludis" (parimenti compresi nella silloge del 1544) a quella riproposta del sapere enciclopedico che aveva avuto già nel secolo precedente il suo centro di irradiazione nel testo delle pliniane Quaestiones naturales;fu in corrispondenza con la famiglia Morato (elogiando la fedeltà alle lingue classiche di Olimpia); riattinse col Giraldi Cinzio alla dignità del teatro classico traducendo, intorno al 1532, il Miles gloriosus per il teatro di corte di Ferrara; collaborò probabilmente ai programmi critici del Beroaldo nel cui commento ad Apuleio (Venetiis 1510) figurano due poesie del C., e fu buon conoscitore del greco, circolando ancora nel pieno secolo XVIII (Venezia 1736) un Anacreonte tradotto in versi italiani da vari (fra cui B. Corsini, F. S. Regnier Des Marais, Fr. Séraphin, A. Marchetti, C. Tolomei, A. M. Salvini, B. Guidi e il Calcagnini). Testimone di questa fitta trama di rapporti che riuscì a stabilire il filologo, l'erudito, il poeta è l'epistolario in sedici libri che, compreso nei postumi Opera, ebbe un'edizione indipendente agli inizi del secolo successivo (Epistolarum criticarum et familiar. libri XVI…, "studioet impensis Martini Geysslingers", Ambergae 1608). E tuttavia rimane difficile illazionare da siffatto complesso di relazioni private una funzione egemonica ufficiale esercitata dal C. sulla cultura ferrarese dell'epoca: ché fallito, forse per personale inadempienza, l'incarico di redigere una storia della famiglia dominante, il compito del C. si restrinse al lavoro di ordinamento del medagliere estense (Aureorum numismatum Illustrissimi Erculi Secundi Ducis Ferrariae Quarti Elenchus, nella Bibl. Estense di Modena, Cod. Est.T. 6, 16), mentre alle numerose orazioni pronunciate in qualità di diplomatico ducale e diligentemente raccolte negli Opera fa riscontro - a riprova di non troppo intrinseche relazioni private fra scrittore e mecenati - un remoto Ephitalamium Illustris. D. Alphonsi Esten. ac D. Lucretiae Borgiae (Ferrariae 1502) nonché qualche doveroso e affrettato tributo encomiastico nei Carmina.
La polemica più clamorosa cui dette adito l'attività del C. fu quella promossa nel commento a una Epistola super imitatione del Giraldi Cinzio (in Cynthii Ioannis Baptistae Gyraldi De obitu Divi Alphonsi Estensis…, Ferrariae 1537) ove egli, schierandosi fra gli anticiceroniani, proponeva un più vasto e libero spazio alla creazione di una prosa d'arte includente, oltre a quello di Cicerone, i modelli di Livio e di Cesare, di Celso e del prediletto Plinio. Era una posizione in linea con i risultati del più maturo umanesimo, diciamo, di derivazione polizianea; anche se poi nel C. veniva meno la considerazione (così acuta nel Poliziano) dell'altra grande componente linguistica contemporanea, quella rappresentata dal volgare, e questa carenza finiva con l'accomunare la sua concezione a quella decisamente retriva di Romolo Amaseo, oltre Bembo e oltre lo stesso Beroaldo. Come tale, comunque, non avrebbe provocato scandalo se il C., a conferma delle proprie tesi, non avesse criticato la presunta perfezione stilistica del De Officiis (In M. T. Ciceronis De somnio Scipionis fragmentum, Petri Ioannis Olivarii… scholia… Disquisitiones aliquot in libros Officiorum Ciceronis, Caezio Calcagnino auctore, Basileae 1538; il medesimo commento del C. in altra edizione: Parisiis 1556; l'inizio della disputa retorica fu comunicato per corrispondenza ad Alberto Bendedei: in Opera, p. 253), suscitando la violenta reazione del Maioragio, interprete degli ambienti letterari di più stretta osservanza ciceroniana, e, anche sotto questo aspetto, il blando assenso di Erasmo (M. Antonii Maioragii Decisiones XXV quibus M. Tullium Ciceronem ab omnibus Caeli Calcagnini criminationibus liberant, Lugduni 1544).
Fu l'unica battaglia sostenuta da un letterato che visse tranquillamente tra Riforma e rinascenza classica, prima che il concilio di Trento obbligasse a delle precise verifiche ideologiche. Ma il disimpegno e il conformismo della produzione letteraria dovettero alienare dallo scrittore anche il favore di quel pubblico elitario propenso a considerare la poesia come la più dilettevole delle avvenfure, mentre il compromesso retorico, accettato e perseguito dal C. in ogni fase di una prolungata offerta lirica, gli assegnò, forse ancora in vita, il ruolo dell'epigono.
C. Mutini
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V. Marchetti-A. De Ferrari-C. Mutini