CENCIO (Cintius, Cinchius, Quintus, Crescentius)
Di ragguardevole famiglia romana (suo padre fu praefectus Urbis anteriormente al 25 aprile del 1051), nacque nella prima metà del sec. XI da Stefano e da una nobildonna di cui ignoriamo il nome e il casato. Violento e spregiudicato capofazione, abitava nel rione Parione, dove probabilmente era nato, in una casa fortificata ("turris" viene definita nella maggior parte, delle fonti): di essa, così come della "turris Crescentii" (l'attuale Castel Sant'Angelo) che risulta allora in suo possesso, e di altre torri da lui fatte edificare in punti nevralgici di Roma, si serviva come di basi per compiere le sue malversazioni e spadroneggiare nella città. Viene ricordato per la prima volta dalle fonti a noi note nell'aprile del 1060, quando assistette al placito presieduto dal papa Niccolò Il per risolvere una vertenza sorta fra l'abate di Farfa, e Giovanni di Crescenzio degli Ottavianeschi e riguardante il possesso di due castelli della Sabina. Doveva avere già allora una posizione di rilievo in Roma, perché il suo nome compare per primo (dopo quello del pontefice, dei cardinali e dei vescovi del prefetto della città e dei giudici) nella lista dei trentaquattro notabili cittadini. che sottoscrissero gli atti, del placito. Da questo momento, tutte le vicissitudini di C. debbono venir inquadrate, per essere chiarite e interpretate rettamente, nel contesto delle ripercussioni che ebbero, sulle vicende interne di Roma, gli avvenimenti politico-religiosi che caratterizzarono la seconda metà del sec. XI: l'affermarsi del movimento di riforma della Chiesa, cioè, ed il contrasto fra Sacerdotium e Imperium.
Alla morte di Niccolò II (27 luglio 1061) scoppiarono in Roma gravi disordini: con essi gli avversari del partito riformatore e di Ildebrando, suo esponente più in vista, si proponevano di impedire che la successione del defunto pontefice avvenisse secondo la prassi prescritta dai decreti del 1059. In una loro assemblea gli oppositori decisero di inviare all'undicenne re Enrico IV di Franconia una delegazione, che in nome del popolo romano gli conferisse il patriziato e, con esso, il diritto di designare il nuovo papa. Dopo lunghe incertezze la corte germanica si acconciò alla collusione, accettando le proposte della frazione antiriformista romana grazie anche alle pressioni di alcuni vescovi tedeschi e dei grandi della Germania, ed ai maneggi dell'episcopato lombardo, con alla testa il cancelliere del Regno, Guiberto, ed il vescovo di Parma Cadalo.
Motivazioni ed interessi differenti avevano portato a questa convergenza di intenti fra i gruppi di potere romani e la corte germanica. Il decreto per l'elezione del romano pontefice approvato dal concilio lateranense del 1059 che riservava ai soli vescovi cardinali la scelta del nuovo papa, attribuendo una parte solo formale al consenso del clero e al "plauso" del popolo romano ed ignorando eventuali diritti che su di essa poteva vantare il sovrano germanico in quanto investito del "patriziato dei Romani", aveva ridotto a ben poco l'influenza che i gruppi dirigenti cittadini (come parte eminente del "popolo") ed il re dei Romani (come espressione della volontà di quel "popolo") avevano sin'allora esercitato sulle elezioni pontificie. Ciò non poteva non scontentare, da un lato, il sovrano germanico e, dall'altro, i nobili e i circoli dirigenti romani: quei "senatores", come li definiva s. Pier Damiani, tra i quali non pochi erano i risentimenti per il peso sempre maggiore che andava acquistando, in seno alla Chiesa di Roma, il monaco e arcidiacono Ildebrando e quanti, con lui, aspiravano ad una elezione papale libera da condizionamenti laici e secolari. Tra questi "senatores", inoltre, grandi erano i timori di fronte alla emergente potenza dei Normanni, in pericolosa espansione, verso la Campagna romana e la città stessa di Roma, dove il loro appoggio era per forza di circostanze ricercato appunto dai fautori della riforma.
Mentre la delegazione degli oppositori si trovava presso la corte germanica, a Basilea, Ildebrando aveva richiesto l'intervento di Riccardo di Capua, il quale, con la forza delle armi, aveva ristabilito l'ordine pubblico nell'urbe e garantito ai cardinali la libertà dell'elezione. Il 30 settembre il vescovo di Lucca Anselmo da Baggio fu eletto al soglio pontificio, ed il 1° ottobre venne solennemente intronizzato in S. Pietro in Vincoli col nome di Alessandro II. Solo sul finire del mese, davanti ad un'assemblea di dignitari ecclesiastici e civili, Enrico IV venne investito del "patriziato dei Romani" e designò come nuovo papa Cadalo, che venne consacrato col nome di Onorio II (28 ottobre). Alessandro II venne dichiarato pontefice illegittimo e deposto.
Quale parte abbia avuto C. in questi avvenimenti non ci è noto; fin dal primo momento, tuttavia, si dovette schierare accanto a coloro che, in Roma, si opponevano ai propositi del partito riformatore. Lo spingevano ad una simile presa di posizione ragioni affatto personali e motivi connessi col gioco delle forze politiche cittadine. Degli esponenti dei gruppi di potere romani, che fecero parte della delegazione inviata alla corte germanica, le fonti fanno solo i nomi del conte di Galeria, Gerardo, e dell'abate del monastero al Clivio Scauro; ma ci dicono anche che C. e i suoi fratelli abbracciarono immediatamente la causa di Onorio II "eo quod erant fideles imperatoris" (i partigiani della riforma e di Alessandro II sono definiti "inimici imperatoris"). D'altra parte sappiamo che intorno al periodo, in cui fu eletto Alessandro II (ma non siamo in grado di stabilire esattamente la data), C. assassinò il suo padrino e ne distrusse la casa dalle fondamenta; poi si asserragliò in una torre, che si era fatta costruire "vivente patre suo Stephano Urbis praefecto", e di là si difese dagli attacchi dei parenti dell'ucciso.
Non conosciamo le ragioni di questo delitto. I suoi stessi contemporanei mostrano di ignorarle: "absque ulla causa", scrive Bonizone, e "nondum re cognita", annota Paolo di Bernried, il biografo di Gregorio VII. Esso può tuttavia venir inserito molto bene nel clima di intimidazione e di violenza, che caratterizzò, in Roma, il periodo compreso fra la morte di Niccolò II e l'elezione del suo successore. Non siamo nemmeno in grado di affermare che la "torre", in cui C. aveva cercato rifugio dopo il delitto, si debba identificare (come pure appare probabile) nella casa, fortilizio in Parione: particolare che fornirebbe, se messo in relazione con gli avvenimenti successivi, un elemento assai utile ai fini della ricostruzione del quadro delle sfere d'influenza dei diversi gruppi di potere all'interno stesso della città.
L'atroce fatto di sangue suscitò lo sdegno di Ildebrando, il quale indusse Alessandro II a scomunicare l'omicida. Con tale provvedimento il papa non solo separava C. dalla società dei fedeli, ma lo interdiceva di fatto dalle cariche e dagli uffici pubblici. Secondo Paolo di Bernried, fu appunto tale misura, che colpiva C. nei suoi più immediati interessi d'ambito municipale, a condizionare la posizione assunta dal romano nel confronti della politica ecclesiastica propugnata dal partito riformatore e a determinare, in ultima analisi, il suo atteggiamento nei confronti del re Enrico IV. Riferisce infatti il biografo di Gregorio VII che, subito dopo la scomunica, C. si recò insieme con un Nicola e con un Bertramo alla corte germanica, che lì si accordò col sovrano e che "Cadolaum Parmensem hereticum Romani conductum hospicio recepit et proelia multa ob adiutorium in Urbe commisit". Dal contesto risulta che C. compì la sua missione fra il novembre-dicembre del 1061 ed i primi mesi del 1062, proprio nello stesso periodo di tempo in cui si trovava a Roma Benzone vescovo di Alba come "legatus regius" inviato dalla corte tedesca (anzi, a quello che sembra, direttamente dall'imperatrice Agnese) per prendere contatto con gli esponenti della frazione antiriformista locale e preparare la città all'ingresso di Onorio II.
Compito di C. (risulta chiatamente dalle parole del biografo di Gregorio VII) era quello di sollecitare dal sovrano l'appoggio necessario per effettuare la venuta nell'urbe dell'antipapa e sostenerne la solenne intronizzazione. Alla base di tale richiesta vi erano senza dubbio improrogabili esigenze di opportunità politica connesse con i rapporti di forza esistenti in quel momento tra le fazioni cittadine, rapporti che minacciavano di modificarsi per l'attività e le iniziative di Ildebrando. Dei due compagni di C., il primo era con ogni probabilità Nicola "magister sacri Palatii", uno dei maggiori esponenti della fazione romana avversa ad Ildebrando e, dopo il suo arrivo, uno dei principali sostenitori, di Benzone; mentre il secondo si deve forse identificare con quel Bertramo, che insieme con C. fu tra i notabili che, nell'aprile del 1060, sottoscrissero il placito di Niccolò II.
Ignoriamo, dato il silenzio delle altre fonti, se C. si sia mosso di sua iniziativa o se invece abbia ricevuto l'incarico di recarsi in Germania per trattare col, re dagli avversari romani di Ildebrando, o dallo stesso Benzone, il quale peraltro, nella relazione da lui più tardi redatta su questi avvenimenti, non lo ricorda mai. (a differenza di quanto fa per altri "grandi" romani) tra i "senatores" che lo accolsero e che lo favorirono durante il suo soggiorno nell'urbe. Non possiamo affermare, sulla base degli elementi offerti da Paolo di Bernried, che, una volta conclusa la sua missione in Germania, sia stato proprio C. a portare a Roma, nella primavera del 1062, Onorio II; tale ipotesi, tuttavia, appare molto probabile. Senza dubbio egli era allora, come risulta dalla testimonianza degli Annales Romani, tra gli uomini politici più influenti e più in vista della sua città. Padrone del "castrum Sancti Angeli" (o "turris Crescentii"), sulla riva destra del Tevere, controllava, grazie ad una torre che aveva eretto "in ponte beati Petri" (l'attuale ponte Sant'Angelo), uno dei passaggi obbligati sul fiume e dominava pertanto uno dei più importanti accessi, da un lato, alla città leonina e, dall'altro, alla stessa Ronig. La sua adesione alla parte imperiale, anche se aveva un carattere puramente strumentale connesso con le lotte per il predominio sulla città, assumeva dunque un'iniportanza di rilievo particolare per l'appoggio che C. poteva fornire all'antipapa voluto dalla corte tedesca, soprattutto in vista delle difese che Ildebrando stava febbrilmente apprestando nell'urbe. Né l'azione di C. fu inferiore alle attese. Quando Onorio II, proveniente da Sutri col suo esercito rinforzato dai contingenti dei conti di Galeria e di Tuscolo, si presentò davanti a Roma scendendo per la via Francigena dal Monte Mario e superò le milizie cittadine, che gli erano state inviate contro, in un sanguinoso scontro ai prata Neronis, sulla riva destra del Tevere, C. gli assicurò l'ingresso nell'urbe, permettendogli di occupare senza colpo ferire la città leonina e la basilica di S. Pietro (14 apr. 1062); non solo, lo prese inoltre sotto la sua protezione, accogliendolo ed ospitandolo nella torre "in ponte beati Angeli". Nei giorni successivi, quando all'interno di Roma si lottò per il possesso della città (l'antipapa avrebbe potuto farsi solennemente intronizzare nella basilica vaticana, ma ragioni di prestigio volevano che la cerimonia avvenisse in S. Pietro in Vincoli, dove era stato eletto e consacrato Alessandro II), C. partecipò attivamente ai combattimenti, che si accesero e dilagarono furibondi per i diversi rioni fin quasi sotto il Campidoglio. Non sappiamo se abbia seguito Onorio II quando questi, risultando chiara per lui l'impossibilità di entrare in Roma. a causa della resistenza dei suoi avversari, fece ripiegare il suo esercito su Fiano e, passato il Tevere, si portò nel castello di Tuscolo, nei cui pressi si accamparono le sue truppe e dove lo raggiunsero, con i loro armati, i conti dei dintorni. Certo rimase a Roma quando, dopo l'intervento di Goffredo di Lorena (inviato in Italia dal nuovo reggente, Annone vescovo di Colonia), Cadalo comprese di essere stato abbandonato, almeno per il momento, dalla corte tedesca, e si convinse a desistere, "deficiente pecunia", dall'impresa: S. Pietro e la città leonina rimasero infatti nelle mani dei sostenitori dell'antipapa, mentre il resto di Roma fu presidiato dalle truppe di Goffredo di Lorena.
Anche in occasione del secondo tentativo di impadronirsi di Roma compiuto fra l'estate del 1063 e i primi mesi dell'anno successivo da Onorio II "adiuvantibus capitaneis et quibusdam pestiferis Romanis", C. prestò all'antipapa tutto il proprio appoggio: gli offrì di nuovo ospitalità, protezione e difesa, accogliendolo questa volta "in castrum Sancti Angeli", combattendo per lui e fornendogli consistenti aiuti finanziari. Notevole dovette essere la parte da lui avuta nel primo momento della lotta per il possesso della città, quando i Normanni vennero incalzati e respinti oltre il centro dell'abitato, battuti una prima volta al Monte Oppio e una seconda presso le terme di Costantino: le fonti coeve concordano infatti nell'attribuire a coloro che presidiavano la città leonina, la basilica di S. Pietro, il Castel Sant'Angelo e la fortezza di S. Paolo, un peso determinante nei successi colti inizialmente da Onorio II. Inoltre, dei "plurimi Romanorum nec non et plurimi capitaneorum" che, "gratia regis", appoggiarono in quella occasione Cadalo, esse fanno esplicitamente solo il nome di C.; nome che, unico, torna ad essere citato nei documenti relativi alla fase conclusiva della vicenda, quando, grazie ai rinforzi fatti frettolosamente affluire da Ildebrando e da Goffredo di Lorena, i Normanni riuscirono a capovolgere la situazione e a mettere alle strette i loro avversari. Tuttavia, non appena si rese conto che il tentativo compiuto da Onorio II di impadronirsi di Roma era definitivamente fallito di fronte alla risoluta resistenza dei sostenitori di Alessandro II, C. impedì all'antipapa di abbandonare Castel Sant'Angelo e ve lo trattenne come prigioniero, esigendo la restituzione del danaro che egli ed i suoi partigiani avevano versato per finanziare il colpo di forza di Cadalo ed arruolare armati per il. suo esercito. Onorio II poté lasciare il castello e Roma solo dopo aver consegnato a C. 300 libbre d'argento, secondo Bonizone da Sutri, a titolo di riscatto.
Morto, tra il 28 apr. 1060 e il marzo 1065, Giovanni Tignoso, C. si dette da fare per succedergli nella prestigiosa carica di praefectus Urbis, ma il popolo romano respinse la sua candidatura a causa del suo carattere arrogante e tirannico; gli preferì invece un fedele sostenitore del partito della riforma, Cencio, un figlio del defunto Giovanni Tignoso, il quale risulta prefetto già nel febbraio del 1071. Dopo la morte di Cadalo (1072), C. si accostò al partito gregoriano e, alla scomparsa di Alessandro II (21 apr. 1073), fu insieme con il cardinale Ugo Candido (anche lui antico avversario del papa defunto) fra i promotori della sommossa popolare che impose sulla cattedra di s. Pietro Ildebrando (22 apr. 1073), e non appena questi fu consacrato papa col nome di Gregorio VII, si affrettò a prestargli giuramento di fedeltà.
Passando al campo avverso e contribuendo a far salire al sommo pontificato uno dei maggiori esponenti del partito della riforma, C. aveva senza dubbio inteso guadagnarsi, insieme con la gratitudine del nuovo papa, l'appoggio che gli era necessario per imporsi sulle altre forze politiche cittadine; aveva inteso altresì assicurare un'autorevole copertura alle soperchierie e alle violenze che aveva compiuto e che andava compiendo entro e fuori Roma. La mancata connivenza di Gregorio VII e dei pubblici poteri non tardò tuttavia a ributtarlo nuovamente tra le file del partito imperiale: le fonti, che lo definiscono "malefactorum omnium primicerius", sottolineano infatti che le autorità municipali osarono perseguirlo con decisione e lo punirono esemplarmente "ob tot rapinas et latrocinia" solo dopo l'avvento di Gregorio VII.
Nell'estate-autunno del 1074 C. venne nominato esecutore testamentario di un Cencio di Gerardo, con ogni probabilità uno dei figli del famigerato conte di Galeria morto un decennio prima. Approfittando del fatto che Gregorio VII era caduto gravemente ammalato e non poteva quindi esercitare l'abituale controllo sugli avvenimenti cittadini, alterò il documento modificandone le clausole: si appropriò in tal modo di una curtis, che il testatore a veva legato alla Chiesa di Roma, e a quest'ultima fece pervenire solo 200 libbre. Il fatto venne scoperto quando il papa, ristabilitosi, prese nuovamente in mano la direzione degli affari: C. venne dunque processato e condannato a restituire la curtis, di cui si era illegittimamente impadronito, e a consegnare ostaggi. Poco tempo dopo fu nuovamente arrestato, questa volta per aver fatto esigere arbitrariamente da suoi scherani, che aveva acquartierato nella torre "in ponte beati Petri" da lui controllata, un pedaggio da quanti attraversavano quel ponte, che metteva in comunicazione la città leonina col resto di Roma. Processato davanti al tribunale del praefectus Urbis, fa da questo condannato a morte: riuscì a salvarsi solo grazie all'intervento di numerosi esponenti della nobiltà romana e, pare, anche a quello di Matilde di Canossa, allora in Roma. Il papa concesse la grazia a C., che se la cavò consegnando ancora una volta ostaggi e prestando giuramento sulla tomba di s. Pietro; la torre "in ponte beati Petri" venne rasa al suolo.
La durezza della sentenza, sia pur mitigata dal perdono papale, ed il fatto che Gregorio VII aveva col suo comportamento lasciato chiaramente intendere di non voler coprire col suo prestigio e la sua autorità la persona e gli atti di C. persuasero quest'ultimo a riannodare i suoi antichi legami col partito imperiale, dal quale si riprometteva evidentemente maggiori vantaggi. Il momento della rivalsa parve venuto nella seconda metà del 1075, quando maggiore si fece la tensione fra Gregorio VII e il sovrano tedesco, il quale, in aperto contrasto con i decreti approvati nel sinodo quaresimale di quello stesso anno, aveva proceduto di sua autorità alla nomina dei presuli di Milano (settembre), di Fermo e di Spoleto (novembre). Sempre in quel periodo di tempo, Enrico IV, probabilmente in vista di una prova di forza, aveva cercato per il tramite di suoi due inviati, il conte Everardo e il vescovo Gregorio di Vercelli, l'alleanza dei Normanni di Roberto il Guiscardo, che il sinodo romano del 1075 aveva nuovamente scomunicato insieme col nipote Roberto di Loritello.
Fidando nel successo del sovrano germanico, C. si accordò col cardinale Ugo Candido, che riuscì a trascinare nel campo avverso a quello del papa; quindi, tra la fine di settembre ed i primi di dicembre (proprio quando il conte Everardo e il vescovo di Vercelli svolgevano per conto del re la loro missione nella penisola), si recò in Italia meridionale per abboccarsi col Guiscardo, non solo, ma inviò anche suo figlio presso l'arcivescovo Guiberto di Ravenna, altro fautore della parte imperiale, e si mise in contatto epistolare con Enrico IV. Non siamo meglio informati su queste iniziative e sui risultati che il capofazione romano si proponeva di raggiungere; forse cercava appoggi per imporre la sua signoria sulla città, forse cercava solo vendetta. Certo esse rappresentarono i presupposti del colpo di mano da lui compiuto la notte del Natale successivo. Paolo di Bernried, d'altro canto, afferma che C. si accordò col Guiscardo e con gli altri scomunicati Normanni allo scopo di catturare ed uccidere Gregorio VII; che un'identica proposta fece all'arcivescovo di Ravenna per il tramite del proprio figlio; che, infine, si rivolse al re, invitandolo ad assumere il governo di Roma e promettendo di consegnargli prigioniero il pontefice. Non siamo in grado di valutare l'attendibilità di queste affermazioni, a causa del silenzio di tutte le altre fonti a noi note; in ogni caso, subito dopo la rottura definitiva fra Enrico IV e Gregorio VII, avvenuta dopo mesi di tensione e di attesa agli inizi del mese di dicembre, C., certo fidando nell'appoggio normanno e mantenendo i rapporti con l'arcivescovo di Ravenna, dette esecuzione al colpo di mano, che aveva preparato con ogni accuratezza. La notte fra il 24 e il 25 di dicembre irruppe alla testa di un gruppo di armati nella basilica di S. Maria Maggiore, dove il papa stava celebrando la messa; impadronitosi del pontefice, lo trasportò prigioniero nella sua casa-fortilizio nel rione Parione. A questo punto il suo piano (qualunque ne fosse lo scopo) naufragò per la reazione del popolo romano, che fu immediata. Diffusasi la notizia del rapimento dei papa, si corse alle armi; la casa dove era stato condotto fu assediata, espugnata, saccheggiata e infine rasa al suolo. Molti furono i caduti dall'una e dall'altra parte. Gregorio VII venne liberato, mentre C., approfittando della confusione che aveva accompagnato il combattimento notturno, riuscì a dileguarsi cercando scampo fuori di città (alcune fonti affermano che, catturato dagli assalitori, ebbe salva la vita grazie all'intervento del papa).
Dopo il fallimento dell'attentato, C. non rimase in Italia, ma si recò in Germania, presso la corte del re, a Worms, dove giunse in tempo per assistere ai lavori della Dieta che depose Gregorio VII (fine gennaio 1076). Lì si ricongiunse con il cardinale Ugo Candido e, presentandosi come inviato della Chiesa e del popolo romano, chiese la deposizione di Gregorio VII e la elezione di un nuovo papa. Secondo il Liber pontificalis, pesanti furono le sue responsabilità nella rottura, allora consumatasi, fra Sacerdotium e Imperium: molte delle accuse, che compaiono nella lettera inviata a Gregorio VII dai vescovi riuniti a Worms, risalirebbero appunto a lui. E appunto a lui, al termine della Dieta, sembra che Enrico IV abbia affidato una lettera dafar pervenire al popolo romano.
Il contenuto di questa lettera è di estremo interesse. In essa il re esortava i Romani ad insorgere contro il monaco Ildebrando: eletto con una procedura che era in aperta violazione di quella prescritta dal decreto del 1059,quegli non poteva essere considerato se non un papa intruso e illegittimo, minaccia per la Chiesa e per il suo stesso regno. Per togliere di mezzo il falso pastore, proseguiva il re, non era necessario ucciderlo: bastava costringerlo a discendere dalla cattedra di s. Pietro, come aveva appunto fatto, o cercato di fare, Cencio.
Rientrato in Italia, C. stabilì la sua base in un castello in diocesi di Palestrina, nei pressi di Roma; iniziò quindi una feroce attività di guerriglia, mettendo a ferro e a fuoco i territori e i beni del Comune e della Chiesa di Roma. Era la risposta alle devastazioni compiute ai danni delle sue proprietà dentro e fuori le mura dalla plebe cittadina, dagli armati della fazione favorevole alla riforma e dalle milizie municipali. Scomunicato, per ordine di Gregorio VII dal vescovo di Palestrina, proseguì "regi per omnia morigerus" nella sua lotta anche dopo la scomunica di Enrico IV, anche dopo Canossa: nel 1077 si spingeva con le sue incursioni fin sotto Roma, dove controllava ancora il Castel Sant'Angelo. Infatti, quando nell'aprile di quell'anno giunse a Pavia per incontrarsi con Enrico IV, che attendeva di esservi incoronato re d'Italia, portava con sé, come prigioniero ed ostaggio, uno dei più fedeli sostenitori di Gregorio VII, il vescovo Rainaldo di Como, che aveva intercettato e catturato a Roma, appunto nei pressi di S. Pietro.
Fu, questo, uno degli ultimi atti della sua vita. A Pavia, di lì a qualche tempo, poco prima di essere ricevuto in privata udienza dal re, morì per un tumore alla gola.
Il nome Cencio, abbreviazione di Crescenzio; il nome del padre e di un fratello del capofazione romano, Stefano; il fatto che controllasse il Castel Sant'Angelo, conosciuto nel sec. XI come la "turris Crescentii", e che, dopo il fallimento del colpo di mano contro Gregorio VII, abbia cercato rifugio ed appoggi nel territorio di Palestrina dove, a partire dalla metà del sec. XI, sono attestati possedimenti dei discendenti di Stefania di Crescenzio a caballo marmoreo, hanno fatto ritenere ad alcuni studiosi (ricordiamo, per tutti, F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, II, s. l. né d. [ma Torino 1973], p. 878)che C. appartenesse alla grande famiglia romana dei Crescenzi. Si tratta tuttavia di una asserzione non suffragata, come fa opportunamente rilevare il Borino (p. 411), da alcuna fonte o, in ogni caso, da alcuna argomentazione definitiva.
Un fratello di C., Stefano, trovò la morte nei primi mesi del 1077, linciato dalla folla inferocita perché, nel corso di un tumulto, aveva ucciso il praefectus Urbis Cencio di Giovanni Tignoso.
Bibl.: G. B. Borino, C. del Prefetto Stefano, l'attentatore di Gregorio VII, in Studi gregoriani…, IV, Roma 1952, pp. 373-440, dove si dà l'indicaz. completa delle fonti e della bibliografia. Per l'inquadramento della figura di C. nelle vicende di Roma e dell'Italia, si vedano le opere generali sulla storia della città e su quella dei movimenti di riforma che avvennero in epoca gregoriana.