CENSURA (lat. censura; fr. censure; sp. censura; ted. Zensur; ingl. censorship)
La parola censura ha varî significati. Censura è una delle punizioni previste dal vigente stato giuridico nei riguardi di funzionarî impiegati ed agenti dello stato. Censura ecclesiastica è altresì la pena con la quale il fedele reo di grave fallo e contumace viene privato dell'uso di alcuni beni spirituali o annessi allo spirituale, fino a che cessata la contumacia meriti di essere assolto (Cod. iur. can., can. 2241). La censura si dice iuris o a iure quando la pena si trova determinata nella stessa legge; si dice hominis o ab homine se è determinata da uno speciale precetto o da una sentenza del giudice. Noi qui ci occupiamo solo della censura in quanto esplicazione di un controllo pubblico sulla stampa, e prima di quella esercitata dall'autorità civile.
Il problema della ragion politica e giuridica dell'istituto censorio si riconnette con quello della libertà di opinione e di stampa come diritti politici di libertà, di cui quello è evidentemente un limite. Naturale quindi che intorno ad essa siano varie e contrastanti opinioni. Il pensiero liberale, partendo dal presupposto che il pensiero sia di per sé stesso libero, non ha esitato ad asserire che esso si sottragga a ogni sanzione o coazione statuale o comunque giuridica. La libertà di pensiero è affermazione prima della natura morale dell'uomo, epperò è incoercibile come questa. Tale dottrina, che possiamo dire negativa, deriva da premesse giusnaturalistiche (l'individuo ha ab aeterno diritti naturali e gode una sfera di libertà subiettiva a priori), e dalla concezione dello stato come mero potere giuridico, ordinamento positivo di esterna coercizione, epperò privo di competenza a conoscere, di pensiero e di attività. Di contro a tale dottrina l'altra, che, inscrivendo nel principio della medesimezza di stato e individuo, come due momenti dialettici della stessa realtà, riunisce la storicità di quegli stessi diritti di libertà che all'astratta pubblicistica appaiono eterni, innati.
La libertà di opinione, come diritto politico subiettivo, ha nella libertà di stampa la sua estrinsecazione prima, sicché per la libertà di stampa valgono in pieno le considerazioni suddette. Aggiungiamo che la necessità di un limite all'esercizio di quel diritto deriva non solo dal carattere storico di esso, sì anche dalla considerazione che la stampa potenzia l'espressione del pensiero e dalla sfera limitatissima del soggetto esorbita e interessa quella di tutta la società. L'enorme diffusione del giornale quotidiano, la cui tiratura è talora di milioni di copie, rende la questione scottante. Può dirsi veramente che ciascuno possa scrivere come meglio gli sembra, perché esprimersi a mezzo della stampa è un suo diritto politico innato, inerente alla sua stessa essenza morale, quando quell'estrinsecazione del pensiero può offendere un terzo, commuovere la società, danneggiare gl'interessi collettivi, minacciare lo Stato? Evidentemente no, se il diritto tutela il singolo non nella libertà individuale illimitata, ma nella libertà che si concilii con l'altrui. Donde la ragione di un'organizzazione censoria sulla stampa, che il diritto positivo non ignora né può ignorare.
Non solo il controllo sulla stampa dunque è rivendicato dallo Stato come una sua funzione essenziale, ma è opposto talora allo stesso controllo che la Chiesa asserisce suo. Partendo dal presupposto della divina potestà di magistero che le compete, la Chiesa non può non ritenersi obbligata a giudicare sia dal punto di vista morale sia da quello strettamente religioso l'estrinsecazione del pensiero a mezzo della stampa in quanto possa diffondere l'errore. Donde l'asserzione mai cessata che sia sottoposto preventivamente alla sua revisione e approvazione tutto ciò che da ecclesiastici e laici s'intenda stampare quando si tratti del domma e della morale, per es. i libri della S. Scrittura, le note alla medesima, le opere di teologia, ecc. (cfr. Cod. iur. can., can. 1385). Siffatto principio, da un punto di vista positivo e statuale ebbe un riconoscimento storico importantissimo nell'art. 28 dello statuto italiano che - per quanto non mai applicato - afferma la necessità di una revisione preventiva del vescovo per la stampa di bibbie, catechismi e libri di preghiere; questo privilegio, per altro, fu ignorato dalle successive leggi sulla stampa e dalle leggi 27 maggio 1929 e 24 giugno 1929 sull'esecuzione degli accordi lateranensi e sui culti ammessi.
La censura ecclesiastica sulla stampa. - Storicamente la Chiesa ha esercitato questo suo diritto nel modo più ampio, sia preventivamente, sia repressivamente, su laici e su ecclesiastici.
Questa forma di censura ha precedenti storici remotissimi. Esercitata prima del cristianesimo così presso i giudei come presso i pagani, fu applicata fin dai tempi apostolici. I cristiani di Efeso che avevano professato arti magiche gettarono alle fiamme tutti i loro libri in presenza di S. Paolo (Atti, XIX, 18). La prima espressa proibizione si ha nel concilio I niceno (325) e fu pronunciata contro il poema di Ario, Thalia, in conseguenza della quale l'imperatore Costantino ordinò che tutti gli scritti dell'eresiarca e dei suoi seguaci fossero bruciati, pena la morte. Seguì nel 431 il concilio I di Efeso la cui condanna dei libri di Nestorio fu inserita nel Codice di Giustiniano (534; cfr. Kirch, Enchiridion font. hist. eccl., ed. 1910, p. 562). La pratica di condannare gli scritti dannosi alla fede e alla morale continuò nel Medioevo, sebbene prima dell'invenzione della stampa i libri, manoscritti, fossero relativamente rari e usati per lo più da studiosi non eterodossi; tuttavia la fabbricazione e la vendita dei manoscritti furono sottomesse a formalità di polizia e al controllo preventivo scientifico, religioso e morale delle università, o, se queste non davano affidamento, di censori speciali. Ove il controllo preventivo non fosse stato sufficiente, si provvedeva bruciando i libri abusivamente stampati e comminando pene rigorose a stampatori e autori. Nel 1480 vi sono libri pubblicati a Venezia con l'approvazione del patriarca. Sette anni dopo, nel 1487, Innocenzo VIII emise la prima costituzione papale che imponeva la censura previa. Lo stesso fece Alessandro VI con la costituzione Inter multiplices (i giugno 1501) finché Leone X nel IV concilio lateranense (1515) proibì di stampare cosa alcuna senza la previa revisione del vescovo del luogo, e a Roma senza quella del suo vicario e del maestro del S. Palazzo. Questo decreto fu confermato dal concilio di Trento. Clemente VIII nello stesso sec. XVI lo perfezionò con apposite regole, mitigate in parte da Pio IX nel 1848 e più ancora da Leone XIII nella costituzione Officiorum ac munerum del 25 gennaio 1897; costituzione riprodotta nei canoni 1384-1405 dell'attuale codice di diritto canonico. Secondo queste leggi, il diritto di proibire i libri in tutta la Chiesa spetta ai concilî generali e al papa il quale l'esercita o direttamente o per mezzo delle congregazioni romane (attualmente pel tramite del S. Uffizio); per le singole diocesi poi e i loro sudditi spetta agli ordinarî o ai vescovi e ai concilî particolari. La compilazione dell'Indice, o catalogo dei libri proibiti, nella vigente legislazione ecclesiastica è riservata alla Santa Sede (v. indice dei libri proibiti).
La censura laica sulla stampa. - Se si eccettuino le ordinarie forme di difesa antiecclesiastica a tutela dei diritti sovrani o regalie contro i libri di troppo accentuato carattere curialistico, i governi in antico non si curarono eccessivamente di esercitare un potere censorio sulla stampa. Dato il loro carattere confessionale e il principio che in tema di morale fosse competente solo la Chiesa, la censura dei libri da parte dell'autorità religiosa garantiva sufficientemente la pubblica morale perché fosse necessario altro intervento. Un mutamento definitivo si verifica soltanto con i principi riformatori, con il formarsi e l'affermarsi, nel Settecento, del giurisdizionalismo. L'asserzione giurisdizionalistica di un controllo statale sulla stampa, sebbene implichi sottrazione della censura alla Chiesa, non significa né libertà né agnosticismo nelle cose di religione, poiché lo Stato giurisdizionalista è sempre confessionale, e non solo si fa tutore esso stesso della fede e della morale cattolica, ma concede alla Chiesa una posizione di privilegio sugli altri culti, le cui pubblicazioni divulgative sono vietate e perseguitate.
La politica giurisdizionalistica si ricollega in Italia a remote tradizioni laicali, che in tema di stampa sono evidenti. A Venezia, per es., dove la censura sulla stampa fu affidata a magistrati governativi, salvo che si trattasse di veri e proprî argomenti dommatici, era ancor vivo il ricordo delle dottrine sarpiane che analoghi principi avevano propugnato (Sarpi, Discorso sopra le stampe, in Op., IV). Parimenti nel Mezzogiorno il giurisdizionalismo in tema di stampa, svolto energicamente se pur non interamente dai Borboni, non è senza collegamento con la politica degli Aragonesi in Sicilía e poi a Napoli, che rappresenta almeno in una prima fase un energico risveglio dei diritti dello Stato, e con quella successiva dei viceré spagnoli. L'exequatur, il placet, il recursus ad principem furono le armi con cui l'autorità pubblica mise talvolta in iscacco provvedimenti ecclesiastici, e impedì l'ingresso nel regno, la stampa, la divulgazione di scritture pontificie. Quando poi alcuni documenti della Chiesa, come gli atti tridentini o la bolla In coena domini furono ammessi, non mancò la più ampia riserva sul diritto sovrano. A Parma nel 1765 fu f0ndata da Filippo di Borbone, per l'ispirazione del Du Tillot, la Giunta di giurisdizione, che tra l'altro ebbe largo potere di controllo sulla stampa per contenere la potenza vescovile da essa ritenuta soverchia. Nei paesi soggetti all'Austria la censura fu tolta all'inquisitore del Sant'Uffizio e demandata a organi laicali.
La rivoluzione francese sconvolge tutto l'ordine giurisdizionalistico. Reagendo al sistema vigente in Francia sotto l'ancien régime in cui la stampa era controllatissima (regolamento 28 febbraio 1723 del cancelliere d'Agueseau) affermò nella prima Déclaration des droits de l'homme presentata all'Assemblea costituente l'11 luglio 1789 e votata il 27 agosto seguente, la piena libertà di pensiero e di stampa (art. 11). Libertà, questa, che diede origine a moltissime pubblicazioni periodiche e quindi alla necessità di un controllo, che non sempre si esplicò in forme legali.
Il Direttorio ristabilì la censura preventiva; successivamente, il Consolato e l'Impero instaurarono un regime di limitazione e di controllo, che s'appesantì fino a giungere talora alle più inique vessazioni poliziesche.
In Italia, col Direttorio, Bonaparte si servì largamente della censura preventiva; i tentativi fatti durante la Repubblica cisalpina di introdurre un più favorevole regime sulla stampa furono repressi dalle autorità francesi, e specialmente dal Trouvé. Gli Austro-Russi, rioccupata l'Italia, mantennero in vigore la censura. Secondo la costituzione della Repubblica italiana l'esercizio di essa fu demandai a una commissione di 21 membri nominati dai collegi elettorali, ma leggi del 1803 precisarono che l'esame preventivo di drammi, libri, giornali era affidato a tre revisori. Invece, costituendo il Regno italico, Napoleone volle abolita la censura preventiva, come pure la magistratura di revisione, e creò un Ufficio della libertà di stampa, che per altro non costituì ostacolo al controllo indirettamente esercitato dalla polizia sulle pubblicazioni. Con la restaurazione non si parlò neppur teoricamente di libertà di stampa.
Nel regno sardo Vittorio Emanuele I, appena ritornato, ristabilì il più pieno controllo sulle stampe e lo disciplinò con l'Istruzione per li revisorî del 25 giugno 1816. Solo con le patenti 30 ottobre 1847 si mitigò il ferreo sistema, per cui si ammise anche la possibilità di scritti critici in materia di amministrazione pubblica, purché autorizzati, nonché la fondazione di veri e proprî giornali politici. L'editto 26 marzo 1848 completò l'opera con la concessione della libertà di stampa.
Nel Lombardo Veneto la censura fu ristabilita da una legge del 1815. Librai e tipografi dovevano essere autorizzati. Oltre la citata legge, la materia fu disciplinata dal codice di polizia e dall'ordinanza imperiale del 6 luglio 1851 sulla stampa periodica. In base a quest'ultima il luogotenente aveva facoltà di sospendere fino a tre mesi i periodici contrarî alla religione e all'ordine pubblico, solo dopo due avvertenze scritte. Per un tempo più lungo decideva il consiglio dei ministri.
Nel ducato di Parma Piacenza e Guastalla, con regolamento 29 settembre 1814 si richiese la licenza e il giuramento per l'apertura di tipografie. All'università ebbe il controllo dei manoscritti per la stampa a mezzo di speciale censore. Per i fogli volanti bastava l'esame del governatore. Era ammesso reclamo al ministro. Con decreto 7 aprile 1840 la censura fu affidata al direttore della polizia, che si consultava con due censori. Con decreto 25 giugno 1852 si instaurò una commissione di censura di 17 membri, ripartiti nel territorio del piccolo stato. Un regime similare ebbe vigore a Modena, peraltro più rigidamente applicato, dati i principî ultralegittimisti dei duchi.
In Toscana dal punto di vista giuridico vigeva parimenti il controllo sulle stampe, sebbene l'indole mite di quel governo non infierisse eccessivamente al riguardo. Aveva forza ancora un motuproprio del 28 marzo 1743 che richiedeva per ogni stampa il permesso del Consiglio di reggenza a Firenze e degli uffíci di governo in provincia. Per un successivo motuproprio 30 gennaio 1793, in materia teologica era necessaria l'autorizzazione vescovile. Lo Statuto concesso nel 1848 dal granduca proclamò la libertà di stampa, mantenendo i la censura preventiva solo per argomenti religiosi. La legge 17 maggio 1848 disciplinò l'intera materia. Con il ritorno dei Lorenesi, dopo gli agitati eventi di quegli anni, essa fu modificata, e il decreto 22 settembre 1850 richiese per la stampa periodica l'autorizzazione preventiva del ministro per l'Interno, che poteva concederla solo per i luoghi ove risiedesse un guvernatore o un prefetto. Il ministro poteva sospiendere la concessione per un mese, il consiglio dei ministri revocarla. Prefetti e governatori potevano servirsi del sequestro. Gli scritti politici inferiori ai quattro fogli di stampa o fascicoli inferiori sempre ai quattro fogli pur essi dovevano essere autorizzati. Più tardi l'obbligo comprese anche gli scritti politici superiori ai quattro fogli.
Nello Stato pontificío la censura era disciplinata dalle disposizioni 15 marzo e 31 dicembre 1847. Vi erano appositi consigli di censura di 7 membri, i quali, specie quelli addetti ai giornali, dovevano adunarsi ogni giorno, sebbene non vigesse per la stampa periodica una vera e propria censura preventiva.
Per le Due Sicilie il controllo era assai rigido. La legge 17 agosto 1850 statuì che ogni scritto dovesse preventivamente essere autorizzato dal Consiglio generale della pubblica istruzione per Napoli e dalla Commissione di pubblica istruzione per la Sicilia, alle dipendenze dei quali erano i censori. Contro il provvedimento di denegata autorizzazione era ammesso ricorso al Ministero degli affari ecclesiastici o dell'istruzione pubblica secondo la materia, a Napoli, al ministro presso il luogotenente in Sicilia. Per stampe inferiori ai 10 fogli la competenza era dell'autorità politica. Nelle provincie il controllo era affidato agl'intendenti. Neppure le allegazioni forensi erano escluse dall'autorizzazione per la stampa, che doveva essere consentita dalla stessa autorità cui erano rivolte per il giudizio.
Come si è detto, una grande innovazione in questa materia fu portata dall'editto albertino 26 marzo 1848, n. 695, che concedeva la libertà di stampa, esteso poi, successivamente, a tutte le regioni d'Italia. Esso subì molteplici modificazioni, ma costituì la base fondamentale della legislazione italiana in materia, integrato da alcune disposizioni contenute nel codice penale.
I principî liberali che ispirarono quella legislazione escludevano la censura preventiva e altresì quella repressiva, contemplando e chiarendo solo le ordinarie responsabilità penali le quali possono riguardare: l'autore dello scritto, o, se è ignoto, l'editore, o infine lo stampatore; per le stampe periodiche il cosiddetto gerente responsabile. Per i reati di stampa la competenza è dei giurati. Si ammette che l'autorità sequestri gli stampati incriminati. Non è peraltro riconosciuto alcun mezzo di polizia preventiva. Il sistema non era immune da critiche, per cui si sentì spesso il bisogno di ritoccarlo.
Dopo la parentesi della guerra, in cui eccezionalmente i giornali furono sottoposti a censura preventiva, estesa del resto anche alla corrispondenza privata, il problema si è presentato sotto nuovo aspetto in quanto si è veduta la necessità di attribuire una maggiore responsabilità al giornalista, ma si è anche riconosciuta l'impossibilità di instaurare una vera e propria censura preventiva, non compatibile con le esigenze della società moderna e con la rapida diffusione della stampa periodica. Ma per l'ultima legislazione al riguardo v. stampa.V. anche cinematografo; teatro.
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