Censura
La censura è una forma di controllo sociale che limita la libertà di espressione e di accesso all'informazione, basata sul principio secondo cui determinate informazioni e le idee e le opinioni da esse generate possono minare la stabilità dell'ordine sociale, politico e morale vigente. Applicare la censura significa esercitare un controllo autoritario sulla creazione e sulla diffusione di informazioni, idee e opinioni. La pratica della censura fa la sua apparizione in quella fase dello sviluppo sociale in cui l'individuo comincia a rendersi autonomo dalla collettività e la libertà di espressione del singolo non può più essere pienamente controllata da tabù.
È ormai un uso consolidato suddividere la censura, secondo l'oggetto e il tipo di autorità che la esercita, in religiosa, politica e morale. Quando è la religione l'istituzione sociale predominante, eresia ed empietà costituiscono i bersagli principali della censura; la formazione degli Stati nazionali orienta la censura contro il tradimento e le idee politicamente sovversive; la censura morale, infine, è diretta contro l'oscenità e la pornografia, e può essere esercitata sia dalle autorità statali che da gruppi di pressione volontari.
Queste distinzioni sono utili, in quanto mettono in relazione la censura con la forma di potere predominante, responsabile dell'osservanza della tradizione e della stabilità interna di una data società; non vanno, però, sopravvalutate, poiché le varie forme di censura si sovrappongono e si rafforzano a vicenda, tant'è vero che, in genere, il compito assegnato alla censura è quello di impedire ogni pubblicazione che contenga ciò che è - per citare, a titolo di esempio, la legge sulla censura promulgata da Caterina II di Russia - "contrario alle leggi di Dio o al potere supremo, o che corrompe i costumi".L'estensione e i metodi della censura variano sia secondo l'ordine sociale che essa cerca di difendere sia secondo i mezzi di comunicazione che prevalgono in una data società.
Alcuni metodi hanno dimostrato una considerevole stabilità. Nelle società basate sulla comunicazione orale, dove erano i discorsi a venir censurati, l'espulsione dalla comunità rappresentava un metodo coercitivo assai efficace. Ovidio fu mandato in esilio sul Mar Nero da Augusto e lo stesso sistema viene ancora adottato nelle società industriali a partito unico, come è stato dimostrato dalle espulsioni di Trockij e di Solženicyn dall'Unione Sovietica. Comunque la censura, come pratica istituzionalizzata, è apparsa in seguito all'invenzione della stampa; essa è, quindi, una delle più antiche istituzioni sociali e la sua analisi richiede un approccio storico. In questa sede, però, illustreremo soltanto alcuni periodi cruciali, che gettano luce sui principali orientamenti manifestatisi nel corso dell'evoluzione della censura.
I primi interventi censori furono sporadici e non organizzati formalmente. La Bibbia registra uno dei primi casi, quello del re Joachim che mutilò il libro dettato dal profeta Geremia (Ger., 36, 1-26). Nel V secolo a. C. le autorità spartane proibirono determinate forme di poesia, musica e danza, considerate fattori di effeminatezza e di licenziosità. Nell'antichità classica, filosofi e artisti furono talvolta accusati di empietà e alcuni libri furono distrutti, ma la libertà di parola finì per essere ritenuta una delle più importanti differenze tra il cittadino e lo schiavo o lo straniero. Sulla base di questa convinzione i filosofi greci formularono la prima difesa razionale della libertà di espressione, ma anche la prima, fondamentale giustificazione della censura. Socrate, accusato di empietà e di corruzione di giovani, e giustiziato nel 399 a. C., difendeva la libertà di parola. Nell'Apologia platonica egli afferma che la libera discussione ha un supremo valore pubblico, in quanto della libertà di indagine beneficia la società. D'altra parte, Platone, il suo discepolo, avrebbe sostenuto il punto di vista opposto nella Repubblica: coloro che sono in grado di riconoscere il male è necessario che abbiano pure pieni poteri per impedirne la diffusione. "Dobbiamo anzitutto - scrive il filosofo - sorvegliare i favoleggiatori, e se le loro favole sono belle, accoglierle, se brutte respingerle". Storicamente è questa la prima proposta di trattare le credenze religiose erronee come crimini e di istituire un'inquisizione per estirparle.
Platone considera la censura un elemento necessario della sovranità. La sua difesa della censura è diventata l'argomento classico di molti regimi autocratici, che hanno insistito sulla propria facoltà di decidere quali idee o informazioni siano lecite e quali no.Nell'antica Roma erano vietati gli scritti e i discorsi sediziosi; nel corso del periodo repubblicano, però, i casi di censura furono relativamente rari, mentre il passaggio al regime imperiale dimostrò che l'autocrazia si affida sempre alla censura come a un importante strumento di autoconservazione, considerando il delitto di lesa maestà e le critiche rivolte al governo come i supremi crimini politici. Il sovrano assoluto può esercitare il potere censorio personalmente o cederlo in delega a funzionari subordinati; in ogni caso, chi esercita la censura non può essere oggetto di censura. Gli imperatori romani esiliavano chi osava criticarli ed eliminavano i manoscritti che non gradivano, e talvolta anche i rispettivi autori. Secondo Tacito, nel I secolo d. C., dopo il consolidamento del regime autocratico, a Roma scomparve la libera manifestazione di opinioni relative agli avvenimenti pubblici. Così, anche se la censura religiosa era ridotta al minimo e si tollerava un'ampia varietà di opinioni religiose, ebrei e cristiani - i quali consideravano il culto dell'imperatore un atto non già di fedeltà politica, bensì di idolatria - furono perseguitati.
Comunque, quando l'imperatore Costantino decretò la parità giuridica fra paganesimo e cristianesimo, le persecuzioni contro i cristiani finirono; quando, poi, il cristianesimo diventò la religione ufficiale dello Stato romano, questo incominciò a perseguitare gli eretici non cristiani. In seguito, per molti secoli, nel mondo occidentale la censura risultò legata alle vicende della Chiesa. Così, nel 325, il Concilio di Nicea dichiarò eretici i libri di Ario, e Costantino prescrisse la pena di morte per chiunque avesse cercato di sottrarli al rogo da lui stesso ordinato; nel 496 papa Gelasio promulgò un indice papale dei libri condannati come eretici e proibiti.
Nel Medioevo la massima autorità censoria fu la Chiesa, che decideva quali idee e opinioni fossero contrarie alla dottrina, dannose per la fede o per la morale, o pericolose per l'unità del mondo cristiano, mentre le autorità secolari erano tenute a mettere in pratica le decisioni ecclesiastiche, distruggendo i manoscritti proibiti. In effetti il timore del diffondersi di opinioni eretiche portò la Chiesa ad accrescere i propri sforzi per sterminare gli eretici e i loro scritti, e nel 1223 Gregorio IX fondò l'Inquisizione, destinata a individuare, giudicare e condannare gli eretici e distruggere ogni loro testo.
L'invenzione della stampa rappresentò una rivoluzione nei mezzi di comunicazione. Nell'arco di un secolo i libri stampati sostituirono i manoscritti e "mai rivoluzione fu così drammatica o dirompente come quella avvenuta nei primi cento anni dopo Gutenberg" (v. Grendler, 1981, p. 24). La stampa contribuì enormemente all'alfabetizzazione. Stampa e diffusione dei libri raggiunsero livelli 'industriali': molti potevano ormai permettersi di possedere dei libri e un vasto pubblico cominciò a prender parte allo sviluppo dei dibattiti religiosi, politici e scientifici, potendoli seguire 'a distanza'.L'avvento della stampa e il diffondersi dell'alfabetizzazione rappresentarono una minaccia per le autorità ecclesiastiche, che reagirono rendendo la censura più rigorosa e organizzata. Nel 1501 una bolla di Alessandro VI proibì di stampare senza autorizzazione, introducendo così il principio della censura preventiva sulla stampa.
Questa politica venne adottata da tutti i paesi posti sotto la giurisdizione della Chiesa di Roma. I primi tentativi di censurare i libri stampati non furono efficaci a causa della molteplicità degli Stati europei, dell'inefficienza burocratica e della frammentazione del potere politico al loro interno. Con la Riforma, però, e con l'inasprirsi delle lotte politiche e religiose, ci si rese conto pienamente, in entrambi gli schieramenti, che soltanto facendo ricorso a una forma di censura sistematica si potevano soffocare le idee politiche e religiose dell'avversario.
Per poter disporre in Europa, dopo l'invenzione della stampa, di una censura efficace, si dimostrarono necessarie le seguenti tre condizioni: a) una lista dettagliata degli autori, delle idee e dei libri proibiti; b) un efficiente sistema di censura preventiva sulla stampa, in grado di impedire, all'interno di un dato Stato, la pubblicazione dei testi considerati pericolosi; c) un rigoroso sistema di controllo del commercio dei libri, comprendente controlli, alla dogana e presso i librai, di tutti i volumi importati e severe punizioni per i distributori di testi proibiti. Le autorità cattoliche e quelle protestanti usarono gli stessi criteri nell'organizzare la propria censura, con la sola differenza che nei paesi protestanti lo Stato autocratico, esercitando una sostanziale autorità sulla Chiesa, era l'istituzione predominante in tale ambito. Così, in Inghilterra, fu prerogativa della Corona definire l'eresia e fissare le direttive dell'intervento censorio. Nel 1531 Enrico VIII introdusse un sistema di censura preventiva e delegò all'autorità laica il potere di concedere l'autorizzazione alla stampa. Nei paesi cattolici era il papato a fissare la nuova legislazione relativa alla censura e a controllarne l'applicazione. Nel 1564 venne promulgato un nuovo, perentorio Index librorum prohibitorum, il quale stabiliva le opere e gli scrittori che non dovevano essere stampati o letti dai cattolici, specificava autore e titolo dei libri proibiti, indicava quelli che potevano essere messi in circolazione solo dopo essere stati purgati e fissava una particolare normativa per il commercio dei libri. Erano autorizzate ispezioni sistematiche presso i librai e confisca dei volumi proibiti. L'Index, opportunamente rivisto e aggiornato, restò in vigore per circa 400 anni ed è stato abolito soltanto nel 1966.
Tra i fattori che contribuirono al declino della censura il protestantesimo fu uno dei principali. La dottrina protestante del sacerdozio di tutti i credenti, secondo la quale ognuno può rivolgersi a Dio direttamente, senza la mediazione degli ecclesiastici, giustificava la riduzione della censura; inoltre il protestantesimo non raggiunse mai quell'unità ideologica necessaria per un'azione censoria efficace.La storia della censura nel secolo successivo all'invenzione di Gutenberg rivela delle corrispondenze regolari fra struttura e stabilità del potere politico da una parte ed estensione e importanza della censura dall'altra; in primo luogo la rigidità della censura è direttamente proporzionale al grado di centralizzazione del potere politico; in secondo luogo la sua ampiezza e rigidità aumentano quando la stabilità del potere politico e dell'ordine sociale è minacciata. Queste corrispondenze divennero ancor più pronunciate nel periodo della formazione degli Stati nazionali assoluti. L'ambito e l'importanza della censura crebbero con l'affermarsi delle monarchie assolute, che esigevano fedeltà incondizionata allo Stato come unica alternativa al caos politico. Anche se lo sviluppo degli Stati nazionali promuoveva interessi politici ed economici che erano spesso in conflitto con l'intolleranza religiosa, gli Stati sostenevano ancora la lotta contro le concezioni blasfeme e l'eresia, considerandole come primi passi verso la rivolta e il tradimento. Per quanto riguarda la censura, gli interessi religiosi delle Chiese e quelli politici dei sovrani coincidevano nella misura in cui questi ultimi derivavano la propria autorità dalla dottrina del diritto divino dei re. Anche se le istituzioni religiose e politiche procedevano sempre più indipendentemente le une dalle altre, i loro capi erano regolarmente alleati nell'imporre una censura rigorosa e nel limitare severamente la libertà di parola. Perciò, quando l'assolutismo iniziò a indebolirsi e il potere del re a sgretolarsi, la censura si ridusse in misura assai rilevante.
La guerra civile inglese (1640-1660) colpì duramente l'assolutismo inglese e i suoi consolidati meccanismi di censura. In questo periodo relativamente breve di libertà di stampa vennero scritte alcune delle principali opere teoriche che, oltre a cogliere l'interdipendenza fra autocrazia e censura, chiedevano l'abolizione di quest'ultima. L'Areopagitica di Milton (1644), per esempio, era una meditata difesa della "libertà di sapere, di far sapere e di discutere liberamente secondo coscienza". L'autore prendeva posizione a favore dell'abolizione della censura preventiva sulla stampa e dell'impunità dopo la pubblicazione (salvo che nei casi di diffamazione legalmente provata o di offese contro la religione); la censura veniva condannata come male sociale, mentre la libertà di parola veniva considerata socialmente utile. Nello stesso periodo Hobbes pubblicava la sua principale opera di filosofia politica, il Leviathan (1651), in cui, contrariamente a Milton, cercava di fornire un'esplicita giustificazione della censura.
Secondo Hobbes, compito principale del potere sovrano è quello di "prevenire discordia e guerra civile"; dato che "le azioni degli uomini derivano dalle loro opinioni", allora "rientra nelle competenze della sovranità giudicare quali opinioni o dottrine siano avverse alla pace e quali conducano a essa [...] e chi debba esaminare le dottrine esposte in tutti i libri prima che siano pubblicati". Comunque, dopo la restaurazione della monarchia il libro di Hobbes venne proibito: la sua eloquente difesa della censura non valse a salvarlo. Finalmente, con la fine della monarchia assoluta, in Inghilterra scomparve la censura preventiva sulla stampa (1695).
In Francia la censura fu abolita con la Rivoluzione e la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen (1789) riconobbe la libertà di stampa. Nei vari paesi europei, da una parte, e nell'America del Nord, dall'altra, la Rivoluzione francese provocò reazioni diametralmente opposte, che furono all'origine del diverso status della censura nella prima metà del XIX secolo. Sin dagli albori della colonizzazione, l'America aveva costituito un rifugio per i gruppi protestanti più radicali e democratici; più tardi il famoso processo a John Peter Zenger (1734) aveva stabilito il precedente secondo cui una critica giustificata nei confronti del governo non era da considerarsi diffamatoria, il che aiutò a introdurre la libertà di stampa in America. Le colonie americane si mostrarono assai sensibili alle idee della Rivoluzione francese e furono all'avanguardia nel ridurre e abolire la censura religiosa e politica. Nel 1791 il Congresso degli Stati Uniti ratificò l'ormai famoso primo emendamento alla Costituzione americana: "Il Congresso non promulgherà alcuna legge per imporre una religione o per proibirne la libera professione; o per ridurre la libertà di parola o di stampa, o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente e di presentare petizioni al governo per ottenere la riparazione di torti subiti". Secondo la Costituzione americana gli individui hanno sempre il diritto di indagare su argomenti di pubblico interesse e di criticare l'operato del governo.
La pubblicazione di pamphlets politici non poteva quindi più essere considerata un delitto e il Sedition act, che nel 1798 aveva condannato come atto criminale la pubblicazione di "ogni scritto falso, scandaloso e tendenzioso" contro il governo degli Stati Uniti, il Congresso o il presidente, fu modificato dopo due anni.Le rivoluzioni francese e americana provocarono una reazione del tutto differente in quei paesi europei dove i sovrani cercavano di arginare il dilagare delle idee rivoluzionarie e di rafforzare i propri regimi autocratici. Così Austria, Prussia e Russia risposero intensificando e perfezionando i propri mezzi di repressione e di controllo, in primo luogo la censura: non si poteva pubblicare alcunché senza previa approvazione; centinaia di libri, cui era stato permesso di circolare liberamente prima della Rivoluzione francese, furono proibiti. L'Austria e gli Stati tedeschi adottarono, riguardo alla censura, politiche uniformi. I censori russi, dal canto loro, avevano sempre prestato grande attenzione a quel che facevano i loro colleghi austriaci e prussiani, e perciò, dopo la repressione della rivolta decabrista del 1825, la censura russa diventò particolarmente rigida e assurda. Per esempio, mentre il precedente regolamento sulla censura stabiliva che "nel caso di un brano dubbio, avente un doppio significato, è preferibile interpretarlo nel modo più favorevole all'autore, piuttosto che processare quest'ultimo", quello del 1826 dichiarava: "Non si consenta la pubblicazione di brani originali o tradotti se hanno un doppio significato e se uno dei significati è contrario alle leggi sulla censura" (v. Choldin, 1985, pp. 23 e 26). La rivoluzione del 1848 costrinse i governi austriaco e prussiano ad abbandonare la censura preventiva sulla stampa, ma in Russia soltanto con la rivoluzione del 1905 la stampa fu liberata da questa come da molte altre limitazioni.
L'avvento della società industriale mutò drasticamente l'atteggiamento corrente nei confronti della censura. Tale società, nata da un vertiginoso aumento del ritmo di innovazione tecnologica, non dimostra, per definizione, un grande impegno nella conservazione dello status quo e degli stili di vita tradizionali; al contrario, avendo vissuto un lungo periodo di trasformazioni, ed avendone tratto vantaggi, è assai sensibile all'innovazione. Ogni sorta di mutamento sociale può venir sollecitato o risultare necessario. La libera circolazione delle informazioni è ritenuta essenziale per la prosperità e l'ulteriore avanzamento della società industriale. In generale, in tale società, la censura è in continuo declino.
Quest'ultima affermazione richiede alcune precisazioni. Anzitutto, nella società industriale la censura si manifesta in ambiti dove, in precedenza, la sua presenza era stata pressoché irrilevante; inoltre determinate innovazioni tecnologiche forniscono alle autorità politiche strumenti potentissimi per controllare l'informazione pubblica e per impedire la libera espressione di idee e opinioni; infine, anche se le basi tecnologiche delle società industriali sono abbastanza simili, le loro strutture politiche ed economiche possono essere completamente differenti.
Determinate strutture socioeconomiche rendono possibile un'eccezionale concentrazione del potere politico nelle mani di un gruppo ristretto di dirigenti, i quali perseguono politiche di trasformazione sociale pianificate dall'alto. Il continuo ricorso alla censura rientra nella logica stessa di tale trasformazione. Tutte le società industriali sono state o di tipo 'occidentale' o di tipo 'sovietico', e i rispettivi atteggiamenti verso la censura nonché l'uso effettivo che ne hanno fatto sono stati molto differenti; in effetti lo sono stati a tal punto che la differenza non è stata tanto quantitativa quanto qualitativa. La censura nelle società industriali di tipo occidentale e di tipo sovietico richiede, dunque, trattazioni distinte. Inoltre non si può considerare completo il panorama delle forme di censura nell'epoca moderna senza analizzare, da questo punto di vista, i regimi fascista e nazista; si vedrà così che tutte le dittature monopartitiche, a prescindere dal rispettivo 'colore', sono accomunate dallo stesso massiccio ricorso alla censura più brutale e pervasiva.
Per quanto riguarda l'evoluzione della censura nei secoli XIX e XX, considereremo soprattutto la storia delle prime società industriali occidentali, quella inglese e quella statunitense. In Inghilterra e in alcuni altri paesi dell'Europa occidentale, come pure negli Stati Uniti, il periodo tra la fine del XVIII e l'inizio del XX secolo segnò una svolta nella storia della censura. Questa, infatti, declinò: un declino inevitabilmente legato a quello del regime monarchico-assolutistico, da un lato, e al diffondersi della democrazia, dall'altro. Ciò fu, come rilevò Alexis de Tocqueville, "una necessaria conseguenza della sovranità popolare". Col procedere dell'industrializzazione, le strutture sociali e occupazionali divennero sempre più complesse; si delinearono nuovi gruppi sociali, con nuovi e diversi interessi politici. Una tradizione di innovazione e di propensione al mutamento iniziò a radicarsi nella società, il cui sistema di classi divenne più aperto e flessibile.
Con l'estensione del diritto di voto e con la crescita della libertà individuale aumentava pure la libertà di stampa e di espressione. Tutti questi sviluppi ebbero conseguenze cruciali sul destino della censura. Il controllo politico su quanto veniva stampato si attenuò e i processi per sedizione politica e religiosa andarono scomparendo. Si giunse così, negli Stati Uniti, alla promulgazione del primo emendamento alla Costituzione, che garantiva libertà di religione, di parola, di stampa, di riunione, ed escludeva le possibilità di censura religiosa e politica. Scopi precipui della censura diventarono, invece, la repressione dell'oscenità e la tutela della moralità pubblica, da un lato, e la salvaguardia della sicurezza nazionale e dei segreti di Stato, dall'altro.
Dalla metà del XIX secolo, nel mondo angloamericano, la censura più severa è stata quella morale. La preoccupazione del censore per i costumi sessuali coincideva evidentemente con l'ascesa politica della classe media (borghesia imprenditoriale, gruppi di professionisti e di dirigenti). Nella sua lotta contro la classe dominante del passato, l'aristocrazia licenziosa e libertina, e contro i poveri delle città, rozzi e senza decoro, la classe media enfatizzava i propri 'valori': senso della famiglia, parsimonia, avvedutezza, autocontrollo, pudore e rispettabilità.Questo passaggio da una censura politica e religiosa a una censura prevalentemente morale fu accompagnato anche da un importante cambiamento nel tipo di controllo: gli organi dello Stato finirono per essere coinvolti soltanto in misura marginale, mentre ci si affidava sempre più alla pubblica opinione; la censura esercitata dallo Stato era integrata e, talvolta, sostituita da quella esercitata da gruppi di pressione e istituzioni di natura privata.
Una 'Società per la repressione del vizio' era stata fondata a Londra già nel 1802, con il fine di "incoraggiare la religione e la virtù fra gli strati umili della società e di eliminare giornali e libri blasfemi, licenziosi e osceni". La sua filiale di New York venne fondata nel 1873; fu quindi la volta della 'Società di vigilanza e tutela della Nuova Inghilterra' e di altre simili organizzazioni, tutte molto attive nel portare a conoscenza della polizia la letteratura 'oscena'. Vennero inoltre approvate, intorno alla metà del XIX secolo, diverse leggi contro l'oscenità in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra. In Inghilterra l'Obscene publications act di lord Campbell (1857) definiva oscena ogni opera scritta con l'intento di corrompere la morale della gioventù e turbare il comune senso del pudore. Nel famoso processo Hicklin (1868), il successore di Campbell nella carica di Lord Chief Justice, lord Cockburn, sentenziò che per stabilire l'oscenità di una pubblicazione si dovesse appurare "se la tendenza insita nell'argomento accusato di oscenità fosse quella di depravare e corrompere chi ha l'animo ancora aperto a tali influenze immorali, e nelle cui mani una pubblicazione del genere può cadere", stabilendo così un criterio oggettivo di oscenità.
Autori ed editori che non riuscivano a superare l'esame di moralità finivano sotto processo e i loro libri venivano sequestrati dalla polizia, o bloccati presso gli uffici postali e doganali, per venir poi distrutti. Molte di queste pubblicazioni erano nient'altro che volgare pornografia, ma la legge venne applicata anche nel caso di opere aventi un fine sociale ed educativo o di indubbio valore letterario. Così, nella famosa edizione di The family Shakespeare del Bowdler vennero censurate "quelle parole ed espressioni che non è decoroso leggere ad alta voce in una famiglia". Stessa sorte fu riservata a raccolte di scritti di Gibbon e di Smollett, e molti scrittori, come Dickens, Thackeray, George Eliot, si autocensurarono o furono censurati da editori e direttori di giornali; altri, come Hardy e Flaubert, si opposero a tutto ciò e spesso ne subirono le conseguenze. Le leggi contro l'oscenità provocarono discussioni a non finire.
Secondo gli oppositori, uno scrittore, per osservarle, era costretto a falsificare le situazioni sociali descritte e ad adeguarsi ai canoni della letteratura per l'infanzia. Oltre a ciò, spesso i giudici definivano oscena un'opera sulla base di brani isolati, prescindendo dall'opera d'arte come totalità, e senza tener conto delle argomentazioni e delle finalità dell'autore, della sua reputazione letteraria, dei pareri espressi da critici autorevoli circa il valore storico, sociale e letterario dell'opera. Nel suo On liberty (1859) John Stuart Mill, portando avanti una linea di ragionamento già presente in Milton, forniva la più articolata argomentazione contro ogni forma di censura: quella posta in atto dal potere politico e quella esercitata da gruppi privati, la quale, in una democrazia liberale, può essere talvolta persino più efficace della prima. Mill non riconosceva ad alcuno il diritto di esercitare la censura "personalmente o attraverso il proprio governo".
Ogni opinione messa a tacere - argomentava - potrebbe essere vera, almeno in parte; pensare il contrario significherebbe reputarsi infallibili. Del resto un'opinione, anche se falsa, non va soppressa perché, così facendo, si indebolirebbe l'opinione vera riducendola, con grave danno per il benessere intellettuale dell'umanità, a dogma ereditato. Mill concludeva: "Se tutti gli uomini all'infuori di uno nutrissero una certa opinione, se soltanto una persona fosse di opinione contraria, l'umanità non avrebbe più diritto di far tacere questo singolo di quanto ne avrebbe costui, se lo potesse, di ridurre al silenzio l'umanità". Furono necessari circa cento anni, in Inghilterra come negli Stati Uniti, per cambiare le leggi sulle pubblicazioni oscene e per far cadere il criterio adottato nel caso Hicklin.
L'Obscene publications act del 1959 stabilì: a) che chi pubblicava un testo "di interesse scientifico, letterario, educativo" non potesse essere dichiarato colpevole; b) che le opinioni di esperti circa il valore letterario, artistico, scientifico, ecc. dell'opera incriminata potessero essere addotte come prove; c) che ogni opera andasse letta e giudicata nel suo complesso; d) che autori ed editori potessero parlare in difesa del proprio lavoro, anche senza essere stati citati in giudizio. Nei primi anni sessanta si sono avute sentenze che consentirono la pubblicazione di libri a lungo vietati, come Lady Chatterley's lover di D. H. Lawrence, Tropic of Cancer di H. Miller e Fanny Hill di J. Cleland.
Con la 'rivoluzione sessuale' degli anni settanta, e con la maggior tolleranza dimostrata dai tribunali verso i temi legati alla sessualità, la storica controversia sulla censura imboccò una nuova strada. Gli evidenti eccessi della pornografia hard-core portarono a una diffusa richiesta di controlli. Molti gruppi privati e singoli individui, tra cui intellettuali di spicco, si dimostrarono preoccupati per gli effetti abbrutenti della pornografia sulla società.
D'altra parte, nel 1970, l'American commission on obscenity and pornography pubblicò un rapporto sui dati raccolti in due anni di intense ricerche empiriche, da cui risultava che: a) l'opinione pubblica non era favorevole ad alcuna misura legale che limitasse la libertà degli americani adulti di leggere o vedere qualsiasi cosa volessero; b) non si poteva dimostrare che la pornografia alimentasse il crimine o la delinquenza. Il rapporto fu respinto dal Senato e biasimato dal presidente Nixon. Contemporaneamente la Corte Suprema degli Stati Uniti stabiliva che il possesso per uso personale di materiale osceno era un diritto costituzionale fondamentale dell'individuo, rientrando in quella sfera privata sottratta all'intervento del potere pubblico. Comunque, quando la pornografia coinvolge i minori è precluso il ricorso al primo emendamento: su questo punto c'è un largo consenso, come pure su quello secondo cui la definizione di 'oscenità' dipende dal tipo di pubblico. Perciò determinate pubblicazioni possono essere ritenute dannose per i minorenni e la loro vendita proibita ai minori di 17 o 18 anni. La Motion Picture Association of America ha fissato un criterio di classificazione, dividendo le pellicole in adatte a qualsiasi pubblico, vietate ai minori non accompagnati da un genitore o comunque da un adulto, e vietate ai minori di 18 anni (questi film sono contrassegnati con la lettera X): un sistema di autoregolamentazione che si è dimostrato più efficace della censura statale.Nei periodi di guerra, o di forte tensione politica interna o internazionale, si assiste all'inasprimento di una particolare forma di censura, diretta a tutelare la sicurezza nazionale e i segreti di Stato. In tali periodi la necessità di privare il nemico di informazioni vitali porta alla reintroduzione della censura preventiva sulla stampa e a un forte aumento del potere dei censori. Circostanze eccezionali giustificano queste restrizioni e il blocco delle informazioni; ma anche dopo la conclusione del conflitto può succedere che un governo conservi tali misure e cerchi di usarle contro i suoi avversari politici.
Così, dopo la seconda guerra mondiale, l'intervento censorio dei tribunali americani sui testi stampati colpiva i leaders del Partito Comunista degli Stati Uniti ed era spesso motivato adducendo come giustificazione la crescente tensione internazionale dell'epoca. Contemporaneamente un'atmosfera da 'segreto d'ufficio' minacciava di ridurre drasticamente la libertà di espressione. Gli organismi governativi ricorrevano a una legge del 1789 che attribuiva ai loro dirigenti la facoltà di custodire, utilizzare e mantenere segreti incartamenti o altri documenti e permetteva loro di sottrarli alla conoscenza sia del pubblico che di altri organismi governativi.
Giornali americani, organizzazioni private e commissioni del Congresso riferirono molti esempi di informazioni ufficialmente bloccate e nient'affatto collegate alla sicurezza nazionale. Una di queste commissioni rilevava, nel 1958, che "i funzionari federali sembrano seguire con pervicacia il principio secondo cui essi soltanto possono decidere ciò che è bene che le persone sappiano sul proprio governo". Nel 1966, sulla base di numerose indagini e di altrettanti rapporti e sotto la spinta dell'opinione pubblica, il Congresso approvò quello che divenne noto come il Freedom of information act, secondo il quale i cittadini possono chiedere chiarimenti su qualsiasi attività governativa, fatta eccezione per gli argomenti topsecret. Da allora chiunque può costringere il governo a produrre in tribunale una documentazione specifica, mentre i funzionari non possono più ricorrere alle giustificazioni - "per fondati motivi" o "nel pubblico interesse" - precedentemente utilizzate per bloccare l'informazione. Di conseguenza i cittadini degli Stati Uniti godono, rispetto a quelli di altri paesi occidentali, di una maggiore possibilità di accesso alle informazioni concernenti l'operato del proprio governo. Conciliare il diritto del governo a non fornire le informazioni considerate pericolose per la sicurezza nazionale col diritto individuale di conoscere e di esprimersi liberamente resta il problema fondamentale di qualsiasi paese democratico in un mondo diviso. La recente storia americana ci ricorda, d'altronde, che i governi che promuovono campagne sistematiche per inasprire la censura e impongono forti restrizioni alla pubblicazione delle notizie hanno spesso un qualche particolare interesse a limitare la libertà di informazione (si pensi al presidente Nixon e al presidente Reagan e agli scandali Watergate e Irangate).
Ripercorrendo l'intero arco di esperienze delle società industriali occidentali, si può affermare che in esse la censura ha oggi raggiunto il suo più basso livello storico; le limitazioni alla libertà di espressione che ancora sussistono sono, ovviamente, molto meno pronunciate di quanto lo fossero soltanto una generazione fa. È importante chiarire le tendenze storiche e gli adattamenti strutturali che hanno contribuito a questo sviluppo. Abbiamo già accennato al fatto che le società industriali occidentali, avendo per generazioni tratto beneficio dalla creatività e dalle innovazioni tecnologiche, apprezzano l'innovazione in qualsiasi settore. Questo atteggiamento comporta un'insofferenza per i vincoli imposti dalla censura e crea una forte tradizione di opposizione a essa in larghe fasce della popolazione. Anche lo sviluppo dell'individualità, unito a una crescente tendenza a considerare l'autodeterminazione e l'autorealizzazione come valori supremi, contribuisce al declino della censura. Infine, l'aumento della ricchezza su scala nazionale, combinato con la sua distribuzione ai privati, fornisce un'altra ragione del regresso della censura.
La proprietà privata - e qui un confronto con le società di tipo sovietico è particolarmente indicativo - limita fortemente l'ambito e le possibilità della censura nelle società industriali. Risorse finanziarie personali offrono all'individuo una relativa protezione contro le azioni del potere politico, e non di rado gli forniscono i mezzi per intraprendere un'attività editoriale indipendente e quindi per diffondere le idee. La proprietà privata, perciò, protegge la pluralità di opinioni nella società industriale e fissa dei limiti all'intervento dello Stato o di gruppi privati nella vita dei cittadini. I tentativi ricorrenti di imporre una censura più rigida - messi in atto periodicamente da organismi governativi e da vari gruppi di pressione - sono in genere diretti a rafforzare il controllo sulla scelta dei testi per le biblioteche statali e per le scuole, sui requisiti per accedere a pubblici impieghi e su altri settori che godono di finanziamenti pubblici. Gli oggetti del contendere sono sempre istituzioni pubbliche e gli esiti di tali contese dipendono dallo stato dell'opinione pubblica e dai suoi atteggiamenti contro la censura. D'altra parte, il monopolio privato dei mass media può essere dannoso per il pluralismo delle informazioni quanto la censura esercitata dallo Stato. Anche se l'esperienza storica dimostra che tale monopolio è difficile da ottenere, e pressoché impossibile da mantenere, la legislazione antitrust rappresenta un'importante difesa delle libertà democratiche.
Un'altra istituzione che limita la censura e contribuisce alla libertà di espressione è la libertà accademica. I numerosi docenti universitari, professionalmente impegnati a creare e diffondere idee, opinioni e informazioni, possono operare al di fuori del diretto controllo politico senza dover sottostare alle pressioni di gruppi privati. Così com'è oggi la libertà accademica consente agli studiosi di avere idee anticonformiste e incoraggia la libera discussione e lo scambio di conoscenze.
Nel XX secolo la censura ha avuto una storia molto diversa fuori dell'area dei paesi sviluppati con regime liberal-democratico. L'esperienza dei regimi monopartitici sia di tipo nazi-fascista che di tipo sovietico ha dimostrato l'importanza della struttura politica e delle forme dominanti di proprietà nel determinare la natura stessa e la diffusione della censura nelle società moderne. L'instaurazione di un regime monopartitico efficiente richiede il controllo sistematico dei mass media, delle arti e di tutte le forme di espressione pubblica. Una volta introdotto, tale controllo diventa uno dei più importanti strumenti per mantenere la stabilità interna del regime.
Per capire la censura nei regimi monopartitici si deve tener presente che è spesso insufficiente definirla in senso stretto, cioè come un insieme di regole e di norme che indichino quello che è proibito nella comunicazione pubblica, dettate da un organo che sovraintende alla loro attuazione e crea nuove regole e prescrizioni. La censura praticata dai regimi monopartitici tecnologicamente avanzati comprende tutte le misure utilizzate per imporre restrizioni sulla raccolta, sulla diffusione e sullo scambio delle informazioni, delle opinioni e delle idee. Nelle società industriali l'ambito d'azione della censura comprende tutti i mezzi di comunicazione, dalla stampa al cinema, alla radio, alla televisione, ai calcolatori.
Le esperienze dell'Italia fascista e della Germania nazista sono particolarmente istruttive perché suggeriscono che né una solida tradizione di libertà di stampa né una concezione relativamente liberale della censura costituiscono difese sufficienti contro l'introduzione della censura totale e contro il controllo terroristico del discorso pubblico da parte di regimi monopartitici stabilizzati. In effetti, la facilità e la rapidità con cui le dittature italiana e tedesca si assicurarono il controllo su tutte le forme d'espressione dimostrano il formidabile potere d'uno Stato totalitario, nonché quanto la democrazia parlamentare in Italia e in Germania fosse impreparata a proteggersi da colpi di Stato organizzati da partiti i cui dirigenti possedevano, tra l'altro, una grande consapevolezza del ruolo dei mass media nella società moderna e sapevano servirsi brutalmente della violenza razionalmente organizzata e impiegata.
Esistono varie somiglianze tra le politiche italiana e tedesca di controllo sui mass media, ma queste somiglianze non dipendono dal fatto che l'esperienza italiana costituì un esempio per quella tedesca. Si ha a che fare, invece, con politiche analoghe perché dettate in ciascun caso dalla logica stessa della presa del potere da parte d'un singolo partito nell'ambito di una democrazia parlamentare, nonché dalle strutture e dai modi di funzionamento tipici dei regimi totalitari (v. Aquarone, 1965; v. Bracher, 1969).
D'altro canto non si deve dimenticare che tra fascismo e nazionalsocialismo intercorrevano molte differenze sia a livello ideologico che a livello di rapporto tra potere e masse (v. De Felice, 1975), e che queste differenze hanno dato luogo anche a differenze nella portata e nelle modalità di esercizio del controllo sull'informazione e sulla vita culturale.Si possono distinguere tre fasi nel processo di attuazione del controllo sui mass media, sull'informazione e sulle attività artistiche, culminanti nell'adozione di una politica culturale unitaria da parte d'uno Stato totalitario, anche se si deve tener presente che queste fasi non sono nettamente distinte e danno luogo a sovrapposizioni. In una prima fase il partito dominante priva gli oppositori della loro libertà d'espressione e cerca di consolidare le basi politiche del regime eliminandone gli avversari. In questa fase d'epurazione tutti gli oppositori attivi del regime vengono sottoposti a gravissime intimidazioni e talora sono eliminati fisicamente. Nella seconda fase il compito principale consiste nel creare un complesso di organi che controllino istituzionalmente la formazione dell'opinione, e nel mettere a punto un sistema di controllo sulla produzione e la diffusione delle informazioni e delle opere d'arte.
In questa fase lo Stato monopartitico crea una gerarchia di comando che trasmette e attua il volere delle autorità politiche supreme e tramite leggi e direttive regola le attività delle organizzazioni di controllo. Nella terza fase, dopo aver eliminato l'opposizione e chiuso tutti i canali d'informazione non censurata, dopo aver creato organizzazioni burocratiche per controllare i mezzi di comunicazione di massa, lo Stato totalitario deve immediatamente procedere alla creazione e al perfezionamento della propria politica culturale: dalle misure restrittive, nonché dalla censura preventiva e punitiva, deve passare alla propaganda 'positiva' e a misure per manipolare l'opinione pubblica, mentre il controllo statale su tutti gli aspetti della vita culturale e sui mass media deve trasformarsi in una politica culturale che effettui la fusione di cultura e propaganda.
Il governo di Mussolini introdusse la politica dell'epurazione subito dopo la presa del potere. L'eliminazione di ogni reale opposizione antifascista nel paese doveva cominciare dalle comunicazioni di massa: la prima legge contro la libertà di stampa fu adottata dal governo fascista già nel 1923, anche se entrò in vigore un anno dopo. Secondo questa legge i prefetti, come detentori del potere esecutivo, avevano la facoltà di diffidare il direttore di un giornale - pena l'immediata soppressione della testata - dal pubblicare quel quotidiano o quel periodico che "con articoli, commenti, note, illustrazioni o vignette ecciti [...] all'odio di classe o alla disobbedienza alle leggi e agli ordini delle autorità" (v. Lazzaro, 1969, pp. 101-102). Questa legge, che dava al governo un'arma efficace per soffocare ogni critica, fu subito contestata dalla Federazione nazionale della stampa italiana, che la riteneva inaccettabile in quanto essa avrebbe stravolto la funzione della stampa e trasformato i giornalisti in funzionari al servizio dello Stato.
Inizialmente il processo di fascistizzazione della stampa italiana procedette a passo lento e si attuò attraverso i sequestri e le repressioni della stampa di opposizione, fino ad aperte violenze contro i giornalisti, i distributori e gli acquirenti. Dopo l'assassinio di Matteotti, invece, lo smantellamento delle vecchie strutture del periodo liberale assunse un ritmo accelerato. La fascistizzazione integrale della stampa seguì due linee generali (v. Castronovo, 1976, pp. 312-340). I quotidiani più influenti che godevano di notorietà e prestigio all'estero, come il "Corriere della Sera" e "La Stampa", furono fascistizzati dall'interno con un radicale cambio di proprietà e l'allontanamento dei vecchi direttori. Per quanto riguarda gli altri giornali dell'opposizione, il governo Mussolini si pose come obiettivo la loro radicale eliminazione; applicò la legge del 1923 e, procedendo con sequestri e diffide a ritmo crescente, cominciò a far devastare le sedi di giornali dei partiti d'opposizione. Infine, l'attentato a Mussolini nel 1926 servì come ultimo pretesto per sciogliere ogni partito e sopprimere la stampa di opposizione. Nello stesso tempo la Federazione della stampa italiana, che era essenzialmente antifascista, venne sciolta e fusa con il sindacato fascista dei giornalisti in una organizzazione nuova, che nel 1927 divenne parte della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti. Questa tattica permise al regime, verso la fine del decennio, di epurare la categoria dei giornalisti e altre categorie intellettuali da elementi antifascisti.
Analogamente, anche il governo nazista, per assicurarsi il controllo completo sui mass media e sull'arte, cominciò a eliminare l'opposizione e a epurare i gruppi intellettuali e artistici. Questo periodo nella Germania nazista è stato più breve che nell'Italia mussoliniana, grazie al grado di violenza, che fu incomparabilmente più alto, e all'ideologia razzista, che fondeva la volontà di sopprimere gli oppositori del regime con il fanatismo antisemita, diretto a liquidare i 'nemici della razza'. Già nella prima settimana dopo l'ascesa di Hitler al potere furono adottate leggi di emergenza per proibire le pubblicazioni che mettevano in pericolo la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico. Famosi scrittori e artisti antinazisti, come i fratelli Mann, Döblin, Werfel, Kollwitz e altri, furono estromessi d'autorità dall'Accademia delle arti o costretti ad abbandonarla. Molti scrittori e giornalisti furono arrestati e messi in prigione sulla base di 'liste nere'. Tra le azioni più clamorose del periodo di epurazione ricordiamo i roghi dei libri nella primavera del 1933, organizzati nelle più importanti università tedesche. Inoltre furono compilate 'liste nere' di libri "nocivi e indesiderati" da eliminare dalle biblioteche pubbliche e 'liste bianche' di libri raccomandati dallo Stato. Tutte queste leggi di emergenza, divieti, epurazioni, persecuzioni, arresti di massa e atti terroristici prepararono il terreno per costruire un potente apparato di controllo totale da parte dello Stato monopartitico sui mass media, sulla vita culturale e sulla pubblica opinione.
Dopo aver eliminato gli avversari, un regime totalitario procede a consolidare la sua base politica e cerca di trasformare i giornalisti, gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali in una docile categoria di propagandisti professionali al suo servizio. Una strategia analoga diretta alla creazione di una classe intellettuale e artistica completamente dipendente dallo Stato, perfino per il diritto stesso al lavoro, fu usata con grande successo da entrambi i regimi, nazista e fascista. In Italia la legge obbligava chiunque aspirasse a esercitare un'arte o una professione a iscriversi all'albo ufficiale del rispettivo sindacato, mentre il decreto fascista del 1928 proibiva l'iscrizione agli albi alle persone responsabili di una "pubblica attività contraria all'interesse nazionale". Questa vaga definizione dava al dirigente sindacale o al prefetto ampie possibilità di cancellare dall'albo le persone politicamente sospette. La tessera fascista o un'attestazione di "buona condotta morale e politica" erano i necessari requisiti politici per iscriversi (v. Cannistraro, 1975, pp. 35 e 185). La legge nazista del 1933 istituiva l'Associazione della cultura del Reich, suddivisa nelle sei Corporazioni della letteratura, della stampa, dell'arte, della radio, del teatro e del cinema. Per poter esercitare il proprio mestiere diventava necessario iscriversi alla relativa corporazione. Così gli scrittori, gli artisti e i giornalisti erano obbligati a collaborare con lo Stato e ad accettare i principî del nazismo. Caratteristica particolare di ogni regime totalitario è che lo Stato, spinto dalla necessità di istituzionalizzare il controllo sulla cultura e sull'informazione, crea inevitabilmente un apparato amministrativo specializzato, che unisce in sé le funzioni della censura e della propaganda e dirige la politica culturale del regime.
Come questo apparato si sia sviluppato sotto il fascismo è particolarmente esemplare. Dopo l'ascesa al potere, Mussolini firmò un decreto che metteva l'Ufficio Stampa, l'agenzia precedentemente incaricata di distribuire i comunicati ufficiali, alle dirette dipendenze del capo del governo. Nei primi anni l'Ufficio Stampa raccoglieva informazioni sulla stampa d'opposizione, che servivano per sequestrare i giornali antifascisti e chiudere le tipografie, e nello stesso tempo forniva l'interpretazione ufficiale degli avvenimenti. La progressiva centralizzazione del controllo e il suo estendersi sui nuovi mezzi d'informazione e sulle forme d'espressione artistica fecero sì che l'Ufficio Stampa diventasse il prototipo di una vasta organizzazione burocratica che monopolizzò praticamente l'opera della censura e della propaganda per tutto il periodo fascista. Lo Stato non poteva né lasciare il controllo sulla stampa e le funzioni della censura nelle mani del potere locale, né moltiplicare i centri di controllo. Così l'Ufficio Stampa inglobò l'ufficio analogo del Ministero degli Esteri e la nuova sezione per la stampa estera cominciò a compilare elenchi di giornali e riviste straniere, noti per i loro atteggiamenti antifascisti, ordinandone il sequestro alle dogane e alle poste. L'Ufficio Stampa sorvegliava le attività dei giornalisti stranieri in Italia, limitando il loro accesso alle notizie e revocando ai 'disobbedienti' il permesso di soggiorno. All'Ufficio Stampa fu anche affidato il compito di distribuire i sussidi finanziari ai quotidiani, alle riviste e ai singoli giornalisti, per assicurarsi i loro servizi propagandistici.All'inizio degli anni trenta all'Ufficio Stampa fu aggiunta la sezione propaganda, che elaborava e diffondeva materiale propagandistico, oltre a dirigere una rete di scrittori e conferenzieri utilizzati per campagne propagandistiche. L'Ufficio Stampa emanava 'ordini' e 'disposizioni' diretti alla stampa, il cui numero crebbe di anno in anno fino a superare, nella seconda metà del decennio, le quattromila unità l'anno. Le disposizioni, col passar del tempo, divennero sempre più dettagliate, determinando non solo il contenuto delle notizie, ma anche la forma, fino a prescrivere i corpi tipografici, i titoli o le fotografie da utilizzare. Intorno alla metà degli anni trenta, in seguito al moltiplicarsi dei suoi compiti e dei suoi poteri decisionali, l'Ufficio Stampa fu trasformato nel Ministero per la Stampa e la Propaganda, ribattezzato, nel 1937, Ministero della Cultura popolare. Questi cambiamenti portarono a un considerevole aumento del personale e rafforzarono ulteriormente il controllo del regime fascista su tutti gli aspetti della vita culturale. Il Ministero assorbì tutti i settori della censura e della propaganda, incluse le direzioni generali per la stampa italiana ed estera, per la propaganda, per il teatro e per il cinema, e tutelò molte istituzioni culturali quali l'Istituto Luce, la Discoteca di Stato, i teatri San Carlo e La Scala, ecc.Lo Stato fascista, sin dall'inizio, individuò le possibilità dei nuovi mezzi di comunicazione, come la radio e il cinema, per la propaganda di massa e si sforzò di porli sotto il suo pieno controllo. Per esempio, un decreto riservava allo Stato gli impianti per le comunicazioni radiofoniche, e il governo poteva affidarli in concessione a società private, revocando il permesso in caso di emissione di notizie dannose al regime. Un Comitato superiore di vigilanza sulle radiodiffusioni, che diventò più tardi la direzione speciale del Ministero per la Propaganda, esaminava i testi dei programmi, censurava quelli che non si conformavano alla politica del governo e introduceva programmi politici tipo "Le cronache del regime". Per rafforzare il controllo fu posto un limite alla durata degli annunci pubblicitari, che nel 1937 furono soppressi definitivamente.
La stessa unificazione della censura e della propaganda nelle mani di un unico organismo burocratico caratterizzava anche la Germania nazista. Questa fusione, che i nazisti perseguirono con maggiore coerenza e più alto grado di centralizzazione rispetto ai fascisti, permetteva allo Stato di passare immediatamente dalla censura, intesa come attività essenzialmente restrittiva e punitiva, a compiti 'costruttivi', che soddisfacessero le esigenze sociali e culturali del regime. L'organismo principale per l'organizzazione della cultura nazista fu il famigerato Ministero della Propaganda, il cui capo, Goebbels, occupava anche la carica di presidente dell'Associazione della cultura del Reich e quella di capo dell'Ufficio di sorveglianza sulla letteratura 'oscena'. Il governo nazista creò altre strutture burocratiche per il controllo dell'informazione e della vita culturale, come l'Istituto per la promozione delle lettere tedesche e la Commissione per la protezione della letteratura nazionalsocialista. Le loro giurisdizioni e funzioni talvolta si sovrapponevano e si rafforzavano a vicenda, secondo una tattica usata da Hitler per organizzare il controllo reciproco e aumentare lo zelo dei censori e dei propagandisti. Per tutto il periodo nazista fu in atto la pratica di compilare liste nere dei libri scritti dai nemici del regime o che "minacciavano lo spirito artistico nazionalsocialista". Così l'indice dei libri proibiti compilato nel 1935 conteneva 3.601 titoli e 524 nomi di autori; fino alla fine del 1944 questi indici furono stampati ogni mese. I censori di Goebbels praticavano regolarmente controlli ed esami meticolosi delle librerie e delle biblioteche.
Per esempio, come risultato di un controllo di 5.000 librerie e librerie d'antiquariato, effettuato nel 1937, furono confiscati 300.000 "scritti proibiti" (v. "Das war ein Vorspiel nur...", 1983, pp. 90-91).
Fulcro della politica culturale nazista era il razzismo, fondato su presunti motivi biologici, di cui l'epurazione di intellettuali, scrittori e artisti ebrei rappresenta un capitolo particolare. L''arianizzazione' della vita culturale, anche tramite la proibizione imposta agli ebrei di lavorare nell'ambito della letteratura, dell'arte, del cinema e del giornalismo, precedette la politica dell'annientamento sistematico della popolazione ebraica.Epurati gli avversari del regime e creato un potente apparato di censura, lo Stato totalitario rende i mass media e il mondo dell'arte materialmente dipendenti dalla politica e incapaci di resistere alla sua pressione, mentre utilizza a fondo il proprio monopolio dell'informazione e dell'interpretazione per una 'propaganda totale' e per la manipolazione dell'opinione pubblica. Le dittature fascista e nazista, incoraggiando determinati valori, stereotipi, atteggiamenti, e sopprimendo quelli dell'opposizione, crearono un elaborato sistema di proibizioni e prescrizioni, un insieme di censure 'negative' e 'positive', unite in una più ampia concezione della censura come parte integrante della politica culturale del totalitarismo. La trasformazione della realtà sociale rimaneva sempre l'obiettivo da raggiungere nel futuro, mentre nel presente si poteva plasmare l'informazione o la rappresentazione della realtà con la visione della futura nuova società. Ogni definizione delle scelte culturali del regime totalitario aveva come conseguenza inevitabile la censura di temi e valori giudicati non fascisti. Per esempio, la glorificazione delle virtù militari e della politica espansionistica aveva come corollario necessario la proibizione di film pacifisti come il francese La grande illusione o l'americano All'Ovest niente di nuovo.
L'obiettivo di uniformare intorno a una visione della società fascista 'ideale' tutta la popolazione epurata dai nemici politici e razziali spinse l'apparato censorio-propagandistico a campagne contro la cronaca nera, contro le storie di scandali pubblici e privati, contro tutto ciò che poteva stimolare una morbosa curiosità. Secondo la propaganda, il regime aveva già eliminato le cause socioeconomiche dell'attività criminale e i mass media dovevano solo confermare questo successo, presentando il quadro di una società senza delitti, povertà, immoralità e dissenso. Nessuna 'notizia allarmistica', neppure le informazioni sulle epidemie o sulle calamità naturali, doveva apparire sulla stampa quotidiana, per non danneggiare il prestigio dello Stato.Il programma demografico del regime mirava a una rapida crescita della razza e dei popoli 'superiori' e cercava di rafforzare la famiglia tradizionale e il culto della maternità. Tradotti nell'ottica bigotta della censura questi obiettivi si trasformavano nel divieto di pubblicare materiale di 'carattere osceno', dagli articoli sulle malattie veneree alle fotografie di donne in abiti succinti; in ultima analisi la definizione di osceno si basava semplicemente sui gusti dei gerarchi fascisti.Il nazionalismo fascista con la propaganda dell''italianità' e della 'romanità' aspirava a promuovere l'unità nazionale tramite l'autarchia culturale, limitando la circolazione di letteratura, film, musica e quotidiani stranieri. La campagna xenofoba fu coronata dal tentativo di eliminare dalla lingua italiana anche le parole e le espressioni straniere. Un altro aspetto della spinta all'integrazione nazionale fu rappresentato dalla lotta della censura contro le pubblicazioni che incoraggiavano l'uso dei dialetti e contro le opere letterarie che li utilizzavano.L'obiettivo più ambizioso del regime fascista era la creazione dell''uomo nuovo', pronto a "credere, obbedire, combattere"; per questo erano considerate sovversive le persone dotate di spirito critico e altrettanto sovversiva la stessa critica letteraria e artistica. Questo atteggiamento, che è analogo nei regimi fascista e nazista, è estremamente indicativo.
Il nazismo fin dall'inizio definì la critica letteraria "distruttiva". Un decreto di Goebbels del 1936 molto coerentemente la proibì, ponendo al suo posto "le presentazioni dei libri" dal punto di vista dell'utilità o meno al regime. Nello stesso spirito il Minculpop proibiva ai giornali di criticare i film ufficialmente approvati, e il ministro Alfieri, senza mezzi termini, suggeriva di "parlare ampiamente dei film che la critica approva", ma di "tenersi al riassunto strettissimo dell'argomento per i film che la critica non approva" (v. Cannistraro, 1975, p. 301).Lo sviluppo della stretta alleanza tra la Germania nazista e il regime fascista ebbe come conseguenza l'ulteriore rafforzamento della censura e del controllo totalitario in Italia. Lo studio della struttura del Ministero di Goebbels aiutò i fascisti a perfezionare il loro apparato censorio-propagandistico. L'adozione delle leggi razziali, nel 1938, portò alla progressiva scomparsa delle pubblicazioni ebraiche in Italia. Ancora nel 1937 Mussolini aveva respinto la proposta di eliminare i periodici ebraici, ma dopo l'accordo culturale fra l'Italia e la Germania del 1938 e il passaggio alla politica razziale, la stampa ebraica fu immediatamente soppressa. Una nuova organizzazione burocratica appositamente creata, l'Ufficio studi e propaganda sulla razza, coordinò tutta la propaganda razziale nel paese. Fu proibita anche la letteratura di "tendenza antitedesca". Il Ministero della Propaganda tedesco inviò a Roma una lista di scrittori indesiderati e una lista nera delle case editrici di tendenza antinazista proibite nel Terzo Reich. Inoltre, ogni turista tedesco in Italia doveva impegnarsi in un'attività di "censore" e informare le stazioni di polizia locale, se avesse trovato nelle librerie o nelle edicole "letteratura sobillatrice" (v. Petersen, 1986, p. 371).
L'influenza reciproca tra nazismo e fascismo nella sfera della censura e della politica culturale attesta le affinità strutturali e l'uniformità degli obiettivi dei due regimi totalitari, di cui bisogna tuttavia rilevare anche le notevoli differenze.Il totalitarismo rimane sempre in qualche misura un obiettivo non integralmente realizzabile. La presenza di forze sociali relativamente indipendenti e autonome nonché di effettivi rapporti di mercato rappresenta la principale limitazione dello Stato totalitario. Queste limitazioni erano assai più accentuate nell'Italia fascista che nella Germania nazista. I leaders sia nazisti che fascisti si rendevano conto che il controllo assoluto del potere politico sull'informazione e sulla vita culturale richiedeva la soppressione della proprietà e dell'iniziativa privata. "In un regime come il nostro, totalitario e autoritario, non si può consentire che rimanga abbandonato al dominio della speculazione privata il settore della stampa", affermò nel 1937 Alfieri (v. Cesari, 1978, p. 54).Non mancarono quindi le proposte di nazionalizzare i mass media, per sottoporli al pieno dominio statale. Il regime nazista si avvicinò a questo ideale quando, nel 1941, assorbì tutta l'industria cinematografica dalla produzione alla distribuzione, alla proiezione dei film, e trasformò la cinematografia tedesca in uno strumento potentissimo della sua propaganda. Il regime mussoliniano, invece, non poteva economicamente impegnarsi nella produzione dei film, finanziando direttamente le società cinematografiche. Così cercò di costringere i produttori privati a seguire le direttive della politica fascista. Combinando i divieti della censura e il controllo sulla distribuzione e sulle sale di proiezione con aiuti finanziari, prestiti e premi, il Ministero della Cultura popolare esercitò una forte influenza sulla cinematografia. Nello stesso tempo i produttori privati disponevano di margini di libertà e, spinti dal profitto, cercavano di soddisfare i gusti del pubblico, violando spesso i dettami della politica culturale fascista.
La concorrenza tra i diversi organi d'informazione contrapponeva talora interessi commerciali a considerazioni politiche e rendeva difficile e incompleto il controllo statale su intellettuali e artisti. Inoltre, la presenza in Italia dei mass media cattolici, non sottoposti alla censura fascista, rappresentava un ulteriore impedimento alle aspirazioni totalitarie del regime. Anche se la Chiesa cattolica riconosceva la necessità di un controllo rigoroso sui mass media e spesso appoggiava la politica culturale mussoliniana, l'esistenza stessa della stampa e delle sale cinematografiche cattoliche costituiva un'alternativa ai mass media fascisti. Perciò il potere fascista cercò di limitare l'accesso alle sale parrocchiali ai soli fedeli della parrocchia, proibendo anche la proiezione di film non puramente religiosi; al tempo stesso cercò di limitare il numero di film commerciali prodotti da società private. Queste misure tuttavia non potevano compensare le debolezze strutturali dello Stato fascista. Come giustamente conclude Cannistraro, "nell'Italia fascista la produzione di film fu in buona parte una faccenda di industriali privati e non divenne pertanto mai quell'efficiente e docile strumento culturale che in linea di principio il totalitarismo fascista richiedeva, e che i nazisti erano di fatto riusciti a costruire" (v. Cannistraro, 1975, p. 322).
L'analisi dell'evoluzione della censura negli Stati nazifascisti evidenzia alcune tendenze caratterizzanti i regimi che aspirano al totalitarismo: anzitutto la spinta a concentrare tutti gli apparati di controllo culturale, la censura e la propaganda nell'ambito di un unico organismo. Ne consegue il tentativo di fondere la censura e la propaganda, usandole come strumento positivo della politica culturale. Infine i regimi totalitari del XX secolo si sforzarono di organizzare un'attività censoria rigida e onnicomprensiva, soprattutto sui mass media e su quelle nuove forme di comunicazione che si erano sviluppate parallelamente agli Stati totalitari e potevano essere da loro monopolizzate con maggior facilità.Non si dimentichi, però, che nei regimi nazifascisti la censura nel senso tradizionale del termine svolse sempre un ruolo quasi secondario rispetto ad altri molto più efficaci metodi di controllo, come i mezzi di coercizione amministrativa e l'eliminazione fisica degli oppositori e delle loro opere. Nella fase della costruzione della società totalitaria il controllo terroristico sull'informazione e sulla vita culturale ha sempre il sopravvento, mentre la censura riprende importanza primaria nella fase successiva del mantenimento del sistema totalitario, a cui i regimi nazista e fascista, spazzati via dalla seconda guerra mondiale, non sono mai arrivati. L'evoluzione della censura nelle società industriali di tipo sovietico assume perciò per gli studiosi del fenomeno un significato speciale. (Naturalmente l'analisi che segue si riferisce all'epoca pregorbacioviana).
Nelle società di tipo sovietico la proprietà statale dei mezzi di produzione, la pianificazione centralizzata e il dominio autoritario esercitato dal partito unico sono indissolubilmente legati, sicché il potere politico onnipervasivo del regime monopartitico risulta estremamente rafforzato dalla logica accentratrice imposta a un'economia in cui le forze di mercato si sono estinte o considerevolmente ridotte. Un sistema del genere concentra nelle mani di un'unica autorità politico-economico-culturale suprema un potere soverchiante, che si esplica nel controllo assoluto delle risorse materiali e umane. Dal canto suo la censura raggiunge, in queste società, i suoi più alti livelli storici. In effetti il controllo totale su ogni forma di comunicazione politica costituisce una componente essenziale del regime monopartitico. Da questo punto di vista una società di tipo sovietico non si differenzia da una dittatura esercitata da un partito unico in una società di mercato. Ciò che rende la censura praticata in queste società - e specialmente nell'Unione Sovietica - un fenomeno nuovo nella storia del controllo delle forme di espressione è la fusione dell'ambito politico con quello economico (che di fatto diventano indistinguibili), unita alla capacità tecnologica di controllare dal centro tutti i mezzi di comunicazione di massa. Quando il potere politico comprende tutte le altre forme di potere, allora il controllo sulla comunicazione politica si trasforma nel controllo totale di tutte le forme di espressione sociale.
In queste condizioni la censura si identifica con tutti i processi tramite i quali si impongono restrizioni alla raccolta, alla diffusione e allo scambio di informazioni, opinioni e idee. La censura si estende fino ad 'avvolgere' tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla stampa al cinema, alla radio, alla televisione e, in tempi più recenti, ai calcolatori.Il partito al governo continua a prospettare l'obiettivo dell'edificazione della società comunista come mezzo per legittimare il proprio monopolio del potere; esso cerca di creare nelle masse un consenso pressoché completo su questo programma e sulla sua desiderabilità e fornisce regolarmente prove dei progressi compiuti verso la sua realizzazione. Ogni obiezione o differenza di opinione viene ritenuta, perciò, un attacco alla legittimità dello Stato e un tentativo di mutare la struttura di potere esistente. Come scrisse l'eminente giurista sovietico A. Ja. Vyšinskij: "Nel nostro Stato, naturalmente, i nemici del socialismo non possono godere della libertà di parola, di stampa, ecc." (v. Vyšinskij, 1938). Quindi la funzione più importante della censura è quella di aiutare il partito a conservare il monopolio del potere politico garantendogli quello dell'informazione.Una seconda importante funzione della censura è quella di 'proteggere' la popolazione dall'influenza di informazioni provenienti dall'estero. In una situazione di libera competizione fra sistemi sociali la principale pretesa delle società di tipo sovietico - quella di riuscire a fornire il più alto tenore e le migliori condizioni di vita - potrebbe essere sottoposta a verifica mediante un confronto diretto. Compito della censura è impedire che ciò avvenga; suoi mezzi sono l'attento controllo dei viaggiatori alla dogana, della posta e delle conversazioni telefoniche, le continue interferenze per impedire l'ascolto dei programmi radiofonici stranieri, e così via. Essa cerca di creare una 'immagine di infallibilità' del governo e di produrre una coscienza popolare incapace di percepire il contrasto tra la realtà quotidiana e l'immagine che ne forniscono i mass media.
Questa censura capillare può apparire incompatibile con le esigenze basilari delle contemporanee società industriali o in via di industrializzazione, in quanto, come già accennato, la rivoluzione tecnologica permanente dipende dalla capacità di accumulare quantità crescenti di informazioni e dalla disponibilità di mezzi sempre più perfezionati per trasmetterle su scala nazionale e internazionale. Inoltre la società industriale attribuisce un altissimo valore all'innovazione e alla creatività umana, un atteggiamento ovviamente incompatibile con il genere di censura praticato nelle società di tipo sovietico. Bisogna comunque tener presente che, durante i primi stadi dell'industrializzazione, la censura non scoraggia indiscriminatamente qualsiasi innovazione né soffoca il progresso tecnologico. Lo Stato a partito unico, nel cercare di raggiungere i paesi industriali più avanzati, si limita a usare la censura per sopprimere tutte le linee di sviluppo alternative che contrastino con quella approvata dall'autorità politica. La censura diventa uno strumento di mobilitazione sociale e un mezzo per concentrare le energie della società convogliandole verso la realizzazione di determinati obiettivi chiaramente definiti.
La censura dirige il libero flusso delle informazioni entro canali controllati dal regime, senza sopprimere, in linea di principio, le innovazioni approvate dalle autorità politiche. Il sistema incoraggia un particolare tipo di innovazione, che, in sostanza, si riduce all'imitazione di certi sviluppi tecnologici prescelti, già sperimentati con successo in altre società industriali.
Comunque, negli stadi successivi della società industriale, basati sullo sviluppo delle comunicazioni e sulle nuove tecnologie dell'informazione, la censura diventa totale, con effetti sempre più controproducenti. I censori tendono a farsi più rigidi e ad acquisire il potere, cui nessuno è in grado di opporsi, di limitare indiscriminatamente l'informazione. La censura inizia a distorcere persino l'informazione necessaria all'apparato politico per pianificare lo sviluppo sociale, aggrava gli errori dei pianificatori centrali e genera una visione ultraconservatrice e antinnovativa. In questo stadio la leadership politica cerca di stabilire un nuovo equilibrio tra le conseguenze contraddittorie della censura. Incapace di abolire la censura, diventata ormai uno strumento indispensabile per la sopravvivenza del sistema monopartitico, l'autorità politica prova a ridurne la portata e a trasformarne i metodi in modo da renderli più trasparenti e meno arbitrari e controproducenti. È questo lo schema di sviluppo della censura, intesa come istituzione sociale, rintracciabile nella storia delle società di tipo sovietico e, anzitutto, nella storia sovietica.
Il decreto sulla stampa fu promulgato dal Consiglio dei commissari del popolo il 9 novembre 1917, a due giorni dall'inizio della rivoluzione bolscevica. Esso imponeva, con effetto immediato, "misure temporanee e straordinarie" di censura su ogni pubblicazione, per impedire alla propaganda borghese l'organizzazione delle forze controrivoluzionarie. "Avevamo già annunciato - dichiarò Lenin - che se avessimo preso il potere avremmo chiuso i giornali borghesi. Tollerarne l'esistenza significherebbe cessare di essere socialisti". Questo decreto era in vigore a settant'anni dalla sua adozione e in una Unione Sovietica ormai trasformata in superpotenza.All'inizio del 1918 venne costituito il Tribunale rivoluzionario per la stampa, che diventò immediatamente uno strumento per reprimere ogni opposizione allo Stato. Nel 1922 venne sostituito dalla Commissione superiore contro la pubblicazione dei segreti militari e di Stato, generalmente nota come Glavlit; la Commissione era l'organo ufficiale della censura, annesso al Consiglio dei ministri e strettamente collegato al KGB. Le responsabilità della censura crebbero di pari passo con il rafforzamento dell'apparato del partito-Stato durante il periodo staliniano. Questa espansione della censura organizzata fu accompagnata dalla liquidazione delle case editrici private e gestite in cooperativa, dallo scioglimento dei gruppi letterari e dalla creazione di varie unioni di professionisti 'creativi' (scrittori, artisti, pittori, registi, ecc.) poste sotto la supervisione dello Stato.
La censura fu integrata da uno spietato terrorismo nei confronti degli intellettuali; durante il periodo staliniano più di seicento scrittori vennero fucilati o mandati nei campi di concentramento. Inoltre, proprio perché la censura tende a negare la propria esistenza, ogni riferimento alla Glavlit e alle sue attività era proibito e il lettore di opere sovietiche in genere non aveva idea dei tagli apportati al testo originale. Negli ultimi due decenni, comunque, sono diventati disponibili studi e documenti importanti, che forniscono un quadro dettagliato dei meccanismi della censura nelle società di tipo sovietico (Unione Sovietica, Polonia, Cecoslovacchia, e così via).
La censura sovietica può essere compresa in tutta la sua portata solo tenendo conto del fatto che tutto ciò che si pubblica o che viene in altra forma divulgato ufficialmente, in Unione Sovietica, è soggetto ad approvazione preventiva e quindi a censura. Secondo i calcoli degli esperti, intorno alla metà degli anni sessanta la censura poteva già contare su un apparato di circa 70.000 funzionari. La censura sovietica si articola in due fasi: quella, più importante, della censura preventiva e quella dell'intervento successivo alla pubblicazione; in relazione a queste due fasi l'apparato presenta una struttura stratificata. Le redazioni dei giornali e delle case editrici rappresentano il primo livello: i loro direttori fanno da intermediari tra censori e autori, che non possono avere contatti diretti, spingendo gli autori a introdurre o approvare cambiamenti che possano facilitare il passaggio del materiale attraverso le maglie della censura, e conducendo laboriose trattative con i censori per indurli a una più elastica interpretazione del lecito.
Questa censura preliminare, risultante dalla collaborazione fra direttori e censori di professione, è normalmente così perfetta che i casi di intervento dopo la pubblicazione sono rari; ne esistono comunque esempi anche clamorosi, come quello del libro 22 giugno 1941 dello storico sovietico A. Nekrič, che ha per oggetto l'impreparazione sovietica all'attacco nazista del 1941. Il manoscritto superò l'esame di cinque distinte commissioni di censura, ottenne il loro visto e fu pubblicato nel 1965; il testo venne poi condannato dalla massima autorità politica, e le copie sequestrate e distrutte (v. Nekrič, 1979).L'assai complessa gerarchia degli uffici territoriali di censura opera sulla base di un 'indice delle notizie che la pubblica stampa non può divulgare', compilato dall'ufficio centrale e regolarmente aggiornato. Questo indice è un volume di molte centinaia di pagine, contenente istruzioni minuziose circa notizie e persone su cui deve cadere il silenzio. Nel periodo staliniano dalle biblioteche sovietiche furono eliminati i libri citati nell''elenco delle vecchie edizioni vietate nelle pubbliche biblioteche', che, aggiornato ogni anno, in alcuni casi giunse a contenere fino a 12.000 titoli. Successivamente, oltre alla massa dei libri 'nocivi' distrutti da tempo, l'indice forniva regolarmente ai censori nuovi nomi di autori e uomini politici che non potevano essere citati sulla stampa sovietica. I censori, a loro volta, impartivano ogni settimana ai direttori dei giornali e ai funzionari responsabili dei mass media disposizioni relative alle notizie da non divulgare e ai nuovi nomi da non menzionare. Per fare solo alcuni esempi degli argomenti vietati, fino al 1987 era proibito dare notizia delle calamità naturali; degli incidenti nel settore dei trasporti e dell'industria che si verificavano nel paese; della situazione ecologica nelle varie regioni; della penuria di generi alimentari; degli stipendi dei quadri del partito, delle forze armate e del KGB; dell'accesso da parte dell'élite politica alla valuta pregiata, a centri d'acquisto, a luoghi di villeggiatura riservati e ad altri privilegi; del tenore di vita nelle società industriali occidentali, e così via. Cosa ancora più assurda, era proibito pubblicare dati sulla produttività delle aziende e sui raccolti nelle diverse regioni del paese, statistiche sul crimine, sulla mortalità, sul numero di fedeli praticanti e di detenuti e, più generalmente, ogni tipo di statistica su scala nazionale non riportata nei rapporti dell'Ufficio centrale di statistica. L'incidenza della censura sulle statistiche sovietiche potrebbe essere rappresentata graficamente in base alle seguenti cifre: i dati del censimento sovietico del 1926 furono pubblicati in 56 volumi; quelli del censimento del 1959 in 17; nel 1970 furono sufficienti 7 volumi e per i dati dell'ultimo censimento (1979) bastò un unico volume.
L'attività dell'immenso esercito dei censori e dei direttori di giornali e case editrici distorce sia la creazione che la divulgazione di informazioni, idee e opinioni. La censura totale ha un profondo impatto non solo sul linguaggio, inteso come mezzo oggettivo di espressione, ma anche sull'universo soggettivo dell'autore: ogni scrittore, per paura o per cinismo, coltiva e sviluppa un censore dentro di sé. Questa pratica dell'autocensura, attraverso la quale l'autore diventa il primo critico, curatore e censore del proprio lavoro, riflette lo smisurato potere dello Stato e l'impotenza dell'individuo.Una delle conseguenze più caratteristiche della censura totale praticata nelle società di tipo sovietico è l'enorme divario fra linguaggio pubblico - strumento di espressione di simboli e dogmi ufficiali - e linguaggio privato - mezzo per esprimere i propri pensieri e i propri bisogni. Il linguaggio ufficiale sovietico è un linguaggio che ha attraversato il prisma dell'ideologia dominante, pieno di clichés, stereotipi cristallizzati, frasi fatte e citazioni marxiste. Come notò Koestler, già negli anni trenta questo gergo internazionale serviva per mantenere "una piena unanimità" all'interno della società sovietica e tra i sostenitori stranieri del sistema sovietico (cfr. A. Koestler, in Crossman, 1963, pp. 47-50). I censori non soltanto sopprimono la libertà di espressione e mettono al bando parti del lessico, ma praticano una politica linguistica che influenza i mass media, mettono in circolazione certe forme linguistiche, correggono e riscrivono i testi degli autori. Come conseguenza di tutto ciò si forma quello che il noto critico sovietico K. Čukovskij ha chiamato "ufficialese", cioè "un gergo ingannevole e disonesto, la cui intera struttura lessicale e sintattica rappresenta una sorta di cortina fumogena per nascondere la verità" (v. Čukovskij, 1962, p. 123). Questo linguaggio pubblico, creato con il contributo della censura, costituisce un mezzo assai efficace per giustificare la politica dello Stato a partito unico, in quanto esprime l'ottimismo ufficiale e nasconde e confonde i problemi. Orwell, che ha studiato attentamente le politiche linguistiche degli Stati totalitari, ne ha fornito una satira nella sua definizione della "Neolingua": "Fine della Neolingua non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing [Socialismo inglese], ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero". Una volta che la Neolingua fosse stata universalmente adottata, "un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principî del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole" (v. Orwell, 1949; tr. it., p. 331).
Lungi dall'essere una mera fantasia, la satira orwelliana si adatta perfettamente alla realtà delle società di tipo sovietico. Così un diplomatico sovietico, Gnedin, per spiegare l'incapacità di Stalin di valutare correttamente le numerose informazioni circa l'imminente attacco nazista all'Unione Sovietica nel 1941, sottolineava il fatto che queste gli arrivavano formulate nel "linguaggio d'apparato" ed espresse attraverso una fraseologia che spesso le viziava al punto da trasformare il significato del messaggio nel suo opposto (v. Gnedin, 1977, pp. 56-60). Nel periodo brežneviano, la leadership politica annoverava fra gli obiettivi principali della censura quello di "impedire le associazioni non controllabili", obiettivo ovviamente irraggiungibile senza l'impiego sistematico di un linguaggio pubblico ufficiale. Inoltre l'uso di un tale linguaggio diventa un criterio per valutare la fedeltà al sistema: sottomettendosi a questo rituale, gli autori dimostrano di accettare il regime politico, mentre l'incapacità di usare il linguaggio ufficiale è un indice inequivocabile di opposizione politica o di tendenze sovversive.La lotta contro la censura onnipervasiva ha dato vita a una varietà di tattiche anticensura, tra le quali meritano di essere citate l'uso del linguaggio esopico e il crescente ricorso al samizdat, o 'autopubblicazione'.
Un modo per eludere censura e autocensura è quello di impiegare un approccio obliquo, così da celare il significato reale dietro allusioni ed ellissi. Il linguaggio esopico è "un particolare genere letterario, la cui struttura permette un'interazione tra autore e lettore e nello stesso tempo nasconde agli occhi del censore il contenuto inammissibile" (v. Loseff, 1984, p. X). Il linguista R. Jakobson sottolinea il fatto che "una censura invadente e inflessibile diventa un fattore essenziale nella storia della letteratura russa [...], l'attitudine a leggere tra le righe si sviluppa in misura insolita nel pubblico dei lettori e il poeta indulge ad allusioni ed ellissi o - per usare l'espressione idiomatica russa - al 'linguaggio esopico"' (v. Jakobson, 1975, p. 50). Secondo alcuni autori lo sviluppo del linguaggio esopico è l'unico beneficio arrecato alla letteratura dalla censura, che, a detta del poeta Brodskij, "rappresenta, senza volerlo, uno stimolo al linguaggio metaforico" (v. Loseff, 1984, p. 12).Un'altra ben nota reazione alla censura totale praticata nella società sovietica è stata l'apparizione del samizdat. La letteratura ritorna a una 'situazione pregutenberghiana', in cui gli autori scrivono a macchina o incidono su nastro un ristretto numero di copie dei propri lavori e le distribuiscono agli amici che, a loro volta, possono ripetere la medesima operazione, e così di seguito. A partire dalla metà degli anni sessanta centinaia di testi non censurati, destinati soprattutto all'élite intellettuale e a gruppi ristretti di cittadini politicamente consapevoli, sono stati messi in circolazione in questo modo. Alcuni di questi testi letterari e politici alla fine riescono a raggiungere un altro paese, dove spesso vengono pubblicati.Ricapitolando l'esperienza di settant'anni di censura totale in Unione Sovietica, si può dire che negli stadi iniziali dello sviluppo della società industriale la censura può rappresentare uno strumento per mobilitare la popolazione e per mantenere la stabilità interna in un regime a partito unico, che ha come obiettivo basilare la trasformazione della società dall'alto. Ma arriva il momento in cui la legge generale della società industriale, secondo cui le restrizioni alla libera circolazione delle conoscenze nuocciono alla creatività e alla produttività del lavoro, comincia a farsi sentire anche nelle società di tipo sovietico.
La censura totale, lungi dal creare unanimità e disciplina sociale, contribuisce a ingenerare una perdita di credibilità. In una tipica dichiarazione contro la censura un giornalista ceco fece notare: "Era la censura che stava rendendo impossibile parlare o farsi una chiara idea della situazione penosa e delle prospettive dell'economia nazionale, dell'effettiva esclusione della classe operaia dalle decisioni politiche, dello stato di degradazione materiale e di privazione dei diritti civili in cui la classe operaia versava [...]. Era la censura che nascondeva il processo attraverso cui l'attività di uno Stato di polizia burocratico favoriva la rozzezza e la prepotenza, proteggeva la mediocrità, soffocava l'iniziativa, riduceva le persone all'apatia" (v. Schöpflin, 1983, pp. 13-14).Nello stadio in cui il fattore umano e lo sviluppo delle comunicazioni determinano il progresso tecnologico e sociale, le società di tipo sovietico cominciano a perdere il passo. Per cercare di rovesciare questa tendenza, Gorbačëv ha avviato la politica della glasnost' ('trasparenza'), tesa a promuovere un'informazione più completa e più corretta. L'ondata degli interventi censori è stata ovviamente arginata e i poteri della censura sono stati considerevolmente ridotti; la censura preventiva sui mass media è stata praticamente abolita e il controllo sulle pubblicazioni è diventato prerogativa dei direttori di giornali e degli editori; diverse stazioni radio occidentali possono ora essere ascoltate, in quanto si è smesso di produrre interferenze; è stata promulgata una legge sulla stampa che protegge la libertà di informazione, mentre continuano a essere proibiti il razzismo, la propaganda bellica e la diffusione di notizie false e diffamatorie. Un considerevole progresso nel ridurre la portata della censura e nel proteggere la libertà di espressione è, dunque, innegabile.
A conclusione di questa rassegna storica degli atteggiamenti verso la censura, si può dire che le idee elaborate al riguardo nel contesto della tradizione liberale occidentale si sono gradualmente imposte in tutto il mondo. Quale che sia la prassi effettiva nelle società di tipo sovietico o nei vari regimi dittatoriali, i loro governi sono costretti a proclamare la loro piena accettazione della libertà di parola e la loro avversione nei confronti della censura. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite (1948) ha affermato il diritto fondamentale di tutti gli uomini di "chiedere, ottenere, fornire informazioni e scambiarsi idee tramite qualsiasi mezzo di comunicazione e attraverso tutte le frontiere". L'Atto finale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, firmato a Helsinki nel 1975 dai rappresentanti di 35 paesi, contiene un appello a favore del libero flusso di informazioni tra Est e Ovest. Violazioni reiterate di questi principî o un inasprimento della censura non cambiano il fatto che simili atti politici non possono più trovare alcuna giustificazione presso l'opinione pubblica mondiale.
Lo sviluppo della tradizione liberale occidentale ha demolito alcune abituali razionalizzazioni della censura, come quella secondo cui alcune idee o informazioni sono 'false' o 'pericolose' in base ai criteri adottati dalle autorità costituite, e quindi dovrebbero essere soppresse; oppure, come la concezione elitistica secondo cui la censura è necessaria per proteggere le menti di coloro che sono incapaci o impreparati a discernere tra idee 'vere' e 'false'. Ma il dibattito sulla legittimità della censura in una società democratica si riaccende sempre. Il filosofo Marcuse, tra gli altri, ha propugnato un ritorno alla censura in nome della democrazia: "Il ragionamento democratico implica una condizione necessaria, cioè che la gente sia capace di decidere e di scegliere con cognizione di causa, che abbia accesso a informazioni attendibili e che, su questa base, le sue valutazioni siano il risultato d'un pensare autonomo" (v. Marcuse, 1965, p. 95).
Dato che una monopolizzazione dei mass media può portare a una manipolazione della coscienza collettiva e impedire alla maggioranza della gente di formulare giudizi fondati e di prendere decisioni razionali su questioni di pubblico interesse, Marcuse si è pronunciato a favore del ricorso a una censura preventiva e a provvedimenti per mettere a tacere i responsabili della disinformazione e della manipolazione della pubblica opinione. I critici di Marcuse, d'altra parte, obiettavano che tali proposte potrebbero finire col creare non una società democratica ma, al contrario, una società governata e controllata da una élite politica, dove la popolazione non avrebbe accesso alle informazioni essenziali. Con la legittimazione della censura crescerebbe il numero delle forze repressive nella società e si ridurrebbero al minimo le possibilità di partecipazione pubblica al dibattito politico.Il perenne problema della censura è proprio questo: mentre la tradizione democratica cerca di preservare in tutti i modi un equilibrio tra la libertà di espressione e la salvaguardia degli altri diritti umani, non si vede chi potrebbe essere autorizzato a stabilire il limite critico il cui superamento trasformerebbe la libertà di espressione in una violazione di altri diritti.
Nelle società industriali democratiche la censura si è andata progressivamente riducendo, ma non è mai scomparsa. Anzi, dato che l'esperienza storica dimostra che il diffondersi di certe idee, come quelle che alimentano l'odio razziale, può spingere ad azioni antisociali, e la divulgazione di determinate informazioni, come quelle concernenti la costruzione di armi nucleari e biologiche, può mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell'umanità, in una democrazia è possibile fondare la censura sulla consapevolezza che alcune idee e informazioni non debbano circolare, proprio nell'interesse e per la salvaguardia della razza umana. Una tale censura dimostra allora di essere il frutto del confronto politico in un ambiente democratico, dove la popolazione opera scelte consapevoli riguardo al proprio futuro.
Uno dei quesiti principali dell'attuale società industriale è se la tecnologia dell'informazione debba essere progettata in modo da intensificare il controllo centralizzato dell'informazione e non, piuttosto, per essere al servizio di un sistema policentrico. Il futuro della censura sarà determinato dallo sviluppo di nuove forme di comunicazione, capaci di accrescere la libertà di espressione individuale, e dall'affermarsi di nuovi metodi di controllo, atti a ridurre tutte le possibili conseguenze negative per altri, non meno preziosi, diritti umani.
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