Cent’anni di elezioni a Venezia
Sono passati oltre quindici anni da quando, nell’editoriale di un numero monografico dei «Quaderni dell’Osservatorio Elettorale», si lamentava la mancanza nel nostro paese di un consolidato filone di ricerche sistematiche sulle elezioni del passato; tra le possibili ragioni veniva ricordato come «lo scarso interesse degli studiosi è probabilmente all’origine della precaria situazione degli archivi e della documentazione ufficiale, la quale a sua volta, può sgomentare chi decide di cimentarsi su questo terreno»(1). Se oggi il bilancio appare meno lamentevole, grazie al moltiplicarsi degli studi di storia elettorale(2), non sembra invece migliorata la situazione degli archivi. La mancata realizzazione del progetto di un atlante storico elettorale italiano suona in qualche misura conferma dell’impasse. A questa desolante realtà non si sottrae neppure Venezia, che pure non difetta di archivi e di culto del passato. Ma chi si avventura alla ricerca di dati storici sulle elezioni resta sgomento nello scoprire che i risultati elettorali del primo dopoguerra per il singolo comune (nel caso di Venezia, oltre al comune capoluogo, sono coinvolti anche i comuni limitrofi aggregati nel corso degli anni Venti) sono reperibili praticamente solo su fonti giornalistiche, con tutti i limiti ben noti che queste presentano (lacune, refusi, errori). Se poi ci si aspetta di trovare, sempre per il primo dopoguerra, i risultati delle elezioni a livello delle circoscrizioni elettorali interne al territorio comunale oppure i dati necessari per costruire indicatori socioeconomici essenziali per descrivere il contesto locale, si va incontro a grosse delusioni. Meno disperante risulta la situazione solo per il secondo dopoguerra, pur in presenza di numerosi limiti e difficoltà(3).
Da una recente rassegna degli studi sui collegi elettorali in età liberale, in cui vengono opportunamente suggeriti alcuni criteri classificatori(4), emergono sia l’esiguità delle ricerche sul voto riferito a un ambito territoriale circoscritto e/o su un lungo arco temporale sia la notevole complessità di approcci e metodologie necessari per misurarsi con tutte le componenti dei processi politico-sociali sottostanti alle scelte di voto. Se si considera lo schema suggerito da Noiret come un utile promemoria delle dimensioni analitiche essenziali per la storia elettorale relativa a unità territoriali limitate (collegio elettorale, comuni capoluogo, ecc.), ci si rende conto di quanta strada deve ancora percorrere la ricerca per poter dire di conoscere gli aspetti demografici, le stratificazioni sociali, il ruolo delle culture dominanti e di quelle subalterne, i rapporti tra centro e periferia, il ruolo degli attori collettivi o di singole personalità nei processi di mobilitazione politica che hanno segnato lo sviluppo politico a livello locale. Alle già menzionate lacune degli archivi per le serie storiche dei risultati elettorali e delle statistiche demografiche ed economiche, si accompagna l’esiguità di dati e informazioni sistematici sulla consistenza organizzativa delle forze politiche, sindacali, associative e sui processi di mobilitazione collettiva che sono indispensabili per ricostruire il contesto dei comportamenti politico-elettorali. Le poche, pregevoli analisi esplorative su singole situazioni non bastano certo a colmare la distanza che permane tra il nostro e gli altri paesi in questo settore della ricerca.
Pur con questi grossi limiti nella disponibilità delle fonti ufficiali e non, si è cercato di ricostruire l’evoluzione del voto agli schieramenti e alle forze politiche presenti sulla scena politica veneziana a partire dal primo dopoguerra. Prima chiave di lettura è il confronto del dato veneziano con il dato veneto e nazionale, e questo per una esplicita scelta metodologica tesa a verificare gli elementi di specificità del voto in laguna. La seconda chiave di lettura è invece offerta dall’analisi del voto a livelli territoriali disaggregati rispetto al dato comunale, qui indicati con il termine generico di «circoscrizioni», ma che nella realtà veneziana assumono notevole valenza sul piano interpretativo: il riferimento è ai «sestieri» del centro storico, alle isole dell’estuario e agli ex comuni limitrofi della terraferma (Tav. 1)(5). Compatibilmente con la disponibilità di informazioni a questo livello di scala territoriale, si è anche cercato di leggere i risultati elettorali in relazione alle caratteristiche socioeconomiche del contesto e alla capacità di mobilitazione degli attori collettivi.
L’ampiezza dell’arco temporale affrontato ha poi suggerito l’opportunità di individuare una periodizzazione, che non può che tener conto della cesura imposta dal fascismo all’espressione di una dialettica della competizione elettorale(6).
La storia politica e amministrativa di Venezia contemporanea si può far iniziare dalla giunta Selvatico (1890-1895), espressione di un’alleanza progressista ed «emblema d’una evoluzione possibile della vita veneziana di fine Ottocento»(7), non a caso ritenuta da conservatori e cattolici responsabile del risveglio socialista e per questo avversata dal blocco clerico-moderato, che alle elezioni del 1895 riesce a riprendersi la guida della città tenendola ininterrottamente fino al 1919 (giunte Grimani). Si consolida così una situazione politica che vede un blocco conservatore al potere e un blocco «popolare» democratico-socialista all’opposizione. Quanto sia determinante il ruolo dei cattolici all’interno dell’alleanza tra liberali e clericali lo dimostra il fatto che solo la loro mancata partecipazione al voto nelle elezioni politiche (non expedit) consente ai «democratici» di mandare in Parlamento propri esponenti (Tab. 1).
La ripresa dello sviluppo economico veneziano nei primi anni del Novecento segna l’inizio dell’abbandono della prospettiva «neo-insulare» in favore della modernizzazione più radicale di Venezia, vista con favore da tutto lo schieramento politico. «Dietro alle manovre politiche ed economiche si celava anche un’importante redistribuzione delle simpatie elettorali degli strati bassi e intermedi della popolazione. Man mano, infatti, ne perdevano il controllo democratici e repubblicani a vantaggio, apparente, dei socialisti che […] incrementavano […] la propria penetrazione fra le categorie e i mestieri più rappresentativi della classe operaia cittadina»(8). Ma le associazioni operaie democratiche, sorte per iniziativa della borghesia cittadina interessata all’integrazione del ceto operaio secondo i moduli di un socialismo borghese e riformista, non sono organizzazioni di classe, né mirano a formare un sindacato centralizzato, «ma associazioni che forniscono un ponte tra istituzioni e classi subalterne urbane, ovverosia un canale legale, cioè parlamentare, attraverso il quale queste classi possono convogliare i propri malesseri senza possedere organizzazioni pericolosamente incontrollabili che adottino proposte sovversive. Di qui l’ostilità verso l’ala più rivoluzionaria del Partito Socialista cittadino, capeggiato dal temuto ‘milionario ebreo’ Elia Musatti»(9).
Si deve però tenere conto del fatto che il partito socialista è «un’organizzazione di propaganda senza legame diretto con le masse alle quali può giungere solo attraverso la CGL, i sindacati, le Camere del lavoro; le sue sezioni sono circoli di cultura e di agitazione politica non collegati tra loro da una direzione politica comune a livello provinciale e regionale»(10), quindi il consenso che raccoglie è in buona misura dovuto alla capacità di controllare le associazioni sindacali. Questo vale anche per Venezia, dove il sindacalismo socialista, che è più conflittuale del cooperativismo democratico e viene coordinato dalla Camera del lavoro, riesce a espandersi fino al punto di assorbire molte delle associazioni che prima gravitavano nell’orbita democratica, comprese quelle importantissime dell’Arsenale(11). «All’epoca della sua istituzione (novembre 1892) la Camera del Lavoro di Venezia raggruppa 20 sezioni e mestieri, di cui 12 già organizzate, che ne compongono la struttura. Esse raccolgono al 30 novembre 4.311 aderenti. Gli occupati a Venezia, in quel periodo, sono circa 30.000»(12).
Ma già all’inizio di secolo Venezia è una città di circa 150.000 abitanti con una popolazione attiva che si aggira sulle 70.000 unità. Fra queste almeno 30.000 sono gli addetti all’industria. Le caratteristiche di questa attività sono, oltre alla grande frammentazione, la natura pubblica delle grandi concentrazioni operaie, come l’Arsenale e la Manifattura Tabacchi, di proprietà dello Stato, o il Porto, affollato da un gran numero di scaricatori ancora disorganizzati e divisi. Le industrie private comprendono il Cotonificio, poi lo stabilimento Baschiera, che produce fiammiferi, la Junghans che fabbrica orologi alla Giudecca, e un certo numero di cantieri navali concentrati prevalentemente su quest’isola. La miriade di opifici di piccole dimensioni e artigianali rende problematica l’organizzazione dei lavoratori. Qui primeggia la lavorazione del vetro, con migliaia di piccoli forni e lavoranti a domicilio. […] la stragrande maggioranza dei lavoratori è frammentata in piccole manifatture con poche decine di addetti, e le eccezioni sono proprio fornite dai grandi arsenali, dalle acciaierie e dagli opifici di Stato. Anche la presenza femminile […] qui può trovare aggregazioni che ne scalfiscono la tradizionale passività, come nel caso del Cotonificio o della Manifattura Tabacchi.
Alla fine fra cantieri navali, grandi stabilimenti pubblici e privati, officine e fonderie, porto e trasporti, Venezia rischia di costituire, a suo modo, un interessante laboratorio per la sinistra dell’epoca. Rimane, quindi, sospetto il costante lamento dei socialisti veneziani sulla ‘città inerte’ […]. Il loro sogno ‘operaista’, rivolto alle mitiche concentrazioni industriali del Nord, rischierà il più delle volte di nasconderne l’incapacità a comprendere, e governare, la complessa realtà dell’isola(13).
In una «relazione morale» della Camera del lavoro per il 1913, le cause delle difficoltà incontrate sono individuabili nelle condizioni economico-sociali della città di Venezia, la quale manca quasi completamente di popolazione industriale. Sopra i 170.000 abitanti appena 15.000 sono dediti nell’industria e di essi la maggior parte vengono impiegati nell’industria di Stato — Arsenale, Manifattura tabacchi, ecc. — sicché pochi sono i veri e propri proletari, soggetti alla cruda legge del salario e che veggono direttamente contro di sé il capitalista a difendere e tutelare i propri privilegi di classe.
Ne deriva una composizione «spuria» dei «soci» della Camera del lavoro che spiega perché «la lotta di classe è qui necessariamente attenuata: su 5.000 aderenti, 1.400 sono impiegati dello Stato (arsenalotti, Tabacchi, tramvieri comunali, infermieri), 1.200 fra gondolieri e cooperatori del porto i quali ‘pur essendo dei lavoratori, più che dei veri e propri proletari sono dei piccoli proprietari, padroni del loro istrumento di lavoro’»(14). Alla vigilia della guerra la Camera del lavoro veneziana, secondo le statistiche confederali, conta 4.380 associati suddivisi in 19 sezioni(15).
L’evoluzione economica favorisce la nascita di consistenti strati tecnici e impiegatizi che, di fronte all’intensificarsi del conflitto sociale (scioperi: quello del settembre 1904 paralizza la vita di Venezia e delle isole, spaventando l’opinione pubblica borghese) e alle tensioni originate dalla guerra di Libia, guardano con interesse crescente a nuovi riferimenti politici che stanno emergendo: da un lato i nazionalisti(16) favorevoli a un blocco con i liberali e i clericali, dall’altro i radicali che rifiutano la prospettiva delle coalizioni con i moderati e propongono la rifondazione del partito che punti a recuperare un consenso diretto tra le masse(17). Gli anni ‘libici’ portano alla progressiva rottura delle alleanze tra i raggruppamenti democratici e il movimento socialista: la fine dei blocchi popolari e delle alleanze di sinistra apre un processo di allontanamento dei ceti medi democratici dall’area socialista, processo indotto dalla più generale radicalizzazione dei rapporti sociali che incrina le tradizionali mediazioni del consenso. Alla ripresa dell’iniziativa «intransigente» della classe operaia e degli strati proletari, corrisponde tuttavia un nuovo tipo di attivizzazione di ceti medi espressi dalle attività professionali e dagli strati impiegatizi del terziario e delle più consistenti imprese industriali(18).
La Venezia del Novecento non solo assiste a questa crescente competizione tra componente ‘borghese’ e componente ‘operaia’ del movimento dei lavoratori, ma vede anche svilupparsi un associazionismo borghese radicalmente patriottico; «questo associazionismo è anche espressione di una confusa ma diffusa richiesta che i maggiori problemi non vengano risolti da disarticolati compromessi clientelari, ma da una politica lungimirante e se necessario aggressiva, che favorisca i settori più dinamici dell’economia. […] Dietro a queste richieste di rinnovamento stanno soprattutto gli interessi del nuovo capitalismo veneziano»(19).
Il voto alle elezioni politiche rispecchia questi orientamenti (Tab. 1): già nel 1904 i malumori all’interno dell’area democratica nei confronti del blocco popolare favoriscono la proposta di un «blocco di forze costituzionali» che includa i liberali(20). Infatti, nel collegio di Venezia I, Musatti arriva primo ma è battuto al ballottaggio e si deve attendere il 1909, quando il partito socialista ha ormai acquisito l’egemonia sul proletariato cittadino, per vedere eletto il primo deputato socialista veneziano. Da un lato l’avvicinarsi dell’introduzione della proporzionale incoraggia i socialisti a rompere gli accordi elettorali con i democratici, dall’altro sono questi a riproporre l’idea del blocco borghese, tanto che alle elezioni suppletive del 1912 Musatti dimissionario viene battuto dal candidato del blocco d’ordine stretto tra democratici antisocialisti, liberal-clericali e nazionalisti; solo l’anno successivo il leader socialista riesce a riconquistare il seggio parlamentare.
La formazione del blocco d’ordine segna il momento in cui diventa esplicita una tendenza che ha caratterizzato la vita politica veneziana tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo, quando da una lotta politica locale tra fazioni borghesi legate a gruppi clientelari diversi si passa a un confronto diretto tra socialisti e blocco d’ordine, cioè tra la nuova forza più spiccatamente operaia e di ‘massa’, che rivendica la propria autonomia, ed una borghesia sempre più mobilitata e unita all’interno della quale i vecchi dirigenti liberali gradualmente perdono la leader- ship(21).
Più in dettaglio, i risultati del voto nelle elezioni politiche del 1913 (Tab. 2), le prime a suffragio quasi universale maschile, evidenziano il livello dei consensi al partito socialista a Venezia, dove diventa il primo partito della città, con una percentuale incredibile se confrontata con la media veneta e nazionale: terza grande città italiana per ampiezza dei consensi socialisti, a fronte di una media del 37,4% nei collegi in comuni di oltre 100.000 abitanti. Si conferma così un trend di crescita del voto socialista destinato a segnare la storia politico-elettorale del capoluogo lagunare.
Ma alle elezioni amministrative del 28 giugno 1914 i socialisti, convinti ormai di poter issare la bandiera rossa a Ca’ Farsetti, riportano invece un risultato che avvertono come una «sconfitta con i fiocchi, sconfitta superiore ad ogni nostra aspettativa»(22), anche se in realtà i voti raccolti sono circa gli stessi delle politiche di sei mesi prima, ma in termini percentuali rappresentano solo il 41,7 contro il 58,3 dell’alleanza clerico-moderata.
È la lotta per la fine della neutralità ad accelerare il distacco della piccola borghesia dall’area socialista: «nella mobilitazione pro-intervento, i gruppi della sinistra democratica si uniscono e sperimentano l’agitazione di piazza, il confronto sociale; si convincono di poter fare politica senza i socialisti e di sostituire anche i partiti moderati […]. Da qui la fiducia che l’unità dell’interventismo di sinistra è qualcosa di più di un accordo momentaneo, è la base di una nuova forza politica che vuole sfidare la destra clerico-moderata e il socialismo divenuto intransigente»(23). Ma il tentativo di erodere le basi del P.S.I. (Partito Socialista Italiano) non trova riscontro nella realtà: la crisi interventista crea molte tensioni e alcune defezioni nella cerchia degli intellettuali, ma le organizzazioni sindacali non ne risentono.
Allo scoppio della guerra, i contraccolpi sull’economia italiana sono pesantissimi, soprattutto nelle regioni di confine come il Veneto che risentono del blocco dei traffici commerciali: l’afflusso improvviso di mano d’opera, con il rimpatrio degli emigranti, aggrava la disoccupazione. A Venezia, al 17 ottobre del 1914 gli iscritti alle liste di coloro che si dichiarano senza lavoro sono 5.693(24). La mancanza di lavoro e il rincaro del costo della vita porta a proteste e tumulti spontanei: le donne del quartiere Castello assediano più volte il Municipio. La Camera del lavoro cerca di prendere la direzione delle agitazioni. «Ma il partito e il sindacato evitano accuratamente di indirizzare la protesta popolare verso obiettivi di resistenza attiva; anzi, si dissociano dalle manifestazioni più tumultuose e premono per ottenere i provvedimenti richiesti sottolineando il merito di aver sostituito ‘le autorità nel fare opera di pacificazione’»(25). Il neutralismo dei socialisti e l’opposizione alla guerra sono soprattutto denuncia morale e politica delle responsabilità e dei costi della guerra. Quando l’Italia entra nel conflitto la Camera del lavoro veneziana chiude i battenti. Ma il conflitto sociale non si spegne: dopo i moti del 1914-1915, la protesta popolare riprende nel 1917 soprattutto nell’ambiente rurale, mostrando la continuità di un processo di radicalizzazione sociale iniziato negli anni prebellici e che non può essere riconducibile solo alla propaganda dei socialisti.
Diversamente da quella socialista, l’organizzazione cattolica resta in piedi grazie all’appoggio delle parrocchie. Come gli apparati dirigenti del movimento cattolico si addossano l’onere di sollecitare il consenso delle popolazioni rurali, così la predicazione vescovile (lettere pastorali, inviti alla preghiera) costituisce un importante veicolo di assuefazione delle masse cattoliche al regime di guerra. Questo favorisce l’intesa tra autorità religiose e autorità politiche, per «fronteggiare assieme le spinte eversive di una realtà sociale esasperata dai lunghi anni di guerra che hanno maturato una contrapposizione di classe più ampia dello scontro tra neutralisti e interventisti»(26).
«Forse in nessun paese come in Italia la partecipazione alla ‘grande guerra’ fece sentire la precarietà di tutti gli equilibri sui quali si fondavano la società e lo Stato nazionali, aprendo una crisi le cui conseguenze erano allora non pienamente valutabili e il cui sviluppo doveva segnare tutta la successiva storia italiana»(27). Società civile, società politica e istituzioni sono sottoposte a tensioni tali che si riaprono le fratture (di classe, città/campagna, centro/periferia) non risolte che hanno accompagnato la formazione dello Stato unitario. Rilevanti sono le trasformazioni causate dalla guerra nelle pratiche sociali, nella mentalità, che hanno più diretta attinenza con la politica(28). La guerra ha modificato la nozione stessa di massa.
Si tratta di un mutamento che ha inizio nella vita di trincea e che avrebbe riverberato tutti i suoi effetti con il ritorno alla pace. Gli uomini che hanno preso parte a un evento ‘inimmaginabile’ ne escono profondamente modificati. Hanno subito una mobilitazione totale. Sono stati oggetti passivi di strumenti di propaganda mai prima utilizzati. Hanno maturato un’attitudine quasi naturale all’azione collettiva; a confondere le proprie idee ed i propri desideri con quelli dei propri simili; a convivere con il pericolo e la violenza; ad obbedire in vista di un fine supremo senza porsi tante domande(29).
La guerra contribuisce a imporre le masse come il necessario referente del conflitto politico: è una questione di numeri, organizzati, ma anche di radicalità della domanda, di passione rivoluzionaria. Ne vengono investiti e scossi i partiti tradizionali, ne nascono di nuovi, i partiti di massa: sono la risposta a crisi di mobilitazione collettiva, come appunto la guerra e le sue conseguenze. Solo che i partiti di massa in Italia, sia per la scarsa consapevolezza delle prospettive di una nuova forma di democrazia basata su di essi sia per la chiusura delle classi dirigenti tradizionali, finiscono con il diventare un’alternativa allo Stato.
Su questo sfondo si sviluppa la discussione sulla proporzionale, che dopo il suffragio universale sottopone il ceto politico liberale a una vera sfida(30): un sistema politico istituzionale scosso da imponenti fenomeni di mobilitazione sociale, logorato anche dalla gestione della «vittoria mutilata», «vede cadere improvvisamente, con l’introduzione del sistema proporzionale, i meccanismi di protezione e di autoperpetuazione della maggioranza assicurati dal vecchio sistema elettorale e, più in generale, dal sistema di rapporti personali e clientelari che legavano gli elettori alla classe dirigente»(31). È in discussione, quindi, «la capacità di una classe politica cresciuta all’ombra del notabilato, di misurarsi con un sistema elettorale che, nella tecnica prescelta, presuppone, più che creare, l’esistenza del partito come istituzione intermedia tra lo stato e la società»(32).
Se il voto è una cerniera tra assetti politico-istituzionali e struttura sociale, può costituire un indicatore delle tensioni presenti in una società, tensioni che, in determinate condizioni di mobilitazione sociale e in presenza di un’adeguata offerta politica (partiti di integrazione sociale), possono precipitare condensandosi in scelte di schieramento politico: per questo le elezioni del 1919 rappresentano un formidabile punto di osservazione delle trasformazioni innescate dalla Grande guerra nel modo di concepire e praticare la lotta politica. È in questa prospettiva che si cercherà di analizzare le elezioni politiche e amministrative che si succedono con cadenza quasi annuale nel primo dopoguerra a Venezia.
Senza voler ipotizzare alcun legame diretto tra assetti economico-sociali e comportamenti politici, nel caso di Venezia «città storica» non si può prescindere dal rilievo di alcuni caratteri che ne fondano, nel bene e nel male, l’unicità urbanistica e demografica. «Quando si parla del problema della morte di Venezia, si allude quasi sempre all’aspetto fisico e all’aspetto ecologico: si arriva da parte di taluni a riconoscere gli aspetti monumentali ed edilizi, e da parte di pochi quelli abitativi, dei servizi e dei trasporti. Ma ben pochi hanno avvertito fin qui la questione di fondo, che tutte le sottende e le ingloba: quella dei veneziani, della loro vita nella struttura delle città, della fruizione di essa per vecchie e nuove funzioni civili»(33). Alcuni indicatori strutturali possono almeno darci un’idea delle condizioni di vita che affliggono buona parte della popolazione veneziana ancora nel primo dopoguerra: una densità urbana che è tra le più alte tra le grandi città italiane (censimento 1921: 238 ab./ha)(34) e una ripartizione degli alloggi per piano che segnala una forte incidenza di abitazioni a piano terra con locali inabitabili. Nell’inchiesta sulle abitazioni condotta da Raffaele Vivante nel 1910 risultava come il 46% delle case veneziane fosse ancora sprovvisto di acqua potabile, con punte del 70% nel sestiere Castello. «Sul finire degli anni ’20, gran parte della città si trovava ancora nelle condizioni dei secoli passati»(35). «Il progressivo isolamento del centro storico dalla crescita industriale di terraferma, il conseguente svuotamento delle attività tradizionali, l’abbandono della città al blocco che gestisce l’economia commerciale e turistica di massa segnano la divisione e la spartizione delle economie dell’area lagunare»(36).
Infine, per completare questa ricognizione sulla realtà demografica di Venezia, va ricordato l’ampliamento del comune di Venezia per aggregazioni successive: dopo il Lido e Malamocco (1883), si ha l’annessione di Marghera (1917), Pellestrina (1923), Murano, Burano e Ca’ Savio (1924), Chirignago, Zelarino, Mestre, Malcontenta, Favaro (1926), fino ad assumere la configurazione attuale. Da notare che non è l’insediamento della zona industriale a Marghera responsabile della crescita demografica in terraferma, dal momento che nel territorio di Mestre non vanno ad abitare gli operai di Marghera provenienti dalle zone rurali, né tanto meno gli operai di Venezia. «Il vertiginoso aumento demografico di Mestre e dintorni è dovuto in gran parte all’esodo forzato dalla città storica di ceti popolari, compressi dal sovraffollamento e dall’insalubrità delle abitazioni (che spesso altro non sono che magazzini adattati al pianoterra), e colpiti dallo sblocco dei fitti del ’23 e dalla successiva imposizione degli sfratti»(37).
Un’immagine approssimativa della struttura sociale di Venezia nel primo dopoguerra è ricavabile dai dati del censimento della popolazione del 1921:
1) una prima lettura della struttura occupazionale per settori di attività (Tab. 3) mostra, al confronto con quella del Veneto, le peculiarità della città lagunare: rispetto a una regione che ha quasi il 60% della popolazione in condizione professionale occupata nell’agricoltura, il capoluogo si presenta con una forte caratterizzazione industriale e terziaria.
2) L’elaborazione dei dati relativi alla posizione occupazionale del capofamiglia delinea una morfologia, e una stima, delle classi sociali (Tab. 4)(38) coerente con il quadro precedente: tratto saliente è la maggior consistenza di una borghesia composta di industriali, commercianti e possidenti, rispetto alla realtà regionale fortemente caratterizzata dalla piccola borghesia indipendente di matrice rurale, mentre ben più estesa si presenta la piccola borghesia impiegatizia, ma soprattutto la classe dei salariati nell’industria e nei servizi.
3) Infine, una classificazione sia pure non direttamente confrontabile con la precedente dà un’idea delle condizioni sociali della popolazione distribuita nei diversi sestieri del centro storico e nelle frazioni (Tab. 5): i ceti borghesi e piccolo-borghesi sono presenti soprattutto nel sestiere di S. Marco e al Lido, mentre il lavoro salariato, maschile e femminile, tende a concentrarsi alla Giudecca, nella nuova area di Marghera
e nei sestieri di Castello, S. Croce, Cannaregio, cioè in relazione con gli insediamenti industriali (Manifattura Tabacchi e Cotonificio si trovavano ai margini del sestiere di Dorsoduro, l’Arsenale a quello di Castello). È da notare come la distribuzione dei salariati risulti meno concentrata in specifici sestieri o frazioni rispetto a quella della borghesia, a sottolineare la complessità della stratificazione sociale della città come risultato dell’intreccio di successivi innesti di popolazione e di spostamenti interni al tessuto urbano a seguito delle trasformazioni economiche ed urbanistiche (crisi dell’artigianato, nuovi insediamenti industriali, speculazioni sugli affitti, tentativi di risanamento, piani di edilizia popolare, sventramenti, ecc.).
A partire dal marzo 1919, anche a Venezia riprende l’attività sindacale. La prima metà del 1919 è segnata da forti tensioni sociali e dai «tumulti della fame e della miseria». Alla manifestazione del 1° maggio partecipano, secondo il «Secolo Nuovo», 30.000 persone con 70 vessilli(39). È un succedersi di scioperi (compreso uno sciopero generale il 20-21 luglio) e agitazioni legate a vertenze locali, ma con modalità e significati della partecipazione popolare incomprensibili se non si tiene conto di eventi nazionali (Fiume) e internazionali (Repubblica dei Soviet). Non mancano gli scontri fisici tra ex combattenti e socialisti, a dimostrazione di quanto la frattura tra interventisti e neutralisti si sovrapponga a quella di classe, esaltando così l’irriducibilità del conflitto tra i due fronti politici e favorendo lo spostamento verso il fronte conservatore dei gruppi dell’interventismo democratico.
Sul piano politico-amministrativo, i socialisti confermano il proprio orientamento a favore di uno sviluppo industriale sulla terraferma (Porto Marghera), che ha preso avvio in pieno conflitto nel 1917, nonostante le modalità con cui l’operazione è nata e viene portata avanti(40). È evidente che per le forze di sinistra la prospettiva di un polo industriale significa la concreta possibilità di uno sviluppo delle forze produttive capace di dar vita a una nuova classe operaia, in nome di una Venezia «che aspira ad una vita migliore e più dignitosa e più sana», e contro la città «degli albergatori e degli affittacamere»(41).
«Le elezioni vengono subito viste come il redde rationem sia per i neutralisti che per gli interventisti: ogni fazione chiede all’altra la resa dei conti, nonostante il governo inviti a guardare all’avvenire»(42).
Anche a Venezia, come nel resto d’Italia, sono i partiti di massa a dominare la scena politica: i socialisti, forti dei consensi accumulati negli anni precedenti la guerra, possono contare sull’infittirsi delle organizzazioni ‘economiche’ delle classi popolari controllate dalla Camera del lavoro, ma sono divisi al loro interno tra i massimalisti, intransigenti nel privilegiare l’identità classista e rivoluzionaria del partito, con il conseguente rifiuto di qualsiasi coalizione, fosse pure di convergenza antifascista, e i riformisti, favorevoli a una scelta tendenzialmente ‘collaborazionista’, indotti dal separatismo classista dei primi a privilegiare i tradizionali interlocutori liberali, piuttosto che i popolari(43).
Nel Veneziano la maggioranza è chiaramente intransigente, potendo contare sul controllo del partito e della Camera del lavoro.
I popolari, organizzati in partito nel febbraio del 1919, sono espressione di un movimento cattolico che a Venezia può vantare precedenti rilevanti (la nascita dell’Opera dei Congressi, l’accordo tra clericali intransigenti e vecchia classe dirigente liberale, le posizioni di chiusura della curia patriarcale favorevole al mantenimento della tradizionale alleanza tra clericali e moderati). Fin dall’inizio scontano però l’ambigua convivenza delle diverse componenti del mondo cattolico, quella intransigente legata alla curia e interessata al primato secolare della Chiesa, quella sturziana che vede nel partito politico lo strumento per eccellenza antitetico alla prassi notabilare giolittiana, quella dei clerico-moderati favorevoli alla collaborazione con i gruppi liberali anche senza un accordo tra partiti che ne salvaguardi l’autonomia(44). Ma devono soprattutto fare i conti con l’attivismo del patriarca La Fontaine che non intende lasciare al partito popolare la gestione dell’azione politica dei cattolici(45).
Fenomeno specifico del capoluogo è invece la presenza di una formazione, la Democrazia Sociale, che si propone di aggregare il consenso dei ceti medi e degli ex combattenti tentando di dar vita a un terzo partito di massa, che dovrebbe impedire sia la deriva verso le forze moderate che l’adesione al socialismo marxista cui non si perdona il neutralismo(46). È in questo stesso ambito che operano i primi fascisti, moderati e intransigenti, accomunati da un forte antisocialismo: «il fascio funge solamente da appendice, da strumento di pressione all’interno e fuori del movimento democratico, in modo da rappresentare questo aspetto di intolleranza verso il movimento classista, anche per evitare ritorni ad alleanze popolari. È così che a Venezia il fascio nasce con un programma identico a quello di Democrazia Sociale anche se con tematiche patriottiche più accentuate»(47).
La campagna elettorale si svolge in un clima di forti polemiche e tensioni, alimentate da scioperi e agitazioni per la scarsità di generi di prima necessità. Nei comizi tenuti dagli esponenti dei diversi partiti in lotta, i temi politici relativi alla posta in gioco si intrecciano con i richiami alla drammaticità della crisi postbellica e al senso di incertezza derivante dal nuovo meccanismo elettorale. C’è anche chi rinuncia a misurarsi con le novità, prendendo commiato dal proprio elettorato e dichiarandosi incapace di muoversi dentro i reticoli di una nuova legge definita «immatura, improvvida, demagogica e plutocratica insieme; atta non già ad elevare, bensì a deprimere i valori della vita pubblica»(48). Sono soprattutto i toni degli interventisti a riaccendere la polemica nei confronti di chi viene accusato di aver sabotato la guerra.
Tra le testate locali è la «Gazzetta di Venezia» a distinguersi nella polemica su tutti i fronti, ricorrendo spesso e volentieri alla diffamazione personale: contro i socialisti, con attacchi diretti nei confronti di Musatti, la figura di spicco del socialismo veneziano, giocando pesantemente sulla sua appartenenza sociale borghese e i suoi interessi economici («capitalista-bolscevico-cinematografista»), contro i cattolici ai quali si rimprovera di aver tradito l’alleanza storica con i moderati e di regolare spesso la propria condotta sulla falsariga dei socialisti, anzi «mentre i socialisti furbescamente mettono moltissima acqua nel vino insurrezionale e in parecchi comizi usano [...] parole modeste, i popolari fanno pompa di un linguaggio barricardiero e [...] giolittiano contro gli uomini e i partiti che vollero la guerra»(49), contro i democratici che, pur condividendo le posizioni dei liberali, sarebbero mossi da futili questioni personali. Gli interventi più duri sono però all’indirizzo dei socialisti: «Inchiodiamoli alla gogna, questi manigoldi nemici del loro paese, puntelli dell’Austria e della Germania! Additiamoli alla esecrazione come i responsabili di aver minato l’esistenza dell’Italia e di avere fatto prolungare gli orrori della guerra prima con la loro torbidaostilità e poi con la solidarietà per i compagni di Russia, traditori dell’Intesa a favore degli Imperi»(50).
Dal fronte dell’opposizione, «Il Secolo Nuovo», organo della Federazione provinciale socialista di Venezia, tenta, inutilmente, di richiamare l’attenzione delle altre forze politiche sulla novità della nuova legge elettorale che avrebbe «tra i suoi meriti e vantaggi quello di spersonalizzare la lotta rendendola più degna, in quanto che essa maggiormente si svolge fra partiti, fra correnti di idee, fra interessi di classe. Non vi è più bisogno di scarnificare con la polemica le persone degli avversari; la lotta può svolgersi con maggior rispetto individuale per tutti i candidati»(51). Ma non sono solo le nuove modalità della comunicazione politica legate ai processi di mobilitazione collettiva e alla presenza di partiti di massa a sfuggire alla classe dirigente moderata. Ben più drammatica è l’incomprensione per le conseguenze della guerra sulla cultura politica delle classi subalterne. Non è un caso se al centro della campagna elettorale dei socialisti torna, ossessivamente, il tema della guerra:
Siamo finalmente giunti alla prima resa dei conti con tutti i partiti borghesi, con tutta la borghesia responsabile della guerra, responsabile di tutte le malore che la guerra ha portato con sé. Siamo finalmente al giorno in cui possiamo e vogliamo rispondere numericamente a tutte le menzogne e gli inganni con i quali si è potuto fare la guerra(52).
Di fronte, tre, così detti, partiti, divisi tra loro, ma in fondo uniti nella rappresentanza di tutti gli intrighi della borghesia dominante uniti tutti dalle responsabilità antiche e recenti e soprattutto dalle responsabilità della guerra infame e maledetta. [...] La vera lotta è tra noi e il Pipì. [...] Ma poi, forti di qualche prudente riserva del Papa, o di qualche clericale, essi, i signori del Pipì, vorrebbero sottrarsi alle responsabilità della guerra. Ah, nossignori, le avete assunte queste responsabilità ed ora dovete pagare il conto. [...] Ed i vostri sacerdoti benedirono bandiere, fucili, cannoni, navi e tutta la diavoleria del grande delitto. Non avete più un solo iddio. Avete tanti iddii nazionalisti, imperialisti, guerraioli, quante sono le nazioni(53)!
Donne proletarie, umili donne delle fabbriche e dei campi, escluse ancora dal voto sebbene voi pure vittime della politica dei governi borghesi, udite! Nel maggio 1915 l’ordine di mobilitazione ha ferito i vostri cuori, vi ha strappato i mariti, i figli per gettarli nella voragine della guerra.
Avete per quattro anni trepidato il sangue vostro nell’attesa delle notizie incerte e rare, torturate nelle lunghe notti insonni dalla visione lugubre degli ospedali ove sfioriva tanta gioventù, delle trincee fangose e micidiali, delle battaglie ove il ferro e il fuoco facevano strazio di tanta vita promettente.
Avete per quattro anni stentato il pane, sacrificando i vostri risparmi per aiutare i vostri cari al fronte o prigionieri, avete sopportato le umiliazioni dei sussidi contrastati e insufficienti, avete raddoppiato la vostra fatica di lavoratrici negli orari lunghi e notturni per fronteggiare la crescente esosità degli speculatori.
Voi, donne, avete bene diritto di odiare la guerra!
Ma la guerra non nasce dalla malvagità degli uomini, nasce invece dalle leggi del sistema sociale, dalla concorrenza capitalistica. Tenete a mente questa semplice verità come un nuovo vangelo: finché il mondo sarà guidato dagli interessi capitalistici avremo sempre le guerre. Solo quando i lavoratori saranno al potere sarà tolta la causa di ogni guerra.
Così o donne, sorge per voi un dovere. Ai vostri uomini dite la parola dell’incitamento, consegnate loro l’arma civile della scheda socialista, col simbolo del lavoro FALCE E MARTELLO e spronateli a fare il 16 NOVEMBRE il loro dovere: per condannare la guerra, per vendicare i 10 milioni di morti, per assicurare nell’avvenire la pace a tutte la madri del mondo(54)!
A turbare, infine, la campagna elettorale il 1° novembre interviene la crisi in consiglio comunale (giunta Grimani), accelerata dalla scelta dei popolari di presentarsi alle elezioni politiche con una lista autonoma, ma la crisi viene congelata fino all’11 dicembre.
Due sono gli elementi di novità che contraddistinguono le prime elezioni del dopoguerra, come si è già visto: l’introduzione del sistema di rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista, «che seguì il riconoscimento del diritto elettorale a tutti i cittadini maschi che avevano compiuto il 21° anno di età entro il 31 maggio del 1919 e a coloro che avevano prestato servizio nell’esercito mobilitato»(55). Ne deriva un consistente ampliamento del corpo elettorale, che a livello nazionale passa dal 23,2% della popolazione nel 1913 al 27,3% del 1919. La frequenza alle urne è però nettamente inferiore a quella registrata nelle elezioni precedenti (1913), soprattutto se nel calcolarla si tiene conto degli elettori-emigrati: si passa dal 66,1% al 59,7%, cioè 6,4 punti in meno(56).
A Venezia il dato statistico della partecipazione (Tab. 7) segnala una diminuzione ancora più consistente, dal 54,3% del 1913 al 41,2% del 1919, confermando la tendenza a un astensionismo maggiore nelle grandi città rispetto alle zone rurali. Questo fenomeno è stato spesso interpretato come uno dei «sintomi di carenza della coscienza politica e civile dei ceti sociali che vivono nei centri urbani»(57), alimentando così le polemiche nella discussione sull’introduzione della proporzionale. Se però si tiene conto di due elementi segnalati già nel 1919(58), uno relativo all’aggiornamento delle liste elettorali (più facile da verificare nei piccoli centri) e l’altro relativo alla mancata consegna dei certificati elettorali (più consistente nelle grandi città), ci sono fondati motivi per ritenere che il fenomeno dell’assenteismo urbano sia da ridimensionare. Infatti, è indicativo quanto risulta da una sommaria indagine svolta in occasione delle elezioni del 1921 sui comuni più popolosi, che segnala per il comune di Venezia come su 51.515 elettori iscritti nelle liste vi furono ben 11.845 certificati elettorali non consegnati, cioè il 23%.
Venendo ai risultati del voto, i dati della Tab. 6 e gli andamenti della Fig. 1 rivelano la portata della sconfitta della classe politica tradizionale che aveva tenuto il governo del paese fin dall’inizio: la sconfitta è opera delle forze più attive, interventiste e neutraliste, convergenti contro la vecchia classe dirigente. Emerge anche l’entità del successo dei due partiti che si sono organizzati secondo i moduli della politica di massa, i quali non condividendo la responsabilità della guerra possono raccogliere il consenso dei ceti popolari più colpiti nelle condizioni di vita (precarietà dell’occupazione aggravata dalla smobilitazione e dall’attenuarsi dell’emigrazione) e quindi diffidenti/ostili nei confronti delle forze politiche ritenute responsabili del mancato rispetto degli impegni presi durante la guerra. In Veneto la sconfitta dello schieramento liberal-democratico risulta ancora più pesante, riuscendo a raccogliere appena il 30% dei consensi, mentre popolari e socialisti si dividono il successo con un risultato piuttosto equilibrato; risultato che oltretutto smentisce lo stereotipo di un Veneto da sempre ‘bianco’(59).
A Venezia il dato più eclatante è la maggioranza conquistata dai socialisti (Tab. 7), nonostante i tentativi delle forze interventiste (Democrazia Sociale) di eroderne i consensi nella classe operaia e nelle categorie sindacali degli impiegati.
A caldo, la «Gazzetta di Venezia» (18 novembre 1919) così in un commento dal titolo Constatazioni:
Il primo rilievo che si può fare è questo: che le classi borghesi si sono astenute in massa, mentre i socialisti e i popolari hanno compiuto il loro sforzo completo. […] La borghesia dovrà dunque battersi il petto e recitare il ‘mea culpa’. Essa, e non altri, è la causa prima del successo dei socialisti, qui a Venezia come altrove. Qui a Venezia si è avuto il fenomeno che il Partito Popolare è rimasto alla coda di tutti gli altri partiti. Questo esito è una severa lezione per il P.P., che nella sua immensa albagia, nella credenza di disporre chissà mai di quante forze, non si peritò di rompere un’alleanza che durava da un quarto di secolo e cercò di gettare il ridicolo sulla meschinità delle forze liberali. Orbene, in città, i liberali sono risultati, sia pur di poco, più forti dei popolari!
Un’analisi dei risultati dal punto di vista della distribuzione territoriale dei consensi conferma quali punti di forza dei socialisti i sestieri dove più densa è la presenza delle classi popolari: Castello, Dorsoduro e le zone dei primi nuclei di proletariato industriale, Marghera (Tab. 8, Fig. 2, Tav. 2). Punti di debolezza sono invece S. Marco, dove i maggiori consensi vanno a liberali e democratici, e Lido/Malamocco, che premia popolari e democratici. Di notevole interesse appare la polarizzazione del risultato tra i due partiti di massa, socialista e popolare, alla Giudecca e a Marghera, non a caso le due aree più proletarizzate (si riveda Tab. 5).
Nei comuni limitrofi che negli anni successivi verranno aggregati al comune di Venezia (Tab. 9, Fig. 3, Tav. 2), i risultati appaiono decisamente più variabili: i socialisti raccolgono infatti un ottimo risultato a Murano, dove possono contare sulla presenza organizzata dei lavoratori del vetro, ma registrano ben pochi consensi in altre zone dell’estuario come Pellestrina o nei comuni della terraferma (Zelarino, Chirignago) dove forte è la componente rurale che si riconosce nel partito popolare. Da segnalare il risultato straordinario dei democratici a Pellestrina, dove ottengono quasi i due terzi dei voti locali, un dato di non agevole interpretazione(60).
In sintesi, l’elettorato veneziano appare diviso lungo due linee di frattura che sembrano incrociarsi: la prima, più rilevante, tra socialisti e antisocialisti, tra il partito socialista che può vantare un risultato maggioritario e le forze antisocialiste divise tra una componente moderata, i liberali e i popolari, e una componente democratica che fallisce nell’ambizioso progetto di fondare sulla piccola borghesia interventista una terza forza capace di sottrarre consensi ai socialisti; la seconda, che pure ha precedenti significativi a Venezia, tra clericali e anticlericali, ma che tende a ricomporsi in chiave moderata di fronte all’intensificarsi del conflitto sociale e del radicalismo verbale dei socialisti.
Ne è un sintomo ciò che accade a seguito dell’insuccesso di Democrazia Sociale, cioè l’autonomizzazione della componente antisocialista che si allontana dalla militanza demosociale: «nella primavera del 1920 viene fondata l’Alleanza nazionale, un’organizzazione il cui scopo è formare un fronte elettorale che includa tutte le forze non socialiste ‘per salvare Venezia da ogni moto rivoluzionario’»(61). La proposta viene accolta con favore da una borghesia che vuole a tutti i costi mantenere il potere municipale dopo l’affermazione dei socialisti alle elezioni politiche: liberali e cattolici acconsentono a che la loro rappresentanza venga assunta dalle componenti ex democratiche più antisocialiste(62).
Il periodo che va dalle elezioni politiche del novembre 1919 alle elezioni amministrative di un anno dopo è segnato, anche a Venezia, dal succedersi di scioperi e agitazioni che a fatica il sindacato riesce a disciplinare e che alimentano attese infondate di una rivoluzione che, miticamente, «si assumeva dovesse scoppiare senza una seria preparazione e senza il coinvolgimento di altre forze sociali che non fossero il proletariato urbano»(63).
È in questo clima che Venezia rinnova la propria amministrazione comunale. Tra i socialisti (partito e sindacato) prevale l’intransigenza: la presentazione della lista dei candidati viene così illustrata sull’organo della Federazione socialista veneziana:
Forze diverse e svariate attitudini accuratamente vagliate vennero raccolte coordinandole allo scopo di provvedere alla gestione proletaria del Comune: pochi intellettuali, di provata dedizione socialista, e molti operai, genuini rappresentanti dei loro fratelli di fatica e di servaggio economico. La nostra lista significa: lotta di classe, organicamente e tenacemente tale, trasportata ed esercitata nella amministrazione dei Comuni e delle provincie come metodo per conseguire l’integrale emancipazione del proletariato, per preparare la società nuova, senza classi e senza sfruttati, la società socialista dei ‘chi non lavora non mangia’.
Operai.
Dobbiamo strappare il Comune dalle mani dei signori, dei borghesi degli sfruttatori. A Ca’ Farsetti deve sventolare non più la bandiera tricolore, simbolo dello sfruttamento, della oppressione, della crudeltà militare, ma la bandiera rossa, simbolo della classe lavoratrice, annunziatrice di un mondo nuovo(64).
A distanza di una settimana, «Il Secolo Nuovo» torna sul significato che la scadenza elettorale deve assumere per i socialisti:
Le elezioni amministrative di domani per la conquista del Comune e della Provincia hanno un contenuto politico. Ed è politica di classe. A parte le esagerazioni — ed anche non poche invenzioni — degli avversari, domani la classe proletaria veneziana, inquadrata nel proprio partito, strapperà alla classe borghese, in tutte le sue frazioni [...] il potere amministrativo nella nostra città, onde Comune e Provincia non continuino ad essere quelle che furono sempre, strumenti della borghesia per la difesa dei suoi privilegi e per perpetuare le ingiustizie sociali, delle quali è vittima il proletariato(65).
La campagna elettorale è inevitabilmente segnata dallo scontro diretto tra blocco e socialisti, con i democratici emarginati perché accusati di aver giocato con troppa disinvoltura sulle condizioni dell’accordo mancato. Il blocco, che può contare sull’appoggio delle categorie economiche (Unione società esercenti, Federazione commerciale industriale e marinara, ecc.) cerca di accreditarsi come paladino di una riforma attenta alle classi meno abbienti contrapposta alla rivoluzione. È significativo che la «Gazzetta di Venezia» pubblichi interi passi di una circolare del segretario del partito socialista, considerati i toni che usa, ritenuti evidentemente sufficienti a spaventare i ceti moderati e a convincerli a non disertare le urne:
Il Partito deve accingersi alla battaglia, che darà nuova prova della sua forza che fornirà nuove armi per lo scopo ultimo al quale deve tendere ogni nostro atto: la rivoluzione proletaria. I Comuni dovranno essere distrutti dal proletariato rivoluzionario e sostituiti dai Soviety locali dei deputati operai. Non si va al Comune soltanto per amministrare meglio dei borghesi, per dar prova di giustizia e di correttezza amministrativa, per fare il bene della cittadinanza e simili promesse democratiche-piccolo-borghesi. I socialisti al Comune debbono provvedere esclusivamente all’interesse di classe del proletariato, antagonistico a quello della borghesia [...](66).
I popolari devono invece affrontare la spaccatura del mondo cattolico e le pressioni della curia patriarcale sul partito perché si torni alla tradizionale alleanza tra clericali e moderati rinunciando a presentare una propria lista a favore di una lista unica antisocialista. L’accordo in questo senso porta però all’esclusione dei democratici che non accettano le condizioni dell’accordo.
Il blocco in un’unica lista di liberali, fascisti e popolari consente di assicurare alle forze borghesi la riconferma del governo della città (Tab. 10), con un risultato che riflette la polarizzazione dell’elettorato veneziano in due schieramenti politici: «la mobilitazione unitaria di tutte le componenti antisocialiste riuscì a ripetere la vicenda del 1913-14: come allora, il PSI, dopo aver ottenuto il più alto suffragio alle elezioni politiche, sembrò ad un passo dalla conquista del municipio; ma venne sconfitto dai partiti d’ordine prontamente unitisi»(67). Il commento de «Il Secolo Nuovo» ammette la sconfitta politica, ma sottolinea l’incremento di voti al partito socialista: «La vittoria non ci ha arriso. [...] Ma — per quanto non grande — una differenza complessiva di voti, dà la maggioranza ai nostri avversari. Non è una vera e propria sconfitta la nostra, sia per la entità di tale differenza, sia pel notevole aumento dei nostri voti delle elezioni politiche dello scorso anno»(68). Non altrettanto possono dire i democratici la cui lista resta schiacciata tra i due antagonisti, perdendo più di metà dei voti presi alle politiche dell’anno precedente.
La «Gazzetta di Venezia» legge nel successo conseguito dal blocco un cambiamento nei ceti moderati veneziani: «Il concorso alle urne è stato notevolmente superiore a quello del novembre scorso; molti che si erano mantenuti indifferenti dinanzi alla competizione politica, non restarono sordi, invece, al grido d’aiuto della loro piccola patria»(69). Diversamente dal 1919, la borghesia non ha disertato le urne — la percentuale dei votanti aumenta, infatti, di quasi 10 punti — perché ha finalmente compreso la posta in gioco.
A Mestre, invece, dove le dinamiche sociali sono simili e la forza dei socialisti, la loro capacità di mobilitare le più diverse categorie di lavoratori cominciano a far paura, nonostante «Il Gazzettino», alfiere nel 1919 del blocco popolare, si faccia alacre paladino della formazione di un blocco conservatore in funzione antisocialista, l’invito cade nel vuoto e i democratici rifiutano l’alleanza con i popolari che a loro volta preferiscono correre da soli. I socialisti, favoriti dalla divisione degli avversari, riescono a strappare il Comune ai clerico-moderati, sia pure per un centinaio di voti(70).
Di fronte a un Parlamento che non riesce ad esprimere alcuna maggioranza in grado di sostenere il governo, Giolitti decide di convocare elezioni anticipate, con la giustificazione di garantire anche alle nuove regioni annesse la rappresentanza in Parlamento. Il problema è di predisporre, al di là della frammentazione dei partiti, una maggioranza al governo, cioè come aggirare la proporzionale. Matura così l’idea della costituzione dei Blocchi nazionali: «la contrapposizione tra partiti costituzionali e partiti di massa costringe dunque i liberali ad un’apertura a destra che sposta in quella direzione anche il baricentro del sistema»(71).
Il quadro politico, nazionale e locale, subisce un ulteriore processo di radicalizzazione: tra i socialisti continua il confronto intransigenti/riformisti, che non si risolve nemmeno con la scissione di Livorno che anzi alimenta un aspro confronto nel movimento sindacale tra socialisti e comunisti. «A Livorno — contro una percentuale nazionale del 34,1% — Venezia dà ai comunisti una percentuale ancora più bassa del congresso provinciale: il 16,8%»(72), quindi un risultato deludente, che non rispecchia però una presenza comunista significativa in alcuni settori della classe operaia del centro storico.
Sul fronte moderato, nonostante il risultato favorevole conseguito alle amministrative, P.P.I. (Partito Popolare Italiano) e Blocco d’ordine presentano liste separate, perché i contrasti interni al mondo cattolico non trovano una mediazione sulla composizione della lista, nonostante i ripetuti interventi del patriarca.
A Venezia il Fascio, finché è Marsich il leader, esprime ancora le ambizioni proprie dei ceti medi in rivolta, teorizza e pratica in modo sistematico la lotta contro i sindacati e i partiti «rossi» della città. Lo scontro è durissimo perché i lavoratori riescono a difendersi: le camicie nere di Marsich tentano a più riprese di occupare i sestieri rossi di Castello, Cannaregio, Dorsoduro, dove — soprattutto a Castello — è concentrata la manodopera del porto e dell’Arsenale; più volte assediano la zona della Camera del lavoro e della Casa del popolo. «Ma i loro sforzi furono rintuzzati sul campo e proprio questo equilibrio militare rese più aspro lo scontro che divenne in alcuni momenti vera e propria guerriglia e coinvolse l’intera popolazione dei quartieri ‘sovversivi’»(73). Ma accanto all’azione squadrista Marsich promuove iniziative di tipo sindacale su fronti diversi, dal sindacalismo economico tra i lavoratori ‘intellettuali’ (impiegati pubblici e privati) alle iniziative a favore dei disoccupati. Così, se la massa operaia (portuali, arsenalotti, lavoratori del vetro) aderisce in grande maggioranza alle organizzazioni rosse, il sindacato economico sfonda soprattutto tra i lavoratori dipendenti del terziario e dei servizi, ma riesce ad aprire anche qualche breccia in categorie operaie (metallurgici), oltre che farsi paladino dei disoccupati denunciando il monopolio del mercato del lavoro che i socialisti gestiscono a favore delle fasce operaie sindacalizzate (portuali)(74).
Ancora una volta la campagna elettorale è segnata da contrapposizioni frontali; a guidare la battaglia a favore dell’Unione Nazionale, la lista veneziana del Blocco, è la «Gazzetta» che alterna i consueti attacchi alle forze socialiste: «Non lasciamoci ingannare né dalla scissione comunista rivoluzionaria, né dal silenzio onde stavolta muovono all’attacco. Dopo la tattica dell’intimidazione in piazza hanno inventato la tattica notturna del raccoglimento ipocrita»(75), con una vera e propria campagna denigratoria nei confronti del proprietario e direttore de «Il Gazzettino»(76), in questa occasione candidato nella lista della Democrazia Sociale. Ed è contro i ‘socialdemocratici’ della Democrazia Sociale che gli strali della «Gazzetta» si fanno ogni giorno più aggressivi con l’accusa di spianare la strada al socialismo. Preoccupazione evidente del Blocco è che le altre liste disperdano i voti, indebolendo la lotta contro le sinistre, e che possa ripetersi l’astensionismo del 1919. I toni sono invece particolarmente sobri nei confronti dei popolari, nella speranza evidentemente che i profondi dissidi interni possano tradursi in voti al Blocco.
Da sinistra, la campagna dei socialisti, al di là della consueta enfasi, appare effettivamente sotto tono, quasi conciliante, se solo la si confronta con quella delle politiche del 1919 e delle amministrative dell’anno precedente, preoccupata di non provocare reazioni violente, come se non fosse evidente quanto stava già avvenendo:
Ecco l’arma che il Partito Socialista Italiano affida al Proletariato in questo momento in cui l’inferocita borghesia ha scatenato furente tutta la sua rabbia felina, per abbattere e distruggere la potenza della classe lavoratrice.
Ecco il simbolo con il quale i proletari dei campi delle officine e del pensiero, affratellati dal comune destino di sfruttati e schiavi dell’iniquo sistema capitalistico, fusi in una superba immensa forza, animati dalla medesima ardente fede e volontà di emancipazione e redenzione, affrontano il blocco borghese, il blocco di tutte le forze reazionarie e conservatrici, il blocco che contende e contenderà con tutti i mezzi blandi e palesi, legali ed extra-legali, pacifici e violenti il passo all’esercito proletario, il blocco che si oppone e si opporrà alla marcia ascensionale dei lavoratori verso i destini a cui la storia li chiama. [...]
La borghesia nell’ora presente arma i suoi bravi e i suoi gregari di strumenti micidiali, il Partito Socialista si arma con la scheda.
Difendetevi.
[...] Disciplinati ora e sempre ai nostri organi direttivi, non prendiamo neppure in esame la ipotesi che il Partito Socialista in Italia, di fronte al dilagare ed all’intensificare della guerra civile, da esso subita, diserti le urne e siamo disposti a fare il possibile perché si giunga a poter votare.
A tal fine e, pur data l’eccitazione naturale determinata dalla lotta elettorale, faremo ogni sacrificio, anche di amor proprio, per evitare ogni diversivo che possa fare il giuoco degli avversari ed il danno delle classi lavoratrici. Ci dicano pure paurosi e vili. Non ce ne importa affatto. Useremo pazienza e prudenza; non useremo provocazioni non daremo pretesti alle provocazioni altrui; tratteremo ogni nostro compagno od amico che di proprio impulso volesse venir meno a tali propositi(77).
Non cesseremo di ripetere le raccomandazioni, di insistervi fino all’ultimo. Pronti alla energica reazione, se proprio costrettivi, dobbiamo spiare che gli avversari mettano nella luce la più completa, tutte le loro armi, i loro metodi, la loro mentalità. Si devono fregare da loro stessi, prima ancora che li freghiamo noi(78).
[...] In Italia le elezioni si fanno in piena guerra civile, guerra nella quale il proletariato è disarmato.
Il proletariato disarmato viene beffeggiato, vilipeso e sfidato.
Sua unica arma la scheda con FALCE, MARTELLO, LIBRO!
Giammai la scheda ha avuto un significato così augusto, un valore così idealmente e praticamente rivoluzionario come l’avrà il 15 maggio(79).
I dati sulla partecipazione indicano che, anche se il divario rispetto al dato veneto e a quello nazionale risulta ancora consistente (Tab. 12), si ha un forte incremento nel numero dei votanti (7.000 in più rispetto alle politiche del 1919), confermando il recupero della partecipazione manifestatosi già nelle comunali dell’anno precedente. Si tratta di un dato rilevante tenuto conto che in città quasi 12.000 certificati, come si è già detto, non sarebbero stati consegnati. I dati della Tab. 11 e l’andamento della Fig. 4 evidenziano la forza della sinistra (socialisti + comunisti) che a Venezia si impone, sul piano elettorale, al limite della maggioranza assoluta, confermando l’immagine di una città isola rossa in un Veneto bianco. Ma in realtà non è l’unica città in cui la sinistra sarebbe maggioranza, dal momento che in ben quattro comuni capoluoghi del Veneto la sinistra (socialisti da soli o socialisti + comunisti) raggiunge livelli di consenso più alti che a Venezia (il 54% a Belluno, Padova e Vicenza, il 50% a Verona).
Colpisce semmai la debolezza dei popolari, che a Venezia ottengono meno di un terzo della media regionale e la metà di quella nazionale, rendendo in questo modo evidente l’impraticabilità di qualunque ipotesi di articolazione dello spazio politico in una fase di forte polarizzazione sociale.
Più in dettaglio, il partito socialista ridiventa il primo partito in città (Tab. 12) e conferma la sua capacità di ampliare i consensi anche in presenza del partito comunista appena fondato che però raccoglie poco meno di un migliaio di voti. Il P.P.I., che a livello nazionale e veneto mantiene le stesse percentuali del 1919, a Venezia perde più di un terzo del proprio elettorato, a vantaggio del blocco.
I democratico-sociali recuperano rispetto alle comunali, ma non riescono a rieleggere il loro deputato, Silvio Trentin, «essenzialmente per la perdita di consensi presso quei ceti agrari che un tempo erano legati all’area democratica ed ora stavano passando al fronte reazionario»(80). L’Unione Nazionale, etichetta che raggruppa il fronte elettorale dell’Alleanza Nazionale con i fascisti, i liberali e i nazionalisti, ottiene un risultato non esaltante se si considera che il divario tra sinistra (socialisti e comunisti) e blocco d’ordine (Unione Nazionale, partito popolare e repubblicani) aumenta fino a raggiungere 11 punti percentuali.
Il voto per circoscrizione (Tab. 13, Fig. 5, Tav. 3) segnala alcune variazioni significative per il partito socialista, se misurate in termini percentuali: rispetto al voto del 1919, i socialisti registrano un calo di 10 punti percentuali a Castello e un incremento di 12 punti alla Giudecca. Il partito comunista evidenzia un maggior seguito nei due sestieri di S. Croce e Castello.
Nel caso del partito popolare, il calo generalizzato coinvolge tutte le circoscrizioni, in particolare la Giudecca, dove appare un consistente flusso di voti a favore dei socialisti, ma soprattutto Lido/Malamocco dove il Blocco ottiene uno dei risultati migliori.
La lista d’ordine conferma i propri tradizionali punti di forza dove la composizione sociale (Tabb. 4 e 5) vede una presenza più consistente di ceti borghesi e piccolo-borghesi (S. Marco e Lido/Malamocco).
Tuttavia, è in alcuni comuni della terraferma veneziana (Tab. 14 e Fig. 6) che il partito socialista, partendo da livelli di consenso molto bassi nel 1919, ottiene i risultati più incoraggianti: è il caso soprattutto di Chirignago, ma anche nell’estuario si registrano incrementi di tutto rispetto come a Pellestrina. Debole appare la presenza dei comunisti fuori del centro storico. La distribuzione dei consensi ai popolari segnala invece un indebolimento generalizzato all’interno del centro storico e una relativa tenuta nelle isole (Murano e Burano), mentre in terraferma tiene Zelarino ma crolla Chirignago, dove maggiore è stato l’incremento dei socialisti. Per il Blocco, a fronte di percentuali perlopiù modeste, si segnala il dato di Pellestrina: si tratta di un risultato sorprendente, visto che nel 1919 la lista di Trentin vi aveva raccolto il 64,7%, mentre ora cede buona parte dei consensi alla destra confermando la fragilità di un impianto elettorale tipico di un partito di opinione.
Tra le conseguenze di rilievo dell’esito del voto vanno menzionate la crisi interna al partito popolare e l’aggravarsi delle tensioni all’interno del movimento socialista: «vittima di una sottovalutazione della propria capacità politica, il P.S.I. veneziano si trova in stato di ibernazione in attesa di sviluppi rivoluzionari nelle grandi città. La sua rivoluzione è una rivoluzione ancora a parole, tant’è che sono sempre più i dibattiti teorici a svolgere un ruolo essenziale nella vita del partito e del suo giornale, quasi avulsa dai gravissimi problemi quotidiani delle officine e delle strade»(81). Non ultima, la pratica sindacale di difesa delle categorie sindacalizzate e dei lavoratori ‘rossi’ contribuisce a creare grosse tensioni all’interno della sinistra veneziana, del sindacato, della stessa dirigenza socialista: «queste divisioni sfoceranno nella scissione comunista del gennaio 1921, nei tafferugli del settembre 1921 tra socialisti e comunisti alla Camera del Lavoro e nell’espulsione dei riformisti nell’ottobre 1922»(82).
Tali pratiche sindacali, come si è già detto, favoriscono i tentativi del fascismo veneziano nell’usare un’organizzazione sindacale fascista (C.I.S.E., Confederazione Italiana Sindacati Economici) come punto di riferimento per le associazioni di mestiere antisocialiste riuscendo in breve tempo ad assorbire anche numerosi settori del sindacalismo socialista (impiegati, cooperative del porto)(83).
Eventi emblematici della sconfitta del movimento operaio veneziano sono lo scioglimento e la liquidazione della Cooperativa ‘Casa del Popolo’, il 4 ottobre 1922, e l’uscita dell’ultimo numero della testata socialista «Il Secolo Nuovo», il 28 ottobre.
Dopo nemmeno un mese dalla formazione del governo, Mussolini propone la riforma del sistema elettorale, per rivedere il sistema proporzionale in vigore, affinché sia garantita oltre alla rappresentanza di tutti i partiti anche la «formazione di un Governo di maggioranza parlamentare»(84).
La sconfitta dei partiti democratici dopo la Marcia su Roma si consuma anche a livello locale: «una certa vivacità dimostrò ancora una volta Trentin che, nel torbido periodo aventiniano, riuscì ad espellere dalla democrazia sociale quanti [...] si erano attestati su posizioni filofasciste. [...] All’interno del movimento operaio, il passaggio di Musatti al Psu e del gruppo dei giovani al Pci, aveva sì penalizzato il Psi, [...] ma nel contempo aveva consentito al Psu di vivere una dignitosa stagione autunnale e al Pci di tessere una pur gracile trama di cellule e di sezioni che avrà il suo peso nelle vicende clandestine del partito. Il Partito popolare, dopo un iniziale sbandamento, [...] sembrò ritrovare, nello scorcio del 1923, il gusto dell’autonomia e dell’identità»(85), tanto da presentarsi alle elezioni con una lista autonoma.
È difficile parlare di campagna elettorale in queste condizioni ed è significativo che scorrendo il giornale filofascista, la «Gazzetta di Venezia», a parlare non siano gli esponenti fascisti, ma i candidati delle forze politiche alleate con il fascismo, la destra nazionale e il partito liberale. Così nelle parole dell’esponente della destra nazionale Amedeo Sandrini: «Le idee comuni per le quali ci troviamo insieme noi della destra nazionale con voi amici fascisti sono sempre l’ordine, la disciplina, la gerarchia, l’autorità statale, che sono presidio di libertà [...]. Il mio partito condividendone l’ideale mussoliniano, vuol collaborare con lealtà con il governo fascista dividendone pienamente le responsabilità»(86), o in quelle del presidente dell’Associazione liberale Girolamo Marcello: «Noi appoggiamo incondizionatamente il Governo Nazionale ed il Fascismo perché in essi vediamo quel furioso uragano d’estate che risana l’aria e fa sereno il cielo. Noi lo facciamo per l’immensa consolazione che prova il nostro cuore di italiani che per tanti anni visse sofferente nell’attesa»(87).
La partecipazione al voto (Tab. 16) fa registrare un numero elevato di voti non validi, ma anche il permanere dello scarto tra la percentuale di votanti veneziani, che continua a essere più bassa, e quella veneta e nazionale. I risultati, tuttavia, indicano che le forze di sinistra, pur in lotta tra loro, riescono ancora a raccogliere complessivamente il 40% dei consensi (Tab. 15 e Fig. 7), dimostrando che in città esiste un fronte di classe non del tutto e non ancora normalizzato dalla violenza fascista, dalla repressione poliziesca e dallo spostamento a destra del quadro politico. Si può parlare della persistenza di segmenti sociali che hanno conservato la propria identità politica, nonostante conflitti e sconfitte. Solo così si spiega il risultato del «listone», che a Venezia è ben lontano sia dalla media veneta che da quella nazionale.
I popolari, pur ottenendo a Venezia un risultato inferiore a quello registrato nel resto del Veneto, presentandosi da soli recuperano terreno rispetto al 1921, anche se hanno contro la curia, più preoccupata del successo dei socialisti che della sconfitta dei popolari o dell’affermazione dei fascisti(88). L’opposizione liberal-democratica riesce ancora a raccogliere una percentuale significativa, nonostante lo sbandamento di molti elettori che danno il loro voto al listone per la presenza in questo, a livello nazionale, di un centinaio di candidati liberal-democratici fiancheggiatori.
La frammentazione della sinistra appare in tutta la sua drammaticità proprio sul piano elettorale (Tab. 16): a un consenso che a Venezia potrebbe risultare ancora una volta maggioritario si contrappone una divisione tra massimalisti, riformisti e comunisti che porta a un risultato paradossale se confrontato con le elezioni precedenti: le singole liste della sinistra infatti sono battute dai fascisti in tutte le circoscrizioni del centro storico, mentre nelle isole di Murano e Burano, dove insieme sarebbero maggioritarie per la prima volta, sono invece superate dai popolari. Anche in terraferma sono seconde ai fascisti (tranne a Favaro e a Chirignago, dove riescono a prevalere i socialisti massimalisti, e a Zelarino, dove i popolari si confermano primi). È un segnale dell’impotenza politica e della mancanza di consapevolezza storica di gruppi dirigenti incapaci di cogliere fino in fondo i caratteri della sfida del fascismo sul terreno della mobilitazione sociale e politica. Ma è anche il segno della fragilità, per non parlare del fallimento, di un processo incompiuto di costruzione del partito di massa, che sarà invece perseguita con ben maggiore determinazione dal P.C.I. (Partito Comunista Italiano) dopo la tragica esperienza della guerra civile. Per completezza d’informazione, resta da precisare che, a livello cittadino, i socialisti unitari prevalgono sui massimalisti, seguiti a breve distanza dai comunisti che triplicano i loro consensi rispetto al 1921. Tra i deputati eletti nella circoscrizione del Veneto vi è anche Antonio Gramsci.
Il voto per circoscrizione (Tab. 17, Fig. 8, Tav. 4) sottolinea quanto si è detto a proposito della continuità di insediamento dell’elettorato di sinistra: con oscillazioni minime, le tre componenti in cui si è diviso il partito socialista veneziano ripropongono lo stesso profilo territoriale del voto socialista del 1919 e del 1921, a dimostrazione di una non effimera capacità di identificazione di porzioni maggioritarie dell’elettorato con le organizzazioni e gli uomini della tradizione socialista. Nel centro storico della città la sinistra sopravanza di quasi 6 punti percentuali il listone fascista, che si afferma solo nelle tradizionali roccaforti del voto clerico-moderato: S. Marco e Lido. Ancora una volta si segnala Pellestrina, questa volta per aver tributato un consenso plebiscitario alla lista fascista: nessuna circoscrizione veneziana evidenzia oscillazioni così vistose negli orientamenti di voto.
Nei comuni della terraferma (Tab. 18 e Fig. 9) la sinistra nel complesso ottiene risultati superiori a quelli del centro storico. È questo un risultato importante, se si tiene conto che alle elezioni comunali di Mestre dell’anno precedente i socialisti non si sono presentati, «intimiditi da ripetute aggressioni e via via abbandonati da gruppi consistenti di operai che cominciavano a confluire nella corporazione fascista»(89).
Tra il 1924, anno delle ultime elezioni competitive, e il 1946, anno in cui si torna al voto secondo le regole della liberal-democrazia, si svolgono altre due consultazioni (i «plebisciti» del 1929 e del 1934), dopo che viene abolito il suffragio universale e vengono ripristinate le categorie di elettori per censo e per titoli di capacità, in presenza di un’unica lista bloccata e senza che sia assicurata la segretezza del voto. Se sul piano degli orientamenti politici dell’elettorato si tratta di elezioni che non possono fornire indicazioni utili, esse mostrano comunque il coinvolgimento, sia pure forzato, di una quota consistente della popolazione nelle dinamiche politiche nazionali, che sembra lasciare una traccia nel secondo dopoguerra, quando le percentuali di partecipazione al voto si collocano a livelli molto elevati, raggiunti per la prima volta solo nei due plebisciti. Il dato della partecipazione elettorale del 1929 e del 1934 (Tab. 19) può così essere letto come un indicatore dei processi di socializzazione politica che il regime attiva dall’alto.
Perché si torni, dopo la caduta del fascismo, a una democrazia effettivamente funzionante anche sul piano dei meccanismi della rappresentanza politica devono trascorrere tre anni, dalla «svolta di Salerno» e le due «costituzioni provvisorie» all’elezione dell’Assemblea Costituente: un processo in cui si scontrano le vecchie culture politiche liberali antipartitiche legate all’idea di rappresentanza individuale e le nuove culture politiche che vedono nei partiti i canali di organizzazione della politica secondo il modello di una «democrazia dei partiti». «Chiamati a svolgere un ruolo pedagogico, quasi di tutela di un apprendistato democratico a cui gli italiani sono rimasti in larga parte estranei, i partiti cercano di coordinare e organizzare le forme del rinnovato ‘protagonismo’ politico»(90).
Sono i partiti i veri protagonisti della difficile ripresa della democrazia, anche a Venezia: a cominciare dal P.C.I., cui spetta il primato della continuità e «la cui attività, pur ridotta ai minimi termini, [...] non venne mai del tutto meno nell’arco del ventennio»(91). Con il ritorno dei quadri dal confino la riorganizzazione può contare sia sui tradizionali punti di forza nel centro storico e a Mestre sia su alcune cellule di fabbrica a Porto Marghera, in significativa coincidenza con il montare della crisi all’interno delle masse operaie più colpite nelle condizioni sociali e di lavoro. Una crisi che favorisce forme di contestazione anche in una concentrazione operaia come quella di Porto Marghera, la cui specificità appare legata vuoi alla modernità della struttura produttiva vuoi alla sua recente formazione e all’origine contadina(92). Non trascurabile è poi il fatto che praticamente tutti i vecchi militanti operai del P.S.I. sono frattanto passati al P.C.I. Nonostante questo travaso di militanti, riappare precocemente a Venezia anche il movimento socialista, con caratteri in parte nuovi, essendo gli aderenti nella fase iniziale in prevalenza professionisti e impiegati, ma non per questo il partito rinuncia alle sue matrici e posizioni massimalistiche(93). Da segnalare, a sinistra, il formarsi del Partito d’Azione attorno a figure importanti dell’intellighenzia veneziana, con qualche presenza anche all’interno della classe operaia.
Nel mondo cattolico, negli ultimi mesi del regime matura il tentativo di sganciarsi dalle compromissioni con il fascismo, riproponendo la precedente articolazione tra clerico-moderati e cattolico-sociali, che convergono nella comune necessità di dar vita a un partito dei cattolici in grado di contare sulla rete dei parroci e dell’associazionismo cattolico(94). Questo riposizionamento consente ai quadri della ‘nuova’ D.C. (Democrazia Cristiana) di proporsi, con ben maggiore successo che nel primo dopoguerra, quali eredi del vecchio ceto politico moderato. Se c’è una vicenda che può essere considerata emblematica di come ben presto le forze moderate riescano a riprendere il sopravvento, grazie a un intreccio tra il vecchio e il nuovo che vede nella Chiesa e nella D.C. i protagonisti di una continuità sostanziale tra il prefascismo e il postfascismo, questa è la vicenda de «Il Gazzettino» il cui pacchetto azionario passa da Volpi alla D.C. nei mesi cruciali in cui si decidono i rapporti di forza in Veneto(95).
È significativo il fatto che il modello Volpi di sviluppo della città impostosi negli anni Trenta — «affiancare a una Venezia, votata a un avvenire turistico e internazionale, una seconda Venezia, in terraferma, commerciale ed industriale, grande polo di sviluppo a valenza regionale insediato sull’orlo della laguna»(96) — non trovi sostanziale opposizione in una città sfiancata dalla crisi occupazionale effetto della crisi industriale e alle prese con la ricostruzione e il risanamento. Anche se la guerra ha risparmiato Venezia da distruzioni gravi, l’attività economica stenta a ripartire per mancanza di materie prime e difficoltà nel sistema dei trasporti: disoccupazione e miseria sono all’origine di manifestazioni di protesta spontanee e di scioperi indetti dal sindacato(97).
Le dinamiche demografiche si confermano tra i fattori di aggravamento della situazione sociale: i dati del censimento indicano che il centro insulare nel 1951 raggiunge il massimo di popolazione (174.808 abitanti su un totale di 315.669, mentre l’estuario conta 43.988 abitanti e la terraferma 96.776) con una densità abitativa di 219 persone per ettaro, come conseguenza delle vicende belliche e postbelliche che vedono Venezia assumere il ruolo di città «rifugio». Le condizioni abitative del centro storico non possono quindi che peggiorare rispetto a una situazione già drammatica nel primo dopoguerra. È però la terraferma a registrare l’incremento demografico più vistoso, se si considera che nel 1936 gli abitanti erano 65.658, e questo non può non generare tensioni abitative fortissime che alimentano fenomeni devastanti di lottizzazione speculativa contribuendo a comporre «il quadro di più allucinante fungaia residenziale che sia mai stato offerto da città italiana»(98).
Sono questi alcuni indicatori sommari delle condizioni sociali in cui vivono i ceti popolari veneziani: non è difficile immaginare quali tensioni possano originare in un contesto abitativo così degradato e su cui ben poco riescono a incidere gli interventi disorganici dell’amministrazione pubblica e le operazioni speculative degli operatori privati(99).
Il ritorno alla democrazia è scandito da tre consultazioni elettorali, la prima (in due turni, primavera e autunno) per le elezioni delle amministrazioni comunali, la seconda per la scelta istituzionale (referendum) e la terza, nello stesso giorno, per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Venezia è tra le città che vanno al voto con il primo turno delle amministrative di primavera: esse rappresentano la prima verifica della forza dei partiti che si sono ricostituiti tra il 1941 e il 1943. La scena politica è subito occupata dalla contrapposizione tra due forze antitetiche: da una parte la D.C. chiama alla difesa dei «principi della civiltà italica cristiana» contro il pericolo del marxismo e del materialismo, dall’altra comunisti e socialisti, pur tra contrasti, guidano lo schieramento antifascista e repubblicano che punta alla direzione di un governo democratico e riformatore(100).
I giorni che precedono le elezioni sono caratterizzati da un susseguirsi ininterrotto di comizi, di cui «Il Gazzettino» fornisce puntualmente il calendario nella rubrica «Conferenze, Riunioni» in cronaca locale, e la città è letteralmente tappezzata di manifesti elettorali. I punti programmatici della D.C. insistono molto sui temi della persona, dei valori cristiani del matrimonio, della libertà della Chiesa, della scuola, dei Comuni. Con riferimento più specifico ai problemi amministrativi della città, la D.C. si prefigge il pareggio di bilancio, esplicitando così la sua concezione non interventista; obbligato è il riferimento alle esigenze della ricostruzione delle aree danneggiate (Marghera, Mestre, la spiaggia del Lido) e alla questione edilizia con la richiesta di demolire e ricostruire le case inabitabili. Gli obiettivi che animano la D.C. sono «per l’elevazione morale e materiale degli umili e dei sofferenti»(101).
A sinistra, si insiste sulla stretta collaborazione tra comunisti e socialisti. «Per Venezia questo accordo si rivelerà determinante, anche se, nel corso della campagna elettorale, al di là di alcuni comizi comuni, socialisti e comunisti conducono in modo autonomo la propria campagna, utilizzando largamente gli organi di stampa del partito: il ‘Secolo Nuovo’, per il PSI, e ‘La voce del popolo’, per il PCI»(102). Entrambi i partiti concordano sull’obiettivo prioritario della ricostruzione, anche se lo presentano agli elettori in modo diverso: il P.C.I., più attento alle condizioni politiche del rapporto centro-periferia, insiste sull’esigenza di una maggiore autonomia amministrativa dei Comuni; il P.S.I. tende a dare maggiore spazio all’indicazione dei mezzi per risolvere i problemi della città, cercando di coinvolgere le diverse articolazioni sociali veneziane. Molto incisiva la propaganda del Partito d’Azione che può contare su una figura di prestigio come il rettore di Ca’ Foscari, Gino Luzzatto.
Inevitabile diventa il confronto con le campagne elettorali del primo dopoguerra: la stampa usa toni sobri e improntati a correttezza e rispetto reciproci, il clima appare ancora segnato dallo spirito di collaborazione antifascista(103). Le critiche sono sempre alle posizioni politiche e del tutto assenti sono gli attacchi personali ai candidati: è evidente che la politica si identifica con i partiti. Ma è soprattutto l’incertezza dei risultati, cioè delle prospettive politiche, a caratterizzare la prima campagna elettorale che inaugura il ritorno alla democrazia.
Prima di verificare se e come cambia l’orientamento politico dei veneziani rispetto al primo dopoguerra, è il caso di ricordare almeno due circostanze importanti: la prima, scontata, è il fatto che si torna a votare dopo venti anni di regime autoritario e di cancellazione di ogni opposizione politica, con una guerra civile seguita alla caduta del regime fascista; la seconda, spesso trascurata, è il ricambio che il corpo elettorale ha subito, grazie all’estensione del voto alle donne e all’avvicendarsi di almeno una generazione, un ricambio che può essere solo stimato ma che è comunque molto rilevante, attorno al 70%.
Le elezioni comunali attestano anzitutto che l’elevata partecipazione (Tab. 20), nonostante i timori circa l’orientamento dell’elettorato femminile, non penalizza la sinistra che già nel primo dopoguerra risultava prevalente in tutte le consultazioni, anche se questa volta è il P.C.I. a raccogliere il maggior numero di consensi a sinistra. La vera novità è però l’affermazione della D.C. che diventa il primo partito in città, mentre la destra monarchico-liberale deve accontentarsi di percentuali a una sola cifra in una Venezia che l’aveva vista dominare gli equilibri politici sostanzialmente per l’intero periodo postunitario. Inferiore alle attese il risultato del Partito d’Azione, penalizzato probabilmente da uno spostamento del suo elettorato verso il partito socialista.
Se il successo della D.C. trova una spiegazione plausibile nelle condizioni di relativo privilegio in cui ha potuto svilupparsi il processo di costruzione dell’egemonia del mondo cattolico nell’ambiente urbano durante il fascismo, meno scontato appare il risultato della sinistra che, dopo i tragici errori e le divisioni del primo dopoguerra e nonostante le condizioni proibitive in cui si trova a ricostruire una presenza sociale e organizzativa, sembra tornare ai livelli di consenso del primo dopoguerra, come se il compito di estirparla che il fascismo si era assegnato fosse fallito.
L’accordo preliminare delle sinistre garantisce che, una volta ottenuta la collaborazione del Partito Repubblicano d’Azione (U.R.D., Unione Repubbliche Democratiche), le sinistre possano eleggere sindaco Giobatta Gianquinto, che guiderà il Comune fino al 1951, in condizioni di agibilità politica rese sempre più difficili dal venir meno dell’intesa tra i partiti dell’alleanza antifascista.
Dopo due mesi Venezia torna alle urne per il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente. L’inizio della campagna elettorale è segnato da un patto tra i partiti antifascisti «perché sia garantita a tutte le correnti politiche in lotta per le elezioni dell’Assemblea Costituente, piena libertà di parola, e siano sempre rispettate le opinioni altrui, come si conviene a un popolo civile e democratico»(104). I partiti riprendono e sviluppano i punti programmatici già individuati per le elezioni amministrative, mentre i candidati delle forze favorevoli alla scelta repubblicana tentano in tutti i modi di dimostrare l’inconsistenza dei timori legati all’avvento della repubblica.
I risultati del voto politico, a fronte di un aumento della partecipazione elettorale, evidenziano mutamenti nei rapporti di forza tra gli schieramenti emersi nel voto amministrativo di marzo: un calo della sinistra e un incremento della D.C. e della destra (Tab. 21). Il sistema dei partiti non è ancora strutturato e queste variazioni segnalano che gli orientamenti dell’elettorato non sono certo stabilizzati. A livello sistemico va comunque notato che gli eredi dei due partiti di massa che si erano già imposti nelle elezioni del 1919 raggiungono ora il 91,5% dei voti in città, il 94,5% in Veneto e l’80% a livello nazionale: dalla situazione tripolare del primo dopoguerra si è così passati a un assetto bipolare in cui la D.C., dimostrandosi in grado di assorbire buona parte dell’elettorato di destra, si costituisce come unico polo alternativo alla sinistra.
L’arretramento della sinistra tra il voto amministrativo di marzo e quello politico di giugno è interamente dovuto a un calo del P.C.I. superiore ai 5 punti percentuali (Tab. 22): il P.C.I. retrocede in terza posizione dopo D.C. e P.S.I., arretrando soprattutto in terraferma a Marghera (–9,7%) e Chirignago (–10,1%). I socialisti in città resteranno primo partito della sinistra fino alle politiche del 1963, anche se non è più il partito socialista del primo dopoguerra. Infatti, la distanza tra una Venezia socialista e un Veneto cattolico, vero stigma della città rispetto al retroterra regionale, è del tutto annullata, mentre ora è il livello dei consensi al P.C.I. a segnare ancora una differenza. Modesto il risultato del Partito d’Azione che sembra ripetere la parabola della Democrazia Sociale nel primo dopoguerra: come allora, una formazione che si rivolge alla borghesia progressista in chiave di modernizzazione delle istituzioni, ma che alla prova del voto non riesce a contrastare la polarizzazione tra destra e sinistra. Rilevante invece il risultato del Blocco Nazionale della Libertà, monarchico, che a Venezia ottiene pur sempre un risultato significativo rispetto alla media veneta.
Per dare conto della rinascita delle sinistre si è sempre insistito sui meriti maturati sul campo per il contributo determinante dato alla guerra di liberazione. Senza nulla togliere a questo argomento, non va però trascurato quanto emerge dall’analisi delle relazioni tra i comportamenti di voto nei due dopoguerra. Esse mettono in luce elementi di persistenza negli orientamenti politici, che rinviano ai meccanismi di riproduzione delle culture politiche. Come spiegare altrimenti le evidenti relazioni tra i risultati delle elezioni politiche svoltesi nell’immediato primo e secondo dopoguerra, a livello di circoscrizioni elettorali veneziane (Tab. 23)? A distanza di quasi trent’anni, troppi sono gli elementi di continuità nella distribuzione territoriale dei consensi alle forze di sinistra per non pensare che essi abbiano radici nella memoria dei conflitti sociali e delle esperienze organizzative che questi hanno sedimentato nel processo di emancipazione delle classi subalterne. I voti che i due partiti di sinistra raccolgono nel 1946 tendono infatti a concentrarsi nelle stesse zone che nel primo dopoguerra costituivano il retroterra dell’insediamento elettorale socialista, soprattutto quello rilevato attraverso il voto del 1921, come risulta molto chiaramente dal confronto tra la Tav. 5 e la Tav. 3. Per essere più precisi, i punti di forza della sinistra nel primo dopoguerra (Giudecca, Dorsoduro, Castello, Marghera, Favaro, Chirignago) si confermano tali anche nel secondo dopoguerra; così le zone di debolezza (S. Marco, Burano, Lido, Malamocco, Pellestrina) restano tali anche nel 1946.
Ben diverso è il caso della D.C.: i consensi che riceve nelle diverse circoscrizioni non richiamano affatto la distribuzione del voto ai popolari del primo dopoguerra, quanto piuttosto i risultati del Blocco del 1921 o del listone fascista del 1924. Fatta eccezione per Burano, unica circoscrizione che conferma un consenso maggioritario alle forze cattoliche, sono S. Marco, S. Polo, Lido e Pellestrina, cioè i tradizionali punti di forza del voto moderato veneziano, a garantire alla D.C. la posizione di primo partito della città. Vi sono però anche situazioni nuove, per esempio Zelarino, che nel 1919 assegna ai popolari due terzi dei voti, mentre nel 1946 orienta le proprie preferenze politiche a favore della sinistra, in particolare verso il partito socialista.
L’articolazione territoriale del voto ai due schieramenti contrapposti trova riscontro, e probabilmente ne è in parte anche conseguenza, nei risultati del referendum istituzionale che a Venezia vede la scelta repubblicana imporsi con una maggioranza consistente, cioè con uno scarto di ben 40 mila voti rispetto alla scelta a favore della monarchia (Tab. 24). Poiché i voti filomonarchici sono 61 mila, lo stesso numero di voti raccolti dalla D.C. nel voto per la Costituente, e la destra può contare su 10 mila voti, si può stimare che almeno 50 mila elettori della D.C. hanno votato per la monarchia. Questo dato spiega le ragioni della scelta dei dirigenti democristiani di lasciare libertà di voto e sottolinea ancora una volta come la D.C. sia divenuta, dopo alcune incertezze, il nuovo punto di riferimento dell’elettorato moderato veneziano.
La scelta repubblica/monarchia nelle diverse circoscrizioni (Tab. 25) disegna una radiografia fedele dell’elettorato veneziano evidenziando le persistenze (le circoscrizioni borghesi del centro storico e dell’estuario si pronunciano in maggioranza a favore della monarchia, le circoscrizioni popolari invece a favore della repubblica), ma anche i mutamenti più recenti intervenuti negli orientamenti politici (tutti gli ex comuni della terraferma votano repubblica con percentuali superiori al 70%).
«Tra il 1947 e il 1948, nel giro di un anno cruciale per le sorti della Repubblica, si gettano le basi della costituzione reale del paese: sua collocazione internazionale, struttura di governo e sistema politico, rapporti di forza tra le classi sociali, il potere e l’opposizione. Poco dopo la svolta del ’47 i risultati elettorali del 18 aprile sanciscono ed enfatizzano, chiariscono e legittimano la conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti: una regola, un portato della nuova ‘alleanza democratica internazionale’, sostitutiva dell’alleanza antifascista»(105). Nel clima della guerra fredda i condizionamenti esterni vengono usati per trasformare il conflitto tra forze della trasformazione e forze della conservazione in una sorta di scontro finale tra totalitarismo e democrazia. Ma questo non sarebbe stato possibile se la società italiana non vi fosse in qualche misura già ‘predisposta’ per il peso delle ‘eredità storiche’ che ancora lasciavano aperte nel tessuto sociale le principali fratture tipiche dei processi di costruzione nazionale: il conflitto tra Stato e Chiesa, tra cultura nazionale e resistenze locali, tra città e campagna.
Le dinamiche sociali e politiche che caratterizzano il biennio 1946-1948 in Veneto sono state oggetto di una riflessione attenta a mettere in luce l’intreccio sempre più stretto fra ‘economico’ e ‘ideologico’(106). In questo senso il Veneto costituisce un osservatorio privilegiato, dove il processo di politicizzazione diretta della Chiesa è più visibile ed esplicito. Rispetto a questo quadro, ci si deve chiedere se e in che misura Venezia segnali una sua specificità, sia pure letta attraverso un elemento ‘sovrastrutturale’ come il voto. Ricostruendo la campagna elettorale attraverso la testata de «Il Gazzettino», emerge un elemento sconcertante, cioè l’assenza di una vera e propria campagna elettorale «veneziana»: analizzando le pagine locali dal 12 marzo al 18 aprile, risultano 13 articoli/interventi sul problema dei certificati elettorali non consegnati e/o sbagliati, in un crescendo ossessivo che alimenta il dubbio che l’amministrazione locale non sia estranea agli inconvenienti, e un solo articolo ‘politico’ che riferisce il contenuto di alcuni comizi di candidati anticomunisti(107). È evidente che la posta in gioco è tale da assegnare priorità assoluta alla mobilitazione elettorale, mentre lo specifico veneziano viene sussunto all’interno della guerra ideologica in corso che non può essere affidata alla cronaca locale, ma va gestita sulle prime pagine. In questo modo, si riesce ad accreditare l’impostazione di fondo che non risponde alla logica del confronto tra forze della trasformazione e forze della conservazione, bensì alla logica dello scontro finale tra comunismo e anticomunismo, fra totalitarismo sovietico e democrazia occidentale(108).
Elemento essenziale per una corretta comprensione delle dinamiche elettorali che caratterizzano il 18 aprile è l’analisi della partecipazione al voto (Tab. 26): per la prima volta infatti nella storia elettorale italiana la percentuale dei voti validi sugli elettori supera il 90%. In particolare, il dato nazionale è 90,2%, quello veneto 91,4%, a Venezia raggiunge il 91,6%. È questo il risultato più evidente di un processo di mobilitazione collettiva segnata da contrapposizioni manichee, con l’anticomunismo cavallo di battaglia nel confronto tra i partiti(109).
Le misure del successo elettorale e politico della D.C. non lasciano adito a dubbi (Tab. 27): a livello nazionale conquista il 48,5% e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, contro il 31% dei voti al fronte delle sinistre. A livello veneto la D.C., con il 60,5%, inaugura una lunga stagione di maggioranze assolute mentre la sinistra non raggiunge il 25%; a Venezia ottiene la maggioranza assoluta e un vantaggio di 30 mila voti sul fronte popolare.
A Venezia, tuttavia, al balzo della D.C. rispetto al voto del 1946 non corrispondono perdite speculari della sinistra (Tab. 26 e Fig. 10): infatti, se si usano le percentuali calcolate sugli elettori, anziché sui voti validi, e si considerano il Fronte e la nuova formazione socialdemocratica, si nota subito che le sinistre, pur dividendosi, nel complesso migliorano sia pure di poco il risultato del 1946; solo a livello regionale arretrano di 3 punti.
In termini di voti ciò significa che, a fronte di un incremento di 31.658 voti per la D.C., le sinistre nel loro complesso crescono pur sempre di 5.668 voti, mentre le formazioni di destra cedono 5.709 voti. Inoltre, rispetto agli astenuti del 1946, 4.121 elettori tornano al voto, ma soprattutto si riducono di 9.003 unità le schede bianche e i voti nulli. In altre parole, i nuovi voti che garantiscono alla D.C. la maggioranza assoluta difficilmente provengono dalle forze politiche della tradizione socialista. Sono altri i fattori che concorrono a determinare il risultato eclatante della D.C.: sul piano politico pesano la frattura nel partito socialista e la partecipazione dei socialdemocratici e dei repubblicani al governo guidato da De Gasperi, mentre sul piano dei numeri hanno giocato la scomparsa o il ridimensionamento dei partiti nati durante la Resistenza o nell’immediato dopoguerra ma, soprattutto, il forte recupero sul non voto. La D.C. il 18 aprile ha potuto raccogliere i frutti di quello che può essere considerato un esempio irripetibile di «dirompente mobilitazione politica degli italiani e delle italiane»(110).
Insomma, la D.C. sfonda ma non a spese delle forze di sinistra che solo dividendosi favoriscono il successo politico della D.C., senza però subire un tracollo di consensi. La vittoria democristiana è conseguenza soprattutto della capacità di recuperare il voto di molti tra gli «indifferenti» e i «disorientati», la «zona grigia di quelli che non parlano» su cui l’apparato organizzativo della Chiesa ha diretto i suoi sforzi fin dall’inizio della sfida(111).
La mancanza del dato relativo agli iscritti alle liste elettorali nelle circoscrizioni veneziane per il 1946 e il 1948 non consente il confronto tra le due tornate politiche sulla base delle percentuali calcolate sugli elettori, che sole fornirebbero un’indicazione attendibile sugli spostamenti effettivi di voto nelle diverse zone della città: le variazioni nelle percentuali sui voti validi (Tab. 28) suggeriscono comunque alcune considerazioni interessanti che trovano una visualizzazione efficace nella Tav. 6: 1) la D.C. tende a crescere di più nelle zone dove già era forte nel 1946: S. Marco, Lido, Malamocco, Pellestrina, mentre ha incrementi minori alla Giudecca, a Favaro e a Chirignago, ma riesce a strappare Mestre e Zelarino al Fronte.
Nel caso di S. Marco e Lido è da notare che nel 1946 i monarchici avevano raggiunto percentuali del 14%, che vanno ora ad alimentare l’exploit democristiano; Pellestrina invece continua a fare storia a sé, dal momento che già nel ’46 la D.C. aveva ottenuto un risultato significativo, eppure riesce a guadagnare altri 20 punti percentuali sottraendone una parte anche alla sinistra; 2) specularmente, la lista del Fronte limita le perdite (in valore percentuale sui voti validi) dove ha i suoi punti di forza tradizionali, Giudecca e Chirignago, l’unica circoscrizione che dà ancora la maggioranza assoluta alla sinistra, mentre cede di più dove già era debole in precedenza, Lido, Pellestrina, Ca’ Vio; in quest’ultima circoscrizione i socialdemocratici ottengono un buon risultato, oltre che a Mestre.
Non è difficile cogliere in questi andamenti la conferma del fatto che il voto a favore delle forze di sinistra tiene meglio dove esso rispecchia l’impianto del primo dopoguerra, mentre arretra dove la cultura politica socialista non è mai riuscita a radicarsi, come nelle zone dell’estuario.
Per quanto riguarda la D.C., partito dei cattolici e «partito della società italiana», la conquista della maggioranza assoluta anche a Venezia è un risultato politico di grande rilievo, anche se deve vedersela con una sinistra che, per quanto divisa e indebolita, dimostra di riuscire a mantenere le posizioni, con un certo margine di vantaggio in terraferma. L’esito del voto conferma che il successo della D.C. è legato al vantaggio iniziale di essere nata come partito di governo: questo significa che a Venezia può rivendicare il ruolo di riferimento obbligato sia per le forze economiche interessate all’ulteriore sviluppo industriale della città sia per i ceti medi legati alla vocazione turistica del centro storico e delle isole.
Il voto del 18 aprile chiude la fase di transizione alla ‘normalità’ di una democrazia parlamentare di cui sancisce l’avvenuta stabilizzazione su posizioni centriste, anche se appare subito evidente che il sistema politico è ‘bloccato’ nel contrasto tra D.C. e P.C.I., tanto da meritarsi un’etichetta fortunata come quella di «bipartitismo imperfetto» o, come è stato proposto più di recente, di democrazia «bicefala»(112). In quelle condizioni internazionali e interne, è grazie a una specie di compromesso istituzionale stipulato ad opera dei partiti di massa che si riesce a evitare che il conflitto sociale e politico deflagri in guerra civile. Presenti sulla scena politica sono all’incirca gli stessi partiti di massa che l’avevano occupata dopo che nel 1919 era stata introdotta la proporzionale, con l’unica novità, decisiva, di un seguito che modifica alla radice anche gli equilibri tra gli attori sociali e il loro modo di rapportarsi alle pubbliche istituzioni: tre elettori su quattro si esprimono per la D.C. e per i due partiti della sinistra. Tuttavia, come è noto, la distribuzione territoriale di questi consensi tende a polarizzarsi e concentrarsi stabilmente in alcune zone (zone bianche e zone rosse), tanto da avvalorare interpretazioni del sistema politico fondate sulla presenza di due subculture politiche territoriali, quella bianca del Nord-Est e quella rossa del Centro. In questa prospettiva si è già fatto cenno alla presunta anomalia di una Venezia rossa sullo sfondo di un Veneto bianco: si tratta ora di vedere se quelle premesse trovano riscontro anche nei comportamenti elettorali del lungo secondo dopoguerra.
Il voto veneziano mostra come le differenze rispetto al Veneto, già evidenti nel primo dopoguerra, si ripresentano con caratteri ancora più marcati: infatti, mentre nelle province del quadrilatero centrale la fase 1946-1948 coincide con la ‘fondazione’ del Veneto bianco, espressione politica della subcultura cattolica — tradotto in termini di voti significa un rapporto di 3 a 1 tra D.C. e P.C.I. —, a Venezia non solo non ha senso parlare di subcultura bianca, al contrario si potrebbe ipotizzare l’esistenza di alcuni tratti di subcultura rossa, vista la capacità di riprodursi così a lungo negli stessi luoghi da parte di quella cultura politica che si alimenta della tradizione del movimento operaio socialista. In ogni caso i rapporti di forza tra sinistra e D.C. sono decisamente competitivi e a vantaggio della sinistra. Il contrasto tra una Venezia rossa e un Veneto bianco può essere reso efficacemente misurando la distribuzione media del voto ai partiti principali nelle elezioni politiche dal 1946 al 1992, cioè nell’intero arco di vita della cosiddetta «Prima repubblica» (Fig. 11). Come si vede dal grafico, l’ampiezza media del consenso alla D.C. a Venezia si attesta sul 30% dell’elettorato, contro il 44% in Veneto e il 32,8% a livello nazionale, cioè quasi il 50% in meno in città rispetto alla regione, mentre sia il P.C.I. che il P.S.I. registrano un livello medio di consensi superiore non solo a quello veneto ma anche a quello nazionale.
Anche i partiti laici (Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Repubblicano Italiano, Partito Liberale Italiano) sono mediamente più forti a Venezia che in Veneto e a livello nazionale, mentre la destra (monarchici e Movimento Sociale Italiano) ha sì più consensi a Venezia che in Veneto ma meno della media italiana. Da notare, infine, che l’area del non voto (bianche, nulle e astensioni) risulta più contenuta a Venezia che negli altri due livelli territoriali, modificando così la tendenza che si era manifestata nel primo dopoguerra.
Questo primo dato complessivo suggerisce che l’ampiezza e la stabilità dei consensi su cui può contare la sinistra veneziana, come si era già rilevato a proposito del primo dopoguerra, sono il portato di fattori strutturali e non congiunturali. Ne è un’ulteriore verifica il fatto che i trends elettorali dei partiti maggiori (Tab. 29) ai tre livelli territoriali (Venezia, Veneto e Italia) evidenziano uniformità di comportamenti che tendono a riprodursi nel tempo, contribuendo così a identificare un’altra specificità del voto a Venezia.
In dettaglio, le tendenze relative ai tre partiti maggiori a Venezia sono così riassumibili: a) i risultati della D.C. (Fig. 12) sono sempre inferiori a quelli veneti, con scarti crescenti fino al 1963 quando la differenza raggiunge il 19,4% e successivamente decrescenti; rispetto a quelli nazionali, sono leggermente superiori nelle prime due elezioni, ma a partire dal 1953 il dato veneziano risulta sempre inferiore e gli scarti diventano crescenti.
b) I risultati del P.C.I. (Fig. 13), grosso modo allineati con il dato nazionale, sono sempre superiori a quelli veneti, con scarti crescenti fino al 1976 (+11,7%), in diminuzione successivamente fino a quasi chiudere la forbice nel 1992.
c) I risultati del P.S.I. (Fig. 14), che nel 1946 registra una percentuale inferiore alla media veneta, dopo il 1953 sono sempre superiori a quelli veneti, con scarti che raggiungono il massimo nel 1958 (+8%) e poi si riducono fino all’inversione nel 1992; il dato veneziano inizialmente è superiore anche a quello nazionale, ma dopo il 1963 tende a coincidere.
In sintesi, mentre per D.C. e P.C.I. i risultati di Venezia tendono ad avvicinarsi a quelli nazionali e a scostarsi, in direzione opposta, da quelli veneti, per il P.S.I. vale il contrario, cioè il dato veneziano è sempre superiore a quello veneto e nazionale. È questa una specificità del voto che può essere letta come una specie di valore aggiunto che la componente socialista assicura a vantaggio del risultato complessivo della sinistra.
Queste regolarità si manifestano su un arco temporale molto lungo — quasi mezzo secolo — e indicano che, nonostante i profondi mutamenti intervenuti nell’economia e nella società veneziane, i comportamenti elettorali tendono a riprodursi mantenendo costanti gli scarti rispetto agli altri livelli territoriali. Detto in altri termini, a essere significative sono le differenze, in positivo e in negativo, di ampiezza dei consensi ai partiti maggiori al livello locale rispetto al livello veneto e nazionale.
Ovviamente il voto è solo la punta emergente di un iceberg, è un indicatore degli effetti di processi complessi che si alimentano di numerosi fattori culturali e organizzativi. A Venezia, in continuità con il primo dopoguerra, il voto segnala che il confronto tra i partiti, proprio perché meno squilibrato, non consente rendite di posizione e quindi il conflitto politico — o, come s’usa dire oggi, la competizione politica — può favorire, in certe condizioni, l’innovazione politica. Potrebbe essere questo uno dei fattori che spiegano come Venezia abbia spesso giocato un ruolo di laboratorio politico, dimostrandosi capace di anticipare soluzioni che si sono poi imposte a livello nazionale: si pensi a formule come il centrosinistra o l’apertura a sinistra, a esperienze come i cartelli elettorali trasversali o ancora l’emergere di leaders che beneficiano della vetrina veneziana.
Se ora si concentra l’attenzione sull’evoluzione del voto a Venezia per schieramento politico(113), sia nelle elezioni politiche che amministrative, e si estende l’analisi fino
agli anni Novanta, è possibile individuare almeno tre fasi nella storia elettorale di Venezia dell’ultimo mezzo secolo, come risulta dai dati delle Tabb. 30 e 31 e dai grafici delle Figg. 15 e 16. Va detto subito che si tratta di una periodizzazione coerente più con l’evoluzione politica ed elettorale nazionale che con quella veneta, a conferma che molti aspetti della vicenda politica veneziana trovano una maggior sintonia con le dinamiche nazionali piuttosto che con quelle venete. Anche questo elemento contribuisce ad alimentare lo stereotipo di una città lagunare che si sente ed è percepita estranea al suo contesto regionale.
1) La prima fase coincide con le prime due tornate elettorali (le politiche del 1946 e del 1948), di assestamento del sistema politico-partitico, ed è contrassegnata dall’impennata della D.C. il 18 aprile 1948, cui corrisponde un calo di 3 punti percentuali a sinistra e a destra, ma un recupero di ben 7 punti sul non voto. Da notare che, grazie alla sfasatura temporale tra politiche e amministrative, è possibile vedere come l’effetto 18 aprile si ripercuota anche sul voto locale sia pure in misura più attenuata.
2) La seconda fase, che va dagli anni Cinquanta fin quasi alla fine degli anni Ottanta, non presenta oscillazioni rilevanti ma trends specifici: i risultati della sinistra disegnano una parabola, con il punto di massima alle elezioni del 1976 quando riesce a ottenere il consenso di più della metà degli elettori. Il centro appare stabile fino al 1972, ma poi conosce un declino parallelo in qualche misura a quello della sinistra. La destra invece risulta piuttosto stabile per tutto il periodo. Novità di rilievo è la comparsa alla fine degli anni Settanta delle prime formazioni espressioni di quel «voto difforme»(114) che segnala il manifestarsi dei primi sintomi della crisi dei partiti tradizionali e che assieme all’aumento del non voto ne spiega il forte calo di consensi.
3) La terza fase, dalla fine degli anni Ottanta alla seconda metà degli anni Novanta, è caratterizzata da una improvvisa variabilità del voto a seguito del combinarsi di diversi fattori: a) un rapido declino della sinistra che vede ridurre drasticamente la propria area di consensi dal 50% dell’elettorato a meno del 30%, fino a farsi raggiungere e superare dalla destra alle politiche del 1994; b) il successo clamoroso della destra alle politiche del 1994, riconfermato nel 1996, grazie all’exploit di Forza Italia, ma che non si ripete alle amministrative, se non in misura minima, mostrando i limiti di una strategia politica che punta tutto sulla figura del leader nazionale anche in elezioni locali; c) il peso crescente del «voto difforme» che nel 1992 e nel 1993 segna un picco ottenendo il consenso di un quarto degli elettori; al suo interno si distinguono due componenti: la Lega che però alle politiche non riesce a ottenere risultati eclatanti e i Verdi che a Venezia spuntano percentuali tra le più significative di tutto il territorio nazionale; d) la crescita preoccupante del «non voto», che pur caratterizzato da un’estrema eterogeneità di componenti e di motivazioni, ha assunto proporzioni vistose anche a Venezia: si noti che alle elezioni comunali del 1997 meno della metà del corpo elettorale si è espresso a favore di una lista, nonostante l’enfasi dei media sull’elezione diretta del sindaco.
Fin qui si è prestata maggiore attenzione al voto analizzato per schieramento politico al fine di facilitare il confronto con gli andamenti elettorali a livello veneto e nazionale e di mettere in luce le tendenze di lungo periodo. L’analisi va però portata anche sulle singole forze politiche e sullo spazio che esse riescono a ritagliarsi: per cogliere quest’ultimo aspetto, cioè i rapporti di forza tra i partiti, conviene servirsi ancora una volta della grafica, anzitutto per i partiti maggiori (Fig. 17). Come si vede, tra il 1946 e il 1992 a Venezia la competizione politica tra i partiti è stata reale, con sorpassi reciproci che confermano una vivacità del contesto politico locale che non trova certo riscontro nel resto del Veneto (Tab. 29). Tra D.C. e P.C.I., a partire da metà degli anni Settanta il confronto si fa serrato con alterne fortune, fino alle elezioni politiche del 1992 (Tav. 8), le ultime a cui partecipa la D.C. e con il P.C.I. indebolito dalla scissione di Rifondazione Comunista. All’interno della sinistra, il P.S.I. sopravanza di stretta misura il P.C.I. fino al 1958, poi va incontro a un declino che sembra arrestarsi nel 1972 per segnare un lieve recupero, ma la convergenza tra i tre partiti maggiori è per tutti al ribasso nel 1992.
Interessante è anche l’andamento del voto nelle elezioni comunali: anzitutto si ha una conferma delle conseguenze del 18 aprile 1948, quando a pagare il prezzo più alto dell’infelice esperienza frontista è stato il P.S.I. passando dal 25% del 1946 al 10% del 1951, mentre il P.C.I. recupera e anzi incrementa il suo seguito. I due partiti di sinistra si incontrano a metà strada nelle elezioni del 1956 e del 1960, dopodiché la forbice si riapre a vantaggio del P.C.I. che, grazie a quello che fu definito il «terremoto del 15 giugno» 1975, diventa per dieci anni il primo partito in città, salvo poi essere superato in discesa dalla D.C. nel 1990.
L’analisi del risultato cittadino non è però sufficiente per dare un’idea delle dinamiche elettorali veneziane: poiché per ragioni di spazio non è qui possibile fornire i dati relativi a tutte le circoscrizioni, come si è fatto per le elezioni del dopoguerra, merita almeno illustrare l’andamento del voto ai partiti maggiori nelle tre zone in cui si articola tradizionalmente il territorio veneziano, cioè il centro storico, l’estuario e la terraferma, sempre con l’aiuto della grafica. Per quanto riguarda il voto alla D.C. (Figg. 19 e 20), il dato che si impone all’attenzione è lo scarto positivo e costante, sia alle elezioni politiche che a quelle amministrative, tra il risultato delle circoscrizioni dell’estuario e i risultati delle altre due zone, che dopo uno svantaggio iniziale della terraferma rispetto al centro storico, tendono a sovrapporsi.
Nelle zone dell’estuario più isolate ed emarginate, comunità che hanno sviluppato un forte sentimento di autoesclusione, il rapporto elettore-partiti si basa tradizionalmente su un modello di scambio, un legame utilitaristico con il quale i residenti premiano i candidati locali(115). La D.C. ha sempre privilegiato questo tipo di politica attenta alle reti clientelari, pur scontando negli ultimi anni la concorrenza del P.S.I. e del P.S.D.I., divenuti protagonisti del governo della città. Insomma, l’«effetto giunta» può rivelarsi determinante proprio nelle zone periferiche più sensibili agli interventi dell’amministrazione comunale.
Speculare la situazione per il P.C.I. (Figg. 21 e 22) fortemente penalizzato dal basso livello dei consensi nella zona dell’estuario, ma favorito invece dal voto della terraferma leggermente superiore alla media della città. Se in terraferma conta la presenza organizzata del partito, direttamente o attraverso le sue ‘cinghie di trasmissione’ sindacali e associative, per l’estuario si deve pensare che, nonostante il P.C.I. sia stato ripetutamente al governo della città a partire dal 1975, non sia riuscito ad attivare i meccanismi di raccolta del consenso legati ai candidati locali e quindi all’«effetto giunta».
Decisamente più uniforme il voto socialista (Figg. 23 e 24), quasi fosse indifferente a queste articolazioni territoriali, soprattutto negli anni del centrosinistra, anche se si può notare un leggero scarto positivo in terraferma, almeno fino agli anni Sessanta, e un recupero di consensi nell’estuario.
Ovviamente questi dati sono medie delle percentuali di voto delle circoscrizioni, che in alcuni casi mostrano una ben più elevata variabilità; sarebbe interessante seguire lo sviluppo elettorale delle singole circoscrizioni, e alcune meriterebbero uno studio specifico: è il caso per esempio di Zelarino che il 18 aprile 1948 dà al Fronte delle sinistre il 54,6% e alla D.C. il 37,5%, il risultato peggiore per lo scudocrociato, ma cinque anni dopo capovolge il suo orientamento dando al P.S.I. il 27,3% e al P.C.I. il 16,7%, ma alla D.C. il 47,1%, il quarto risultato in città. Un’analisi così circostanziata si presterebbe meglio a individuare possibili fattori esplicativi dei comportamenti di voto in relazione ai caratteri del contesto.
Per completare la rassegna dei singoli partiti, vanno considerati i partiti minori (Fig. 25) che, rispetto alle forze politiche di maggior peso, registrano una più elevata variabilità dei risultati, ma senza alcuna sincronia nelle oscillazioni: l’essere espressione di nicchie del mercato elettorale li espone alla congiuntura politica e quindi alle conseguenze del mutamento degli equilibri politici.
Tra le elezioni anticipate del 1992 e quelle del 1994 il sistema politico italiano ha conosciuto una profonda trasformazione. Qualcuno ha parlato di «rivoluzione», altri di crisi politica di straordinaria portata.
Frantumata e ridimensionata la Dc (che ancora nel 1992 aveva ottenuto il 30 per cento dei suffragi), all’indomani delle elezioni del 1994 erano scomparsi il Partito socialista (che nel 1992 aveva conseguito poco meno del 14 per cento dei voti) e i tre partiti minori — Psdi, Pli e Pri — che per quarant’anni avevano fatto corona alla Dc. Al contempo, il lieve recupero di un partito tradizionale quale il Pds, erede diretto del vecchio Pci, che risaliva al 20 per cento dei consensi, dopo il collasso registrato nella consultazione precedente, quando per la prima volta si era presentato col nuovo nome, è stato ampiamente bilanciato sia dal prepotente affacciarsi alla ribalta di una formazione politica sorta poche settimane prima del voto e subito accreditata come primo partito nazionale — è il caso di Forza Italia — sia dal più che raddoppio dei consensi a favore di Alleanza nazionale, nuova incarnazione del Msi, imprevedibilmente estratto dal ghetto in cui per quasi mezzo secolo l’aveva confinato la sua ascendenza fascista(116).
Una volta prevalsa la convinzione che l’ingegneria istituzionale e il bricolage delle riforme elettorali avrebbero assicurato il passaggio indolore a una situazione di ‘normalità’, si è messo mano ai sistemi elettorali di tutti i livelli della rappresentanza politica. Tutto questo non poteva non trovare riscontro anche nei comportamenti di voto: la Tab. 32 riassume quanto è avvenuto a Venezia negli anni di questa transizione incompiuta.
Una vera e propria débâcle dei partiti tradizionali che ancora nel 1992 riuscivano a raccogliere più del 60% dei voti validi, mentre nel 1994 o sono scomparsi o hanno cambiato nome o si sono divisi approdando in schieramenti contrapposti. In particolare, a Venezia appare clamoroso il crollo del partito socialista nel 1994, successivamente uscito di scena alle politiche del 1996, così come scompaiono il P.S.D.I., il P.L.I. e il P.R.I., quest’ultimo dopo aver conosciuto uno sviluppo significativo proprio nella città lagunare. La D.C. sopravvive a se stessa per due elezioni, ormai ridotta a ben poca cosa. Gli eredi del P.C.I. sembrano in grado di recuperare consensi, ma non certo in quantità sufficiente a compensare il declino complessivo della sinistra. Primo partito diventa nel 1994 la nuova formazione di Berlusconi (Tav. 9), che eredita i voti delle forze politiche moderate ma anche parte dell’elettorato socialista, quella che negli ultimi anni aveva condiviso la linea politica di Craxi, a Venezia interpretata con estrema spregiudicatezza dal «Rastignac sulla laguna»(117), Gianni De Michelis.
Le conseguenze del terremoto del 1992 e delle due prove elettorali del 1994 e del 1996 svolte con il nuovo sistema elettorale, se misurate in voti per schieramento significano sostanzialmente il declino della sinistra e del centro, a favore della destra, della Lega e del non voto (Fig. 26). Anche l’area che sembrava in grado di offrire le maggiori novità, quella del «voto difforme», è attraversata da tendenze contraddittorie (Fig. 27): a un declino dell’esperienza radicale e a una battuta di arresto dei Verdi corrisponde la vitalità della Lega, nonostante i suoi numerosi capovolgimenti di linea politica(118). Infine, la disaffezione crescente nei confronti della politica anche a Venezia è testimoniata dall’aumento del non voto, elezione dopo elezione.
È significativo che nelle elezioni per il consiglio comunale (Tabb. 33 e 34), che si tengono con il nuovo sistema elettorale che prevede l’elezione diretta del sindaco, la partecipazione declini fino al punto che nel 1997 meno della metà degli elettori esprime un voto valido a favore di una lista.
Questo dato che dovrebbe preoccupare è però in qualche misura ‘mascherato’ dall’impatto che ha sull’opinione pubblica la novità della competizione politica, centrata sulla figura del sindaco eletto direttamente dal popolo e che al popolo si rivolge senza mediazioni. È con la tornata del voto amministrativo del novembre 1993, infatti, che il tema della comunicazione entra per la prima volta nell’agenda politica italiana, ma con caratteristiche peculiari che sollevano interrogativi inquietanti(119).
Anche a Venezia l’elezione diretta del sindaco viene interpretata come l’occasione per esprimere tutta l’insofferenza, lo sdegno e l’esasperazione verso una classe politica incapace di fornire risposte credibili ai bisogni di un ambiente sociale stressato(120). Alle ore 18 del 4 novembre 1966 un’onda di marea di 194 centimetri allaga la città fino a coprirne alcune zone con un metro d’acqua: se, da un lato, questo evento rappresenta il punto di avvio di una serie di iniziative di salvaguardia della città storica e della laguna di Venezia, dall’altro, l’impostazione delle diverse misure di recupero rischia di rappresentare una vera e propria condanna per la città e il suo ambiente insulare. Nonostante l’impatto e l’utilità di progetti di recupero ambientale realizzati negli anni, la vocazione turistica di Venezia è destinata a essere ancora l’unica risorsa ipotizzabile per lo sviluppo dell’intera area veneziana, dopo la crisi industriale che ha colpito il polo di Porto Marghera e la grave recessione che ha coinvolto le attività produttive del centro storico e della terraferma. Venezia e la sua laguna sono state per anni il luogo di uno sviluppo capitalistico predatorio incontrollato: forti interessi economici con la complicità del potere politico hanno realizzato un modello produttivo incompatibile con la fragilità dell’ambiente lagunare e con il patrimonio artistico della città. Le conseguenze di questo sviluppo sono state negative da un duplice punto di vista: sul piano ambientale per aver compromesso un habitat lagunare con millenni di storia alle spalle e con ricchezze naturali ineguagliabili; sul piano economico, per aver imposto a Venezia il modello della grande industria, ora fallito, che ha portato alla crisi del tessuto di piccole economie, tipiche della città lagunare, relative all’artigianato, alla piccola industria, alle lavorazioni artistiche.
Il processo economico e sociale che meglio rappresenta le mutazioni intervenute nel contesto veneziano riguarda la radicale trasformazione della rete commerciale: l’esodo dal centro storico verso le isole e la terraferma ha comportato una forte diminuzione della domanda locale di beni e servizi tradizionali, a fronte del costante aumento delle attività commerciali e produttive orientate al settore turistico. La spesa dei turisti è quasi doppia rispetto a quella dei residenti; i guadagni facilmente realizzabili in questo settore permettono ai commercianti e ai diversi operatori di razionalizzare al massimo l’offerta di merci in termini di qualità e di quantità, con effetto di concentrazione verso il basso e verso l’alto dei prezzi dei beni. Alcune aree del centro storico, come S. Marco, o in prossimità degli accessi alla città, come Cannaregio e S. Croce, sembrano ormai completamente dedicate all’impresa turistica e sacrificate alla logica del «mordi e fuggi» imposta dal turismo di massa. La rete commerciale così organizzata penalizza i residenti e incoraggia il ricorso ai grandi centri commerciali della terraferma, in un circolo vizioso di generale impoverimento. I motivi della crisi socioeconomica di Venezia sono equamente rappresentati nelle diverse aree della città: zone che si sono spopolate perdendo servizi e attività produttive (Castello) si contrappongono a zone periferiche che nella disordinata e incontrollata riorganizzazione delle funzioni urbane hanno trovato occasione per una nuova rivitalizzazione (S. Marta e Cannaregio ovest) e a zone specializzate nell’attività turistica e orientate esclusivamente verso economie incompatibili con le esigenze dei residenti e con le attività urbane che ne sono espulse (S. Marco).
Anche l’occupazione ha subito una profonda trasformazione negli ultimi trent’anni: le attività di tipo industriale hanno abbandonato il centro storico a causa dell’incompatibilità tra il tessuto edilizio storico e le esigenze degli impianti produttivi moderni. Tuttavia, le scelte strategiche di creazione di un grande polo industriale di terraferma hanno probabilmente compromesso ogni possibilità di sopravvivenza dell’economia industriale nel centro della città storica. La crisi di alcune attività tradizionali legate a piccole produzioni è stata determinata soprattutto dalla concorrenza delle attività del settore terziario legate al commercio e al turismo, le uniche in grado di sostenere gli enormi costi fissi che ogni attività economica deve affrontare a Venezia.
L’esodo della popolazione residente dal centro storico dal 1951 al 1994 ha registrato proporzioni apocalittiche: il numero dei residenti si è ridotto a sole 72.000 unità dopo la punta massima di 174.800 abitanti nel 1951, quando la popolazione del centro storico rappresentava più del 55% dell’intero comune, oggi scesa al 23,8%.
Su questa realtà e su una nuova «idea di Venezia» si confrontano per oltre un anno nel 1988 docenti universitari, tecnici, politici e operatori culturali chiamati a misurarsi dall’Istituto Gramsci su un progetto postindustriale per Venezia, alla ricerca di modalità concrete che facilitino l’intreccio tra competenze tecniche, decisioni e politica: il tema principale è quello dell’autodistruttiva «monocultura dello sfruttamento turistico», eredità del fallimento della concezione industrialista di Venezia e della sua terraferma. Questa riflessione collettiva tra politici e intellettuali, fuori da schematismi ideologici, costituisce il retroterra che alimenta il programma, il «da fare», di Cacciari candidato sindaco.
In piena Tangentopoli, Venezia arriva alla scadenza elettorale per il rinnovo dell’amministrazione comunale con un ceto politico più che dimezzato: protagonisti di vent’anni di politica all’insegna del patto regionale D.C.-P.S.I. escono di scena a seguito delle inchieste giudiziarie(121). La D.C. veneziana che aveva governato la città con il doroteo Bergamo, legato a Bernini erede di Bisaglia, scompare lasciando l’elettorato di centro a disposizione dei popolari e della Lega. Il P.S.I. di Gianni De Michelis, dopo un lungo periodo di egemonia in laguna, è ridotto a presentarsi con una lista di pochi sopravvissuti alle inchieste giudiziarie. Di fronte alla candidatura di Cacciari e alla coalizione della sinistra troviamo un centro ormai in crisi verticale, indeciso sul nome del candidato che sarà poi Castellani, ex rettore di Ca’ Foscari, una Lega votata all’autarchia competitiva, una destra che non può certo ambire ad esercitare una vocazione maggioritaria, infine una serie di etichette a sfondo civico-municipalistico. La sinistra quindi parte avvantaggiata e, come in altri grossi centri, «la capacità di aggregazione dimostrata dalle forze di sinistra, utilizzata a sostegno di candidati-sindaco dotati di autonomo appeal elettorale e per di più caratterizzati spesso come ‘candidati-espressione della società civile’ anziché come ‘candidati-apparato’, l’hanno resa vincente nell’arena esecutiva»(122).
La storica specialità politica della Venezia rossa nel Veneto bianco, della città che si è sviluppata economicamente e culturalmente prima attraverso gli scambi commerciali, poi grazie all’industria di Stato, infine con l’incontrollato boom turistico, ha prodotto una differenziazione ed una complessità sociale difficilmente rappresentabili da candidati monocolore, incapaci di aprirsi a quelle ‘pulsioni’ sociali che provengono da ambienti diversi(123). È questo forse l’elemento decisivo per l’affermazione netta di Cacciari nella consultazione del 1993. La sua è figura complessa tanto quanto la sua città; ha alle spalle una lunga militanza politica nella sinistra che non rifiuta il dialogo con le categorie emergenti del commercio e della piccola imprenditoria; si apre alle discussioni con la cultura cattolica storicamente ostile ai figli del comunismo; accetta le amicizie e le frequentazioni di ambienti non proprio assimilabili al ‘serbatoio di voti’ della sinistra veneziana; può rivendicare, infine, di aver precorso i tempi essendosi candidato a sindaco di Venezia già nel 1990 con la lista «Il Ponte», un esperimento di ‘lista del Sindaco’, autonoma dai partiti, tentato ben prima della riforma elettorale.
La campagna elettorale che vede contrapporsi il candidato del polo progressista e il candidato della Lega, secondo le nuove regole dell’elezione diretta, accredita nell’immaginario collettivo due figure decisamente diverse: in una città in cui le capacità personali e di governo devono essere elevate al massimo per qualunque amministrazione, la proposta della Lega appare incerta e debole, orientata a confermare fasce sociali e produttive già schierate con Bossi, anziché cercare di conquistare nuovi elettori, in particolare il centro dell’elettorato. Inoltre, il candidato della Lega non è veneziano e dimostra di non conoscere a fondo i problemi della città. E su questo terreno il confronto non ha storia, tanto appare squilibrato a favore del candidato filosofo e del suo programma.
I risultati del primo turno confermano l’appeal di Cacciari (Tab. 33): un terzo dell’elettorato veneziano lo sceglie come candidato sindaco, mentre la sua coalizione raccoglie il consenso di meno di un quarto degli elettori. La Lega, pur correndo da sola, diventa il primo partito a Venezia con un vantaggio di quasi 10 punti percentuali sul Partito Democratico della Sinistra che si sta faticosamente riprendendo dalla batosta delle politiche dell’anno precedente. I socialisti crollano dal 12,4% al 3,5% e i democristiani con la nuova sigla di P.P.I. riescono a frenare ancora per poco l’emorragia di voti attestandosi sul 12,4%. Questi dati descrivono adeguatamente il processo di destrutturazione del sistema partitico in corso anche a Venezia.
Nelle due settimane tra il primo turno e il ballottaggio, l’agenda elettorale di Cacciari copre tutti i segmenti della realtà sociale e produttiva di Venezia, mentre quella di Mariconda è decisamente meno ricca e variegata e nemmeno il bagno di folla riservato a Bossi riesce a colmare il divario. Anche per quanto riguarda la formazione della squadra di governo, i due schieramenti protagonisti del ballottaggio appaiono due entità politiche ben diverse: la sinistra veneziana che può contare sia sulle tradizionali fasce di elettorato popolare, sia su settori rilevanti del mondo della cultura e delle classi benestanti; la Lega che, al culmine della fase protestataria, coinvolge settori trasversali di diverse culture, classi e categorie produttive. Mentre la «lista dei nomi» è diffusa da Cacciari con puntualità e la sua composizione rispecchia l’articolazione dei principali soggetti delle realtà politiche, sociali ed economiche presenti a Venezia, gli attesi nomi della squadra leghista di «tecnici e manager» sono resi noti alla stampa solo qualche giorno prima del voto e tra l’indifferenza generale dei cittadini per l’assoluto anonimato dei soggetti proposti(124).
Al ballottaggio del 5 dicembre, anche se l’incremento di consensi è maggiore per il candidato della Lega, lo scarto tra i due contendenti rimane di oltre 11 punti percentuali, assicurando a Cacciari la vittoria con il 55,4% contro il 44,6% di Mariconda.
Rispetto al quadro nazionale — nel complesso erano chiamati al voto oltre 10 milioni di elettori — Venezia condivide le tendenze che emergono dalla tornata elettorale, quale il mancato effetto riduttivo della nuova legge sull’offerta elettorale (le liste concorrenti passano da poco più che una decina a 15), la tendenziale departitizzazione dell’offerta elettorale (la presenza di liste partitiche si riduce a meno della metà delle liste concorrenti), il peso del fattore-candidato esaltato dal ‘vuoto’ lasciato dai partiti tradizionali(125).
Quattro anni dopo, alle amministrative del 1997, la situazione appare molto diversa: Forza Italia e Alleanza Nazionale sono per la prima volta alle prese con la competizione per Ca’ Farsetti; il partito popolare corre insieme all’area ulivista e a Rifondazione Comunista; la Lega, reduce da un periodo di forti investimenti simbolici su Venezia come capitale del «sogno padano», sceglie ancora una volta la strada dell’avventura solitaria. Il sindaco uscente, dopo mesi di dichiarata indisponibilità a ripresentarsi, improvvisamente sembra cedere alle pressioni del mondo politico e culturale, nazionale e cittadino: in realtà si tratta di un’accorta regia tendente a destabilizzare politicamente il centrodestra e a tenere in scacco i partiti del centrosinistra per garantirsi maggiore libertà di azione per altri quattro anni di governo della città(126). Ancora una volta, passaggio decisivo della strategia elettorale di Cacciari è riuscire a costruire una coalizione la più estesa possibile, da Rifondazione Comunista al centro di Dini. Alleato essenziale in questa strategia diventa l’esponente dei Verdi Gianfranco Bettin, espressione della sinistra sociale e portavoce di aree importanti della società civile veneziana. La campagna elettorale non promette forti emozioni: Cacciari è già accreditato nei sondaggi di un buon 60% di consensi personali, con un margine molto consistente rispetto alla coalizione che lo sostiene. La prevedibilità del risultato e la sproporzione del confronto tra Cacciari e i candidati del Polo e della Lega scoraggiano la partecipazione dell’opinione pubblica che diserta gli appuntamenti elettorali, ma soprattutto le urne. Il risultato (Tab. 34) avvalora la strategia del sindaco uscente, una vera e propria ‘campagna acquisti’ aperta a tutte le esperienze dell’impegno sociopolitico a Venezia, ma anche a tutte le pressioni di partiti e categorie economiche. L’estensione della coalizione a culture politiche tradizionalmente avverse al centrosinistra e la fortissima rendita personale di consensi assicurano a Cacciari un successo senza precedenti: «Il Gazzettino» del 18 novembre 1997 potrà titolare Cacciari padrone di Ca’ Farsetti.
Il confronto obbligato è con il dato delle elezioni politiche dell’anno precedente (Tab. 32): tutte le forze politiche dell’opposizione pagano tributi pesanti alla strategia di Cacciari. La Lega, che alle amministrative del ’93 aveva ottenuto il 29,9%, passa dal 17,6% all’11,7%, Forza Italia e Alleanza Nazionale, non presenti nel 1993, perdono rispettivamente l’8,8% e il 3,3%. Unica formazione politica, tra le quindici presenti nella competizione, a segnare un progresso sia in percentuale che in valori assoluti sono i Verdi con Gianfranco Bettin, prosindaco di Mestre e assessore alle politiche sociali, che grazie al capillare lavoro a fianco del volontariato e dei servizi sociali a Mestre e soprattutto a Marghera si impone come figura leader dei Verdi in Veneto.
Se l’obiettivo di Cacciari di ridimensionare le opposizioni è centrato, il baricentro politico della maggioranza di governo a Venezia subisce però una sostanziale deriva verso l’area moderata, grazie a scelte che intendono contemperare interessi di categoria e logiche spartitorie nella distribuzione degli incarichi di giunta. Dopo una fase di declino del potere di influenza dei partiti sulla politica e sull’amministrazione, la strategia adottata da Cacciari ha ‘rimesso in gioco’ persone, logiche, apparati che sembravano emarginati. Il desiderio di costruire una coalizione ampia ha rilegittimato la prassi dello scambio politico e della spartizione degli incarichi amministrativi. Movimenti inesistenti sul piano del radicamento sociale rivendicano e ottengono ruoli importanti nella gestione, mentre autorevoli esponenti dell’impegno politico e sociale sono esclusi dagli incarichi.
Una coalizione che si estende da un orizzonte all’altro del centrosinistra più esteso d’Italia, nonché incarichi di Giunta e promesse di deleghe di ogni tipo che premiano i più fedeli al Sindaco e i più allineati alle logiche della partitocrazia, hanno imposto una svolta inattesa per l’Amministrazione comunale e per l’impegno politico a Venezia; una Giunta ed un Consiglio che vogliono essere alternativi alla destra spostandosi a destra; [...] l’ingresso ingiustificato nella Giunta di rappresentanti diretti degli interessi di categoria e di gruppi di pressione organizzati in forma partitica(127).
Il sindaco rieletto sembra quindi privilegiare l’autorevolezza del proprio ruolo assicurata da un consenso esteso e trasversale, forse in vista di impegni politici diversi da quello di primo cittadino, anche se questo può alimentare il malessere e la delusione degli attori politici e sociali più legati al programma e all’esperienza della prima giunta progressista di Cacciari.
L’immagine di Venezia che esce dal voto delle ultime consultazioni del secolo è dunque di una città politicamente frammentata ed esausta: nessuna forza politica riesce a superare stabilmente la soglia del 20%, i due partiti maggiori arrivano a malapena alle soglie del 30% in singole circoscrizioni nelle elezioni politiche del 1996: nell’ordine, il P.D.S. a Malcontenta (29,9%), Forza Italia al Cavallino-Treporti (29,7%), dove peraltro è tallonata da vicino dalla Lega (28,7%). La Tav. 10 rende bene questa impressione di grande incertezza nell’elettorato: metà del centro storico (Dorsoduro, S. Croce, S. Polo) vota in perfetto equilibrio P.D.S. e Forza Italia, con una percentuale del 19,9%. Alcuni elementi di continuità con il passato remoto sembrano sopravvivere solo perché i colori aiutano a ricordare: il rosso di alcune circoscrizioni della terraferma dove la sinistra aveva saputo costruire elementi di un’egemonia nel corso dei due dopoguerra, così come l’azzurro delle circoscrizioni dell’estuario dove alla D.C. è subentrata Forza Italia, la formazione politica espressione di una ‘modernizzazione’ senza memoria. Ma, paradossalmente, anche il rosso del centro storico, conquistato dal P.D.S. nel 1992 grazie alla sconfitta della D.C. (Tav. 8), perso nel 1994 a vantaggio di Forza Italia (Tav. 9), nuovamente riconquistato nel 1996, sottolinea la mobilità di un elettorato che ha smesso di identificarsi con un partito e sempre più spesso tende a votare contro o a scegliere la personalità politica più credibile.
L’anomalia veneziana sembra dunque dare segnali di esaurimento, nella misura in cui le tendenze del voto indicano processi di omologazione in atto che coinvolgono l’elettorato di tutte le regioni del Nord.
1. Editoriale, «Quaderni dell’Osservatorio Elettorale», 1985, nr. 15, p. 5.
2. Pier Luigi Ballini, Le elezioni politiche nel regno d’Italia: una bibliografia, ibid., 1999, nr. 41, pp. 49-113.
3. Per questo è ancor più apprezzabile la disponibilità del personale dell’Archivio storico, dell’Ufficio elettorale, del Servizio Statistica del Comune di Venezia, della Spa Venis, del quotidiano «Il Gazzettino» e di quanti ancora hanno facilitato la ricerca che ha consentito di ricostruire, pur con qualche lacuna, le serie storiche elettorali relative all’area di Venezia, a livello comunale e infracomunale.
4. Serge Noiret, Gli studi sui collegi elettorali in Italia, «Memoria e Ricerca», 3, 1994, pp. 11-24. L’autore individua i seguenti criteri: a) presenza di fonti diverse da quelle a stampa; b) presenza di apparati statistici; c) analisi del contesto sociale; d) analisi delle forze politiche; e) analisi di eventuali riferimenti a issues di rilevanza nazionale; f) analisi della campagna elettorale; g) analisi del voto come rito; h) analisi della legislazione elettorale; i) analisi del ceto politico (candidati ed eletti); l) analisi cartografica del voto; m) analisi comparata di diverse articolazioni territoriali del voto; n) analisi del ruolo delle istituzioni statali; o) analisi del voto politico e/o amministrativo; p) presenza di una riflessione sugli aspetti metodologici. Come si vede, lo schema fornisce un set di indicatori ottimale per lo studio del voto come cerniera tra gli assetti politico-istituzionali e il contesto sociale a livello locale.
5. La cartografia a colori è opera del dott. Giacomo Secco del dipartimento di Geografia dell’Università degli Studi di Padova: a lui va tutta la mia riconoscenza per la generosa disponibilità dimostratami anche in questa occasione.
6. L’analisi del comportamento elettorale a Venezia si articolerà quindi in due parti: la prima parte copre la breve stagione del primo dopoguerra, dalle prime elezioni politiche svolte con il sistema proporzionale (1919) alle ultime elezioni competitive (1924), con il fascismo al potere. La seconda parte affronta la lunga stagione del secondo dopoguerra, scandita dalle vicende politiche nazionali e da quelle locali, e che si conclude con le ultime tornate elettorali degli anni Novanta, svolte con il nuovo sistema elettorale tendenzialmente maggioritario. Nella seconda parte, nel costruire l’analisi del voto, si è utilizzato un approccio che vorrebbe evidenziare le relazioni tra le tendenze di lungo periodo sottostanti ai comportamenti di voto e il gioco di fattori più contingenti e legati al contesto locale e che perciò risentono del singolo evento elettorale. Quanto al tipo di consultazioni elettorali, si è scelto di considerare sia le elezioni politiche (elezioni della Camera) sia quelle amministrative (elezioni del consiglio comunale), e questo sia per ragioni di completezza, visto che le elezioni comunali vanno considerate un completamento indispensabile al quadro ricavato dall’analisi delle elezioni politiche, sia per sfruttare il confronto tra i due tipi di consultazione che, anche grazie alla diversa scansione temporale, può mettere in luce differenze significative nei comportamenti di voto. Un’ultima notazione per quanto riguarda la scelta del 1919 come termine a quo dello studio sistematico del voto a Venezia: si può dire che il ‘secolo breve’, dal punto di vista delle logiche istituzionali, si apre e si chiude con due interventi ‘riformatori’ sul sistema elettorale, in entrambi i casi presentati come risolutivi della crisi del sistema politico italiano. Se la proporzionale, introdotta nel 1919, scelta obbligata a completamento della riforma elettorale avviata con l’introduzione del suffragio universale maschile (1912-1918) e «definita come turning point della storia elettorale e politica dell’Italia unita e come causa/conseguenza allo stesso tempo di un vero cambiamento di regime» (Serge Noiret, La nascita del sistema dei partiti nell’Italia contemporanea. La proporzionale del 1919, Manduria-Bari 1994, p. 17), ha segnato una fase di rottura del sistema politico e istituzionale italiano, anche il suo abbandono nel 1993 a favore di un sistema elettorale misto è stato accompagnato da forti tensioni e polemiche. È facile prevedere che queste condizioneranno ancora a lungo la politica italiana vista la tenacia con cui si ripropongono interventi di bricolage istituzionale, nonostante il mancato conseguimento degli obiettivi. Tutto questo suona conferma del fatto che un mutamento incisivo dei meccanismi elettorali difficilmente si verifica senza crisi del regime politico.
7. Emilio Franzina, L’eredità dell’Ottocento e le origini della politica di massa, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 125 (pp. 117-151).
8. Ibid., p. 146.
9. Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, p. 67 (pp. 63-84).
10. Il socialismo nella storia d’Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di Gastone Manacorda, Bari 1972, p. 432.
11. L. Pes, Il fascismo urbano a Venezia, p. 68.
12. Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, p. 329 (pp. 317-509).
13. Ibid., pp. 343-344.
14. Cesco Chinello, Igino Borin (1890-1954), Venezia 1988, p. 23.
15. D. Resini, Cronologia, p. 385.
16. Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998.
17. Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, p. 19.
18. Ibid., p. 20.
19. L. Pes, Il fascismo urbano a Venezia, p. 70.
20. Ibid., p. 71.
21. Ibid., p. 72.
22. Così il «Secolo Nuovo» del 1° luglio 1914, cit. in D. Resini, Cronologia, p. 384.
23. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, pp. 33-34.
24. D. Resini, Cronologia, p. 386.
25. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, p. 37.
26. Ibid., p. 43.
27. Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, IV, 3, Dall’Unità a oggi, Torino 1976, p. 2060 (pp. 1667-2483).
28. Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Roma-Bari 1973; Id., Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano 1989.
29. Gaetano Quagliarello, Masse, organizzazione, manipolazione. Partiti e sistemi politici dopo il trauma della grande guerra, in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo: crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa, 1918-1925, a cura di Fabio Grassi Orsini-Gaetano Quagliarello, Bologna 1996, pp. 17-18 (pp. 15-71).
30. Per i termini essenziali del problema cf. S. Noiret, La nascita del sistema dei partiti; Maria Serena Piretti, La giustizia dei numeri. Il proporzionalismo in Italia (1870-1923), Bologna 1990, e Ead., Il problema della proporzionale tra Parlamento e Governo, in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo: crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa, 1918-1925, a cura di Fabio Grassi Orsini-Gaetano Quagliarello, Bologna 1996, pp. 303-314; Simone Neri Serneri, Partiti, Parlamento e Governo: dal liberalismo al fascismo, ibid., pp. 263-301.
31. Giovanni Sabbatucci, La crisi del sistema politico liberale, in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo: crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa, 1918-1925, a cura di Fabio Grassi Orsini-Gaetano Quagliarello, Bologna 1996, p. 254 (pp. 251-261).
32. Guido Melis, Amministrazione e politica nell’Italia del primo dopoguerra, ibid., p. 219 (pp. 209-229).
33. Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura storia interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, p. 89.
34. Nel 1936, la densità urbana, pur in calo rispetto al secolo precedente, raggiunge ancora punte di 434 ab./ha a S. Polo, 287 ab./ha a S. Marco, 279 ab./ha a Cannaregio, cf. ibid., p. 116.
35. Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 331 (pp. 323-380), che offre un quadro estremamente efficace delle condizioni di vita delle classi subalterne nella Venezia del Novecento. Ancora agl’inizi del secolo la congregazione di carità si trovava ad assistere 48.000 persone, un terzo della popolazione complessiva della città.
36. Ibid., p. 332.
37. Maurizio Reberschak, L’economia, ibid., p. 262 (pp. 227-298).
38. Per l’aggregazione delle categorie occupazionali utilizzate nella classificazione del censimento del 1921 si è fatto riferimento allo schema di analisi delle classi sociali di Sylos Labini. Cf. Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Roma-Bari 1974.
39. D. Resini, Cronologia, p. 394.
40. W. Dorigo, Una legge contro Venezia; Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del ‘problema di Venezia’, Venezia 1979.
41. Musatti e il gruppo socialista non si oppongono all’operazione che trasformerebbe la «città morta in una città viva», cit. in D. Resini, Cronologia, p. 390.
42. Maria Serena Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Roma-Bari 1996, p. 215.
43. S. Neri Serneri, Partiti, Parlamento e Governo, pp. 267-268.
44. Ibid., p. 266.
45. Silvio Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, Roma 1975, p. 8.
46. Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 154 (pp. 152-225).
47. L. Pes, Il fascismo urbano a Venezia, p. 74.
48. Il commiato dell’on. Fradeletto, «Gazzetta di Venezia», 21 ottobre 1919.
49. Galleria bolscevica Numero 2, ibid., 22 ottobre 1919.
50. Vengano pure i tedeschi!..., ibid., 8 novembre 1919.
51. La lotta elettorale è cominciata, «Il Secolo Nuovo», 18 ottobre 1919.
52. Ibid.
53. Tutti a posto, ibid., 25 ottobre 1919.
54. Anche voi, o donne!, ibid., 7 novembre 1919.
55. Pier Luigi Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unità al fascismo, Bologna 1988, p. 179.
56. Istituto Centrale di Statistica-Ministero per la Costituente, Compendio delle statistiche elettorali italiane dal 1848 al 1934, II, Roma 1947, p. 22.
57. Ibid., p. 38.
58. Ibid., p. 39.
59. Gianni Riccamboni, Territorio e consenso. I mutamenti della geografia elettorale del Veneto fra il 1919 e il 1948, «Quaderni dell’Osservatorio Elettorale», 42, 1999, pp. 49-75.
60. Secondo Sergio Barizza, questo successo dei democratici potrebbe essere legato alla figura di un sacerdote in odore di modernismo, Olinto Marella, che avrebbe orientato la scelta di molti elettori su un voto di rottura nei confronti della classe dirigente veneziana. Una volta allontanato, la sua influenza si sarebbe rapidamente esaurita.
61. L. Pes, Il fascismo urbano a Venezia, p. 75.
62. Ibid.
63. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 162.
64. Mentre più ferve la lotta elettorale, «Il Secolo Nuovo», 23 ottobre 1920.
65. Lavoratori! Tutti alle urne per la nostra vittoria, ibid., 30 ottobre 1920.
66. Salviamo Venezia, «Gazzetta di Venezia», 27 ottobre 1920.
67. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, p. 146.
68. La sconfitta d’ieri sproni il proletariato a conseguire la definitiva vittoria. La nostra semi-sconfitta, «Il Secolo Nuovo», 3 novembre 1920.
69. A Venezia. Vittoria!, «Gazzetta di Venezia», 2 novembre 1920.
70. Sergio Barizza, Storia di Mestre, Padova 1994, p. 247.
71. M.S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, p. 235.
72. C. Chinello, Igino Borin.
73. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, p. 213. Per il susseguirsi delle violenze contro le sedi delle organizzazioni socialiste v. D. Resini, Cronologia, pp. 401 ss. Sulle origini del fascismo a Venezia e sull’uso della violenza politica esercitata dai fascisti v. il volume di Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001.
74. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, pp. 216-217.
75. Per debellare il comunismo, «Gazzetta di Venezia», 10 maggio 1921.
76. Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976.
77. Il Partito Socialista scende serenamente in lotta con il Proletariato per il Socialismo, «Il Secolo Nuovo», 23 aprile 1921.
78. Mentre si avvicina il giorno della vittoria elettorale. Avanti, o compagni, con Falce, Martello, Libro, ibid., 7 maggio 1921.
79. Chi diserta la lotta è un traditore!, ibid., 14 maggio 1921.
80. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 167.
81. L. Pes, Il fascismo urbano a Venezia, p. 79.
82. Ibid., p. 80.
83. Ibid., p. 81.
84. Cit. in M.S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, p. 248. Nel presentare alla Camera il progetto di riforma elettorale, Mussolini dedica un breve accenno al reale contenuto politico: «Tra le molte concezioni della rappresentanza [...] una cosa sola va rigidamente affermata¸ che la massa dei cittadini, ai quali una legge elettorale viene confidata, intende che l’Assemblea eletta sia la più capace a costituire un Governo, un Governo nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi», ibid., pp. 251-252. La precedente legislazione elettorale viene profondamente modificata con la legge Acerbo (1923), «concepita come uno strumento per consolidare l’egemonia del partito fascista, pochi mesi dopo la Marcia su Roma. La legge introdusse lo scrutinio maggioritario di lista, sottoposto però alla condizione che la lista di maggioranza relativa conseguisse nel complesso del paese il quorum di almeno il 25% dei voti validi. La ripartizione dei seggi in Parlamento dipese dalla concessione di un premio alla lista più forte. Se la lista maggioritaria raggiungeva il quorum previsto le venivano attribuiti, come premio di maggioranza, i due terzi dei seggi. Il terzo residuo veniva ripartito con il sistema proporzionale»: P.L. Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia, pp. 209 ss.
85. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 170.
86. Gli alati discorsi del Colonn. Barbieri, dell’on. Sandrini, di Iginio Maria Magrini, «Gazzetta di Venezia», 4 marzo 1924.
87. Il grande comizio in campo S. Polo, ibid., 30 marzo 1924.
88. S. Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, p. 57.
89. S. Barizza, Storia di Mestre, p. 248.
90. Maurizio Ridolfi-Nicola Tranfaglia, 1946. La nascita della Repubblica, Roma-Bari 1996, pp. 25-26.
91. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 183.
92. «In via generale, è plausibile immaginare che la repressione statuale, l’ideologia corporativa e gli strumenti di organizzazione del consenso, non abbiano alimentato una visione antagonistica della condizione operaia in contadini che provenivano da campagne prive di tradizioni sindacali, dove il movimento delle leghe era passato come una meteora nella breve stagione del 1919-1920, e che entravano in fabbrica quando il vecchio sindacalismo socialista era stato distrutto e sopravviveva nella memoria storica di pochi, isolati compagni»: Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma 1991, pp. 223-224.
93. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 186.
94. Ibid., pp. 188-189.
95. Maurizio Reberschak, I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in Movimento cattolico e sviluppo capitalistico nel Veneto. Atti del convegno, Venezia-Padova 1974, pp. 145-183.
96. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 178.
97. Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-55, Milano 1984, e Id., Sindacato e industria a Marghera, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 73-123.
98. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 74.
99. Maria Gabriella Dri, La società veneziana, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 25-50.
100. Francesco Barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, in Storia dell’Italia repubblicana, I, La costruzione della democrazia, a cura di Id., Torino 1994, p. 82 (pp. 5-128).
101. Il programma amministrativo della Democrazia cristiana esposto dal prof. Ponti, «Il Gazzettino», 5 marzo 1946.
102. Paola Sartori, La prima amministrazione comunale e la giunta Gianquinto, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, p. 157 (pp. 157-181).
103. «La propaganda elettorale più ci si avvicina al voto e più cresce d’intensità. Intere facciate di stabili sono all’altezza di un uomo tappezzate di manifesti e di strisce, taluni anche a colori con rappresentazioni evidenti. Poi liste, programmi, contrassegni. La gente si ferma, legge, commenta. I comizi all’aperto si susseguono a rotazione; oggi, ultimo giorno, quasi tutti i campi di Venezia avranno il loro oratore e il loro pubblico. Sono le ultime fasi di una battaglia combattuta a viso aperto, lealmente, nel nuovo clima di libertà», Nell’imminenza del voto, «Il Gazzettino», 23 marzo 1946.
104. Un patto tra i Partiti per la libertà e l’ordine, ibid., 18 maggio 1946.
105. Enzo Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Milano 1996, p. 43.
106. La Democrazia Cristiana dal fascismo al 18 aprile. Movimento cattolico e Democrazia Cristiana nel Veneto. 1945-1948, a cura di Mario Isnenghi-Silvio Lanaro, Venezia 1978.
107. Ma il titolo fa riferimento solo alla candidata democristiana: Confutazione democristiana della propaganda femminile ‘frontista’, «Il Gazzettino», 21 marzo 1948.
108. F. Barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, p. 121.
109. Mario Isnenghi, Alle origini del 18 aprile. Miti, riti, mass media, in La Democrazia Cristiana dal fascismo al 18 aprile. Movimento cattolico e Democrazia Cristiana nel Veneto. 1945-1948, a cura di Id.-Silvio Lanaro, Venezia 1978, pp. 277-344.
110. Maurizio Ridolfi, Interessi e passioni. Storia dei partiti politici italiani tra l’Europa e il Mediterraneo, Milano 1999, p. 365.
111. Angelo Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Forma-partito e identità nazionale alle origini della democrazia italiana (1943-1948), Bologna 1996, p. 93.
112. Alfio Mastropaolo, La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, Firenze 1996.
113. Gli schieramenti politici sono: sinistra (forze politiche di matrice socialista), centro (forze politiche di matrice cattolica, più formazioni laiche come P.L.I. e P.R.I. tradizionali alleati della D.C.), destra (monarchici, M.S.I., A.N., Forza Italia), area del «voto difforme», cioè del voto che non si riconosce nello spazio politico organizzato lungo il continuum destra-sinistra (formazioni politiche della società civile come P.R. e Verdi, le leghe).
114. Vent’anni di elezioni in Italia. 1968-1987, a cura di Mario Caciagli-Alberto Spreafico, Padova 1990.
115. Stefano Mancini, Voto e forze politiche a Venezia (1979-1987): un’indagine esplorativa, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1989-1990.
116. Alfio Mastropaolo, Eziologia di una crisi di fine millennio. Come è stata costruita la crisi italiana, «Teoria Politica», 2-3, 1999, pp. 247-248 (pp. 247-280).
117. Mario Isnenghi-Silvio Lanaro, Un modello stanco, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 1071 (pp. 1067-1085).
118. Ilvo Diamanti, Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Roma 1996.
119. Mauro Calise, Il partito personale, Roma-Bari 2000.
120. Ho tratto questa sommaria descrizione di elementi della crisi ambientale e socio-economica di Venezia da Marco Bin, Governare Venezia. Un Sindaco tra amministrazione e politica, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1996-1997.
121. Terenzio Fava, Do ut des. Genesi, evoluzione e crisi del sistema della corruzione, Roma 1999.
122. Aldo Di Virgilio, Le elezioni amministrative del 21 novembre e del 5 dicembre 1993, «Quaderni dell’Osservatorio Elettorale», 1994, nr. 31, p. 192 (pp. 185-205).
123. M. Bin, Governare Venezia.
124. Ibid.
125. A. Di Virgilio, Le elezioni amministrative del 21 novembre e del 5 dicembre 1993.
126. M. Bin, Governare Venezia.
127. Ibid., p. 347.