DIETAIUTI, Cepperello
Nacque a Prato, probabilmente nella prima metà del sec. XIII, da ser Dietaiuti di Guido.
La sua famiglia, originaria dalle ville fra loro contigue di Fabio e di Maglio, venuta a Prato agli inizi del XIII secolo, ben presto emerse con l'acquisizione del diritto alle maggiori cariche, che mantenne fino al XVII secolo, allorché si estinse. I membri della famiglia, che aveva le sue case in Porta Travaglio, furono iscritti agli ordinamenti sacrati, fin dalla loro istituzione (1292), nella societas del Leone, cui appartenevano i quartieri di Porta Travaglio e di S. Giovanni. Fu un ascendente del D. quel "Cepparellus ser Venuti", che nel 1267 venne compreso nel decreto di proscrizione dei Dagomari ghibellini e dei loro seguaci, "tamquam rebellibus ... Communis". Il D. ebbe tre fratelli: un ser Guido, un ser Chele ed un ser Puccio magister abbachista, attivo anche a Firenze, che, come risulta da una sentenza contumaciale del giudice de' maleficii di Prato del 13 luglio 1276, comprò "la metà del pedaggio, e la curatura de' segni" di alcune ville del distretto di Prato, tra le quali Fabio e Maglio.
Il D. legò il suo nome alla compagnia fiorentina di Ghino Frescobaldi, di cui è segnalato come socio, insieme con Noffo (Onofrio) Dei e Iacopo del Fronte, da prima del 1278. Passò poi, al pari di Noffo Dei, alla compagnia dei fratelli Franzesi, figli di Guido Franzesi, detti anche Guidi e originari della nobiltà feudale del contado di Figline, che si affermarono quali grandi esattori ed appaltatori di imposte, costruendo le loro fortune innanzi tutto sui rapporti che seppero intessere con il sovrano di Francia, Filippo IV il Bello. Il D. fu apprezzato collaboratore dei Franzesi nell'ambiente d'Oltralpe, dove la spregiudicatezza dei "Lombardi", ed in particolare degli stessi Franzesi, suscitò, com'è noto, vivaci proteste. Nel 1288-90 fu esattore delle decime che erano state concesse in Alvernia dalla Sede apostolica al re di Francia, giovandosi della collaborazione di Noffo Dei e di Rinieri Iacopi.
Ci resta la testimonianza di un rotolo pergamenaceo non integro, edito dal Paoli, che tramanda atti contabili di quel periodo; esso è diviso in tre parti: due sono in lingua latina, di mano francese cancelleresca, con annotazioni autografe; un'altra contiene, di mano del D., un conto "ragionato" in volgare, riedito dallo Schiaffini, di "carattere piuttosto mercantile che ufficiale" (p. 336). Le esazioni furono compiute da vari collettori, tutti ecclesiastici, e il D. era il ricevitore generale. Ci risultano le sue relazioni con i grandi del Regno, come Jean de Trie, balivo di Alvernia, ed Eustache de Beaumarchais, commissario regio nel Regno di Navarra: nei confronti di quest'ultimo, Biccio e Musciatto si facevano garanti di un pagamento effettuato dal D., del quale si era perduta la quietanza, com'è detto in un'annotazione al termine della colonna di sinistra del testo volgare.
Su questa indiscutibile attestazione della presenza del D. in Francia si fonda la discussione sulla possibilità di identificarlo con il protagonista della prima novella del Decameron, ser Ciappelletto, esattore e notaio pratese, in affari con Musciatto Franzesi. Secondo il Boccaccio, la deformazione del nome in Ciappelletto sarebbe avvenuta Oltralpe, ma essa non si ritrova, per lo meno nei documenti superstiti stesi in Francia: qui ricorrono le varianti "Cepperullo", "Cheparellus/Chiperellus/Chipperellus"; ed è attestato il patronimico Dietaiuti, assente invece nella novella. Inoltre, nei documenti il D. è indicato senza il titolo di "ser", che pure gli sarebbe spettato, nel caso fosse stato notaio. Altra sfasatura del testo letterario rispetto alla realtà storica documentata riguarda la scomparsa del D., anticipata dal Boccaccio di tre anni circa e data per avvenuta in Borgogna anziché, correttamente, a Prato. L'eventualità di una "libera rielaborazione" della biografia del D. da parte del Boccaccio, in quanto costituirebbe essa stessa una fonte, sebbene di tipo peculiare, ha influenzato il giudizio storico ed ispirato consensi o discussioni e perfino una serrata apologia del D., dovuta al Giani. Merita richiamare che ogni analisi della novella non può prescindere dalla poetica del Boccaccio e dalla sua esigenza di porre alla base del racconto dati reali di cronaca. Ne viene lumeggiato l'ambiente in cui operavano e si muovevano i mercanti e gli usurai italiani, e l'intolleranza dei Francesi verso i "lombardi cani". È in questo quadro che va visto il personaggio boccaccesco, summa di tutte le perversioni mercantili: la sua psicologia si fonda infatti su una serie di osservazioni storicamente valide. Se poi il personaggio di ser Ciappelletto fosse ispirato alla biografia del D., la disinvoltura del Boccaccio nel trattare i dati della vicenda cronachistica non desterebbe sorpresa. Tra l'altro anche se lo scrittore, come pensa il Davidsohn (III, p. 516; VI, p. 651), dovette sapere del D. dal padre, certo è che le storie del D. e di ser Ciappelletto solo in qualche punto si toccano, ma per il resto seguono due svolgimenti diversi: la brillante ricostruzione del Decameron riveste, per chi intenda valersene ai fini biografici, una importanza relativa e ben circoscritta.
Dopo il periodo trascorso in Alvernia, il D. lasciò la terra di Francia e rientrò in patria; lo troviamo forse già nel 1290, e comunque prima del 1292, a Prato, insieme con il fratello Puccio, tra gli ufficiali comunali che sovraintendevano ai lavori di una strada. Nel novembre 1292 i due Dietaiuti si facevano esonerare dal servizio attivo nei sacrati, ma risulta che restarono allibrati e pagavano per i loro beni. Nel 1295 la presenza del D. è testimoniata nuovamente in Francia.
Il Giani ipotizza, sulla scorta delle indicazioni del Paoli, che egli sia stato invitato a riprendere servizio in Francia successivamente alla rottura dei buoni rapporti tra i sovrani di Francia e di Inghilterra nel 1293. In tale occasione Filippo IV aveva proceduto alla occupazione dei possedimenti feudali della Corona d'Inghilterra in Francia e, inoltre, aveva incamerato nel bailliage di Troyes in Champagne i beni dotali della regina di Navarra, Bianca di Artois, che in seconde nozze aveva sposato Edmondo, conte di Lancaster, fratello del re inglese. Della percezione di quei redditi fu incaricato il D. (forse per la mediazione di Eustache de Beaumarchais) e anche in questo caso ci è giunta la testimonianza delle riscossioni da lui effettuate nel 1295 attraverso un rotolo membranaceo, di mano francese cancelleresca, in lingua latina (edit. Paoli). Il D. si valse, come già in Alvernia, di assistenti e collaboratori; egli rese conto direttamente ai tesorieri regi, che erano gli "illustrissimi chierici" Petrus de Condeto, arcidiacono di Soissons, e Iohannes de donno Martino.
Sia a Prato sia in Francia, la posizione raggiunta dal D., grazie ai suoi buoni servizi, doveva essere ormai di rilievo; egli godeva infatti del massimo credito presso amici potenti. Quando il papa Bonifacio VIII incaricò la compagnia Franzesi della rettoria del Contado venassino, nel territorio di Avignone, appartenente alla Sede apostolica, i nuovi rettori misero il D. a capo dell'amministrazione. Essi avevano ricevuto in appalto per un quinquennio le rendite ordinarie e straordinarie, in cambio di un censo annuo di 4.000 lire tornesi, anche se, a dire il vero, furono estromessi dal papa con un anticipo di circa due anni e mezzo sugli accordi, il che li danneggiò non lievemente. Per questo arco di tempo, dal 6 apr. 1297 al 25 sett. 1299, il D. fu tesoriere del Contado per conto di Musciatto, Biccio e Niccolò Franzesi. Una pergamena vaticana tramanda un contratto di vendita rogato dal notaio Bartolomeo Baccio e stipulato probabilmente nel 1297 "Paternis, in fortilitio, in camera dicti thesaurarii" tra un maestro Alberto ed i tre fratelli Franzesi, rappresentati dal D. con procura del notaio Baldo Fini di Figline. La vendita riguardava parte delle entrate di Lapalud, capoluogo di Bollène, allora nella vicaria di Mornas, per periodi di tempo concordati. Come rappresentante dei rettori pontifici, il D. godeva di estesissimi poteri. Nel 1298 egli comprò da Bertrando Del Balzo conte di Avellino, al prezzo di 7.000 lire tornesi, anticipato dalla compagnia alla Curia, le città di Bédoin, Loriol ed Entraigues, nelle diocesi di Carpentras e di Avignone, ricevendo l'omaggio dei feudatari del luogo. Sotto il suo tesorierato furono anche acquistati, col solito sistema della sovvenzione da parte della compagnia, il castello "de Interaquis" ed i castelli "Aurioli et Bedoyni".
In seguito il D. non compare più tra i procuratori dei Franzesi; lo ritroviamo a Prato, dove era sposato (ma non sappiamo con chi) e dove nel 1294 gli era nato un figlio. Nell'agosto del 1300 fece parte dei 25 sapientes, che furono convocati dal podestà Rolandino per discutere ed approvare la richiesta di papa Bonifacio VIII di raddoppiare la "taglia" di Prato, portandola da 500 a 1.000 militi. Il 22 ag. 1300 il D. fu tra gli otto difensori del Popolo per la Porta di Travaglio; nell'anno seguente fu nominato tra i dodici consiglieri del Popolo per il bimestre settembre-ottobre 1301 e, quindi, per il luglio-agosto 1302.
Allorché nel 1301 Musciatto venne in Italia con Carlo di Valois, Prato gli affidò eccezionalmente per due anni sia la podesteria sia il capitanato, ma, a quel che si conosce, né il D. né i suoi ebbero particolari mansioni di tramite tra il Franzesi ed il Comune. Sappiamo che il D. era tra i notabili con pubblici incarichi aventi "maiora poderia" e per questo fu sottoposto il 26 genn. 1303 alla contribuzione per la cavallata. Eletto ancora il 21 febbr. tra i quaranta consiglieri del Popolo (per la Porta di Travaglio), fu poi tra coloro che subirono l'onere di mutuare danaro al Comune per l'acquisto di grano. È interessante che nella lista dei contribuenti si salti da un massimo di 500 fiorini d'oro (un unico caso) a 50, quindi a 30 (pagati dai più), poi 25, poi 10 (tra questi il D.), infine 5. Ciò può dare un'idea della valutazione che si faceva del patrimonio dei Dietaiuti. Iscritto, come s'è già detto, ai sacrati, egli fu scelto, in rappresentanza della Compagnia del Leone, per maggio-giugno 1303, come uno dei consiglieri delle due Compagnie che dovevano in quel periodo presiedere alle altre due. Il 13 marzo 1304 egli compare tra i sapientes eletti dagli Otto e dal gonfaloniere "ad custodiam Terre Prati et ad eorum consilium" per i provvedimenti relativi ai ghibellini. Del 25 sett. 1304 è la testimonianza di un credito del D. (che aveva contribuito alle spese di una cavallata) di 25 fiorini d'oro, che egli era tuttavia tenuto a lasciare in prestito al Comune.
Il 23 ott. 1304, essendo capitano del Popolo Ottone dei guelfi di Gubbio, si procedette all'estrazione del nuovo ufficio della signoria e per la Porta di Travaglio risultò difensore il D., ma si dovette ripetere il sorteggio, perché questi nel frattempo era morto.
Verosimilmente fu seppellito nel luogo riservato alla sua consorteria, sugli "scaleri" della pieve di Borgo (poi duomo), davanti alla porta Maggiore.
Di fronte ad una carriera mercantile e politica tanto "normale" non si può ignorare lo scarto con la versione del Boccaccio. D'altro canto, i dati biografici documentabili non consentono di disegnare un profilo umano alternativo, perché non è possibile opporre alla rappresentazione letteraria, che fa del D. l'emblema della bricconeria, le argomentazioni ex silentio proposte, a salvaguardia del suo buon nome, dalla crudizione del Giani. Ad esempio, dice poco sotto il profilo della moralità la consistenza relativamente modesta del patrimonio del D., che può dipendere dalla stessa modestia del patrimonio iniziale o da rovesci subiti o da torti ricevuti, forse in concomitanza con l'interruzione del contratto con i Franzesi. Quanto poi ad un altro tratto della biografia che anche sembrava rilevante al Giani, e cioè la larga partecipazione del D. alla vita pubblica pratese, è evidente che per l'assegnazione delle cariche erano determinanti le doti esteriori, come pure le tradizioni familiari. Al Giani si potrebbero ribattere argomentazioni ex silentio a sostegno della tesi contraria alla sua. Così, non vi sono elementi per escludere che il D., esponente, sia pure minore, del nuovo ceto mercantile, avesse tenuto due diversi stili di comportamento: l'uno rivolto al decoro e, magari, alla pietà; l'altro al guadagno ed agli interessi mondani. Del resto, egli operò a lungo lontano dalla patria ed ebbe agio di disporre di quel margine di libertà, che sempre lascia il vivere in terra straniera, come attesta un suggestivo passo di fra' Giordano da Rivalto: "E talora gli usurieri si vergognano di prestare qui, fuggonsi in Francia; e questo addiviene che non puote il vizio spegnere e torre via la natura. Naturale è all'uomo vergognarsi de' peccati. Questa natura non si può torre mai; chè se si togliesse, così farebbero i peccati nelle piazze come in luoghi occulti" (Narducci, p. 233).
Nella lista dei discendenti del D., che da lui si denominarono de Cepperellis, i figlied eredi, Giovanni e Margherita, compaiono quali contribuenti all'imposta di armi per porta Travaglio nel settembre 1305. Rappresentati dallo zio Guido, essi erano evidentemente a quel tempo ancora in minore età. Per Giovanni, definito minore di anni diciotto e maggiore di quattordici, ci è giunto il contratto di matrimonio, rogato il 1º genn. 1311, da ser Gualtiero di Arrigo nella chiesa di S. Francesco. La promessa sposa (ed è questo un caso di matrimonio tra una famiglia della oligarchia popolana ed una di magnati) era Vanna di Bernardo del fu Gualtiero della potente consorteria dei Guilliccioni. L'unione fu celebrata il 15 maggio del seguente anno, con un atto rogato da ser Gualtiero, secondo il diritto longobardo. La dote di Vanna fu di 400 fiorini. Di Giovanni, che ricalcò il mestiere del padre, si conosce l'estimo dei beni, che, detrazione fatta dei debiti, era di lire 3.333, s. 13 e d. 9, il 7 apr. 1315. Risulta che egli ereditò, tra l'altro, un podere nella villa di Fabio ed un mulino fuori porta S. Giovanni su una gora detta "dei mulini di Cepperello". Nel 1325 era poi allibrato per 38 lire, mentre suo zio Guido lo era per 9 lire. La sorella Margherita, cui nel testamento del D., scritto da ser Tedicio notaio, era stata assegnata una dote di lire 500, non si accasò; ed è probabile che andasse monaca delle Sacca.
Il figlio di Giovanni, ser Piero, fu notaio delle Riformagioni del Comune di Prato nel 1354; egli compare nell'estimo del 1372 con 9 e per lire 500. Piero ebbe una figlia, Giovanna, badessa del monastero delle Sacca, e due figli: ser Giovanni, notaio delle Riformagioni a Firenze nel 1385, e Stefano, lanaiolo, che prese in moglie Caterina di messer Piero di Paolo Rinaldeschi, cittadino fiorentino e gonfaloniere di Giustizia nell'aprile 1417, accatastato nel 1428-29 con bocche 8 e per fiorini 636.18 e ricordato nel testamento di Francesco Datini, da cui aveva ricevuto in affitto un fondaco, "posto alla Piaza del Chomune, sotto l'udienza degl'Otto". Figli di Stefano furono messer Giovanni, che sposò Caterina degli Aldobrandini di Firenze, Bernardo e ser Michele, immatricolato nell'arte dei notai di Prato verso il 1421. Nel catasto del 1480 si trovano le poste di ser Piero di ser Michele di Stefano e di Giovanni di ser Michele, lanaiolo.
La famiglia, che godette della cittadinanza di Firenze ed ivi si imparentò (tra gli altri con i Ciacchi), si estinse nelle persone di Datino di Bernardo di Francesco e di Lorenzo di Piero di ser Michele, che fecero testamento rispettivamente il 2 dic. 1630 e il 2 dic. 1655. Ricordano il Giani e il Nuti che arma della famiglia fu un melagrano da mezzo in giù d'oro in campo verde e verde in campo d'oro nell'altra metà.
Fonti e Bibl.: C. Paoli, Doc. di ser Ciappelletto, in Giorn. stor. della lett. ital., V (1885), pp. 329-69; Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Firenze 1926 (il Ragionato di Cepperello Dietaiuti da Prato [aa. 1288-1290] è alle pp. 244-59); Prediche ined. del beato Giordano da Rivalto dell'Ordine dei predicatori, recitate a Firenze dal 1302al 1305, a cura di E. Narducci, Bologna 1867, p. 233; C. Piton, Les Lombards en France et à Paris, I, Paris 1892, pp. 66-71; G. Salvemini, L'aboliz. dell'Ordine dei templari (a proposito di una recente pubblic.), in Arch. stor. ital., s. 5, XV (1895), pp. 260, 262; L. Gauthier, Les Lombards dans les Deux-Bourgognes, Paris 1907, p. 64; G. Giani, Cepparello da Prato (lo pseudo Ser Ciappelletto) secondo la leggenda boccaccesca e secondo i docum. degli archivi Pratese e Vaticano, Prato 1916; Id., Ancora due parole su Cepparello da Prato, Prato 1915; R. Piattoli, I ghibellini del Comune di Prato dalla battaglia di Benevento alla pace del cardinale Latino, in Arch. stor. ital., s. 7, XIV (1930), pp. 200 s.;XV (1931), pp. 9 s. (per i Dagomari); R. Nuti, Fam. antiche pratesi, in Arch. stor. pratese, XII (1934), pp. 112 ss., Statuti dell'arte della lana di Prato (secoli XIV-XVIII), a cura di R. Piattoli-R. Nuti, Firenze 1947, p. 86; A. Sapori, Studi di storia econ. (secoli XIII-XIV-XV), Firenze 1955, p. 103; M. Scarpini, Origini del monastero olivetano delle Sacca, ibid., XVI (1938), pp. 149, 153; A. Petri, Notizie della Banca Medici nella fondazione del monastero olivetano delle Sacca, ibid., XXXVIII (1962), p. 42;F. Melis, Aspetti della vita econ. medievale (Studi nell'archivio Datini di Prato), Siena 1962, p. 62; E. Fiumi, Demografia, movim. urbanistico eclassi sociali in Prato dall'età comunale ai tempi moderni, Firenze 1968, pp. 37, 61, 77, 97, 120, 145, 281, 345 s. e passim; G. Sivieri, Il Comune di Prato dalla fine del Duecento alla metà del Trecento, in Arch. stor. pratese, XLVII (1971), pp. 51 s.; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1972-73, III, pp. 516 s., 554; VI, p. 239 s., 368, 375, 559 s., 628 ss., 647, 651, 680; E. Cristiani, Il libero Comune di Prato. Secc. XII-XIV, in Storia di Prato fino al sec. XIV, I, Prato 1980, p. 404; E. Repetti, Diz. geografico fisico stor. della Toscana, IV, Firenze 1841, p. 61.