Cerimonie, feste, lusso
Nel corso dei secoli, fino alla caduta della Repubblica, la vita veneziana appare scandita da una grande varietà di pubbliche cerimonie. La maggior parte di queste, se non tutte, presentano due peculiarità. La prima risalta con la massima evidenza nel primo rituale di cui ci occuperemo in questa breve rassegna, quello di intronizzazione del doge, ed è l'intima fusione dell'elemento politico (o civico) con quello religioso. È, questa, una caratteristica tipicamente veneziana, la cui espressione più elevata e più complessa si può riconoscere nella molteplicità di significati e di ruoli connaturata alla funzione dogale stessa: in età rinascimentale infatti il doge, singolarissima figura di principe repubblicano, era al tempo stesso comune mortale e incarnazione vivente di quell'entità quasi mistica costituita dallo stato di San Marco, esponente del gruppo dirigente patrizio e resacerdote, chiamato in talune occasioni cerimoniali ad esercitare, sebbene simbolicamente, poteri di natura religiosa che non escludevano neppure (si pensi al rito dello sposalizio del mare nel corso della festa della "Sensa") sconfinamenti nel magico. La seconda peculiarità è il carattere processionale, presente, nei rituali della liturgia statale come in cerimonie di altro genere, secondo forme che variavano dalla solenne processione dogale all'allegro e più o meno informale corteo ritmato da trombe e pifferi. Queste sfilate si snodavano, per via di terra o d'acqua, attraverso la Piazza o altri luoghi deputati della scena urbana quasi a voler coinvolgere la cittadinanza tutta e a simboleggiare, insieme, l'ordinato assetto dello stato veneto, alla cui armonia ciascun settore della popolazione, nei suoi singoli membri, era chiamato a contribuire per la sua parte.
In epoca rinascimentale, il cerimoniale di insediamento del nuovo doge - codificato, nelle sue linee essenziali, in un decreto del maggior consiglio del 1485 - prevedeva che l'eletto, dopo aver assistito alla messa nella cappella ducale di Palazzo, entrasse in Basilica e salisse sul pulpito di porfido situato a destra dell'altar maggiore, dove veniva presentato al popolo dal più anziano dei suoi elettori e pronunciava un discorso; dinanzi all'altar maggiore giurava poi sui Vangeli di rispettare e tutelare le tradizionali "libertà" della chiesa di San Marco ("statum et honorem Ecclesiae Sancti Marci bona fide, et sine fraude conservare"). Il primicerio, capo del clero della Basilica, o il suo vicario, gli consegnava quindi lo stendardo rosso del patrono di Venezia, che il doge passava all'ammiraglio dell'Arsenale. Salito in una specie di portantina, chiamata pozzetto (rituale subentrato a quello più antico, di origine bizantina, del trasporto a braccia), il neoeletto veniva condotto dagli arsenalotti intorno alla Piazza gettando alla folla, nel corso del tragitto, monete coniate per l'occasione: una tradizione, questa, risalente all'epoca romana (sparsio) e presente nei rituali di incoronazione bizantino e pontificio. Sempre in pozzetto - accanto a lui uno degli ammiragli dell'Arsenale reggeva lo stendardo - il doge veniva poi trasportato nel cortile di palazzo Ducale.
L'incoronazione si svolgeva anticamente all'interno del Palazzo, in forma privata; ma nel 1485 il maggior consiglio stabiliva che, per il prestigio della dignità ducale, essa doveva avere luogo in forma pubblica e solenne. Così il doge Marco Barbarigo, eletto in quello stesso anno, riceveva la corona nel cortile del Palazzo; sede della cerimonia era probabilmente una struttura provvisoria, non essendo ancora pronta la grande scala esterna che nella seconda metà del secolo XVI avrebbe preso il nome di Scala dei Giganti. Il pianerottolo di questa scala (equiparabile, in questa circostanza, a un vero e proprio trono) sarebbe divenuto luogo deputato dell'incoronazione dogale a partire dal 1486, quando al doge Marco Barbarigo succedeva il di lui fratello Agostino. Qui il nuovo doge, dopo aver giurato la promissio - l'osservanza cioè degli obblighi connessi alla sua carica - riceveva dal consigliere più giovane una cuffietta di lino bianco, il camauro (in veneziano veta), e dal più anziano la corona, il corno dogale da cerimonia ornato di pietre preziose (zoia) solitamente conservato nel tesoro di San Marco; l'imposizione della corona era accompagnata dalle parole rituali "Accipe coronam Ducatus Venetiarum". Ritornato in Palazzo con la signoria e i quarantun elettori, il doge faceva una nuova distribuzione di denaro al popolo e gli rivolgeva ancora un breve discorso (1). Alcuni particolari di questo cerimoniale rimandano al carattere sacro della funzione dogale. Innanzitutto, la consegna dello stendardo. Di origine forse bizantina, questa insegna era apparsa nella liturgia ecclesiastica occidentale verso la fine del secolo X, a significare il trionfo di Cristo e dei santi; era poi entrata nell'uso in contesti militari, a sancire con la sua presenza l'avallo celeste alla causa di coloro che lo avevano adottato come insegna (2). Nella Venezia del Rinascimento, decaduta ormai l'usanza di sottoporre almeno formalmente alla ratifica popolare l'avvenuta elezione, la consegna dello stendardo al nuovo doge significava che costui, legittimato da un'autorità superiore a quella umana, diveniva per il resto della sua vita provvisorio titolare di una dignità trascendente, immortale ed eterna.
Tale implicazione appariva già nelle procedure elettorali, in parte improntate a una casualità che in una prospettiva cristiana doveva essere riconosciuta come solo in apparenza tale, ma in realtà manifestazione del volere divino. Come è noto, infatti, i quarantun elettori del doge venivano designati mediante un complicato meccanismo all'interno del quale il sorteggio aveva una parte non meno importante della votazione; affidata al caso era anche la scelta del ballottino, il ragazzino - simbolo, in virtù della sua tenera età, di innocente purezza - addetto all'estrazione dei voti (3). Nell'investitura, era Cristo stesso a riconoscere e confermare l'eletto per il tramite dell'evangelista patrono della Repubblica. La figura del doge non mancava d'altronde di attributi sacerdotali: la basilica di San Marco - dotata di una autonoma liturgia di derivazione aquileiese, il rito patriarchino - era la cappella di Palazzo, e il suo clero dipendeva direttamente dal doge il quale, per parte sua, al momento dell'investitura doveva impegnarsi con giuramento a rispettare e tutelare i tradizionali privilegi della chiesa di San Marco (4). Possiamo ricordare a questo proposito che anche altre chiese e monasteri veneziani erano sottoposti al giuspatronato dogale: ribadito, talvolta, da rituali suggestivi come quello che aveva luogo al monastero di Santa Maria Nuova di Gerusalemme, o delle Vergini, dove il doge confermava ogni nuova badessa "sposandola" simbolicamente con il suo anello (5).
Certi elementi di affinità (compresa la distribuzione di elemosine) del successivo giro in pozzetto con un corteo funebre suggeriscono inoltre che esso potesse alludere a una simbolica morte del doge quale patrizio veneto e a una sua resurrezione in veste di reliquia vivente di san Marco (6). Che il doge, al momento dell'incoronazione, non avesse comunque bisogno di alcuna conferma da parte dell'autorità religiosa è implicato dal carattere affatto laico della cerimonia, nella quale era sostanzialmente la volontà della signoria e dell'intero patriziato a trovare espressione; al più, l'imposizione del camauro poteva ricordare quella che altrove era l'unzione del sovrano con il sacro crisma (7). Quanto alla corona, il suo significato era legato piuttosto al culto civico della Repubblica. In quella che sarebbe stata la sua forma definitiva, il corno dogale, essa aveva cominciato nella prima metà del secolo XIII, al tempo del doge Jacopo Tiepolo, ad alternarsi al copricapo dogale di origine bizantina fin allora in uso - una calotta a tronco di cono contornata da un cerchio d'oro - per soppiantarlo completamente verso la seconda metà del secolo XIV: anche nel più vistoso simbolo esteriore dell'autorità sovrana (dal secolo XII, quando era sorto il comune, lo scettro non figurava più fra le insegne dogali) Venezia aveva dunque trovato modo di sottolineare la propria avvenuta emancipazione da Bisanzio (8).
La figura del doge e gli attributi simbolici propri della sua carica, alcuni dei quali già appaiono nella cerimonia di intronizzazione, costituiscono il cuore del corteo dogale, che sfilava nei giorni consacrati alla celebrazione di ricorrenze religiose o civili e in altre circostanze di particolare significato per la collettività (9). Il corteo era aperto dagli otto stendardi marciani di colore bianco, rosso, viola e azzurro (significanti rispettivamente pace, guerra, tregua e lega; il momento politico determinava quali dovevano apparire per primi). Seguivano suonatori con trombe argentee, gli scudieri degli ambasciatori e del doge, suonatori di altri strumenti a fiato, funzionari addetti alle prigioni e al servizio del doge, notai del maggior consiglio, canonici di San Marco - ai quali nelle più importanti solennità religiose si aggiungeva il patriarca -, il cappellano del doge o un accolito recante una candela bianca in un candelabro d'argento e, nelle occasioni più solenni, uno scudiero che portava la zoia; poi segretari del doge e del senato e il cancellier grande. Le posizioni così ben definite, e così ragguardevoli, occupate da notai, segretari e cancellieri nella composizione del corteo dogale corrispondevano al ruolo di prestigio raggiunto in età rinascimentale dal loro ceto di provenienza, quello dei cittadini originari, al quale tra XV e XVI secolo era stato definitivamente riservato il diritto di ricoprire i posti dell'apparato burocratico statale.
Il nucleo centrale del corteo era aperto da due scudieri recanti un seggio dorato, allusivo al trono dogale, e il cuscino poggiapiedi dorato del doge; tra i due camminava il ballottino. Seguiva il doge, accompagnato dai due ambasciatori di maggior prestigio (di solito il legato pontificio e l'ambasciatore imperiale); dietro il doge, un patrizio reggeva un ombrello di tessuto d'oro; seguivano gli altri ambasciatori e due patrizi, uno dei quali portava una spada. L'ultima parte della processione era composta da patrizi detentori delle più importanti cariche, a cominciare dai consiglieri ducali e dal giudice del proprio. Spesso si aggiungevano membri delle Scuole e, per il Corpus Domini, i pellegrini in procinto di partire per la Terrasanta.
Risalta nel corteo ducale la presenza di una serie di oggetti, i cosiddetti trionfi, tutti più o meno direttamente connessi alla funzione e all'autorità del doge. Già si è detto dello stendardo marciano e del suo significato; il fatto che esso figurasse nei quattro colori simbolici intendeva sottolineare la certezza dell'indefettibile tutela che il santo patrono avrebbe concesso, in qualunque circostanza, alla Repubblica. Come lo stendardo, erano di origine bizantina anche trono e cuscino, attestati tra gli attributi dogali fin dal secolo X; essi si prestavano inoltre a richiamare l'idea di sicurezza, di pace, di tranquilla dignità propria del governo veneziano. Gli strumenti musicali, entrati a far parte integrante delle processioni probabilmente non prima del secolo XIII, erano comunemente usati anche fuori Venezia quale segno di dignità regale nei corteggi dei sovrani. Nel caso veneziano essi intendevano pertanto confermare la dignità regale del doge; la musica, per giunta, aveva nel quadro propagandistico del regime veneziano una parte non indifferente, in quanto simbolo di armonia e di equilibrio (10). Più precisamente, però, le lunghe trombe d'argento si ricollegavano - come la candela, la spada e l'ombrello; come gli stendardi stessi, nel canonico numero di otto - a un episodio storico trasfigurato nella leggenda ed entrato a far parte, come componente di fondamentale importanza, del mito di se stessa elaborato da Venezia nel corso dei secoli: la pace di Venezia del 1177.
Si narrava che in quell'anno papa Alessandro III si fosse rifugiato in incognito a Venezia, temendo insidie da parte di Federico Barbarossa che vedeva nel pontefice un ostacolo alle sue pretese egemoniche sull'Italia settentrionale. Informato della sua presenza, il doge Sebastiano Ziani aveva offerto ad Alessandro il suo appoggio ottenendone in segno di gratitudine il diritto alla distinzione onorifica del cero bianco, che da allora in poi sarebbe figurato nelle più solenni processioni. Lo Ziani aveva vanamente tentato una mediazione tra i due contendenti, ricevendo dal papa l'ulteriore privilegio di far uso, come i pontefici, di sigilli di piombo anziché di cera; alle profferte del doge, l'imperatore aveva risposto inviando contro Venezia una imponente flotta al comando del figlio Ottone. Al momento di imbarcarsi al comando dell'armata veneziana, lo Ziani aveva ricevuto da Alessandro III una spada, simbolo di giustizia e di vittoria. A Salvore i Veneziani, benché inferiori di numero, avevano sconfitto e fatto prigioniero Ottone: questo successo aveva procurato al doge un'altra ricompensa da parte di papa Alessandro, il dono di un anello e il diritto di sposare il mare, in un rituale da ripetersi annualmente, in segno di perpetuo dominio. Il vinto Ottone era riuscito a persuadere il padre alla pace; questa veniva conclusa a Venezia il giorno dell'Ascensione del 1177, e l'imperatore faceva atto di sottomissione al papa. I tre protagonisti dell'evento erano poi partiti per Ancona, dove due ombrelli - segno di dignità sovrana - venivano offerti dai cittadini al papa e all'imperatore e un terzo, dietro richiesta del pontefice, al doge Ziani; in seguito, nei pressi di Roma, i tre personaggi erano stati ricevuti con otto stendardi e con lunghe trombe d'argento, anche questi concessi in segno di distinzione onorifica da Alessandro allo Ziani.
Nella realtà storica, Venezia aveva mantenuto nei confronti delle pretese imperiali sull'Italia un atteggiamento di neutralità che dà ragione del perché la città lagunare fosse stata scelta a sede dei negoziati di pace dopo la sconfitta riportata dal Barbarossa a Legnano nel 1176; nessun impegno era stato preso dal doge a tutela della causa del pontefice, nessuna battaglia navale aveva avuto luogo, nessuna onorificenza era stata pertanto da Alessandro III conferita allo Ziani. Venezia aveva però ricavato dall'accaduto notevoli vantaggi, e non soltanto in termini di aumentato prestigio sulla scena internazionale. Federico I rinnovava infatti il pactum imperiale già ripetutamente stipulato con la Repubblica dai suoi predecessori, concedendo inoltre ai mercanti veneziani l'esenzione completa dalle tasse in tutto il territorio del Sacro Romano Impero Germanico; il predominio veneziano sull'Adriatico riceveva inoltre qualcosa di simile a una sanzione pontificia, in quanto Alessandro III delegava al patriarca di Grado, al quale faceva capo la diocesi di Venezia, la giurisdizione episcopale sulla Dalmazia.
In età rinascimentale, la leggenda che indicava nella pace di Venezia del 1177 l'origine dei trionfi dogali era accettata come verità storica inconfutabile. I doni di papa Alessandro significavano l'indipendenza veneziana dal potere imperiale e il rapporto speciale e privilegiato che legava Venezia, città cristiana per eccellenza, alla sede apostolica. Indiscutibile la natura paritaria del rapporto: se il papa legittimava con la sua autorità spirituale il già ben consolidato dominio veneziano sul Levante, il doge a sua. volta appariva nella leggenda quasi come protettore del pontefice e della sua causa (11).
La presenza e l'importanza del cero bianco, della spada e dell'ombrello nelle processioni dogali sono spiegabili anche prescindendo da una tangibile dimostrazione di gratitudine da parte di papa Alessandro III. Il cero era da tempo un elemento delle processioni religiose, e figurava inoltre nei cortei trionfali degli imperatori bizantini; anch'esso aveva dunque il compito di mettere in evidenza, nella persona del doge, il duplice ruolo di autorità politica e di protettore della Chiesa. La spada era un simbolo collegato alla funzione dogale fin dal secolo IX, nel corso del quale vari dogi erano stati insigniti dei titoli bizantini di spatharios dapprima, poi di protospatharios (12); in età tardomedievale e rinascimentale essa veniva vista soprattutto come emblema di quella giustizia che era una delle virtù primarie della Repubblica, non a caso assai spesso effigiata allegoricamente in forma di Giustizia. Nella processione dogale la spada veniva portata da un magistrato dotato di competenze in campo giudiziario, solitamente un patrizio eletto alla carica di podestà o di capitano e pertanto investito del compito di estendere la giustizia di Venezia alle terre suddite. L'ombrello o baldacchino era anch'esso simbolo di dignità regale, e in quanto tale il suo uso è attestato fin dal secolo XII per le cerimonie di incoronazione in Inghilterra e in Spagna; la sua adozione da parte del doge indicava che Venezia considerava se stessa potentato sovrano, autonomo tanto dal Papato quanto dall'Impero e su un piano di parità con entrambi (13). Analogo, possiamo aggiungere, era il significato dell'introduzione nella prassi cancelleresca veneziana del sigillo in metallo (piombo, ma occasionalmente anche argento o oro) anziché in cera, come era costume presso le altre repubbliche marinare. Attestato fin dalla prima metà del secolo XII, questo uso indicava la volontà di Venezia di porsi su un livello di pari dignità con le più grandi potenze; sebbene non figurassero nelle processioni dogali, i sigilli erano carichi di una pregnanza simbolica non inferiore a quella dei trionfi. Erano però la spada, il cero, l'ombrello, il trono e il cuscino i simboli più strettamente legati alla dignità dogale: quando per qualche motivo il doge non poteva prendere parte a una processione tutti questi oggetti infatti mancavano, mentre erano presenti, dato il loro significato più generico, gli otto stendardi e gli strumenti musicali (14).
Se nei secoli precedenti l'avvento del comune le consorti dei duces veneziani, pur escluse da qualsiasi forma di potere effettivo, potevano occasionalmente esercitare qualche influsso sulla spesso tumultuosa evoluzione delle vicende politiche lagunari, in epoca rinascimentale la dogaressa era ormai da lungo tempo relegata a una funzione di mera rappresentanza. Una funzione priva di una precisa fisionomia, se non per quanto si esigeva dall'interessata: l'assidua e pubblica pratica delle più tradizionali virtù femminili unita alla sottomissione a un rigido codice di comportamento. La non ingerenza della dogaressa nelle cose di governo era garantita dal giuramento da lei prestato prima dell'insediamento in Palazzo, con il quale si impegnava a osservare, per quanto a lei spettava, la promissio dogale.
Ruolo, quello della dogaressa, nella sostanza vuoto ma onorifico in sommo grado, in quanto tale esso concedeva, quasi imponeva a colei che lo ricopriva esibizioni di sfarzo e di lusso di gran lunga superiori a quelle normalmente giudicate ammissibili per le altre suddite della Repubblica. Ne davano prova eloquente gli ingressi in palazzo Ducale delle mogli dei neoeletti dogi, ingressi che con il secolo XV sarebbero divenuti via via più complessi nel cerimoniale, più ricchi nell'apparato scenografico. Nel 1471, dopo l'elezione a doge di Nicolò Tron, sua moglie Dea Morosini veniva trasportata in bucintoro - secondo un uso instauratosi nel secolo precedente - dal suo palazzo a San Silvestro agli appartamenti del doge in palazzo Ducale; il corteo che la accompagnava al suono di trombe e pifferi era nobilitato da presenze prestigiose quali il cancellier grande, procuratori di San Marco, consiglieri e senatori. L'ingresso della dogaressa offriva inoltre alle Arti (le corporazioni veneziane di mestiere) l'occasione di svolgere un ruolo di protagoniste, ricavandone anche vantaggi promozionali, grazie all'esposizione dei loro prodotti che esse erano tenute ad allestire, e la dogaressa a visitare, a palazzo Ducale (15).
La cerimonia di consegna dello stendardo al capitano generale da mar indica come anche questa carica fosse circonfusa da una certa aura di sacralità. Dopo l'elezione da parte del senato, il nuovo capitano incontrava in palazzo Ducale il patriarca e il doge e con loro si recava alla Basilica, dove assisteva alla messa celebrata dal patriarca e riceveva dalla mano del doge lo stendardo benedetto dal patriarca stesso: per quanto indirettamente, dunque, egli traeva la sua autorità dal patrono di Venezia. Seguiva una processione attraverso la Piazza, nel corso della quale l'ammiraglio della flotta reggeva lo stendardo e il capitano procedeva a fianco del doge, che lo accompagnava fino alla sua galea (16). Uno stendardo, insieme a un bastone d'argento, veniva consegnato dal doge anche al capitano generale delle truppe di terra veneziane, allorché costui (non doveva mai trattarsi di un veneziano) veniva insignito della sua carica. Nel luglio 1508 Bartolomeo d'Alviano arrivava a Venezia dalla Terraferma e veniva ricevuto da vari patrizi a Marghera, dove ascoltava un'orazione latina in suo onore; il doge lo accoglieva poi in bucintoro, conducendolo fino all'abitazione destinatagli. Per la cerimonia, il nuovo capitano (che già si era presentato a Palazzo a ringraziare della nomina) arrivava a San Marco con un corteo acqueo ed entrava in Basilica accompagnato dalla signoria, da ambasciatori, patrizi e uomini d'armi. Dopo la messa egli riceveva stendardo e bastone dal doge. All'uscita portava il bastone in mano, ed era preceduto da due ufficiali che reggevano lo stendardo; a Palazzo si accomiatava e faceva poi ritorno, sempre per via d'acqua, alla sua abitazione. La cerimonia si ripeteva nel maggio 1513, senza sostanziali differenze se non per il tono più sfarzoso degli onori resi al condottiero, reduce da una lunga prigionia in Francia, da patrizi e senatori che mai si erano visti così splendidamente abbigliati dal tempo della rotta di Agnadello: a denotare la loro speranza che la nomina dell'Alviano fosse garanzia di un sollecito recupero dei territori perduti (17).
Il giorno dell'insediamento, il patrizio eletto all'altissima dignità di procuratore di San Marco attraversava con un corteo di parenti e di amici le Mercerie addobbate a festa per recarsi a prestare giuramento in Basilica e poi in palazzo Ducale, dinanzi al doge; grandi feste si svolgevano in quelle sere nell'abitazione assegnata al nuovo eletto nell'edificio delle Procuratie (18). Il Palazzo era di norma, ma non sempre, anche il luogo dove avveniva l'investitura a cavaliere di San Marco, l'unico ordine cavalleresco esistente a Venezia, le cui insegne sembra fossero gli speroni, una croce con il Leone marciano o, nel caso di personaggi di maggior prestigio, una collana d'oro che i patrizi sostituivano poi con una stola listata d'oro indossata sulla toga.
Da ricordare per la sua eccezionalità ("cosa nova né più seguita", a detta del Sanudo) la cerimonia che aveva luogo il 15 agosto 1533 nella basilica di San Marco, allorché il doge - presenti vari ambasciatori, il primicerio di San Marco e una folta schiera di patrizi - armava cavaliere, ponendogli una catena d'oro al collo, il ricco ebreo Jacob Meshullam "dal Banco" subito dopo che costui aveva ricevuto, insieme al figlio Salamon, il battesimo per mano del legato pontificio. Nel cuore religioso e politico di Venezia, e con la fastosa solennità cara al doge Andrea Gritti, si era così celebrato un duplice "ingresso", tale da confermare gli astanti nei loro sentimenti di devozione e di orgogliosa appartenenza alla città-stato che riconosceva nell'evangelista (di cui Jacob aveva assunto il nome) il suo protettore e il suo simbolo e nel culto marciano il più forte fattore di coesione (19).
Doge, signoria e patriziato attestavano la loro solidarietà e il loro stretto rapporto con la chiesa presenziando non soltanto alle cerimonie legate alla basilica marciana, ma a tutti i momenti più significativi della vita religiosa veneziana. Allorché il nuovo patriarca di Venezia, eletto dal senato, riceveva la conferma da Roma, il doge insieme con la signoria, gli ambasciatori esteri residenti a Venezia, il primicerio di San Marco e un corteggio di nobiluomini si recava per via d'acqua a prelevare nella sua abitazione il nuovo patriarca, per dirigersi poi insieme a lui e al suo seguito (piovani e altri rappresentanti del clero veneziano) alla cattedrale di San Pietro di Castello, dove l'eletto veniva insediato (20). Evento solenne, in cui la glorificazione della fede cattolica si fondeva con quella della Repubblica, era poi la consegna a un veneziano del cappello cardinalizio. Marin Sanudo descrive il conferimento di questa onorificenza a Marco Grimani, patriarca di Aquileia, 1'8 marzo 1528: alla presenza del doge, di alti ecclesiastici e di numerosissimi patrizi, il Grimani riceveva il simbolo della sua nuova dignità dalle mani di un gentiluomo romano, rappresentante del papa, nella basilica di San Marco parata a festa, dopo un pontificale celebrato dal patriarca e un'orazione pronunciata da Battista Egnazio. Il banchetto imbandito la sera ad amici e parenti dal Grimani nel palazzo di famiglia a Santa Maria Formosa non era che il coronamento di un mese di cene e di balli quotidianamente offerti dalla famiglia in onore del congiunto (21).
"Grande honor a la terra e comodità a li mercadanti", secondo la felice espressione sanudiana, erano nella Venezia rinascimentale le banche, i cosiddetti banchi di scritta; e i banchieri, non di rado, prestigiosi esponenti del ceto dirigente, attivi anche in campo politico. Le loro fortune riguardavano la collettività intera, e non è dunque sorprendente che l'inaugurazione di un banco fosse una vera e propria cerimonia pubblica il cui teatro era naturalmente il centro finanziario e commerciale di Venezia, Rialto. Proprio l'enorme importanza delle banche per il benessere dello stato consigliava di affidare i loro destini alla protezione divina. Lungi, pertanto, dall'essere strettamente laico, il rituale di apertura aveva inizio con una messa nella chiesa di San Giovanni Elemosinario di Rialto, dopo la quale il titolare del banco vi si insediava al suono di "trombe e pifari", accompagnato da cavalieri, procuratori e altri patrizi, mentre un banditore proclamava che "con el nome di Dio se levava uno bancho di scrita". Il banco, sul quale luccicavano "monti di oro et di monede", cominciava subito la sua attività: ma si trattava di un mero e breve pro forma, l'ultima fase della cerimonia prima che, sempre con trombe e pifferi, la compagnia si sciogliesse. Analoghe festose procedure potevano accompagnare il saldo di un banco, come avveniva nel 1528 per quello di Zuan Pisani quondam Alvise (del ramo soprannominato appunto "dal Banco") (22).
In particolari circostanze, al di fuori del normale calendario liturgico, Venezia era teatro di processioni a carattere esclusivamente religioso: come quella, composta dalle quattro Scuole dei Battuti e da Francescani, che il 5 luglio 1450 percorreva la città, partendo da Santa Maria dei Frari e attraversando il Canal Grande, in onore di san Bernardino da Siena, recentemente canonizzato e già in vita oggetto di fervida devozione da parte dei Veneziani (23). Situazioni di emergenza potevano consigliare il ricorso all'intercessione della Vergine, la cui immagine (un'icona attribuita a san Luca) veniva allora portata in processione per la Piazza: così il patriarca disponeva si facesse per tre giorni consecutivi nel luglio 1528, tempo di gravissima siccità, per impetrare la pioggia. Ma entusiastico consenso, specie da parte di alcuni settori della popolazione, potevano riscuotere anche iniziative non patrocinate dalla locale autorità religiosa. Per "placar l'ira di Dio" contro Venezia, in un momento particolarmente critico per la Repubblica, nel febbraio e nel marzo 1515 il predicatore fra Elia da Brescia organizzava ai Servi processioni nelle quali riusciva a intruppare oltre quattrocento bambini di ambo i sessi, biancovestiti e con candele in mano, e tre Scuole, e frati, "e femene assai e altro popolo". Si può credere che molti fra i più consapevoli rappresentanti del ceto dirigente veneziano condividessero l'indignazione espressa da Marin Sanudo per manifestazioni di questo genere, che, oltre a favorire incontrollabili fenomeni di esaltazione collettiva, esercitavano sulla popolazione un indesiderabile effetto demoralizzante (24).
Un rito la cui spettacolarità esercitava sugli astanti una suggestione almeno pari al suo significato religioso era il battesimo di un ebreo. La cerimonia, pubblica e solenne, comprendeva il dono al convertito di abiti nuovi, simbolo della sua rinascita spirituale, e - indipendentemente dalla sua condizione economica, spesso molto agiata - una colletta a suo beneficio. Il 19 gennaio 1528 oltre diecimila persone si stipavano nella chiesa dei Frari "conzata benissimo con tapezarie et altri preparamenti" per assistere allo "spectaculo" del battesimo del diciassettenne Vivian, figlio di quel Jacob dal Banco che alcuni anni dopo sarebbe stato a sua volta battezzato e armato per giunta cavaliere; terminato il rito, il nuovo cristiano era stato poi accompagnato fuori al consueto suono di "trombe et pifari" (25).
Nella Venezia del Rinascimento, la prima fase del rituale funebre prevedeva che il defunto - spesso vestito con l'abito della Scuola alla quale apparteneva, o di un ordine religioso al quale si fosse sentito particolarmente legato - venisse condotto di sera, al lume delle torce rette da familiari e amici, alla chiesa parrocchiale dove giaceva per una notte. La mattina seguente lo accompagnava al luogo di sepoltura (di solito la chiesa che ospitava le tombe di famiglia) un corteo tanto più folto quanto più ragguardevole era stato, per dignità o per censo, lo scomparso: oltre ai parenti in lutto (detti corozosi) vi figuravano rappresentanze delle Scuole, religiosisecolari e regolari - molto ambita era la presenza di membri dell'ordine dei Gesuati-, marinai, servitori, bambini degli Ospedali destinatari di più o meno generosi lasciti. Giunto al luogo delle esequie, il defunto veniva posto a giacere sopra un catafalco sormontato, se il rango lo richiedeva, da un baldacchino (26). Onoranze grandiose venivano tributate ai detentori di cariche elevate, come i procuratori di San Marco e i cancellieri grandi; simili a quelle dogali, se non per il minor numero di patrizi delegati a vegliare e accompagnare la salma e per l'assenza dello scudo dalla processione, erano state il 23 ottobre 1479 le esequie di Taddea Michiel, moglie del doge Giovanni Mocenigo (27). Ma un funerale sontuoso non era precluso nemmeno ai popolari, qualora ne avessero i mezzi: ben poco aveva da invidiare ai cortei funebri patrizi quello che nel 1533 aveva accompagnato alla sepoltura in San Francesco della Vigna un frutaruol di esorbitante ricchezza, il bergamasco Taddeo (28). Per chi rifuggiva da queste forme di postumo esibizionismo - considerato, d'altronde, stretto dovere sociale dei parenti - l'unica e piuttosto aleatoria possibilità di garantirsi esequie sobrie consisteva nel lasciare precise e ferme disposizioni testamentarie in questo senso (29).
Requisito indispensabile del funerale - come di qualsiasi altra cerimonia in qualche modo pubblica - era, infatti, la spettacolarità. Spettacolo era in primo luogo il defunto stesso; la diffusa usanza di fargli compiere l'ultimo viaggio steso su un cataletto anziché chiuso in una cassa lo esponeva alla non sempre pietosa curiosità della gente che ne valutava aspetto e abbigliamento (questo, se non si trattava di un abito religioso, doveva essere in tutto adeguato alla condizione e alla posizione sociale dell'estinto, al quale nemmeno dopo la morte era lecito derogare al proprio ruolo all'interno della collettività). Interesse non minore suscitavano il corteo funebre - molto apprezzato se abbondante di torce, di "luminarie" -, l'orazione commemorativa eventualmente pronunciata e l'addobbo della chiesa. Oltre a comportare drappi neri e l'arme del defunto, se costui era nobile, questo poteva includere immagini ispirate a una convenzionale iconografia macabra o comunque allusiva al rapido scorrere e consumarsi della vita, come teschi, falci, orologi (30).
Allorché il suono delle campane annunciava alla città l'avvenuto decesso del doge, solo ai familiari del defunto era consentito abbandonarsi in privato a manifestazioni di cordoglio e ricevere visite di condoglianza: purché al di fuori del Palazzo, che la famiglia del doge, qualora vi risiedesse, doveva affrettarsi a sgomberare. I1 lutto era invece vietato alla signoria, che nel tempo dell'interregno subentrava al defunto nella funzione di incarnare una realtà immortale ed eterna, quale era quella dello stato veneziano. La signoria si rinchiudeva pertanto in palazzo Ducale, e l'edificio veniva presidiato da arsenalotti armati: forse a prevenire il rischio di pressioni violente sugli elettori del nuovo doge, o più probabilmente per ragioni rituali, in memoria dei saccheggi del Palazzo ai quali in età medievale il popolo si abbandonava in tempo di interregno. Un segretario del consiglio dei dieci infrangeva l'anello ducale e i sigilli di piombo con il relativo stampo, e ugualmente veniva frantumato il più grande dei due sigilli argentei - quello recante il nome del defunto doge - che i magistrati preposti alle saline di Chioggia dovevano, per la circostanza, inviare alla signoria. Questa distruzione simbolica delle insegne di potere più intimamente legate alla persona dello scomparso intendeva enfatizzare l'avvenuta definitiva separazione tra il dogado eterno e l'individuo effimero che per un certo tempo ne era stato titolare, e soffocare inoltre qualsiasi eventuale velleità di successione dinastica da parte di familiari ambiziosi. Il medesimo significato aveva la sostituzione delle armi del consigliere più anziano a quelle del morto doge nei sigilli ufficiali in uso durante l'interregno (31). In vista dell'esposizione al pubblico - ma anche allo scopo di renderlo sostanza purificata e incorruttibile - il corpo del doge veniva imbalsamato, pratica questa che sarebbe rimasta in vigore fino all'inizio del secolo XVII (32). Talvolta, come nel caso del doge Leonardo Loredan, esso veniva vestito con l'abito della Scuola grande della quale era stato confratello; lo si esponeva comunque sul catafalco con manto d'oro, corno dogale e attributi militari capovolti (speroni calzati a rovescio, spada con l'elsa rivolta verso il basso, scudo con il Leone marciano volto all'interno) a significare che ogni sua autorità era venuta meno con la morte (33). Così abbigliato, esso veniva trasportato nella sala del Piovego da una processione che escludeva i familiari e comprendeva invece preti, servitori, marinai con torce, scudieri e il gruppo di patrizi delegati a vegliare per tre giorni la salma. Costoro vestivano di scarlatto, "in segno" - secondo la celebre espressione del diarista Marin Sanudo - "si è morto il Doxe non è morta la Signoria"; questa non partecipava alla veglia né ai funerali, a denotare la volontà di continuare nell'interregno l'ufficio dogale fino all'elezione del nuovo titolare (34). Trascorsi i tre giorni, una imponente processione accompagnava il defunto da palazzo Ducale al luogo di sepoltura, di solito la chiesa domenicana dei Santi Giovanni e Paolo. Il corteo funebre si apriva con le Scuole piccole e le grandi, gli ordini religiosi, le congregazioni secolari, i capitoli di Castello e di San Marco, cantori che intonavano il Miserere, la Scuola grande alla quale il defunto aveva appartenuto (altrimenti la Scuola di San Marco), personale addetto al servizio del doge, marinai dell'Arsenale che reggevano lo scudo; non mancava il ballottino. Il feretro, sorretto da capitani di marina, era preceduto e seguito da religiosi dell'ordine dei Gesuati, da marinai con torce, dai patrizi in abito scarlatto che avevano preso parte alla veglia, da vari funzionari di Palazzo e dai congiunti del doge completamente avvolti in cupi mantelli neri. Chiudevano il corteo il cancellier grande, il patriarca, gli ambasciatori, i procuratori di San Marco e altri esponenti delle più elevate magistrature; infine i parenti meno stretti del doge e i bambini degli Ospedali, ai quali, come era costume anche nei funerali privati, si elargivano poi elemosine.
La processione faceva il giro della Piazza per imboccare poi le Mercerie. Davanti alla basilica di San Marco c'era una sosta e il feretro veniva innalzato nove volte tante quante erano le congregazioni del clero, a significare l'autorità del doge sulla Chiesa veneziana -, invocando la misericordia divina. Nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo il corpo veniva collocato su un grandioso catafalco coperto di panni neri e decorato con il Leone di San Marco e con lo stemma gentilizio del defunto; un letterato - nel caso del doge Loredan si era trattato del "pubblico storiografo" Andrea Navagero - recitava poi un'orazione funebre.
Sempre pubblici, eccettuati i casi in cui considerazioni di opportunità politica consigliavano la segretezza, i supplizi inflitti ai criminali avevano sulla popolazione, a Venezia come un po' dovunque, uno straordinario potere di richiamo. La loro macabra teatralità non si limitava ad appagare il latente sadismo della folla; esercitava, anche e soprattutto, una funzione catartica e rigeneratrice. Isolando e respingendo lontano da sé il delitto, presenziando al solenne e pauroso rituale pubblico con cui lo si puniva, la collettività si purificava, rafforzava la propria coesione interna e si riconfermava nella fiducia in quella giustizia che era uno dei connotati distintivi della Repubblica: le raffigurazioni allegoriche non erano forse solite presentare Venezia in forma di Giustizia?
Non a caso anche la prassi delle esecuzioni capitali poteva comprendere, non diversamente dalle solennità civili e religiose, momenti processionali. Andavano semplicemente "per la piaza in mezo de frati che li confortava", baciando i conoscenti e chiedendo preghiere, i cinque giovani patrizi giustiziati nel 1513 come rei di una serie di furti e di omicidi; ma, il più delle volte, ben altra cosa quanto a spettacolarità e a ferocia era il corteo precedente l'esecuzione di chi si fosse macchiato di delitti di sangue. Al condannato si faceva percorrere su una chiatta il Canal Grande fino a Santa Croce; fatto poi smontare, lo si conduceva sul luogo del delitto dove subiva l'amputazione della mano destra; per terra, talvolta legato alla coda di un cavallo e da questo trascinato, egli raggiungeva infine il luogo dell'esecuzione, tra le due colonne in Piazzetta.
La sentenza veniva in genere eseguita mediante decapitazione o impiccagione; frequentemente adottato era anche il sistema di "descopar" il condannato, di ucciderlo cioè a colpi di mazza. Che la fine tardasse a sopraggiungere, era contrattempo abbastanza consueto. Sopravvissuto ai colpi di mazza, uno dei cinque giovani nobili "si voltoe, et non era morto et vardava apicar el compagno", provocando un secondo e definitivo intervento del boia. "Descopato" e inavvertitamente appeso per un piede alla forca (come comportava la sentenza) ancora vivo, era stato lentamente finito a sassate dagli astanti un prete di Marano condannato nel 1514 per tradimento. Parimenti "descopata", era morta "con gran stento" nell'agosto 1521, nonostante le coltellate ripetutamente infertele "nel cuor e ne la gola", una uxoricida poi "squartata in quatro parte, et mandata apicar su quatro forche a exempio di Mai": prima donna a Venezia, informa diligente il Sanudo, a subire questa procedura frequentemente applicata, invece, ai criminali di sesso maschile. La lentezza di una morte già di per sé atroce non scandalizzava né impietosiva il pubblico, che tendeva a considerarla una giusta pena aggiuntiva: "siché credo sentisse una crudel morte come merita li soi mensfati, ruina di la patria. [...> Et cussì finì la vita sua come el meritava", era il compiaciuto e inesorabile epitaffio dedicato dal Sanudo allo sventurato prete di Marano (35).
Vari delitti non passibili di condanna capitale si punivano con mutilazioni che tramutavano per il resto dei suoi giorni il condannato stesso in spettacolo vivente e in eloquente monito: gli uomini venivano resi invalidi al lavoro mediante accecamento o amputazione di una mano, le donne sfigurate con il taglio del naso o delle labbra. Per reati di minor conto, la pena consisteva spesso in una pubblica umiliazione, tale da distruggere non la persona fisica ma l'immagine e l'onorabilità del colpevole. Costui poteva venire esposto per un certo tempo fra le due colonne, con una mitria di carta sul capo; pena supplementare, o alternativa, frequentemente applicata era quella di condurlo per la città, talvolta a colpi di frusta, proclamandone a gran voce il delitto o informandone il pubblico mediante un cartiglio appeso al collo del delinquente stesso. In casi di particolare gravità, il corteo infamante si sommava alle mutilazioni: nel maggio 1519 alcuni bestemmiatori venivano condotti lungo il Canal Grande fino a Rialto, per avere mozzata la lingua nell'osteria che era stata teatro del delitto, quindi fra le due colonne di San Marco, per venire privati degli occhi e della mano destra. "Fo bella parte", ammirevole sentenza cioè, commentava Marin Sanudo, "et cossa notanda" (36).
Con la vistosa eccezione del carnevale, le festività di cui era fitto l'anno - che a Venezia, come altrove in Europa, aveva ufficialmente inizio il 1° marzo (37) - coincidevano in genere con le tradizionali ricorrenze previste dal calendario liturgico. Di carattere dunque essenzialmente religioso, le più importanti almeno di tali feste erano però, nella loro versione veneziana, sempre cariche di più o meno diretti riferimenti politici. Con il suo seguito, il doge vi prendeva immancabilmente parte, spesso in veste di protagonista e di officiante: in una posizione quindi di parità, se non di superiorità, rispetto al patriarca e agli alti dignitari ecclesiastici, a conferma delle caratteristiche in certo modo sacerdotali insite nella funzione dogale (38).
Il 1° febbraio, vigilia della festa della Purificazione di Maria (detta popolarmente Candelora), la processione dogale raggiungeva per via di terra la chiesa di Santa Maria Formosa, dove il doge assisteva ai vespri e riceveva dal parroco, secondo un'antica tradizione, un rinfresco e un cappello di paglia. Questa solennità, di non eccezionale rilievo e limitata al circoscritto ambito della parrocchia, è degna di nota in quanto ultimo pallidissimo residuo della festa delle Marie, celebrata dal secolo XII al 1379, anno della sua abrogazione. Nella sua complessa forma originaria, essa aveva il suo culmine dal 30 gennaio al 2 febbraio e comprendeva processioni di laici giovinetti - e adulti -, cortei acquei con la partecipazione del doge e del vescovo di Castello, regate, una sorta di sacra rappresentazione ispirata all'Annunciazione e l'esposizione, in case patrizie scelte di anno in anno, di dodici statue di legno riccamente abbigliate dalle sembianze femminili, appunto le "Marie". Solo intorno al secolo XV sarebbe sorta la leggenda che vedeva nella festa la commemorazione di una vittoria riportata dai Veneziani - tra i quali si sarebbero particolarmente distinti alcuni parrocchiani di Santa Maria Formosa - sui pirati triestini che avevano loro rapito dodici giovani spose.
Già all'inizio del secolo XIV, nella coscienza collettiva il significato religioso della festa si era alquanto appannato; sempre più essa era divenuta occasione di svago e di intensificati contatti sociali, con ampie possibilità di incontri e di amoreggiamenti tra giovani e ragazze. Probabile dunque che a determinarne l'abrogazione, oltre all'eccessiva dispendiosità, abbiano contribuito i disordini cui essa dava luogo, nonché un certo allarme dinanzi al troppo disinvolto ruolo di protagoniste che donne e fanciulle vi ricoprivano.
Più composta e rassicurante, la versione rinascimentale della festa poneva in primo piano non le contrade e la gioventù di ambo i sessi ma il potere centrale incarnato dal doge, e si imperniava su un culto mariano depurato da elementi profani.
Ne risultava enfatizzata una concezione assai cara alla mitologia di stato, l'associazione cioè tra la Vergine celeste e l'inviolata città vergine, Venezia (che la leggenda voleva fondata nell'anno 421 il 25 marzo, che era la festa dell'Annunciazione); venivano inoltre celebrate le virtù mariane della purezza e della maternità, additandole implicitamente come ideali modelli di vita all'intera popolazione femminile della città lagunare (39).
Sia per la sua collocazione nel calendario, sia per l'ampio spazio che essa concedeva alla teatralità, al gioco, all'esaltazione della giovinezza e dell'amore, l'antica festa delle Marie presentava qualche affinità con il carnevale. Questo si estendeva dal giorno di santo Stefano all'inizio della quaresima e comportava tanto manifestazioni patrocinate e regolamentate dal governo quanto festeggiamenti di spontanea iniziativa privata. Il momento in cui più sensibile era la commistione tra "alto" e "basso", tra rituale pubblico e divertimento popolare, era la giornata del giovedì grasso o "zioba dela cazza", così chiamato in riferimento alla sua principale attrattiva, la "caccia al toro" in piazza San Marco (40). Nemmeno questo violento rituale era privo di collegamenti con la memoria storica e con la liturgia civica della Repubblica: si trattava, infatti, di una cruenta e parodistica rievocazione della vittoria riportata nel 1162 dai Veneziani su Ulrico patriarca di Aquileia, invasore della sede patriarcale filoveneziana di Grado: un toro (in realtà un bue) e alcuni maiali, allusivi al patriarca stesso, ai suoi canonici e ai feudatari a lui fedeli, ricevevano formale sentenza di morte e venivano quindi "giustiziati" mediante decapitazione in Piazza. Fino al 1420, allorché il Friuli passava sotto il dominio veneziano, era obbligo dei successori dello sconfitto patriarca di Aquileia fornire annualmente gli animali, oltre a un certo numero di pani, simboleggianti anch'essi i feudatari carinziani e friulani. Era consuetudine che il doge distribuisse ai patrizi la carne degli animali macellati inviandone a ciascuno un pezzo, chiamato zozolo, e che analoga destinazione avessero i pani; nel corso della guerra della lega di Cambrai l'usanza decadde, e da allora carne e pane si donarono a monasteri e a prigioni.
Nei primi decenni del Cinquecento il consiglio dei dieci metteva in atto vari tentativi per modificare questa tradizione, almeno negli aspetti giudicati più grotteschi e indecorosi. Un decreto del 1520 aboliva l'introduzione dei porci nell'ufficio del giudice del proprio, dove si emetteva nei loro confronti la sentenza di condanna, nonché la fase del rituale che originariamente faceva seguito all'uccisione degli animali: l'abbattimento cioè da parte del doge, nella sala del Piovego in palazzo Ducale, di alcuni modellini in legno simboleggianti i castelli friulani. In seguito si tentò anche, ma invano, di sostituire i maiali con un unico toro; il cambiamento non sarebbe stato irrilevante in quanto questo animale, diversamente dall'umile porco, richiamava un'immagine di aggressività e di ferocia che lo rendeva accettabile avversario dell'uomo, degno di cimentarsi con lui in un conflitto nel quale il valore di entrambe le parti contendenti veniva messo alla prova (41). Dopo la macellazione dei maiali e del toro, la festa del giovedì grasso in Piazza proseguiva di norma all'insegna di una festosità incruenta, con carri allegorici, rappresentazioni teatrali di vario genere, spettacoli pirotecnici; in analoghe manifestazioni, su scala più ridotta, ci si poteva imbattere un po' dovunque in città. Esse erano d'altronde consuete espressioni di pubblica esultanza, non strettamente legate al carnevale.
La preoccupazione di conferire un tono più elevato e dignitoso alle celebrazioni carnevalesche ufficiali era propria dei membri della classe dirigente più sensibili all'esigenza di fissare una netta linea di demarcazione tra i divertimenti del ceto popolare e quelli gestiti dallo stato o riservati, comunque, alle élites; attivo in questo senso sarebbe stato in particolare il doge Andrea Gritti, in coerenza con la sua aspirazione ad adeguare a criteri di aulica solennità il centro urbanistico di una Venezia destinata, secondo il programma grittiano, a emulare e a superare Roma. Superfluo precisare che questo aristocratico rigetto di talune forme del rituale carnevalesco non implicava la benché minima riprovazione per le sevizie inflitte agli animali: lo sfruttamento a fini spettacolari delle sofferenze di un essere vivente, bestia o uomo che fosse, era del tutto consono con la mentalità - non solo veneziana - del tempo. Mai, dunque, si sarebbe potuto prendere in considerazione la possibilità di abrogare la caccia del "zuoba grasso", alla quale il doge presenziava insieme al corpo diplomatico, alla signoria e a numerosi senatori; un dovere di rappresentanza al quale si assoggettava, verosimilmente non troppo malvolentieri, anche quel rigido tutore del decoro aristocratico che era Andrea Gritti. Nel corso del carnevale, a varie "cacce al toro" Si poteva d'altronde assistere anche al di fuori del giovedì grasso e in zone della città diverse dalla Piazza, come campo San Polo o campo Santa Maria Formosa; altri "piaceri" della stagione erano il tirare il collo a un'oca, l'aizzare cani contro un orso (42). Svaghi crudeli, che - come le esecuzioni capitali - non rispondevano tuttavia alla sola esigenza di soddisfare gli istinti sanguinari della folla: poiché il carnevale toccava il suo culmine sul finire dell'inverno, coincidente per il calendario veneziano con il finire dell'anno, il sacrificio dell'animale si caricava di una valenza simbolica, l'uccisione del vecchio per consentire la nascita del nuovo, la rigenerazione primaverile della città e del mondo intero.
In un tempo come quello di carnevale, sacro al libero scatenarsi degli istinti e delle energie naturali, la violenza - sempre latente, sotto la superficiale vernice di raffinatezza, anche negli strati più elevati della società veneziana del Rinascimento non poteva certo appagarsi di sfoghi pianificati e istituzionalizzati. I giovani, i signori del carnevale, tendevano a dimenticare ogni convenzione sociale e a trasformarsi in un. vero pericolo pubblico. Non si aveva rispetto nemmeno per il massimo rappresentante dell'autorità statale, se nel corso di un festino offerto in Palazzo dal doge Gritti alcuni giovani - questi giovani del giorno d'oggi, chiosava il Sanudo, "molto discoli" - avevano rivolto alle donne presenti "stranie et vergognose parole, et fato quasi cazer in aqua una neza dil Serenissimo" (43). Un forte incentivo allo scatenamento dell'aggressività era costituito dalla maschera: i reati commessi in ogni epoca dell'anno da individui mascherati subivano un netto incremento nei mesi di gennaio e di febbraio, allorché il senso di impunità sempre conferito dal travestimento si sommava allo spirito trasgressivo del carnevale, incoraggiando, accanto a blande manifestazioni di irriverenza al potere politico o religioso, il dilagare di una vera e propria criminalità. Sotto la protezione della maschera si regolavano vecchi conti ma si uccideva anche senza premeditazione, per i più futili motivi. Nessuno si stupiva troppo se il lancio di qualche palla di neve, o uno scherzo di dubbio gusto, davano origine a tragici fatti di sangue; era da considerarsi, in fondo, bravata tra le più innocue quella intrapresa il martedì grasso del 1522 dal nobiluomo Baldissera da Canal di Alessandro e da due suoi complici, che "stravestidi" avevano fatto irruzione a Rialto asportando dalle botteghe "formazi, persuti, luganege [...> per forza e senza pagar" (44).
Di qui il crescente ostracismo nei confronti di maschere e travestimenti da parte del consiglio dei dieci. Mentre due decreti del 1459 e del 1462 consentivano "mumos et mascaras" solo in occasione di nozze e di feste, nel secolo successivo i travestimenti venivano proibiti in ogni tempo dell'anno e concessi - in genere limitatamente ai soli uomini, purché disarmati - solo nella fase culminante del carnevale, talvolta nemmeno allora (45). Ma le mascherature carnevalesche suscitavano, come testimoniano i Diarii sanudiani, reazioni ambivalenti: all'allarmato sospetto, sempre pronto a tramutarsi in aperta condanna, subentrava il rammarico allorché la penuria di maschere per le vie rendeva il carnevale "magrissimo" e quasi di "mal augurio". Il mascherarsi per carnevale rientrava in fin dei conti nella tradizione veneziana; e la tradizione andava rispettata e salvaguardata, sempre e comunque. Inserito in un ordinato contesto di divertimenti rispettosi delle gerarchie sociali e dell'ordine costituito (addomesticato, quindi, privato delle sue potenzialità eversive) il travestimento si rendeva accetto anche ai benpensanti; tanto più che celebrazioni adeguatamente gioiose non potevano che rafforzare la funzione apotropaica propria del carnevale (46). La festa, per giunta, assolveva la funzione civica di instillare nei sudditi uno stato d'animo rilassato e ottimista, una serena fiducia nel solido corpo statale di cui ciascuno era chiamato a sentirsi, pur nella diversità delle funzioni e delle prerogative, parte integrante. Così, la spettacolare festa organizzata nel carnevale del 1520 a San Simeon sul Canal Grande da una Compagnia della Calza, gli Immortali, riusciva a distrarre Marin Sanudo dalle sue preoccupazioni per la diffusa inosservanza delle leggi, la dilagante delinquenza, il lassismo della giustizia, e a farlo esultare di patrio orgoglio: festa belissima et abondante, che in memoria di homeni vivi la più bella non è sta fata in questa terra, e questo sia notà a gloria di questa cità, la qual è troppo excelente, licet li homeni sia cativi (47).
Purificata durante il tempo quaresimale dai paganeggianti eccessi carnevaleschi, Venezia riacquistava in pieno il suo volto di ben ordinata Repubblica cristiana nei riti propri ai giorni immediatamente precedenti la Pasqua, durante i quali si assisteva a una perfetta fusione tra liturgia religiosa e liturgia civica: ne erano infatti protagonisti, in un susseguirsi continuo di processioni, il doge e i rappresentanti delle principali magistrature (48).
La domenica delle Palme era occasione di una solenne processione in piazza San Marco, durante la quale il clero, il doge, i magistrati e il popolo sfilavano portando le palme benedette. Il mercoledì santo il doge si recava a visitare San Giovanni di Rialto, chiesa di suo giuspatronato; il giorno seguente era la volta della chiesa di San Giacomo di Rialto, alla quale - secondo la leggenda - papa Alessandro III aveva concesso un'indulgenza per tutti coloro che in questo giorno la avessero visitata (49). La sera un'altra processione, quella delle Scuole grandi, si recava a San Marco per venerarvi il sangue miracoloso di Cristo, ivi esposto ai fedeli in un'ampolla. La mattina del venerdì santo doge, signoria e altri rappresentanti dell'autorità politica veneravano in San Marco la reliquia della croce; nel pomeriggio il corteo dogale, al quale si aggiungevano membri della Scuola di San Marco, accompagnava in processione, uscendo dalla Basilica e rientrandovi dopo aver attraversato la Piazza, l'ostia consacrata al "sepolcro" che veniva poi sigillato con il sigillo dogale. La sera, analoghe processioni al sepolcro si svolgevano, a lume di torcia, nelle varie parrocchie, e l'intera città era illuminata a giorno come per una grande, corale veglia funebre (50). La mattina di Pasqua il doge, in abito d'oro, accoglieva in Palazzo la processione dei canonici di San Marco, che gli offrivano una candela accesa; con loro egli si recava alla Basilica. Qui, nel corso di una specie di sacra rappresentazione, avveniva la scoperta del sepolcro vuoto e veniva proclamata l'avvenuta resurrezione di Cristo; poi, nella chiesa sontuosamente addobbata e con la Pala d'oro esposta sull'altar maggiore, tutti si scambiavano un bacio e si celebrava la messa.
Era tradizione che la sera di Pasqua la processione dogale nella sua forma più solenne, comprensiva di trionfi e zoia, andasse per via di terra e per l'interno (passando cioè, all'andata e al ritorno, per il ponte di San Filippo e Giacomo anziché per quello della Paglia) al monastero di San Zaccaria, per assistervi ai vespri. La più diffusa tra le leggende che cercavano di spiegare l'origine di questa consuetudine raccontava che nel secolo IX la badessa Agnesina Morosini aveva fatto dono al doge Pietro Tradonico di una corona ingioiellata: il primo corno dogale. La badessa aveva ricevuto la corona da papa Benedetto III, grato per essere stato accolto dal monastero veneziano allorché cercava di sfuggire all'antipapa Anastasio III; in tal modo la corona sarebbe pervenuta al doge, sia pure per via indiretta, dall'autorità del pontefice - ancora una volta, la riconoscenza di un papa quale garanzia e avallo dell'autonomia politica veneziana - anziché da quella dell'imperatore di Bisanzio. Più verosimile, sebbene più prosaica, è però l'ipotesi che la visita annuale altro non fosse che una sorta di risarcimento per il danno economico arrecato al monastero dall'ampliamento di piazza San Marco, che aveva inglobato terreni appartenenti alle benedettine di San Zaccaria (51).
Il 25 aprile ricorreva la prima, e la più solenne, delle tre festività annuali dedicate da Venezia al suo patrono. Ai vespri della vigilia, il doge usciva da palazzo Ducale accompagnato dagli alti magistrati, dai musici e dai portatori dei simboli dogali ed entrava in Basilica dove, all'altar maggiore, il santo riceveva un'offerta di candele da parte del doge stesso e dei rappresentanti delle Scuole grandi e delle Arti. Ancora candele venivano donate il giorno seguente al doge, alla dogaressa, al nunzio e agli ambasciatori, ai magistrati e agli ecclesiastici presenti dai membri delle Scuole grandi, in una processione che comprendeva anche l'ostensione di reliquie quali la croce miracolosa della Scuola di San Giovanni Evangelista. L'offerta di candele era di centrale importanza, rappresentando, secondo una simbologia di tipo feudale, un atto di vassallaggio da parte dei membri delle confraternite alle autorità e del doge stesso a san Marco. La candela offerta dal doge all'evangelista era stata, secondo la tradizione, originariamente data a Sebastiano Ziani da papa Alessandro III: veniva così sancito dall'autorità pontificia il legame privilegiato ed esclusivo tra san Marco e la Repubblica incarnata nella persona del doge, legame dal quale discendeva l'autonomia di Venezia da qualsiasi altro potere temporale o spirituale.
Una processione e un omaggio di candele, al quale però partecipavano in questa occasione anche i membri delle congregazioni religiose, connotava anche l'altra importante festa marciana, che cadeva il 25 giugno e commemorava la cosiddetta inventio, cioè il miracoloso ritrovamento del corpo di san Marco (della cui ubicazione nulla più si sapeva dopo l'incendio che aveva distrutto la Basilica nel 976) avvenuto, o inscenato, nel 1094, sotto il dogado di Vitale Falier. L'8 ottobre, giorno in cui in quello stesso anno avveniva la consacrazione della nuova San Marco - la cosiddetta basilica contariniana - sarebbe ugualmente divenuto una ricorrenza festiva annuale.
Si limitava a una messa solenne con la partecipazione del doge e della signoria la terza festa marciana, che si celebrava il 31 gennaio in memoria della translatio: del trafugamento, cioè, del corpo dell'evangelista da Alessandria d'Egitto, avvenuto nell'828 ad opera di due mercanti che lo avevano poi trasportato alle isole realtine. Accettando in forma solenne la reliquia, il doge Giustiniano Particiaco aveva dato l'avvio all'intima unione. tra lo stato veneto, nella persona del suo massimo rappresentante, e il santo designato a protettore di Rivoalto. L'enorme contributo di questo evento alla costruzione del mito politico veneziano non trovava però effettivo riscontro nella commemorazione - una messa solenne - che ne veniva fatta il 31 gennaio, giorno che rientrava già nel tempo di carnevale. In età medievale, come ricordiamo, questa festa era cronologicamente inglobata in quella delle Marie, alla quale si ricollegava in quanto tempo sacro agli sposalizi: in tale giornata, infatti, i parroci solennizzavano tutti i fidanzamenti dell'anno precedente e alcune fanciulle povere venivano dotate a pubbliche spese (52).
La festa religiosa dell'Ascensione (in dialetto "Sensa") si celebrava a Venezia con un cerimoniale il cui momento più spettacolare, e al tempo stesso più pregnante dal punto di vista della liturgia civica, era il rito nel corso del quale il doge, nella sua veste di suprema incarnazione dello stato veneziano, si univa in simbolico matrimonio con il mare.
Il programma, così come si era definitivamente fissato nel secolo XVI, prevedeva per il mattino del giorno dell'Ascensione una messa solenne in San Marco; quindi il corteo dogale saliva sull'imbarcazione di rappresentanza, il bucintoro, per dirigersi verso il Lido. Al momento dell'imbarco il doge riceveva l'omaggio dei rappresentanti di due comunità popolari, i Nicolotti - gli abitanti cioè della contrada di San Nicolò dei Mendicoli, composta per lo più di pescatori - e i Povegiotti, gli isolani di Poveglia: la loro presenza e quella degli Arsenalotti, che sedevano in bucintoro accanto al doge nel corteo acqueo, voleva significare che anche ai ceti più umili si garantivano uno spazio e un ruolo onorifico - giusto riconoscimento del contributo da loro arrecato al buon funzionamento della società veneziana - nei rituali civico-religiosi della Repubblica. A Sant'Elena si affiancava al bucintoro un'imbarcazione parata a festa, detta piato, che trasportava il patriarca (prima del 1451, il vescovo di San Pietro di Castello), il quale aveva precedentemente celebrato la messa nella chiesa intitolata alla santa. Al bucintoro e al piato si accodavano innumerevoli altre imbarcazioni, dei tipi più svariati, cariche di una folla di spettatori veneziani e forestieri quanto mai eterogenea nella sua composizione.
Accompagnato dal canto dei canonici di San Marco a bordo del bucintoro, il patriarca compiva un giro con il suo piato intorno all'imbarcazione dogale e benediceva il doge e le acque della laguna, usando un ramo di olivo come aspersorio. All'uscita in mare a San Nicolò di Lido aveva luogo una seconda benedizione, quella delle acque marine, finita la quale il patriarca versava in mare il residuo di acqua benedetta; a questo punto il doge gettava a sua volta in mare un anello pronunciando le parole "In signum veri perpetuique dominii" (precedute, secondo alcune fonti, dalla dichiarazione "Desponsamus te Mare").
Terminato il rito, il corteo acqueo si dirigeva verso la chiesa di San Nicolò di Lido; doge e patriarca venivano accolti dall'abate del locale monastero, dove si celebrava una funzione. Si rinnovava così l'omaggio della Repubblica al santo patrono dei naviganti. Il patriarca si accomiatava poi dal doge per restare a pranzo con i monaci; tornato a San Pietro di Castello, offriva un rinfresco ai barcaioli che lo avevano accompagnato. A sua volta il doge, tornato a San Marco, visitava la fiera allestita in Piazza e poi offriva a Palazzo un pranzo agli Arsenalotti e a patrizi e ambasciatori un sontuoso banchetto, uno dei quattro che egli era tenuto a imbandire annualmente in coincidenza con determinate festività (gli altri avevano luogo per san Marco, il 25 aprile; per san Vito, il 15 giugno; per santo Stefano, il 26 dicembre). Alla prima portata era ammesso un pubblico di spettatori, quasi a significare che l'invito era simbolicamente esteso all'intera cittadinanza.
Secondo una tradizione profondamente radicata a Venezia, dove è attestata fin dal secolo XIII, anche la cerimonia dello sposalizio del mare veniva fatta risalire alla pace di Venezia e al privilegio, concesso da papa Alessandro III al doge Sebastiano Ziani e ai suoi successori, di sposare il mare per confermare il predominio veneziano su di esso. Tale tradizione manca, in realtà, di saldi fondamenti storici. Anteriormente al 1177 Si celebrava infatti, a ricordo della vittoriosa spedizione in Dalmazia del doge Pietro II Orseolo nell'anno 1000, una sobria cerimonia - forse di origine bizantina - di benedizione del mare da parte del vescovo di Olivolo, alla presenza del doge; la sovrapposizione del rito di desponsatio a quello di benedictio poteva essersi verificata in seguito all'accentuarsi dell'immagine "imperiale" di Venezia dopo la quarta Crociata.
L'intera cerimonia è imperniata su una metafora nuziale aperta a una duplice interpretazione. In evidente senso giuridico, innanzitutto: nello sposalizio, il doge a nome dello stato veneto confermava la propria autorità sul mare proprio come, a norma del diritto matrimoniale veneziano, l'uomo acquistava signoria legale nei confronti della donna che aveva fatto ufficialmente sua moglie infilandole al dito un anello. A un substrato assai più arcaico rimanda il secondo ordine di riferimenti, quello antropologico: in virtù dell'atto di conoscenza e conquista sessuale simboleggiato dallo sposalizio (e, ancor più esplicitamente, dall'ampolla di acqua santa svuotata nelle onde dopo la benedizione) il mare, elemento femminile della coppia, veniva assoggettato alla maschia volontà dell'uomo e reso, da infido e pericoloso, innocuo e benefico. Alcuni osservatori forestieri non mancavano di richiamare l'attenzione sulla matrice pagana del rito, nel quale vedevano il residuo di antichi sacrifici propiziatori al dio del mare; in effetti, lo sposalizio del mare ricorda sotto vari aspetti un primaverile rituale di fertilità, eccezionalmente rivolto non alla terra bensì alla distesa delle acque marine per impetrarne doni preziosi quali la prosperità dei traffici e la stabilità del dominio politico. Nel rito veneziano, il doge figurava come una delle parti contraenti e insieme come officiante, detentore pertanto di un potere sacrale di mediazione con le forze della natura; nonché come una sorta di "capitano da mar" alla guida della sua flotta (la città-stato di Venezia) in una avventurosa spedizione simbolica verso nuove possibili conquiste marittime.
Lo sposalizio del mare sarebbe stato inconcepibile senza il bucintoro, la nave dogale da parata sempre utilizzata in questa e in altre occasioni di particolare rilevanza cerimoniale, come l'ingresso solenne delle dogaresse o l'accoglienza a ospiti di riguardo e le feste in loro onore. L'esistenza di una imbarcazione dogale di rappresentanza è attestata fin dal secolo XIII, sebbene il nome "bucintoro", dall'incerta etimologia, non appaia subito; già all'inizio del secolo XIV tale imbarcazione si distingueva per le sue dimensioni e il suo aspetto sfarzoso. Un nuovo bucintoro, ornato a prua da una statua raffigurante la Giustizia, si costruiva nel 1449; un altro, ricordato dal Sanudo come "opera bellissima", veniva inaugurato per la "Sensa" del 1526.
Fin dal secolo XIV era invalsa la consuetudine di allestire in piazza San Marco, nel periodo dell'Ascensione (per otto giorni dapprima, poi per quindici), una grande fiera, la "fiera della Sensa". Regolarmente visitata dal doge, essa esponeva anche oggetti di notevole valore venale e artistico e rappresentava una tappa obbligata dell'itinerario veneziano dei più illustri ospiti stranieri: come Beatrice d'Este, che nel 1493 vi aveva indugiato a lungo incantata dalla "tanta copia de vetri belli, che l'era uno stupore".
All'origine di questa usanza c'erano, con molta probabilità, ragioni del tutto pragmatiche. In questo periodo Venezia era infatti affollata di pellegrini in attesa di imbarcarsi per la Terrasanta; essi di solito si trattenevano in città fino alla festa del Corpus Domini, quando alcuni di loro prendevano parte alla processione insieme al doge e ai senatori. Erano inoltre numerosi i fedeli che si recavano alla basilica di San Marco per lucrarvi la speciale indulgenza essa pure concessa, secondo la leggenda, da Alessandro III. In senso figurato, però, anche la fiera poteva ritenersi coerente e concreta appendice della liturgia nuziale marina: tanta dovizia di ricche e pregiate mercanzie ben si prestava a rappresentare il visibile frutto della feconda unione tra Venezia e il suo mare (53).
Non meno della "Sensa", attirava folle di visitatori la solennità del Corpus Domini, osservata a Venezia fin dal 1295 e a partire dalla metà circa del secolo XV annualmente celebrata in duplice forma processionale. La mattina, la processione si snodava prima all'interno della basilica di San Marco, poi attraverso la Piazza tutta ornata di drappi, passando sotto arcate ricoperte di panni bianchi; vi prendevano parte, oltre al doge, i confratelli delle Scuole grandi e una rappresentanza delle Scuole piccole, membri delle Arti, di confraternite religiose e di congregazioni secolari; il patriarca portava l'ostia consacrata sotto un baldacchino bianco, e ciascuno dei senatori era affiancato da un pellegrino in partenza per la Terrasanta. Al pomeriggio aveva invece luogo una processione di carattere più strettamente devozionale alla chiesa del Corpus Domini.
Il primo tratto caratteristico della processione in piazza San Marco, il posto d'onore riservato ai pellegrini, connotava l'intera città di Venezia come comunità cristiana in pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste. Il secondo, il ruolo di primo piano delle Scuole, era destinato a farsi sempre più consistente nel corso del secolo XVI soprattutto per quanto riguardava l'allestimento dei quadri viventi, di soggetto biblico o comunque religioso, che in quest'epoca divennero la principale attrattiva della processione. Si distingueva per dispiego di mezzi la facoltosa Scuola di San Rocco, con i suoi complessi carri allegorici e la grande profusione di argenti (54).
Oltre alle occasioni sopra ricordate, numerosi erano nel calendario veneziano i giorni in cui il doge era tenuto ad andare, per dirla con Marin Sanudo "fuor di palazo con le solennità" (55), a visitare, nella ricorrenza del santo titolare, luoghi di culto religioso in vario modo intimamente connessi al culto civico della Repubblica: visite o, come allora si diceva, andate, che avevano anche l'implicita funzione di rinsaldare i legami tra i rappresentanti dei pubblici poteri e settori della popolazione più ampi rispetto a quelli soliti frequentare lo spazio "sacro" dell'area marciana (56). Rinunciando a farne una rassegna completa, ricorderemo tra queste visite dogali quelle di maggior rilievo in epoca rinascimentale.
Se è solo ipotizzabile che la visita annuale del doge a San Zaccaria fosse in origine un gesto di riparazione, carattere indiscutibilmente espiatorio aveva la visita dogale il giorno dell'ottava di Pasqua alla chiesa di San Geminiano, che sorgeva di fronte a San Marco. La tradizione voleva che nel secolo XII un doge (forse Vitale II Michiel) avesse demolito senza autorizzazione pontificia questo edificio sacro; colpito da scomunica, ne era stato assolto solo dopo essersi impegnato anche a nome dei suoi successori a ricostruire la chiesa e a visitarla ogni anno, ricevendo dal parroco - che gli rammentava il motivo della visita e l'obbligo di ripeterla l'anno seguente - una candela bianca da usare in tutte le processioni dogali di quell'anno. Una candela bianca appare in tal modo associata alla figura del doge fin da un'epoca anteriore a quella della pace di Venezia, ma come simbolo penitenziale: si può dunque supporre che questo fosse il significato originario del cero, poi trasfigurato a simbolo onorifico nel contesto della leggenda di Alessandro III (57). Dal secolo XIV, severa e ammonitrice nei confronti di chi rivestiva la funzione dogale era anche la festività di sant'Isidoro, che cadeva il 16 aprile. In origine essa era dedicata al ricordo di una gloria della Repubblica, il doge Domenico Michiel, il quale nel secolo XII aveva trasportato dall'isola greca di Chio a Venezia le spoglie del santo; ogni anno, il doge in carica si recava in processione ad ascoltare la messa nella cappella intitolata a sant'Isidoro nella basilica marciana. In seguito, però, la festa mirava piuttosto a mantenere viva la memoria della congiura di Marin Falier, scoperta il 15 aprile 1355, la celebrazione aveva carattere lugubre (alla processione dogale, spoglia di ogni pompa, seguivano i confratelli delle Scuole grandi che reggevano candele capovolte), nell'intento di scoraggiare tutti i successori del Falier dal nutrire ambizioni simili a quelle dello sventurato doge (58).
Pienamente identificata con la causa della legalità repubblicana appariva invece la funzione dogale il 15 giugno, ricorrenza di san Vito; in questo giorno, l'anno 1310, era stata sventata la congiura di Baiamonte Tiepolo e Marco Querini. In segno di gratitudine verso il santo, la processione dogale, comprendente membri degli ordini religiosi e delle Scuole grandi, raggiungeva la chiesa a lui intitolata attraversando il Canal Grande su un ponte di barche e il doge faceva omaggio al parroco di dodici grandi candele; ritornato poi per via d'acqua a Palazzo, vi offriva un banchetto. L'annuale reiterarsi della cerimonia intendeva impetrare sicurezza e stabilità allo stato sotto la costante tutela di san Vito (59). Il 25 giugno 1512 il senato decretava che santa Marina, nel cui giorno (17 luglio) era stata nel 1509 recuperata al dominio veneziano Padova, fosse annoverata fra i patroni di Venezia e onorata ogni anno con un'andata dogale alla chiesa a lei intitolata. Questo luogo di culto era doppiamente sacro alla memoria dei successi veneziani in Terraferma in quanto ospitava il sepolcro di Michele Steno, sotto il cui dogado, nel 1405, Padova e Verona erano state assoggettate alla Repubblica (60).
Nessuna andata era invece prevista per la festa di san Nicolò. Questa veniva osservata ogni 6 dicembre dal doge e dalla signoria con una messa nella cappella fatta costruire in palazzo Ducale, nel secolo XIII, dal doge Pietro Ziani in memoria del suo predecessore Enrico Dandolo e del suo trionfo nella quarta Crociata, e intitolata al santo le cui reliquie i Veneziani, in competizione con i Baresi, sostenevano di avere trasportato sulle lagune da Mira nel secolo XII. Facendo memoria di un protagonista dei successi veneziani d'oltremare, si invocava il santo patrono dei naviganti - già precedente mente onorato nel corso della festa della "Sensa" - per assicurarsene anche in futuro la tutela sulle imprese marittime dei Veneziani. La festa di san Nicolò era pertanto una delle solennità veneziane nelle quali più esplicita era la connessione tra rituale religioso e rituale civico; il culto del santo accentuava inoltre quella armonia e quella coesione sociale di cui Venezia si faceva un vanto. Il Nicolò tanto solennemente venerato dalle più alte autorità statali era, infatti, lo stesso santo che non disdegnava di proteggere una delle più umili parrocchie di Venezia: quella che ogni anno eleggeva un gastaldo, o capocontrada, insignito di varie prerogative onorifiche (61).
Sul finire del mese di dicembre, il doge rendeva omaggio a santo Stefano con due visite alla chiesa di San Giorgio Maggiore, che dal 1009 ospitava nell'altar maggiore le reliquie del protomartire: la sera di Natale la processione dogale si recava a San Giorgio per i vespri, la mattina del giorno successivo per ascoltarvi la messa. Seguiva poi, a Palazzo, il tradizionale banchetto dogale (62).
I più rilevanti fatti politici di segno positivo per la Repubblica, come alleanze o trattati di pace, si festeggiavano con apparati e processioni che ricalcavano lo schema celebrativo delle grandi feste religiose. Si decoravano gli edifici circostanti la Piazza: di stendardi e tappeti, ma anche di erbe odorose, allori e olivi "mandati a tuor fino in Cao d'Istria" per la triplice festa del 25 marzo 1499, quando Venezia festeggiava insieme il proprio giorno natale, la ricorrenza dell'Annunciazione e la stipulazione della lega con la Francia. Nel luglio 1526, per la pubblicazione della lega di Cognac, ai drappi ornamentali si aggiungevano, in Piazza, palchi per gli spettatori nonché - elemento direttamente mutuato dalla festa del Corpus Domini - un passaggio coperto per la processione; spettacolo nello spettacolo, offerto per tre giorni alla pubblica ammirazione, era l'interno della Basilica rutilante di drappi d'oro per un valore complessivo di cinquantamila ducati, con le statue degli apostoli sull'iconostasi rivestite "di pianete d'oro bellissime" e la Pala d'oro esposta sull'altar maggiore come a Pasqua. A ribadire nella mente del pubblico il significato di quanto si festeggiava provvedevano le trasparenti allusioni politiche dei carri allegorici, allestiti dalle Scuole o da qualche ordine religioso, che in queste circostanze costituivano quasi un elemento integrante delle processioni; in quella che il 1° gennaio 1530, sfidando nebbia e maltempo, si era snodata in Piazza a celebrare la pace di Bologna, le Scuole non avevano fatto risparmio di argenti, in ottemperanza a una precisa disposizione della signoria che teneva a dimostrare come la passata guerra non avesse intaccato le riserve statali. Meno ritualistiche e istituzionalizzate, più intonate al carnevale allora in corso, erano le manifestazioni di giubilo che esplodevano la sera di quel giorno e dei successivi: "luminarie" e fuochi artificiali, balli e spari di artiglieria animavano non solo il tradizionale spazio "sacro" della Piazza ma anche il fondaco dei Tedeschi e varie sedi diplomatiche (63).
Oltre a fornire il presupposto storico per una costruzione leggendaria della quale già conosciamo il fondamentale ruolo all'interno del rituale civico veneziano, la pace del 1177 aveva dimostrato quanto proficua, in termini di immagine non meno che di vantaggi economici, potesse rivelarsi per Venezia la scelta della città come sede di prestigiosi congressi internazionali, politici o religiosi che fossero. Anche queste occasioni, che sottolineavano il carattere cosmopolitico di Venezia e contribuivano a divulgarne la fama nel mondo, erano pretesto di festeggiamenti nei quali la sagra popolare si mescolava, finendo quasi per soverchiarli, ai pubblici imponenti cerimoniali. Eloquente la descrizione - dovuta alla penna di un testimone oculare fra Felix Faber - dei due capitoli generali dell'ordine domenicano svoltisi nella città lagunare, presso il convento dei Santi Giovanni e Paolo, nel 1486 e nel 1487: il doge in bucintoro interveniva con il patriarca e un seguito di personalità laiche ed ecclesiastiche, solenni liturgie si celebravano, con uno squisito accompagnamento musicale, nella chiesa del convento, parata a festa con la consueta magnificenza. Ma il vero spettacolo era costituito dalla città festante come per il giorno di san Marco, dalle botteghe addobbate come per la fiera, e soprattutto dal pubblico: dalla sterminata turba di curiosi di ogni ceto che intasavano con le loro mille imbarcazioni i canali circostanti e si accalcavano in chiesa, dalle belle signore, adorne come dee, che sciamavano nel convento esplorandone senza riguardo ogni più recondito angolo (64).
Altre feste, non legate alla tradizione (come il carnevale), né a ricorrenze religiose, né ad avvenimenti in senso stretto politici, avevano ugualmente carattere pubblico: in quanto aventi per teatro lo spazio urbano e aperte all'intera cittadinanza, e spesso anche in quanto rispondenti a interessi politici. A questo genere di festeggiamenti - nei quali l'elemento ludico prevaleva nettamente su quello cerimoniale, e le austere processioni erano sostituite da più informali e gioiosi cortei per terra o per acqua - potevano dare occasione tanto le visite a Venezia di illustri ospiti forestieri, quanto celebrazioni in sé di natura privata, in primo luogo le feste nuziali (65).
In epoca rinascimentale, nella minuziosa organizzazione di queste feste - nonché di parte dei divertimenti carnevaleschi - investivano tempo, denaro e inventiva i sodalizi di giovani nobili veneziani noti come Compagnie della Calza. Attestate dalla prima metà del secolo XV (ma probabilmente di origine più antica) alla seconda metà del XVI, esse conobbero il periodo di massimo fulgore dagli ultimi decenni del '400 al quarto decennio del '500. Al 1442 risale la prima testimonianza su una di queste Compagnie, che nel gennaio-febbraio di quell'anno prendeva parte ai festeggiamenti per le nozze di Lucrezia Contarini con Jacopo Foscari, figlio del doge Francesco, indossando quello che sarebbe divenuto il segno distintivo di tali società: una calzamaglia bipartita, sulla gamba destra, in strisce di due colori, o decorata con stemmi ricamati in filo d'argento e d'oro e pietre preziose.
Reggeva la Compagnia un signore o priore, coadiuvato e al tempo stesso controllato da consiglieri e altri funzionari. Ogni Compagnia si costituiva sulla base di uno statuto, che veniva legalizzato da un notaio e successivamente sottoposto all'approvazione del consiglio dei dieci; si sceglieva poi l'emblema della calza (operazione detta "levar la calza"), che veniva portata dai soci per un periodo di tempo prestabilito per essere poi "buttata" e nuovamente indossata solo qualora la Compagnia decidesse di organizzare altre feste. Sebbene le Compagnie fossero regolate da norme di diritto privato, ogni costituzione di una nuova Compagnia assumeva - non diversamente dagli altri rituali di insediamento - carattere di pubblica cerimonia: una messa solenne, dopo la quale i soci promettevano osservanza dello statuto e obbedienza al signore, una sfilata, per terra e per acqua, attraverso la città, un banchetto in casa del signore; nel pomeriggio, presentazione in maggior consiglio; poi, per alcune sere, cene, danze e spettacoli. Sappiamo che nel 1524 tredici mercanti veneziani residenti a Costantinopoli avevano dato vita in quella città a una Compagnia che aveva ricalcato in tutto la prassi delle Compagnie veneziane: adozione di un nome (Moderati) e di una "calza", celebrazione di una messa cantata seguita da "cene honorandissime". Nella Venezia cinquecentesca, tuttavia, alle Compagnie erano ammessi solo giovani appartenenti al locale patriziato; in via eccezionale, come segno d'onore, potevano esservi accolti nobili di Terraferma o alcuni di quei forestieri d'alto rango in visita a Venezia, che le Compagnie stesse erano incaricate di festeggiare. Tali cooptazioni erano solennizzate con l'invio della calza al nuovo socio e con un nutrito programma di intrattenimenti (66). Questi erano gli stessi che per consuetudine animavano tutte le feste veneziane del Rinascimento (non soltanto, dunque, quelle ideate dalle Compagnie); e non si trattava solo di banchetti, balli e commedie. Alcuni ce n'erano che conservavano un profumo di Medioevo, come giostre e tornei; altri che, sebbene non esclusivi di Venezia, in questa città avevano trovato una loro particolare fisionomia, come le regate o le mornarie.
Dal XIII al XV secolo, piazza San Marco era occasionale sede di giostre organizzate per celebrare qualche evento di particolare rilievo: come nel 1414 quella, finanziata dall'Arte degli orefici, per l'elezione al dogado di Tommaso Mocenigo, alla quale avevano assistito settantamila spettatori. Nel 1442, per le nozze Foscari-Contarini, i Compagni della Calza incaricati dei festeggiamenti erano ripetutamente sfilati a cavallo per la città e tre giostre si erano svolte in Piazza (una offerta dal capitano generale della Repubblica Francesco Sforza, la seconda dall'Arte degli orefici, dal doge la terza); a bagordi o giochi d'armi avevano dato vita i Compagni per le vie di Venezia e, in Piazza, la comunità fiorentina. Nel 1457, l'elezione a doge di Pasquale Malipiero era stata festeggiata, in Piazza, con l'assedio a una fortezza di legno; cariche di stradioti (milizie a cavallo) sul Canal Grande ghiacciato si erano svolte nel 1491 dinanzi a Caterina Corner.
Con l'andar del tempo questi giochi avevano finito con l'assumere a Venezia l'aspetto di un relitto del passato, di un curioso arcaismo incongruo con lo stile di vita e con la struttura urbana stessa della città: a cominciare dall'impiego di cavalli, dopo il Trecento già desueti come mezzo di trasporto e all'inizio del Cinquecento presenza ormai assolutamente anomala a Venezia. Maschere a cavallo in tempo di carnevale si potevano ancora vedere a Venezia nel secondo decennio del secolo, come pure (non più, però, in piazza San Marco) assedi a finti castelli di legno, o giostre; giostre in altri periodi dell'anno potevano occasionalmente aver luogo in Terraferma, come avveniva - con grande concorso di spettatori dalla Dominante - a Mestre nel 1511 e nel 1522.
Ma i Veneziani si erano ormai alienati da questo genere di divertimenti: c'è qualcosa di simbolico nell'infortunio toccato al famoso buffone Zuan Polo allorché, partecipando a una giostra organizzata nel 1517 dai mercanti tedeschi del Fontego per solennizzare l'armistizio tra la Repubblica e l'imperatore, era caduto da cavallo facendosi male a una gamba. E nel giugno 1525, all'ambasciatore turco che esprimeva il desiderio di assistere a qualche giostra in Piazza, l'interprete spiegava che "in questa terra non si usa cavalli; ma ben in altri tempi è stà zostrà et è vegnudo molti signori de Italia a veder le zostre e zostrar" (67).
Assai più consone alla peculiare fisionomia della città erano le feste sull'acqua, divenute più frequenti e più elaborate a partire dal secolo XVI. Il bacino di San Marco, il Canale della Giudecca e il Canal Grande costituivano un insieme scenografico di grande suggestione spettacolare, e già si è visto come esso fungesse da palcoscenico per varie cerimonie politico-religiose e per le lugubri e ammonitrici sfilate dei condannati; ma nella Venezia del Rinascimento gli spettacoli acquei più fantasiosi e più lieti erano i giochi e i cortei in onore di visitatori stranieri o in occasione di feste private particolarmente sontuose, come certe celebrazioni nuziali.
Poteva così accadere che giostre e tornei risorgessero a nuova e più fulgida vita sulle acque veneziane. Il 2 agosto 1502 si svolgeva in Canal Grande - in omaggio ad Anna di Ungheria che, in visita a Venezia, ne aveva fatta esplicita richiesta - una non meglio precisata "zostra con barche"; il 23 ottobre 1530 i Compagni Reali inscenavano in bacino per Francesco II Sforza duca di Milano, e per circa centomila altri spettatori installati in varie imbarcazioni, l'assedio a un castello da parte di due "armate" di brigantini (68).
Lo spettacolo acqueo veneziano per eccellenza era però la corsa competitiva di barche, o regata: anche di donne, come quelle svoltesi nel 1493 per Leonora di Ferrara, nel 1502 per Anna d'Ungheria, nel 1530 per Francesco II Sforza. Ma le regate non si organizzavano soltanto per intrattenere ospiti di riguardo: fin dal secolo XIV se ne allestivano, per pubblica disposizione, in coincidenza con particolari festività religiose, e nel 1539 un decreto del senato stabiliva che una regata composta di sessanta galere avesse luogo quattro volte l'anno, per le feste dell'Ascensione, dei santi Apostoli, di santa Marina e di san Bartolomeo. Altre competizioni sull'acqua potevano essere frutto dell'iniziativa di un privato: come quel singolare esperimento nel corso del quale - il 23 maggio 1529, dinanzi al doge e a numerosi ambasciatori e patrizi - la quinquereme progettata sulla scorta degli autori classici dall'umanista Vettor Fausto si era cimentata vittoriosamente con la galea di Marco Corner quondam Piero (69).
Della sua sfarzosa imbarcazione da cerimonia, il bucintoro, il doge si serviva anche per accogliere e intrattenere visitatori d'alto rango: essi vi si imbarcavano in genere a San Clemente, o in altra isola della laguna, e nel corso del tragitto potevano assistere a giochi, danze e rappresentazioni allegoriche inscenate su alcuni dei molti palischermi che circondavano e seguivano il bucintoro stesso. Lo spettacolo acqueo offerto nel febbraio 1469 all'imperatore Federico III comprendeva tra l'altro fontane che sprizzavano "vino, late et malvasia", combattimenti tra castelli, un enorme cavallo recante sul dorso un antico imperatore; nel maggio 1493 Beatrice d'Este, dopo aver assistito dal bucintoro a una rappresentazione in cui un Nettuno e una Minerva danzanti dimostravano "che cum la unione de la pace se mantengano li stati", veniva condotta lungo il Canal Grande con il doge in persona a farle da guida illustrandole palazzi e altre "cose notabile", comprese "le damiselle [...> ben ornate" affacciate alle finestre parate a festa. Scopo primario di queste esibizioni era naturalmente quello di imprimere nella mente degli ospiti una profonda, indelebile immagine della grandezza e dello splendore di Venezia: "et fano tuto el suo perforzo" - scrive un testimone oculare milanese a proposito delle accoglienze a Federico III - "per farli intendere a luj et chi è con luj et a chi vede che sonno riche potennte et che sono gran segnore [...>" (70). Marin Sanudo, al quale dobbiamo le informazioni sul soggiorno veneziano di Francesco Sforza, racconta che il duca, alcuni giorni dopo aver fatto ingresso in città nell'imbarcazione dogale, aveva assistito pure "in bucintoro", ospite dei Compagni Reali, a regate in suo onore in Canal Grande. Va notato però che il diarista non esita talvolta a gratificare del titolo di "bucintoro" certe effimere ma splendide imbarcazioni da parata che in simili occasioni le Compagnie della Calza ricavavano con arte da un burchio, o da due burchi uniti insieme. Sapientemente addobbati, questi umili barconi da trasporto si trasformavano per qualche giorno o per qualche ora in sale per banchetti, balli ed esecuzioni musicali, quando non addirittura in veri e propri teatri galleggianti antesignani di quelle strutture più ricche di significati simbolici - la pianta circolare e la cupola che le sormontava alludevano infatti all'universo - destinate a trionfare, con il nome di macchine o teatri del mondo, nelle feste acquee veneziane della seconda metà del secolo (71).
Il genere di intrattenimento che dava modo agli organizzatori di esplicare al massimo il proprio talento creativo era la momaria, denominazione veneziana (nei Diarii del Sanudo, frequente anche muraria) di "una rappresentazione pantomimica di carattere profano" (72) accompagnata da musica e canti e alternata a balli, diffusa con diverse denominazioni in tutta Italia e affine ad analoghi spettacoli mascherati attestati in altre aree europee. A Venezia, la sua stagione di massimo splendore coincise con la fioritura delle Compagnie della Calza, alle quali veniva di solito deputato l'allestimento in occasione di feste pubbliche o private.
"Mumij di dei e ninfe" sono menzionati nella lettera che descrive le feste nuziali di Jacopo Foscari, nel 1442; nel 1469, dal bucintoro, Federico III aveva potuto assistere a "momarie che balavano". All'epoca di Marin Sanudo le momarie erano ormai profondamente radicate nel costume veneziano e spesso ne parla il diarista, instancabile frequentatore di feste e di spettacoli, offrendo informazioni doviziose sebbene per lo più sommarie e impressionistiche.
Tra i soggetti delle momarie - che si potevano rappresentare tanto in uno spazio pubblico quanto in una residenza privata - molto amati erano quelli mitologici: il Sanudo ricorda la storia di Giasone, il ratto di Elena, "la fabula" di Perseo e Andromeda, le fatiche di Ercole. Grande era stato nel carnevale del 1526 il successo di due "bellissime" momarie rappresentate in cortile di palazzo Ducale, dinanzi al doge, solo pochi giorni dopo che una legge del senato aveva severamente messo al bando questo genere di rappresentazioni: vi figuravano "saracini" e "mori ", il buffone Zuan Polo in veste di medico, e poi Nettuno e le quattro stagioni. Altre invece non incontravano il favore del pubblico, forse perché sovraccariche di sottili allusioni simboliche non alla portata di tutti: il giovedì grasso dello stesso anno era stata giudicata "bruttissima" una troppo ambiziosamente astrusa momaria ispirata al rinnovarsi del mondo, messa in scena dal lucchese Francesco Nobili detto Cherea in piazza San Marco, alla presenza del doge. Due momarie carnevalesche messe in scena nel 1526 e nel 1529 avevano come protagonista una figura appartenente al patrimonio folklorico dell'Europa intera, quella dell'uomo selvaggio: personificazione delle forze della natura e dell'impulso sessuale, in tempi più antichi esso veniva fatto oggetto, sul finire dell'inverno, di simboliche cacce e uccisioni connesse a rituali di fertilità, il cui ricordo sopravviveva probabilmente in queste rappresentazioni. La Venezia del Trecento conosceva d'altronde una festa - certo carnevalesca, in quanto contemporanea alla caccia ai porci - nella quale si portavano in giro per la città uomini travestiti "a modo d'orso" e "a guisa d'uom salvatico" (73).
Il carattere eminentemente visivo di questo tipo di spettacolo ha fatto rimpiangere la mancanza di una precisa documentazione iconografica che lo raffiguri (74). Riferimenti alla momaria veneziana sono stati però individuati nel ciclo carpaccesco di Sant'Orsola: in particolare nei primi tre teleri, probabilmente ascrivibili al periodo 1496-1498 e ispirati a qualche "sontuosa rappresentazione di soggetto diplomatico" inscenata in quegli anni forse dai Compagni Zardinieri. In questo genere rientrava la momaria che gli Eterni rappresentavano a Ca' Foscari il 2 maggio 1513 per le nozze di un Compagno, Federico Foscari, con una Venier, nipote del doge Loredan: vi si rappresentava l'arrivo di vari ambasciatori - non mancava neppure "l'orator di pygmei", recante in dono una gru - alla corte di un re Pancrazio, impersonato dal signore degli Eterni. È possibile che questa e altre analoghe momarie contenessero un sottinteso riferimento encomiastico al non trascurabile ruolo svolto in via semiufficiale dalle Compagnie per consolidare, con le loro abbaglianti feste, i buoni rapporti fra il governo veneziano e le personalità forestiere in visita alla città (75).
Grazie alle testimonianze contemporanee, di Marin Sanudo in primo luogo, disponiamo di abbondante documentazione sulle feste che avevano luogo in palazzo Ducale, alla presenza del doge e di una selezionata cerchia di invitati, o nelle abitazioni di privati prestigiosi per censo e per posizione sociale i cui trattenimenti spesso ben poco avevano da invidiare, quanto a magnificenza, a quelli ospitati a Palazzo.
Tali feste erano di solito motivate da tempi particolari, come il carnevale, o da importanti eventi familiari, come la celebrazione di nozze; talvolta l'organizzarle equivaleva, per i privati, all'adempimento di un dovere civico, quello di accogliere e intrattenere degnamente i visitatori di riguardo impressionandoli, come di prammatica, con ostentazioni di fasto e di splendore. Agli ospiti si offrivano banchetti allietati da musiche e da esibizioni di "virtuosi ", da balli, non di rado da vere e proprie rappresentazioni sceniche: momarie, per lo più, o commedie, tanto classiche quanto moderne (a giudicare da quanto riferisce il Sanudo, gli autori prediletti erano fra gli antichi Plauto, fra i moderni Ruzzante padovano e il Cherea) (76). Particolare cura poneva nell'organizzazione dei suoi conviti il doge Gritti: il 25 aprile 1526, ad esempio, il consueto banchetto del giorno di san Marco era stato accompagnato da "canti" e seguito da "una comedieta" del Cherea, conclusa da "baleti"; si era poi introdotto nella sala un cavallo finto, riprodotto con tanta perizia da sembrare vivo; infine aveva avuto luogo una esibizione di ballerine, tra le quali una Perina, "bella zovene", che nel divertimento generale aveva dato la mano al doge, agli ambasciatori e a tutti i patrizi presenti (77). Sebbene spesso equiparate alle prostitute, ballerine appositamente scritturate potevano infatti figurare fra le attrazioni - insieme ai funamboli, una categoria di "virtuosi" con la quale avevano molto in comune - tanto nelle pubbliche feste promosse dallo stato quanto nei più eleganti ricevimenti privati: memorabile quella danzatrice-acrobata francese che il martedì grasso del 1532, in casa del patrizio Zuan Cappello a Murano, aveva ballato sui trampoli ritmando il tempo con sonagli, e giocato abilmente "di spada" (78). I più richiesti erano però i buffoni: come Domenego Taiacalze e ancor più il suo partner Zuan Polo Liompardi, celeberrimo nei primi decenni del Cinquecento e apprezzato dallo stesso doge Andrea Gritti.
Uomo non privo di cultura - aveva composto alcune opere letterarie, anche in dialetto schiavonesco -, assiduo animatore del carnevale e dei più sontuosi ricevimenti privati, Zuan Polo doveva essere un vero attore comico, specializzato però in pantomime e in imitazioni e particolarmente ricercato per intrattenere gli spettatori durante gli "intermezzi" delle commedie offerte dai padroni di casa agli ospiti. L'intermezzo del plautino Miles gloriosus, messo in scena a Ca' Pesaro la sera del 17 febbraio 1515, vedeva Zuan Polo - in veste prima di negromante e poi di dio d'Amore - discendere all'inferno per andarvi a visitare il Taiacalze, morto due anni prima e in tale circostanza commemorato dal Sanudo come "optimo bufon [...>, homo in queste cosse fazete di primi di la cità nostra" (79). Scomparso a sua volta nel 1540, in età molto avanzata, anche Zuan Polo era stato rimpianto da "tutta Venetia" non solo per la sua eccellenza nell'arte del "buffoneggiare", ma altresì per le sue qualità intellettuali e morali: così affermava un suo estimatore e amico personale, il gioielliere e letterato Alessandro Caravia. Gli accenni contenuti nel suo poemetto Il sogno danno un'idea di alcuni tra i "numeri" di maggior successo nel repertorio di Zuan Polo, del Taiacalze e, verosimilmente, di tanti loro più oscuri colleghi: imitare i mille idiomi che quotidianamente risuonavano in una città cosmopolita come Venezia, parlare "da fantolin" o "da vecchio", contraffare voci di animali (80).
Nei trattenimenti veneziani, le azioni sceniche non si delegavano però ai soli professionisti. Il carnevale incoraggiava giovani colti e intraprendenti a cimentarsi come registi e attori nelle rappresentazioni teatrali da loro allestite, in palazzi privati o anche in sedi religiose; non si trattava sempre e soltanto di soci delle varie Compagnie della Calza, né di membri del patriziato (81). Né erano sempre edificanti gli spettacoli: "tutta lasciva", interamente giocata su "parole molto sporche", e "ficarie, et far beco i so' mariti" era per esempio una commedia provata l'11 febbraio 1525 dai Compagni Trionfanti a Ca' Arian a San Raffaele dinanzi a un pubblico di patrizi accorsi così numerosi da provocare la sospensione delle attività politiche. Vani, tuttavia, gli interventi delle autorità; restavano lettera morta decreti come quello del 29 dicembre 1508, con il quale il consiglio dei dieci proibiva le rappresentazioni, tanto pubbliche quanto private, di commedie, tragedie o egloghe, o quello dell'8 maggio 1512 con cui il senato vietava le momarie (82). Generale ed entusiastica era la partecipazione dei convitati, specie delle donne - distinte signore che l'euforia poteva rendere sconvenientemente "balde", ma anche, nelle cene più intime, "putane sontuose" (83) - ai balli, spesso, a dispetto dei ripetuti divieti governativi, mascherati. Particolarmente popolare nella Venezia del primo Cinquecento, come altrove, era il ballo cosiddetto "della bereta" o "del cappello", nel corso del quale la "bareta" del cavaliere veniva passata alla dama. Giudicato dalle autorità troppo audace, questo "inhonestissimo ballo" - che attribuiva alla dama la facoltà di scegliersi, l'uno dopo l'altro, vari cavalieri - era stato più volte proibito, insieme ad "alcuni altri balli francesi pieni de giesti lascivi et dannabili", sempre però invano: lo si danzava anche in circostanze ufficiali (84). Era facile che il ballo sconfinasse nel campo adiacente all'abitazione dove aveva luogo la festa. Nel 1512 un arcigno patrizio, Vettor Michiel, aveva deprecato questo malcostume, associandolo in un'unica deplorazione con l'uso di mascherarsi e la voga del ballo del cappello (ma anche in questo caso, scarsa era stata l'efficacia del decreto tempestivamente emanato a proibire tali abusi) (85). Suscitava diffidenza l'estemporaneo debordare della festa privata oltre le mura dei luoghi ad essa deputati, la casa o il giardino (86). Lo sconfinamento all'esterno, nello spazio urbano, poteva ammettersi solo allorché la tradizione lo prevedesse - tipico il caso dei cortei nuziali, per terra o per acqua - o comunque nell'ambito di un progetto ben calcolato, che non lasciasse spazio a improvvisazioni e a imprevisti. Tale era stata l'ingegnosa trovata degli Immortali, i quali nel carnevale 1520 avevano escogitato il modo di rendere un vasto pubblico partecipe della festa da loro organizzata a Ca' Foscari presso San Simeon in onore di un loro nuovo socio onorario, Federico Gonzaga - quella festa che tanto aveva entusiasmato il Sanudo -, collegando il palazzo, mediante un palco parzialmente scoperto, a un ponte su barche che raggiungeva la riva opposta: "et eravi gran populo a veder, et barche per tuto di qua e di là, pien el Canal grando". Iniziative come queste assicuravano, oltre ad altri positivi risultati, anche quello - sempre auspicabile, e a Venezia assiduamente perseguito in ogni forma di pubbliche celebrazioni - di cementare la solidarietà e la buona armonia fra ceti, fondamentali per il benessere della Repubblica.
Era inevitabile che le feste strettamente private risvegliassero, proprio in quanto tali, il gusto ribaldo della violazione. Il 9 marzo 1532 il consiglio dei dieci minacciava prigione, multa e bando a coloro che con "modi temerari et insolenti" avessero preteso di imporre la propria indesiderata presenza a feste e banchetti: un episodio di questo tipo, particolarmente deplorevole in quanto atto a "incitar li populi contra la nobiltà", si era verificato proprio nel gennaio di quell'anno allorché alcuni patrizi erano entrati di prepotenza nella casa in cui una famiglia di orefici festeggiava un matrimonio, offendendo le donne e danneggiando le suppellettili (87).
Ben poco ci è stato tramandato, come è logico, circa i privati trattenimenti della gente più umile. Possiamo supporre che non fosse un caso isolato quel festino che il martedì grasso del 1525 alcuni servitori di patrizi, contribuendo con un ducato a testa, avevano organizzato a Santa Maria Formosa passando la notte tra banchetti e balli, "tutti con la sua putana", escludendo gli estranei; accadeva di frequente che giovani popolari e donne - per lo più, a detta del Sanudo, di dubbia reputazione - si riunissero di notte in "alcune caxe [...> a ballar e far tanferuzi", dall'esito talvolta sanguinoso. In questo caso, ciò che aveva urtato il Sanudo al punto di fargli deplorare il mancato intervento del consiglio dei dieci era la sfrontatezza di questi "famegii" che avevano osato travalicare il loro ruolo sociale e godersela "a concorentia di nobili", scimmiottando nella loro gozzoviglia carnevalesca i tratti distintivi - era stato perfino eletto un "signor" della festa - degli spassi della gente altolocata (88).
Elemento irrinunciabile delle feste rinascimentali, il banchetto era in certo modo, non meno delle rappresentazioni teatrali propriamente dette, una forma di spettacolo: rallegrato come generalmente era da musiche e danze, con la mensa stessa che si faceva palcoscenico per virtuosistiche e fantasiose imbandigioni e per piccole, estemporanee azioni sceniche non prive talora di riferimenti politici (89). Incidenti anche gravi potevano verificarsi nei banchetti più affollati, come in uno dei conviti offerti, su un palco dinanzi a palazzo Ducale, dai Compagni Reali a Francesco Sforza, nel corso del quale due persone erano rimaste uccise dalla calca; né certo, in tale frangente, aveva contribuito a migliorare la situazione il servizio d'ordine svolto dai Compagni stessi con metodi spicci e persuasivi, menando "gran bastonate" (90).
Le portate erano numerose e naturalmente accompagnate da vini (assai pregiati quelli greci), talvolta aromatizzati, come l'ippocras. Da un punto di vista strettamente gastronomico, tuttavia, i menus appaiono piuttosto monotoni se valutati col metro del gusto attuale. Sebbene di largo consumo a Venezia e così abbondanti sul mercato di Rialto da farlo apparire, a detta del Sanudo, "un horto", nei pranzi di gala verdura e frutta dovevano avere - a giudicare dalle fonti contemporanee un ruolo non più che secondario, e si direbbe fossero presenti soprattutto sotto forma di "confetture" o di ingredienti di torte: nel 1523, il banchetto dogale della "Sensa" si apriva con un antipasto di "zuche [...> confete" accompagnate da "malvasia muschatella". Di maggiore prestigio godevano i prodotti ittici, che quotidianamente - è sempre il Sanudo a parlare - andavano a ruba in Pescheria: su di essi si poteva basare un intero banchetto anche in giorni di festa, come nel caso del "pranzo [...> bellissimo di pessi" offerto dal doge Gritti il giorno di san Vito del 1532. In fondo, però, la loro immagine restava pur sempre quella di cibo associato ai tempi di astinenza. Nei Diarii il Sanudo concede qualche risalto soltanto alle ostriche, connotanti raffinatezza e opulenza specie se "dorade", servite cioè con il guscio ricoperto di foglia d'oro. Così esse si presentavano ad esempio nel banchetto offerto il 16 gennaio 1521 dai Compagni Ortolani al giovane principe di Bisignano, in cui la doratura era estesa al pane e perfino alle candele; mentre "ostrege frite" aveva ammannito il 22 febbraio 1517 il segretario ducale Gasparo della Vedova, che posando a splendido anfitrione sperava di spianarsi la strada all'elezione a cancellier grande.
Il piatto forte per eccellenza era costituito dalle carni: cacciagione e volatili pregiati quali colombini, fagiani, pavoni, pernici, galli cedroni (spesso "vestidi", cioè presentati in tavola ricoperti di pelle e piumaggio) ma anche un semplice e ripetitivo avvicendarsi di pollame, vitelli e capretti, lessi e arrostiti, come al banchetto del doge Gritti per la "Sensa" del 1523. Indispensabili poi i dolci, sempre presenti in vari momenti dei pranzi e unici piatti delle colationi servite nel corso delle feste. Oltre al prediletto marzapane (nel 1530, nel corso di uno strabiliante banchetto, un prodigo nobiluomo offriva ai suoi ospiti "marzapan con figadeli in loco di pan"), amatissimi erano i dolciumi a base di pinoli (pignochae), di pistacchi (pistachee), di farina e mandorle (calisoni), di zucchero, amido e acqua rosata (saonie o fongi di saoonia); sempre graditi poi storti (cialde), focaccine, bussolai (ciambelle), cai di late (panna). Ma nei banchetti di rappresentanza offerti a ospiti forestieri non potevano mancare, accanto a questi semplici prodotti di pasticceria, creazioni d'effetto che si prestavano ad allusioni araldiche, encomiastiche o addirittura politiche. Tali erano le spongade, dolci modellati a formare le più svariate immagini (castelli, navi, ninfe, animali, stemmi); o le composizioni di zucchero come quelle che, in una colatione offerta nel 1508 da Zorzi Corner cavalier a Bartolomeo d'Alviano, riproducevano recenti quanto effimere conquiste veneziane: Gorizia, Cormons, Trieste, Pordenone (91).
Le cerimonie e i festeggiamenti connessi al matrimonio seguivano nella Venezia rinascimentale, quanto meno presso i ceti più elevati, uno schema da tempo codificato, sebbene suscettibile di qualche variante. Dopo la stipulazione del contratto nuziale aveva luogo il reciproco dar della man tra i due fidanzati, talvolta accompagnato dal versamento di parte della dote; la notizia veniva quindi resa di pubblico dominio con un annuncio in corte di palazzo Ducale (nel caso di nozze patrizie) e con il parentà, una riunione di parenti e amici in casa della sposa. Questa si presentava accennando qualche passo di danza o, comunque, in compagnia del suo maestro di ballo, e si recava poi in barca a visitare le parenti monache: era tradizione che la novizza compisse questo tragitto in trasto, cioè seduta sull'asse trasversale dell'imbarcazione, ma già nel terzo decennio del Cinquecento, secondo la testimonianza del Sanudo, tale usanza appariva antiquata. Ai tempi del diarista, inoltre, molti davano ormai per scontato che il dar della man autorizzasse i rapporti intimi tra gli sposi; i più rigoristi ritenevano invece premessa necessaria alla consumazione del matrimonio lo sponsalicio religioso, che aveva luogo - in genere, ma non necessariamente, in chiesa - alcuni giorni o anche alcuni mesi dopo la conclusione del contratto. La mattina un corteo accompagnava la coppia in chiesa e quindi all'abitazione della sposa, dove aveva luogo la festa nuziale; la sera lo sposo conduceva alla propria dimora la sposa, che la mattina seguente riceveva i doni dei compari d'anello (92).
Questo cerimoniale poteva collegarsi alle figure e ai luoghi simbolici del pubblico potere. È vero che con la "correzione" alla Promissione ducale del 1501 si proibivano, in occasione di nozze, le visite al doge da parte delle spose di famiglia patrizia; ma il divieto non valeva in caso di parentela stretta (93). Se poi uno degli sposi apparteneva alla famiglia del doge, costui presenziava ai festeggiamenti, mettendo a disposizione palazzo Ducale per banchetti e feste e il bucintoro per il trasporto del corteo: così avveniva, ad esempio, nel 1442 per le nozze di Jacopo Foscari con Lucrezia Contarini, o nel 1525 per le nozze di Vienna, nipote del doge Andrea Gritti, con Polo Contarini.
Cortei e giochi all'aperto costituivano il vero momento pubblico delle feste, quello che coinvolgeva - in qualità di spettatori e di critici, se non di attori più o meno ampi settori della popolazione cittadina. Già si è parlato delle sontuosissime nozze Foscari, con giostre, corteo acqueo e corteo a cavallo che, al suono di "trombetti e piffari", aveva attraversato Canal Grande su un ponte di barche. Ancora "trombe e pifari" accompagnavano in chiesa, il 25 gennaio 1526, la nipote del procuratore Alvise Pasqualigo per le sue nozze con Zuan Francesco Morosini quondam Sebastian: e il Sanudo approvava questa pubblicità rispondente, assai più della riservatezza ormai di moda per la parte strettamente religiosa del rito, al "vero e bon modo antico" (94). Il 16 febbraio 1533, i Compagni incaricati di organizzare una festa per le nozze Corner-Morosini avevano chiassosamente percorso il tragitto da campo San Polo a Rialto al ritmo di una danza vivace, la chiaranzana: le donne che li accompagnavano inciampavano e cadevano, perdendo chi la cuffia, chi le medaglie d'oro che la ornavano (95).
Limitati in genere allo spazio chiuso del palazzo, e quindi a una relativamente ristretta cerchia di invitati, erano invece i conviti (96), nei quali i cittadini e i popolari più agiati potevano competere in sfarzo con i patrizi. Splendide, tra la fine del secolo XV e l'inizio del XVI, le feste nuziali dei Freschi, prestigiosissima famiglia cittadina; e nel 1533 Marin Sanudo non disdegnava di partecipare, insieme ad altri patrizi, al "bellissimo pasto et festin" con cui un "richissimo" popolare festeggiava le proprie nozze (97). Il banchetto nuziale comprendeva, di solito, lo stesso tipo di vivande offerto nelle altre occasioni speciali. I successivi trattenimenti potevano limitarsi alle immancabili danze (98), ma spesso includevano azioni sceniche. Era però in primo luogo la festa nuziale stessa, nella sua globalità, a configurarsi come sontuoso e ben congegnato spettacolo messo in scena per attestare la ricchezza e la magnificenza delle famiglie interessate. Tutto era in mostra: dalla sposa, alla dote (99), fino agli invitati, come quell'ambasciatore del Sultano e i "X mori suoi" che nel 1506 impreziosivano, esotiche comparse, una festa nuziale a Ca' Nani (100).
Brillanti e ricche di fantasia le feste della famiglia Freschi. Nel febbraio 1504, per le nozze di Samaritana Freschi (alla sposa, di famiglia cittadina, veniva concesso l'onore di visitare il doge), un cognato della sposa, ispirandosi ai giochi che ancora era dato talvolta vedere nei campi di Venezia a carnevale, aveva ideato l'espugnazione di un castello posto su un carro trainato da buoi, cinghiali, leoni e altri animali finti. Nel 1506 le nozze di Giustina, sorella di Samaritana, erano state allietate da musica e danze, con partecipazione di persone mascherate, e dalla recita di una commedia. Ma nell'aprile dell'anno successivo i capi del consiglio dei dieci mettevano al bando le maschere, proprio in considerazione del fatto che, pur non essendo carnevale, se ne vedevano "assaissime" alle feste nuziali (101); tanto rigore era dovuto alla constatazione che in tali feste si creava nei presenti uno stato d'animo assai simile alla sfrenata esuberanza carnevalesca, facile a sfociare in manifestazioni di violenza. Non di rado, d'altronde, proprio il periodo di carnevale, ricco com'era di richiami alla fertilità, veniva scelto per celebrare le nozze.
I parenti del doge erano tenuti a dare il buon esempio. Niente maschere, pertanto, al matrimonio di Vienna Gritti nel gennaio 1525; e l'esibizione di Zuan Polo e di altri buffoni durante il pranzo nuziale era stata controbilanciata, la mattina seguente, dalla recita di una orazione latina e di una poesia epitalamica in onore degli sposi. Un paio d'anni prima, la messa in scena di una commedia di Ruzzante aveva fatto seguito alla cena imbandita in Palazzo in occasione delle nozze di un nipote del doge Antonio Grimani (102).
Parentesi effimera era stata la forzata morigeratezza imposta anche alle feste nuziali, come a tutte le altre solennità civili e religiose, dai rovesci subiti dalla Repubblica nella guerra della lega di Cambrai: già nel 1511 il Sanudo annotava con sollievo il ritorno all'abitudine di celebrare il matrimonio in chiesa, non più in casa come si soleva fare dopo la rotta di Agnadello. Se alcune di queste nozze presentavano ancora cortei sparuti e riunivano per sobrie "festete" convitati "maninconici", non poche erano, per contro, "bellissime" e con "gran dotte", e ciò appariva al diarista un confortante sintomo dell'indomita vitalità del ceto dirigente veneziano. Il 1° febbraio 1512 duecentocinquanta invitati partecipavano alla cena nuziale, seguita da balli mascherati, di un nipote del Sanudo, Andrea Dolfin di Zaccaria, ammogliatosi con una Mocenigo; "siché", concludeva soddisfatto lo zio, "non obstante la guerra grande, si fa assa' piaceri e feste in questa terra" (103).
Il giorno 8 luglio 1509 il doge Leonardo Loredan tuonava in maggior consiglio, dicendosi certo che le presenti traversie della Repubblica altro non fossero che un giudizio divino sui Veneziani per i loro sperperi, per la loro frenesia di lusso e di grandezze: "tutti spendeva, tutti portava fodre, [...> tutti porta veste a manege dogal" (104). Emotiva e spontanea reazione senza dubbio, questo autorevolissimo pronunciamento, alle calamità che si stavano abbattendo su Venezia; ma anche, molto verosimilmente, comprensibile sfogo provocato dall'accumulo di frustrazioni che gravavano sulle autorità governative veneziane, da secoli impegnate in una logorante, impari lotta contro ogni eccesso di sfarzo e di dispendio da parte dei privati.
Le norme in materia suntuaria (105) venivano in origine proposte da speciali commissioni, destinate a sciogliersi una volta compiuto il loro incarico; deliberava in proposito il maggior consiglio, in seguito (tranne casi particolari), il senato; l'esecuzione spettava all'avogaria di comun. Una magistratura a ciò specificamente preposta, creata nel 1476, appare già soppressa alla fine del secolo; e la situazione restava fluida fino al 1514, allorché tre nobili venivano investiti, sebbene con funzioni meramente esecutive, del titolo di provveditori alle pompe. Mediante lunghe e alquanto ripetitive sequele di divieti, le leggi suntuarie si proponevano di regolamentare tutti i settori della vita quotidiana che si prestassero a sprechi e a inopportune ostentazioni, tentando di contenere il lusso entro limiti tollerabili.
Si controllava l'arredamento, delle case come delle chiese e dei monasteri. Per i privati, occasione frequente di abbandonarsi a eccessi in tessuti preziosi e dorature nell'arredo domestico erano gli eventi di particolare rilevanza sociale, a cominciare dalle nascite: nel 1494 il canonico milanese Pietro Casola, condotto a visitare una puerpera della famiglia Dolfin, era rimasto abbagliato dall'indescrivibile splendore dell'arredamento e dall'eleganza delle damigelle (106).
Dai conviti, una legge del 1473 bandiva fagiani, pavoni, pernici e altre prelibatezze, un numero di portate superiore a tre, l'uso di indorare le vivande; analoghi anatemi venivano scagliati sessant'anni più tardi contro le leccornie sulle quali tanto voluttuosamente indugiava nei suoi Diarii il Sanudo. In questa occasione si precisava che per le nozze non si potevano mandare in dono a parenti e amici altro che "fritole col suo pan di zucchero": ben misera cosa in paragone al donativo di dolci di zucchero e mandorle, intrisi di acqua di rose e coperti di foglia d'oro, inviato non solo agli intimi ma al doge stesso per le nozze di Giustina Freschi nel 1506. Ed erano appunto le consuetudini nuziali ad assorbire, insieme all'abbigliamento, una gran parte dell'attività legislativa in materia suntuaria: fin dalle prime leggi a noi pervenute, quelle del 2 maggio 1299. I secoli XV e XVI avrebbero visto in proposito un infittirsi di normative, destinate in gran parte a venire puntualmente disattese.
Per quanto concerneva le nozze, l'obiettivo era sostanzialmente duplice: frenare, da un lato, le spese eccessive limitando soprattutto il numero degli invitati e dei banchetti stessi; ridurre, dall'altro, l'esorbitanza delle doti, causa non infrequente di forzate rinunce al matrimonio. Una legge emanata dal senato il 22 agosto 1420 fissava le doti patrizie a un massimo di 1.600 ducati; di questi, due terzi costituivano la dote effettiva mentre un terzo era riservato al corredum, la parte cioè destinata a restare in possesso permanente del marito o dei suoi eredi (107). Nel 1505 il limite massimo veniva elevato a 3.000 ducati, nel 1535 a 4.000, fino a raggiungere, con la legge del 9 luglio 1562, i 5.000 ducati. La pressoché generalizzata inosservanza di tali disposizioni è testimoniata da Marin Sanudo: già nel 1502-1503, secondo l'opinione corrente, non si considerava "dota bona" quella che non superasse i 4.000 ducati; nel 1510-1511 le doti patrizie ammontavano generalmente a 5.000 o 6.000 ducati, sebbene se ne denunciassero non più di 3.000 (108).
Le nozze inducevano le donne in grave tentazione. Nessun particolare colore o tessuto era prescritto per l'abito nuziale, ma tutte ambivano al restagno o panno d'oro: alcune spose lo indossavano dopo averne ottenuto speciale licenza, altre - più numerose - trasgredendo con disinvoltura le leggi suntuarie, come quella "bellissima zovene" figlia di Zuan Francesco Loredan quondam Marco Antonio che il 18 febbraio 1531 andava sposa a Zuan Francesco Giustinian quondam Girolamo "vestita di restagno d'oro" e portando una dote di diecimila ducati. Talvolta si ripiegava su soluzioni di compromesso: nel febbraio del 1533 una Corner sceglieva in ossequio alle leggi un abito di semplice raso bianco, accompagnandolo però con perle del valore di diecimila ducati, e altri diecimila portandone in dote al marito (109).
Le vesti di panno d'oro o d'argento, di seta, di broccato, le fodere degli stessi tessuti, i ricami d'oro o d'argento, i trafori o frastagliature sarebbero stati oggetto di un quasi ossessivo e al tempo stesso inane accanimento da parte delle autorità della Repubblica: persa in partenza era la loro battaglia contro l'incessante variare delle mode, il vorticoso avvicendarsi di "nove foze" comportanti spese superflue e l'impossibilità di riutilizzare i vecchi capi di vestiario. A volte gli abusi che si tentava di reprimere erano circoscritti a particolari settori dell'abbigliamento. Il 21 giugno 1400 una parte del senato e della quarantia condannava la lunghezza e lo sfarzo eccessivo delle maniche dogali, quelle stesse che oltre un secolo più tardi sarebbero state oggetto dell'invettiva del doge Loredan; a sprechi non meno imponenti avrebbe più tardi dato incentivo la voga cinquecentesca delle maniche femminili a comedo o cormeo, "nele qual ", come deplorava una legge del 1504, "entra de braza 3 de pano d'oro over de seda" (110). Di pessima reputazione presso i governanti veneziani avrebbero goduto in entrambi i secoli gli strascichi, che nel secolo XV il camaldolese Mauro Lapi esortava il doge Cristoforo Moro a bandire come cosa "diabolica"; ugualmente invisi erano gli zoccoli eccessivamente alti, che oltre a richiedere vesti più lunghe, e di conseguenza più costose, provocavano spesso - così ammoniva il 2 marzo 1430 un decreto del maggior consiglio - cadute dalle conseguenze rovinose, specie per le donne incinte (111). Nel secolo XVI anche i ventagli, ampiamente diffusi a Venezia (ne esisteva anche un tipo a banderuola, di origine araba) divenivano oggetto di provvedimenti legislativi: il 25 gennaio 1526 un decreto del senato li consentiva solo se di semplici penne (non di pregiate pellicce, come "de lovi cervieri [linci> et zebelini"), con manico d'osso o di avorio (non d'oro o d'argento, peggio se adorno di perle). Il divieto veniva reiterato il 10 marzo 1530; esso si estendeva a qualsiasi tipo di pelliccia e proibiva inoltre l'uso di "capelleti", concedendo invece, per il capo, una "scuffia d'oro et d'argento" (112).
Tutte le Veneziane adoravano i gioielli (113): al punto che nel secolo XV chi non poteva permettersi di acquistarli li noleggiava. E naturalmente anche l'uso di preziosi a scopo di ornamento personale era soggetto a minuziose e quanto mai restrittive regolamentazioni, ulteriormente inasprite in tempo di guerra. Era vietato in genere alle donne ingioiellare le acconciature: una legge del 1455 consentiva solo un fermaglio che non superasse il valore di cento ducati. Limitatissimo l'uso di collane, secondo disposizioni che, pur nel loro variare, mantenevano sulla carta un carattere di notevole rigore: il 3 gennaio 1504, ad esempio, si consentiva solo un filo di tondini da non più di 25 ducati o una catenella d'oro da non più di 100, 1'8 maggio 1529 una catenella del valore massimo di 40 ducati. Con la stessa legge si proibivano catene, cinture e collane di alabastro, cristallo, madreperle, porcellana e pietre dure, frivolezze che potevano costare all'acquisto anche cento ducati per non renderne poi, a chi desiderasse rivenderle, che quattro o sei al più.
L'acquisto di preziosi appariva infatti accettabile solo qualora, in caso di emergenza, essi si prestassero a poter essere rivenduti vantaggiosamente per rinsanguare le finanze dei privati, ma anche e soprattutto dello stato. In quest'ottica, l'investimento sconsigliabile per eccellenza era costituito dalle perle, predilette dalle donne ma da un decreto emanato dal senato il 5 maggio 1541 condannate come
cosa ch'è de spesa granda et excessiva et de la qual el Stato nostro accadendo non se potria servir in cosa alcuna, come de cadene de oro et altri simili ornamenti far si potria, oltra ch'esse perle da sé se invechisseno et continuamente vengono de minor valor [...> (114).
Alle donne, fatta eccezione per la consorte e le più strette parenti del doge, le leggi consentivano pertanto non più di un filo di perle; il suo valore massimo era stato fissato a 50 ducati nel 1476, a 150 nel 1533, a 200 nel 1535 e ancora nel 1541. Già nel 1497 si era constatato che quell'unico filo poteva raggiungere il valore di 600-800 ducati; ma non aveva avuto lunga vita la drastica risoluzione allora presa per ovviare all'inconveniente, l'assoluto divieto cioè di portare perle a tutte le donne eccettuate quelle appartenenti alla famiglia del doge e degli ambasciatori stranieri.
Le leggi suntuarie si occupavano, sebbene in misura notevolmente più ridotta, anche dell'abbigliamento maschile. All'inizio del secolo XVI erano oggetto di condanna le maniche troppo ampie, le camicie increspate, gli zuponi (o ziponi, tipo di giacche aderenti, lunghe fino alla vita) senza colletto e aperti sul davanti, l'uso di tessuti preziosi, di ricami e ornamenti, di spacchi che rivelassero fodere d'oro o d'argento, di velluto o di seta. Tutti questi abusi, attribuiti al nefasto influsso della moda francese, erano diffusi al punto che nel 1509 Marin Sanudo criticava l'opportunità di un nuovo proclama contro "camise e ziponi a la franzese": tutti i giovani li portavano, e nelle attuali ristrettezze non era giusto obbligarli a spendere più di venti ducati a testa per modificare il proprio guardaroba (115). Nemmeno i membri del clero rifuggivano dall'indossare abiti, calze e cinture soverchiamente decorati e di colori sgargianti.
Deroghe alle prescrizioni in materia suntuaria potevano darsi di quando in quando: soprattutto in vista dei festeggiamenti che accompagnavano le visite a Venezia di illustri ospiti forestieri, allorché i membri del patriziato erano tenuti a fare di se stessi e delle proprie famiglie simboli viventi della magnificenza e dello splendore della Repubblica (116). Clamoroso l'episodio avvenuto nell'ottobre 1530, quando la Compagnia dei Reali chiedeva al senato il permesso di indossare, per la venuta a Venezia di Francesco Sforza, zuponi di panno d'oro. La richiesta incontrava la recisa opposizione del doge Andrea Gritti, che vi leggeva un allarmante segno di insubordinazione, tollerando il quale si sarebbero scatenati nei sudditi di entrambi i sessi deliri esibizionistici e frenesie competitive quanto mai nefasti per i patrimoni domestici:
Non è più obedientia in questa terra. Questi compagni vol venir con ziponi d'oro et zoie, cosa mai più fatta. [...> Poi le donne si prepara venir con vesture d'oro, perle grosse, zoie de gran precio etc., et chi non ha il modo vorrà far il simile con danno di mariti, etc.
Ma l'appello del doge era caduto nel vuoto. Tutto il collegio si era schierato dalla parte dei Reali, e uno dei savi si era addirittura offerto di pagare di tasca propria le eventuali multe. In questo modo i Compagni l'avevano spuntata: "et cussì porteranno quel vorano", concludeva il Sanudo. Due di loro, un Pesaro e un Donà, avevano avuto per giunta l'idea di chiedere al duca la nomina a cavalieri, onde poter indossare impunemente - secondo una disposizione risalente al secolo XIV - abiti d'oro; saputo il motivo della richiesta, lo Sforza aveva prontamente acconsentito (117). La formale richiesta di deroghe alle normative suntuarie era comunque riservata, per lo più, a circostanze ufficiali di particolare solennità; nella vita quotidiana, le leggi venivano in genere semplicemente ignorate. In tutti i campi, e in primo luogo in quello della moda, peraltro soggetto a normative che non erano soltanto di carattere suntuario.
Su questa moda veneziana - o meglio su alcune sue peculiarità che ne facevano, sotto certi aspetti, qualcosa di simile a un linguaggio in codice tuttora non pienamente decifrato - si farà ora qualche rapida annotazione; rinunciando a priori, specie per quanto riguarda l'abbigliamento femminile, a tentare una ricostruzione sistematica, precisa ed esauriente delle varie fogge avvicendatesi sulle isole lagunari nell'arco cronologico che delimita il nostro lavoro. Faremo nostra, a parziale giustificazione, l'onesta confessione di impotenza con cui alla fine del secolo XVI perfino uno specialista in materia come Cesare Vecellio riconosceva l'impossibilità di portare a termine in modo soddisfacente una così ambiziosa impresa:
perché gli habiti donneschi sono molto soggetti alla mutatione, et variabili più che le forme della Luna: non è possibile, in una sola descrittione, metter tutto quello, che se ne può dire (118).
Ai patrizi veneti non era dato scegliere a capriccio foggia e colori dei loro abiti. Entrati nell'età adulta (119) essi erano tenuti, come d'altronde i cittadini, a indossare la vesta: questa era di solito nera, ma per occasioni cerimoniali o festive erano consueti il cremexin (usato per velluto, damasco e seta) (120) e lo scarlatto, che designava, oltre a un colore, anche un panno pregiato. È incerto quale fosse la gradazione di colore che andava sotto il nome di paonazzo o pavonazzo: forse qualcosa tra il viola, il blu pavone e il nero, o forse un rosso-marrone, una tinta, comunque, assai sobria. Probabilmente perché associato con il mondo islamico, il verde era di uso piuttosto raro e non rientrava fra i colori previsti per le occasioni ufficiali; così pure il giallo, colore prescritto per la bareta degli Ebrei e, in generale, connotante situazioni o condizioni infamanti; neppure si ammetteva il deprimente beretin, un marrone (o forse un grigio) scuro (121). L'oro era riservato al doge e ai cavalieri, il bianco al solo doge il quale vestiva anche di cremexin e - nelle occasioni di lutto, nonché il giovedì e il venerdì santo - di scarlatto. Una maggiore varietà cromatica veniva introdotta nell'abbigliamento dogale da Andrea Gritti, che i Diarii sanudiani dipingono come un doge quanto mai attento alla propria eleganza personale e dotato di un ricco e vario guardaroba. Egli prediligeva il ruosa secha (rosa appassita) e il violetto, né disdegnava il paonazzo; la sua bareta, inoltre, era sempre intonata al colore dell'abito (122).
Neppure la scelta del tipo di manica era, almeno teoricamente, lasciata alla discrezione del singolo. "Poltron, meti zoso quella vesta, tu non è degno di portarla, tu non è stà mai di Pregadi": così, l' 11 febbraio 1521, Marin Grimani quondam Piero, un vecchio nobiluomo ricchissimo e avaro, veniva apostrofato da alcuni giovani patrizi, uno dei quali esigeva dieci ducati per non tagliargli le manege dogal da lui abusivamente indossate. Nel primo Cinquecento il doge Loredan non era dunque il solo a riprovare il fatto che molti, senza averne diritto, indossassero le maniche larghe al polso, a campana, dette dogali: in teoria, infatti, esse erano prerogativa del doge, dei senatori, del cancellier grande e dei dottori in medicina (123). Anche i patrizi che adottavano un altro tipo di manica, quella stretta - usata soprattutto dai membri del clero, essa aveva un che di dimesso e di triste - si esponevano a commenti sfavorevoli (124). Poteva suscitare critiche anche un inopportuno accostamento dei tessuti, che andavano dal sontuoso restagno, d'oro o d'argento, al damasco, allo scarlatto, al velluto, al raso, alla seta, fino all'ordinario panno (125).
Precise anche le norme che regolavano l'abbigliamento da lutto. Mentre al doge, alla signoria nell'interregno e, in talune circostanze, anche ai senatori (126) si prescriveva lo scarlatto, i patrizi vestivano di paonazzo; o di nero, colore non ritenuto tuttavia confacente ai detentori di cariche particolarmente prestigiose (127). Altri segni di lutto erano l'adozione di un lungo mantello con cappuccio e strascico e della barba, da portare per un periodo di tempo che variava secondo il grado di parentela con il defunto.
La morte di un familiare non era la sola circostanza dolorosa a richiedere un abbigliamento appropriato. Il 2 novembre 1499 Antonio Grimani, capitano generale da mar, ritornava a Venezia dopo la sconfitta subita a Zonchio con vesta paonazza, mantello e calze di scarlatto, bareta nera e barba di quindici giorni; al processo, nel maggio dell'anno successivo, si presentava "con barba, vesta negra a manege strete, con la bareta in man". Barba e abbigliamento "a la grecha" (solo in casi eccezionali, come questo, un patrizio veneziano adottava fogge forestiere) esibiva nel 1501 il sopracomito Valerio Marcello catturato a Modone dai Turchi e da poco riscattato dalla schiavitù a Costantinopoli; barba, vesta "a manege strete" e l'abito della Scuola di San Fantin, che assisteva i condannati a morte, portavano quattro prestigiosi cittadini padovani impiccati a Venezia per tradimento il 1° dicembre 1509 (128). Qualunque fosse il motivo di questa associazione della barba con il lutto (è stata avanzata l'ipotesi che essa si ricollegasse nell'immaginario veneziano a due figure negative quali l'ebreo e il musulmano), essa cominciava a venir meno - come attestano le fonti iconografiche - nel corso del quarto decennio del secolo; tale evoluzione del costume fu probabilmente influenzata dall'ascesa al dogado di Andrea Gritti, solito portare la barba in ogni circostanza.
Gli ecclesiastici erano tenuti a vestire di colore sobrio: nero i preti semplici, azzurro o paonazzo quelli gerarchicamente superiori. Essi condividevano però con i laici il gusto di un certo esibizionismo, se nel 1509 il patriarca Antonio Contarini era costretto a proibire ai membri del clero l'uso di capelli lunghi, barba, calze bicolori, colori vivaci, cinture con decorazioni, maniche troppo ampie e anelli. Più libero ma assai più modesto era naturalmente l'abbigliamento dei popolani, sul quale peraltro non disponiamo - per il periodo che stiamo considerando - di molte informazioni. E da credere che rappresentassero un'eccezione gondolieri come quelli effigiati da Vettor Carpaccio, che con il lusso e l'esuberanza cromatica delle loro livree dovevano dare testimonianza del prestigio sociale dei loro padroni.
A differenza dei loro uomini, le signore godevano della massima libertà nella scelta dei colori dei loro abiti, eccezion fatta per le restrizioni imposte all'uso dell'oro. Per quanto riguarda le fogge, già si è detto delle diffidenze nei confronti dello strascico e delle ripetute proibizioni con le quali, all'inizio del Cinquecento, si era tentato di mettere fuori legge le maniche a comeo e dogali. Maggiore modestia di tessuti e sobrietà di colori caratterizzavano il vestire delle donne del popolo: a fine Quattrocento Pietro Casola notava che queste erano solite vestire di nero dalla testa ai piedi, tanto da poter venire scambiate per suore benedettine, e circa un secolo più tardi Cesare Vecellio spiegava che le serve indossavano abiti di colore scuro, si coprivano il capo con semplici fazzoletti di seta bianca e non usavano gioielli.
Anche le ragazze patrizie, per uscire di casa, erano tenute a nascondere le tinte vivaci delle vesti sotto sopravvesti di colore cupo e di tessuto poco pregiato, a fare un uso assai parco di gioielli e a coprirsi il capo con un lungo velo, bianco o nero, che nascondeva il viso e scendeva fino al petto, al punto di indurre i forestieri a domandarsi come riuscissero, così imbacuccate, a vedere dove mettevano i piedi. Quegli stessi forestieri avevano però agio di constatare quanto le donne di Venezia - fra le pareti domestiche le donzelle, anche in pubblico le maritate - amassero farsi guardare. Era un omaggio scherzoso, non immune però da una sia pur lievissima ombra di turbamento, quello tributato nel 1488 alle spigliate signore veneziane dal domenicano tedesco Felix Faber: evidentemente non uso a trovarsi circondato da radiose presenze femminili nella cui ricercata eleganza lo sfarzo si abbinava alla raffinatezza, egli ravvisava nel loro fascino inquietanti connotati pagani, un potenziale di seduzione confinante con il demoniaco (129).
Un particolare elemento della moda femminile costituiva a quell'epoca un concreto motivo di allarme anche per le autorità veneziane: si trattava della pettinatura cosiddetta a fungo, nella quale i capelli, sciolti fino alle spalle, erano sormontati da una treccia posticcia arrotolata sulla sommità del capo, in ambigua simulazione dell'acconciatura all'epoca adottata dai giovani maschi: un vero e proprio tentativo di inversione dei ruoli, insomma, al presumibile scopo di attrarre anche gli uomini meno sensibili alle grazie muliebri (130). Nulla da obiettare, invece, alle trecce naturali (131), che nella prima metà del secolo XVI venivano spesso raccolte sulla nuca e racchiuse in una reticella, e, come copricapi, alle scuffie di varie fogge o alle barete (purché non confezionate in tessuti eccessivamente pregiati le prime, non ornate di gioielli o medaglie le seconde). In alternativa alla bareta, le spose potevano portare sui capelli sciolti una ghirlanda frequentemente impreziosita da perle e da gemme, e anch'essa indicata con il termine zoia (132). Ciò che nella moda femminile infastidiva certi Veneziani assai più degli eccessi di sfarzo era l'inusuale, l'eccentrico, tutto ciò insomma che denotava indirizzi di gusto troppo personali e un biasimevole desiderio di distinguersi. "Cossa notanda [...>, cossa nova, e tutti la vedeva; siche è licito a donne a far ogni matieria", brontolava nel 1515 il misoneista e misogino Marin Sanudo dinanzi a un'acconciatura un po' inconsueta. Una decina d'anni più tardi, il diarista avrebbe subito un duro colpo nel constatare come una delle invitate a una festa nuziale - anche lei per giunta una Sanudo, moglie di Zuan Foscari quondam Agostino - sfoggiasse, unica fra tutte, un paio di orecchini in forma di sottile anello d'oro con una grossa perla: "al costume di more si ha fatto forar le rechie, [...> cossa che lei sola porta, et mi dispiaque assai", commentava abbattuto il diarista. È chiaro che, in questo caso, la ragione della sua amarezza e del suo disagio stava nell'avere una gentildonna veneziana adottato un tipo di ornamento estraneo alla tradizione locale: ripudiando quasi la propria privilegiata condizione di patrizia della più eletta e più cristiana repubblica mai apparsa sulla faccia della terra, per abbassarsi a imitare le primitive costumanze di genti barbare e infedeli (133), All'epoca, gli orecchini erano infatti ancora una rarità nell'Italia settentrionale. Ma il loro uso non doveva tardare a diffondersi, come attesta il decreto del senato che 1'8 ottobre 1562 metteva categoricamente al bando questo tipo di ornamento (134); e numerose incisioni del libro dedicato da Cesare Vecellio agli Abiti di tutto il mondo comprovano che, sullo scorcio del secolo, gli orecchini - già appannaggio esclusivo di "ethiopesse" e di "more", di persiane e di arabe - erano assurti al ruolo di prezioso complemento dell'eleganza femminile, irrinunciabile per tutte le signore veneziane al passo con la moda.
La reazione del Sanudo era dovuta all'ottica inesorabilmente venetocentrica con cui i sudditi di San Marco guardavano al mondo in tutti i suoi aspetti, ivi compresa la moda. Nell'opinione dei Veneziani di sesso maschile (quella delle Veneziane non ci è stata tramandata), solo il puro stile locale sapeva valorizzare al massimo la bellezza femminile; per contro, era indiscutibile dogma estetico che l'abito o l'accessorio forestiero, lungi dall'accentuarne il fascino con un tocco di esotismo, ingoffissero anche la donna più attraente. Nel febbraio 1524 Carlo Zen, vicebailo a Costantinopoli, si estasiava per i costumi di scena delle danzatrici turche, "tanto restrecti et affiati" da rivelare "le parte secrete tutte", ma non mancava al tempo stesso di osservare che solo un abbigliamento "alli modi nostri" avrebbe consentito alle signore di Pera di dirsi "bellissime". Nell'agosto dello stesso anno Carlo Contarini, oratore all'arciduca d'Austria Ferdinando, giudicava che i loro "habiti disformi da li nostri" diminuissero l'avvenenza delle damigelle dell'arciduchessa Anna Jagellona (135). Si tollerava, invece, che le donne veneziane ricorressero a qualche artificio per rendere più gradevole il proprio aspetto, in consonanza con gli imperativi estetici dell'Italia rinascimentale. Nel 1530, a Bologna, lo sguardo di un veneziano si soffermava ammirato sulle bionde chiome della cognata di Carlo V, Beatrice del Portogallo duchessa di Savoia, e delle sue damigelle: un biondo naturale, non artefatto, precisava lo scrivente con implicita allusione alle sue concittadine, che per poter vantare capelli color dell'oro dovevano sottoporsi a laboriose e, presumibilmente, esasperanti applicazioni di preparati schiarenti noti come acque, liscie o bionde (136).
Truccarsi il viso e le ampie scollature era un'altra pratica assiduamente coltivata dalle donne veneziane. Lo notava già nel 1497 il tedesco Arnoldo di Harff, soggiungendo (per esperienza diretta, possiamo supporre) che di notte il belletto sfatto rendeva quelle stesse donne oltremodo sgradevoli a vedersi (137). Tali prodotti si potevano confezionare in casa, sulla scorta di appositi ricettari che insegnavano l'arte di preparare intrugli destinati ai più svariati fini cosmetici nonché all'igiene personale - sebbene per dentifrici e saponi sia lecito sospettare un assai più tiepido interesse da parte del pubblico di ambo i sessi. Gli ingredienti erano spesso singolari, talvolta piuttosto sinistri: una crema depilatoria richiedeva tra l'altro "uova di formiche", "sangue di pipistrello", "latte di cagna" (138). Non stupisce che a Bologna il nostro veneziano trovasse incantevole un'altra prerogativa di Beatrice del Portogallo e delle sue dame, il fresco incarnato ignaro di cosmetici.
Eppure, le mille "matierie" alle quali le Veneziane indulgevano allo scopo di valorizzare il proprio aspetto fisico non erano mera espressione della frivolezza e della fatuità connaturate, come universalmente noto, al loro sesso. Innanzitutto, esse rappresentavano una forma di gratificazione personale. Oltre ad essere l'unico sbocco ammissibile (tranne casi eccezionali) per la creatività femminile, esse potevano costituire - soprattutto sotto forma di gioielli e di vesti fastose - l'unica forma di autoaffermazione accessibile a donne dotate di mezzi economici propri, ma che ben difficilmente avrebbero potuto investirli in una autonoma attività produttiva; più in generale, si può supporre che anche le mode più stravaganti e le più spudorate trasgressioni femminili alle leggi suntuarie fossero di fatto tollerate come una sorta di compensazione all'esclusione della donna veneziana da posizioni di potere (139).
È anzi addirittura probabile che non pochi mariti o padri, lungi dall'osteggiare la vanità delle loro donne, la assecondassero: non tutti somigliavano a quel burbero procuratore Antonio Tron che nel 1512, in senato, inveiva contro le bizzarrie della moda e le pompe muliebri con tanta acredine da meritarsi dallo stesso Marin Sanudo l'appellativo di "satyro" (una specie di rustego goldoniano ante litteram) (140). Erano in molti a comprendere che, quanto più elaborato e costoso appariva l'abbigliamento femminile, tanto più palesemente risaltava il prestigio sociale ed economico della famiglia. E questo stesso fasto nelle vesti e nei gioielli - coadiuvato, perché no, dalle scollature e dai belletti, dai capelli innaturalmente biondi e assurdamente acconciati: non a tutti gli uomini ripugnavano questi accorgimenti - aveva il compito di incarnare agli occhi dei visitatori forestieri la bellezza e la gioia di vivere nella meglio ordinata repubblica del mondo.
Con la loro smania di apparire, con la loro soggezione a mode mutevoli come la luna, che d'altronde esse stesse (a loro volta, come tutte le donne, affini alla luna per volubilità di umori e per ciclici ritmi biologici) contribuivano a rinnovare e a inventare, le suddite della Serenissima potevano insomma inserirsi a pieno titolo nel cerimoniale pubblico veneziano e svolgervi la loro parte, un'attività promozionale di alto e raffinato livello; l'unica attività "politica" aperta alle donne, escluse per l'inferiorità del loro sesso da qualsiasi effettiva partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Un ruolo simbolico: di viventi trionfi, di parlanti insegne emblematiche dell'imperitura magnificenza della Repubblica e della dignità delle famiglie patrizie e cittadine, fondamentali cellule dell'organismo statale. Un ruolo, anch'esso, in certo modo obbligato, scelto per le donne da quegli stessi maschi che, in altre circostanze, mettevano tanto zelo nel deriderne, condannarne, reprimerne le debolezze in materia di lusso e di moda. Un ruolo passivo, paragonabile a quello delle medievali Marie di legno (140? Difficile affermarlo con sicurezza. Non sempre, forse; non del tutto.
1. Su queste cerimonie v. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, reg. I, c. IIIIr-v; Marin Sanudo il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 85-89; anche Marino Sanuto, I diarii, I-LVIII, a cura di Federico Stefani et al., Venezia 1879-1903: XXX, col. 482, 6 luglio 1521 (incoronazione di Antonio Grimani) e XXXIV, coll. 158-159, 21 maggio 1523 (incoronazione di Andrea Gritti). Inoltre Michelangelo Muraro, La Scala senza Giganti, in De artibus opuscula XL. Essays in Honor of Erwin Panofsky, a cura di Millard Meiss, New York 1961, pp. 350-354; Agostino Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 3-123; Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 261-295; Staale Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall. Studies in the Religious Iconography of the Venetian Republic, Roma 1974, pp. 156, 160-164; Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 19832, pp. XXII-XXV; Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, in partic. pp. 232-234, 312-316; Åsa Boholm, The Doge of Venice. The Symbolism of State Power in the Renaissance, Gothenburg 1990, pp. 118-148; Sergio Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell'Europa medievale e moderna, Firenze 1990, pp. 96-103; Matteo Casini, I gesti del principe. Cerimonie e rituali del potere politico a Venezia e Firenze nel Cinquecento (1530-1609), tesi di dottorato di ricerca in Storia (Storia Sociale Europea), V ciclo, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1992, pp. 15-24, 54-55. Su figura e funzioni del doge v. Alberto Tenenti, La rappresentazione del potere, in I Dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1982, pp. 73-106; Id., Il potere dogale come rappresentazione, in Id., Stato: un'idea, una logica. Dal comune italiano all'assolutismo francese, Bologna 1987, pp. 193-216.
2. Il primo stendardo di guerra recante come insegna san Marco va probabilmente riconosciuto nel vexillum triumphale consegnato nel maggio dell'anno 1000 dal vescovo di Olivolo al doge Pietro II Orseolo, in partenza per la sua spedizione contro la Dalmazia. V. anche Mario De Biasi, Il gonfalone di San Marco, Venezia 1981.
3. V. A. Boholm, The Doge, pp. 122-124, 264, e E. Muir, Il rituale, pp. 231-232. Il ballottino restava in carica fino alla morte del doge.
4. V. G. Fasoli, Liturgia, pp. 279-287, 294-295, e S. Sinding-Larsen, Christ, pp. 180-182. Per le prerogative del doge in materia di giurisdizione ecclesiastica, A. Da Mosto, I dogi, pp. XLVI-XLVII; G. Fasoli, Liturgia, pp. 279-284; Gaetano Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio sulla Cappella Ducale di San Marco (secoli XVI-XVIII). Controversie con i procuratori di San Marco de supra e i patriarchi di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, 151, 1992-1993, pp. 1-69. Sul carattere peculiare della liturgia di San Marco fino a quando, nel 1807, la chiesa divenne cattedrale di Venezia v. Giulio Cattin, Musica e liturgia a San Marco, I, Descrizione delle fonti, Venezia 1990, pp. 29-40.
5. Secondo la leggenda, che si ricollega alle vicende della pace di Venezia, Alessandro III avrebbe investito della carica di prima badessa delle Vergini una figlia del Barbarossa, la quale avrebbe ricevuto un anello dal doge Sebastiano Ziani. V. Venezia, Museo Correr, ms. cl. I. 407, Cronaca del Monastero delle Vergini di Venetia, prima metà del sec. XVI; cf. Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp. 6-7; E. Muir, Il rituale, p. 141; Lina Urban Padoan, Il Bucintoro. La festa e la fiera della "Sensa" dalle origini alla caduta della Repubblica, Venezia 1988, pp. 25-26; M. Casini, I gesti, pp. 281-282.
6. Å. Boholm, The Doge, pp. 141-143, 264; cf. S. Bertelli, Il corpo del re, pp. 87 e 101.
7. E. Muir, Il rituale, p. 233; M. Casini, I gesti, p. 30.
8. A. Pertusi, Quedam regalia insignia, pp. 83-86; Gherardo Ortalli, Il travaglio d'una definizione. Sviluppi medievali del dogado, in I Dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1982, pp. 41-44 (pp. 13-44); E. Muir, Il rituale, pp. 232-233.
9. V. A. Da Mosto, I dogi, pp. XLIV-XL; E. Muir, Il rituale, pp. 217-236; M. Casini, I gesti, pp. 150-158.
10. Si veda in proposito Ellen Rosand, La musica nel mito di Venezia, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 167-186.
11. V.Å. Boholm, The Doge, pp. 15-24, in particolare p. 23.
12. Cf. Giorgio Ravegnani, Dignità bizantine dei dogi di Venezia, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 19-22 (pp. 19-29).
13. Triste auspicio era l'accidentale rottura dell'ombrello: v. M. Sanuto, I diarii, XIX, col. 333, 26 dicembre 1514, e cf. A. Tenenti, La rappresentazione, p. 79.
14. M. Sanuto, I diarii, XX, col. 141, 25 aprile 1515; cf. S. Sinding-Larsen, Christ, pp. 157-158, e E. Muir, Il rituale, p. 231.
15. V. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, reg. I, cc. VIv-VII; A. Da Mosto, I dogi, p. 187; G. Fasoli, Liturgia, pp. 289-291; E. Muir, Il rituale, pp. 317-323; Giovanni Scarabello, Le dogaresse, in I Dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1982, pp. 163-182; Wolfgang Wolters, Storia e politica nei dipinti di Palazzo Ducale. Aspetti dell'autocelebrazione della Repubblica di Venezia nel Cinquecento, Venezia 1987, pp. 155-156; M. Casini, I gesti, pp. 38-47. Una almeno delle Arti era coinvolta anche nei festeggiamenti per l'elezione del doge, il quale riceveva un donativo di meloni dagli erbaroli: cf. A. Tenenti, Il potere, p. 213.
16. Per il resoconto di una di queste cerimonie si veda ad esempio M. Sanuto, I diarii, XXXIII, coll. 357-358, 13 luglio 1522. Cf. Bianca Tamassia Mazzarotto, Le feste veneziane. I giochi popolari, le cerimonie religiose e di governo illustrate da Gabriel Bella, Firenze 19802, pp. 286-287, e E. Muir, Il rituale, pp. 293-294.
17. M. Sanuto, I diarii, VII, coll. 577-580; XVI, coll. 229-234, 236-240, 250-257. Cf. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, reg. I, c. XVIr-v.
18. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, reg. I, c. LXXXIIr-v; Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare. Con le aggiunte di Giustiniano Martinioni, I, Venezia 1968 (ristampa dell'edizione 1663), pp. 306-307. Cf. Giulio Bistort, Il Magistrato alle Pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico. Con premessa di Giulio Zorzanello e di Ugo Stefanutti, Bologna 1969, pp. 266-267.
19. M. Sanuto, I diarii, LVIII, coll. 563-565 (cf. Brian Pullan, Gli ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985, p. 406); per altre cerimonie di investitura v. per es. M. Sanuto, I diarii, III, col. 1092, 23 novembre 1500, e col. 1368, 2 febbraio 1501; XLII, col. 631, 16 settembre 1526. Circa la prassi dell'investitura e le insegne cavalleresche i dati non sono concordi né sicuri: v. Ricciotti Bratti, I Cavalieri di San Marco, "Nuovo Archivio Veneto", 16, 1898, pp. 321-349, e Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, I, Roma 1937, p. 28.
20. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, reg. I, cc. XVIIIv-XIX; F. Sansovino, Venetia, p. 19; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, pp. 276-280.
21. Festeggiamenti quasi osceni nella loro prodigalità, perché in quel durissimo inverno di carestia nemmeno le musiche del cardinale riuscivano a soverchiare i lamenti delle torme di miserabili contadini affamati, riversatisi dalla Terraferma nella Dominante alla disperata ricerca di cibo. Al punto che perfino il coriaceo Marin Sanudo prendeva le distanze dalle baldorie dei Grimani: "chi vol andar va", commentava seccamente, "tamen meglio era a far elemosine" (M. Sanuto, I diarii, XLVI, coll. 580, 597, 611-612, 632, e XLVII, coll. 52-60).
22. M. Sanuto, I diarii, VII, col. 30, 15 marzo 1507 (banco di Girolamo Priuli di Lorenzo); XXXI, col. 182, 8 agosto 1521 e LI, coll. 132-133, 21 luglio 1529 (banco di Mafio Bernardo quondam Francesco); XXXVI, col. 203, 14 aprile 1524 (banco di Andrea Arimondo quondam Alvise); XLIX, coll. 124-125, 3 novembre 1528 (banco di Zuan Pisani quondam Alvise). Cf. Mario Brunetti, Banche e banchieri veneziani nei "Diarii" di Marin Sanudo, in Studi in onore di Gino Luzzatto, II, Milano 1950, pp. 26-47; Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 176, 377-380; Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 220-221, 239.
23. Fernanda Sorelli, Predicatori a Venezia (fine secolo XIV-metà secolo XV), "Le Venezie Francescane", n. ser., 6, 1989, pp. 142-143 (pp. 131-158).
24. M. Sanuto, I diarii, XLVIII, col. 275, 20 luglio 1528; XIX, col. 462, 28 febbraio 1515; XX, col. 20, 2 marzo 1515. Cf. E. Muir, Il rituale, p. 270; M. Casini, I gesti, pp. 159-160, 167, 183.
25. M. Sanuto, I diarii, XLIV, coll. 501-502; v. anche VI, col. 326, 13 aprile 1506 (un ebreo di Portogruaro viene battezzato in campo San Polo insieme ai suoi "do fioleti"); XXXI, col. 291, 24 agosto 1521 (un ebreo quindicenne viene battezzato in San Marco "in pulpito dove va il Doxe") e LII, col. 318, 2 dicembre 1529 (un battesimo viene amministrato davanti al portico di San Giovanni di Rialto, sede dei banchi di scritta): Cf. B. Pullan, Gli ebrei, pp. 390-392.
26. Sul funerale veneziano in età rinascimentale - specie quello patrizio - v. Å. Boholm, The Doge, pp. 51-68.
27. Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, II, Firenze 1844, p. 671; cf. E. Muir, Il rituale, pp. 318-319, e G. Scarabello, Le dogaresse, p. 180.
28. M. Sanuto, I diarii, LVIII, col. 54, 18 aprile 1533.
29. Si veda Bartolomeo Cecchetti, Funerali e sepolture dei veneziani antichi, "Archivio Veneto", 34, 1887, pp. 265-284. Il 27 giugno 1531 la vedova del cancellier grande Nicolò Aurelio faceva seppellire il marito con "grandissimo honor" e processione in Piazza, contravvenendo all'espressa volontà testamentaria di lui: M. Sanuto, I diarii, LIV, col. 482.
30. V. ad esempio M. Sanuto, I diarii, VII, col. 115, 8 luglio, e col. 605, 6 agosto 1507; XII, col. 67, 18 marzo 1511; XIII, col. 263, 23 novembre 1511; XXIX, col. 87, 1° agosto 1520; XXXIX, coll. 240-242, 26 luglio 1524; XLIII, col. 397, 8 dicembre 1526; XLV, coll. 573, 575-577, 1°-2 agosto 1527; LV, col. 134, 11 novembre 1531.
31. Sui rituali connessi alla morte del doge v. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, reg. I, cc. I-IIv; M. Sanudo, De origine, pp. 90-91; A. Da Mosto, I dogi, pp. L-LVI; E. Muir, Il rituale, pp. 302-308; A. Tenenti, Il potere, pp. 214-216; A. Boholm, The Doge, pp. 69-115; M. Casini, I gesti, pp. 26-27, 47-67; sui saccheggi e altri rituali di violenza in tempo di interregno (in qualche modo rievocati, e surrogati, dalla rissa dei popolani per impadronirsi delle monete provocata ad arte con la sparsio), S. Bertelli, Il corpo del re, pp. 36-54. Per il periodo che ci interessa, una fonte preziosa è il minuzioso resoconto dei funerali del doge Leonardo Loredan (22-25 giugno 1521) in M. Sanuto, I diarii, XXX, coll. 388-389, 393, 398-401.
32. Non sempre l'esito era quello auspicato: Marin Sanudo racconta come il defunto doge Leonardo Loredan dovesse venire precipitosamente e contro ogni consuetudine rinchiuso in una cassa, a causa del repentino processo di decomposizione insorto nel cadavere.
33. Simboli di rango (E. Muir, Il rituale, p. 303), e forse anche di difesa dai pericoli che potevano insidiare il trapassato nel corso del suo viaggio ultraterreno (A. Boholm, The Doge, pp. 96-97).
34. M. Sanuto, I diarii, XXX, col. 389. Sul ruolo della signoria nel periodo dell'interregno e nei funerali del doge non concordano completamente A. Da Mosto, I dogi, pp. LI e LIII; E. Muir, Il rituale, pp. 306-307; A. Boholm, The Doge, pp. 81-83, 106-107, 266.
35. M. Sanuto, I diarii, XVII, coll. 72, 76-77, 1°-2 settembre 1513; XVIII, coll. 47-48, 18 marzo 1513; XXXI, coll. 163-165, 2 agosto 1521. Cf. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata. Dalle origini alla caduta della Repubblica, I-III, Trieste 19737: II, pp. 22-23; Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, in particolare pp. 100-119; E. Muir, Il rituale, pp. 271-277; Lionello Puppi, La città mattatoio. Riflessioni e ipotesi di lettura intorno ad un episodio trascurato dello spettacolo urbano del potere, "Venezia Arti", 3, 1989, pp. 46-49, 54 (pp. 46-60). Da notare che verso la fine del secolo XV un visitatore straniero, fra Felix Faber da Ulma, giudicava la giustizia penale veneziana assai più umana di quella tedesca, sia per le condizioni di vita nelle carceri sia per la cura posta nel procurare ai condannati una morte immediata. Cf. Venezia nel MCDLXXXVIII. Descrizione di Felice Fabri da Ulma, Venezia 1881, pp. 42-45
36. M. Sanuto, I diarii, XXVII, col. 241, 5 maggio 1519. Altri esempi in III, col. 683, 27 agosto 1500; IV, col. 291, 30 luglio 1502; VII, col. 115, 9 luglio 1507; XVII, col. 63, 23 marzo 1514. Cf. G. Ruggiero, Patrizi, p. 228; E. Muir, Il rituale, p. 272.
37. Ciò nonostante, come attestano i Diarii sanudiani, il doge insieme al primicerio di San Marco, al corpo diplomatico e a vari patrizi era solito recarsi ogni 1° gennaio in Basilica, per assistervi a una messa propiziatoria in coincidenza con l'inizio dell'anno.
38. Per una prima informazione sulle feste veneziane, sempre utili Giustina Renier Michiel, Origine delle feste veneziane. Nuova ristampa dell'edizione del MDCCCXXIX, con una introduzione di Federico Pellegrini, Venezia 1916; Giuseppe Tassini, Feste spettacoli divertimenti e piaceri degli antichi veneziani, Venezia 19612; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste.
39. Sulla festa v. Lina Urban Padoan, Tra sacro e profano. La festa delle Marie, Venezia 1988; e le analisi di E. Muir, Il rituale, pp. 159-176; di Å. Boholm, The Doge, pp. 153-178; di M. Casini, I gesti, pp. 170-175. V. invece E. Muir, Il rituale, pp. 83-85, per il significato del 25 marzo, data della fondazione di Roma, e dell'equinozio di primavera nel calendario giuliano; e il primo dell'anno nell'uso notarile veneziano. In questo giorno il doge assisteva a una messa solenne in San Marco: un atto di devozione da lui compiuto anche in occasione delle feste mariane del 15 agosto e dell'8 settembre (cf. Marin Sanudo, Le vite dei dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, p. 88).
40. V. M. Sanudo, De origine, p. 58; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 203-204; E. Muir, Il rituale, pp. 177-198; Id., Manifestazioni e cerimonie nella Venezia di Andrea Gritti, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 61-64; Lina Urban Padoan, La festa del giovedì grasso, Venezia 1988; M. Casini, I gesti, pp. 184-186.
41. Questo può spiegare perché il giovedì grasso del 1528, ad esempio, i tori fossero dieci, l'anno successivo addirittura dodici (M. Sanuto, I diarii, XLVI, coll. 611-612, 20 febbraio 1528, e XLIX, Coi. 422, 4 febbraio 1529; di due tori parla il diarista nel suo De origine, p. 58). Variabile, almeno al tempo del Sanudo, era anche il numero dei maiali; di dodici porci e dodici pani consisteva il tributo originariamente imposto al patriarca di Aquileia secondo fonti del secolo XIII (M. Sanuto, I diarii, XXVIII, col. 331) ove non si fa ancora menzione di tori, la cui presenza è attestata dall'inizio del secolo successivo. M. Casini, I gesti, p. 186, precisa che la decapitazione dei porci fu definitivamente abolita nel 1535. Per la diversa dignità accordata al maiale e al toro nell'immaginario popolare cf. in M. Sanuto, I diarii, XXVIII, col. 301, il sacrificio carnevalesco di ventiquattro "porcelette" e di tredici tori al Testaccio descritto in una lettera inviata a Venezia da Roma, nel febbraio 1520, dal patrizio veneziano Marco Antonio Michiel di Vettor: mentre il massacro delle porchette avveniva in un contesto puramente ludico, i tori venivano uccisi in una specie di corrida che entusiasmava il veneziano come "spectacolo veramente dilettevole, magnifico, et che molto ha de la antiqua magnificenza".
42. Ricorrenti nei Diarii sanudiani le informazioni su cacce ai tori. Per gli altri due giochi v. M. Sanuto, I diarii, XV, col. 522, 30 gennaio 1513, e XXXIII, col. 583, 12 febbraio 1517.
43. Ibid., LV, col. 451, 8 febbraio 1532.
44. V. ibid., XXIII, coll. 545-546, 31 gennaio 1517, e cf. LV, col. 461, 11 febbraio 1532; XXV, coll. 215-219, 230, 24-25 gennaio e 1° febbraio 1518; XXXIII, col. 51, 15 marzo 1522, e cf. col. 127, 4 aprile; LII, col. 599, 24 febbraio 1530. Per l'insofferenza del diarista nei confronti delle maschere in abito religioso o allusivo a cariche pubbliche, XLIX, col. 422, 4 febbraio 1529; LVII, col. 548, 25 febbraio 1533. La più alta autorità che si arrivava a parodiare era tuttavia il cancellier grande, mai il doge; né il carnevale acquistava mai connotazioni politicamente sovversive (cf. E. Muir, Il rituale, pp. 193- 194).
45. Come nel febbraio del 1500, quando le maschere venivano vietate in risposta a un omicidio e a uno stupro commessi da sconosciuti mascherati: M. Sanuto, I diarii, III, col. 108, 10 febbraio 1500. Per i decreti del sec. XV v. Vittore Branca, Suggestioni veneziane nell'" Orfeo" del Poliziano, in Il teatro italiano del Rinascimento, a cura di Maristella De Panizza Lorch, Milano 1980, pp. 470-471 (pp. 467-482).
46. M. Sanuto, I diarii, XX, col. 214, 17 maggio 1515; XXXIII, coll. 549-550, 23 dicembre 1522; XXXV, col. 393, 4 febbraio 1524; XXXIX, col. 811, 13 febbraio 1526; XLIX, coll. 430-431, 7-8 febbraio 1529. Cf. ibid., XXVI, col. 501, 26 febbraio 1519, le critiche del diarista a un carnevale senza maschere, ma con eccessi di altro genere.
47. M. Sanuto, I diarii, XXVIII, coll. 253-255, 13 febbraio 1520.
48. V. S. Sinding-Larsen, Christ, pp. 215-217; E. Muir, Il rituale, pp. 250-254; A. Boholm, The Doge, pp. 179-215.
49. Cf. L. Urban Padoan, Il Bucintoro, pp. 23-24.
50. Sui particolari della cerimonia che si svolgeva il pomeriggio del venerdì santo non concordano in tutto S. Sinding-Larsen, Christ, pp. 215-216, E. Muir, Il rituale, p. 251, e Å. Boholm, The Doge, pp. 189-198. Per il suggestivo spettacolo delle luminarie serali v. M. Sanuto, I diarii, XXXVI, col. 104, 25 marzo 1524, e XXXVIII, col. 186, 15 aprile 1525.
51. M. Sanudo, De origine, p. 59; E. Muir, Il rituale, p. 253.
52. E. Muir, Il rituale, pp. 96-99, 160, 166; L. Urban Padoan, Tra sacro e profano, p. 30; Patricia Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio. I grandi cicli narrativi, Venezia 1992, pp. 158-163. Nella Venezia dei secoli XV e XVI riceveva nuovo impulso anche il culto di san Teodoro, che una discussa tradizione vorrebbe originario patrono della città (cf. Antonio Niero, I santi patroni, in Il culto dei santi a Venezia, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1965, pp. 91-95 [pp. 75-98>; E. Muir, Il rituale, pp. 104-106).
53. Sulle origini di questa festa, e sulle possibili interpretazioni del suo significato, v. L. Urban Padoan, Il Bucintoro (ove essa viene definita "avvenimento unico nel mondo cristiano"); E. Muir, Il rituale, pp. 135-147; Å. Boholm, The Doge, pp. 217-239; M. Casini, I gesti, pp. 259-297. Cf. inoltre la testimonianza del pellegrino milanese Santo Brasca, che nel 1480 aveva assistito al rito e ammirato in special modo lo spettacolare concorso di pubblico e le "done ornatissime" (Viaggio in Terrasanta di Santo Brasca, 1480. Con l'itinerario di Gabriele Capodilista, 1458, a cura di Anna Laura Momigliano Lepschy, Milano 1966, p. 49); la lettera di Beatrice d'Este a Lodovico Sforza, Venezia, 30 maggio 1493, riportata in P.G. Molmenti, La storia di Venezia, II, p. 497; le annotazioni di M. Sanuto, I diarii, XXXVIII, col. 346, 25 maggio 1525; XLI, col. 307, 10 maggio 1526; L, col. 282, 6 maggio 1529.
54. V. E. Muir, Il rituale, pp. 254-259; Å. Boholm, The Doge, pp. 241-261; M. Casini, I gesti, pp. 176-182, e cf. M. Sanuto, I diarii, LVI, col. 286, 30 maggio 1532; LVIII, col. 315, 12 giugno 1533. In situazioni di crisi o di tensione politica la processione, pur non venendo soppressa, appariva disadorna e spenta, con scarso concorso di pubblico ("pareva cosa orfana", è l'efficace commento del Sanudo in una di queste occasioni) e, all'occorrenza, straordinarie misure di sicurezza. Si veda ibid., VIII, coll. 372-373, 7 giugno 1509; XII, col. 243, 19 giugno 1511; XLV, coll. 355-356, 20 giugno 1527.
55. M. Sanudo, Le vite, pp. 86-91; l'elenco che qui ne fornisce il cronista è tuttavia incompleto.
56. V. Ludovico Zorzi, Intorno allo spazio scenico veneziano, in Venezia e lo spazio scenico. Mostra a Palazzo Grassi, 6 ottobre -4 novembre 1979, Venezia 1979, p. 107 (pp. 81-109).
57. Giovanni Musolino, Feste religiose popolari, in Il culto dei santi a Venezia, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1965, pp. 215-216 (pp. 209-237); E. Muir, Il rituale, pp. 128, 248-249.
58. G. Musolino, Feste, pp. 221-222; E. Muir, Il rituale, p. 250.
59. V. G. Musolino, Feste, pp. 220-221; E. Muir, Il rituale, p. 249. Che la processione seguisse la via di terra all'andata, la via d'acqua al ritorno, è precisato da M. Sanudo, De origine, p. 60. Dal 1509 al 1511, in considerazione del drammatico momento politico, la processione non aveva luogo e il doge si asteneva dall'offrire il consueto banchetto; Marin Sanudo nei suoi Diarii si faceva interprete del malcontento dei Veneziani per questo abbandono delle "usanze antiche" (M. Sanuto, I diarii, VIII, coll. 403-404; X, col. 568; XII, col. 240).
60. A. Niero, I santi, p. 88; G. Musolino, Feste, pp. 222-223; E. Muir, Il rituale, p. 103. Da M. Sanuto, I diarii, XXXI, coll. 62-63, 17 luglio 1521, si apprende che ai suoi tempi la processione seguiva la via di terra e che, dopo la visita, il doge e il suo corteo ascoltavano una messa solenne a San Marco.
61. G. Musolino, Feste, pp. 218-222; E. Muir, Il rituale, pp. 107-112; Roberto Zago, I Nicolotti. Storia di una comunità di pescatori a Venezia nell'età moderna, Venezia 1982, in partic. pp. 57-79.
62. G. Musolino, Feste, pp. 216-218.
63. M. Sanuto, I diarii, II, coll. 547-549 (cf. A. Tenenti, Il potere, pp. 210-211); XLII, coll. 57-60, 62-80, 104; LII, coll. 435-436. V. anche E. Muir, Il rituale, pp. 266-268.
64. Venezia nel MCDLXXXVIII, pp. 91-94.
65. V. in proposito Alberto Tenenti, L'uso scenografico degli spazi pubblici: 1490-1580, in Tiziano e Venezia. Convegno internazionale di studi, Venezia 1976, Vicenza 1980, pp. 21-26; E. Muir, Il rituale, pp. 261-265; Id., Manifestazioni, pp. 59-77; M. Casini, I gesti, pp. 226-243.
66. V. Lionello Venturi, Le Compagnie della Calza (sec. XV-XVI), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1908, pp. 161-221, e 17, 1909, pp. 140-233; Maria Teresa Muraro, La festa a Venezia e le sue manifestazioni rappresentative: le Compagnie della Calza e le ῾momarie', in Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 315-341; Lina Urban Padoan, Le Compagnie della Calza: edonismo e cultura al servizio della politica, "Quaderni Veneti", 6, 1987, pp. 111-127; Ludo-Vico Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di Sant'Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Torino 1988, passim; M. Casini, I gesti, pp. 238-239; Patrizia La Rocca, " Né altro fu fatto che balar". La danza a Venezia attraverso i Diarii di Marin Sanuto (1496-1533), in Alessandro Pontremoli - Patrizia La Rocca, La danza a Venezia nel Rinascimento, Vicenza 1993, pp. 34-41. Fra le abbondantissime testimonianze reperibili in M. Sanuto, I diarii, v. XXXVI, coll. 117-118 (fondazione dei Moderati a Costantinopoli); L, coll. 431-439, 466 (fondazione dei Reali e dei Floridi nel giugno 1529); XXIX, col. 536, 9 gennaio 1521, e col. 547, 16 gennaio 1521 (vengono ascritti alla Compagnia degli Ortolani Antonio Martinengo e Pietro Antonio di San Severino, principe di Bisignano); LVIII, coll. 260-264, 7-8 giugno 1533 (Francesco d'Este viene associato ai Cortesi).
67. M. Sanuto, I diarii, XII, col. 277, 6 luglio 1511; XIX, coll. 393, 25 gennaio, e 441, 17 febbraio 1515; XXI, coll. 494, 30 gennaio, e 498, 3 febbraio 1516; XXIII, col. 583, 12 febbraio 1517; XXVI, col. 503, 27 febbraio 1519; XXVIII, col. 302, annotazioni relative al carnevale del 1520; XXXIII, col. 210, 1° maggio 1522; XXXIX, col. 78, 15 giugno 1525. Cf. Jacopo Morelli, Delle solennità e pompe nuziali già usate presso li Veneziani. Dissertazione, in Id. - Giuseppe Gennari, Delle pompe nuziali già usate presso li Veneziani e li Padovani. Dissertazioni, Venezia 1819, pp. 10-17; Bartolomeo Cecchetti, La vita dei veneziani nel 1300, "Archivio Veneto", 27, 1884, pp. 39-42 (pp. 5-54, 321-337); G. Tassini, Feste, pp. 29-33; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 189-190.
68. M. Sanuto, I diarii, IV, col. 294; LIV, coll. 79-81 (il diarista precisa che questa naumachia era spettacolo inedito per Venezia). Cf. Lina Urban Padoan, Apparati scenografici nelle feste veneziane cinquecentesche, "Arte Veneta", 23, 1969, pp. 146, 154 n. 9 (pp. 145-154).
69. M. Sanuto, I diarii, L, coll. 363-364. Cf. Marica Milanesi, Introduzione a Giovan Battista Ramusio, Navigazioni e viaggi, I, Torino 1978, p. XI (pp. XI-XXXVI).
70. Pietro Ghinzoni, Federico III imperatore a Venezia (7 al 19 Febbrajo 1469), "Archivio Veneto", n. ser., 37, 1889, pp. 136, 137 (pp. 133-144); P.G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 496-497. Cf. M. Casini, I gesti, pp. 226-236.
71. M. Sanuto, I diarii, XVIII, col. 299; XXI, coll. 402 e 411; XXV, col. 493; LIII, coll. 188-189, 229, 355-356, 361-362; LIV, coll. 37-38, 65-66; LVIII, coll. 263-264. Cf. Lina Urban Padoan, Teatri e `teatri del mondo' nella Venezia del Cinquecento, "Arte Veneta", 20, 1966, pp. 142-144 (pp. 137-146).
72. Questa la nitida definizione di M.T. Muraro, La festa a Venezia, che offre anche proposte etimologiche (pp. 328-339). V. anche P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 54-62.
73. M. Sanuto, I diarii, VII, col. 161, 14 ottobre 1507; XXXVI, col. 459, 4 luglio 1524; XLIV, col. 172, 28 febbraio 1526; XLVI, col. 611, 20 febbraio 1528 (momarie a soggetto mitologico); XXXIX, coll. 785, 789-790, 5 e 7 febbraio 1526 (momarie in palazzo Ducale; cf. M.T. Muraro, La festa a Venezia, p. 328); XLIV, coll. 171-172, 28 febbraio 1527 (momaria del Cherea, che secondo M.T. Muraro, La festa a Venezia, p. 334 - e cf. anche P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", p. 49 -, "rappresentava quasi certamente un'allegoria della fine dell'anno"); XXXVIII, col. 811, 13 febbraio 1526; XLIX, col. 422, 4 febbraio 1529 (momarie degli "homeni salvadegi". La prima era allestita dai mercanti tedeschi del fontego; la seconda, più complessa e conclusasi con uno spettacolo pirotecnico, colpiva il Sanudo perché i ruoli femminili vi erano interpretati da "vere done"). I riferimenti alla festa trecentesca sono in Giovanni Boccaccio, Decameron, IV, 2; cf. Richard Bernheimer, Wild Men in the Middle Ages. A Study in Art, Sentiment, and Demonology, New York 1979, pp. 55-56; E. Muir, Il rituale, pp. 190-191, 213-214; P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 43, 46, 55, 58.
74. M.T. Muraro, La festa a Venezia, p. 339.
75. L. Zorzi, Carpaccio, in particolare pp. 65-73, 103, 131-132; P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 38-41. La momaria di re Pancrazio è descritta da M. Sanuto, I diarii, XVI, coll. 206-207.
76. Cf. Giorgio Padoan, La commedia rinascimentale a Venezia: dalla sperimentazione umanistica alla commedia "regolare", in Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 377-465.
77. M. Sanuto, I diarii, XL, col. 219.
78. Ibid., LV, col. 462, 13 febbraio 1532. L'anno precedente, il diarista aveva lodato l'esibizione alla festa del giovedì grasso in piazza San Marco di alcune "balarine famose [...>, meretrice" (LIV, col. 296, 16 febbraio 1531). Cf. P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 52-53.
79. Si vedano i riferimenti a Zuan Polo e al Taiacalze in M. Sanuto, I diarii, LVIII, col. 541; XLIX, col. 439; XV, col. 543; XIX, col. 443; cf. G. Padoan, La commedia, pp. 402-403, e P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 50-52.
80. Il sogno dil Caravia, Vinegia 1541, cc. 2, 5v, 17v, 24v, 26; la profonda stima del Caravia per Zuan Polo è confermata dal fatto che in questo poemetto il defunto buffone si fa portavoce della polemica religiosa dell'autore, oltremodo critico nei confronti del cattolicesimo del suo tempo (cf. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '50o, Torino 1976, pp. 28-32; Ludovico Zorzi, Caravia, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, p. 671 [pp. 669-673>).
81. Il martedì grasso del 1513 a Ca' Morosini alcuni gentiluomini e popolari "vestiti d'oro, e d'arzento, e di seda" avevano messo in scena lo Pseudolo di Plauto; "benissimo" era stata recitata l'ultimo venerdì del carnevale 1515 da "alcuni homeni dotti, zoveni populari" l'Asinaria "in versi vulgar" nel refettorio di Santo Stefano (M. Sanuto, I diarii, XV, col. 535; XIX, col. 439. A recite di religiosi nei monasteri si accenna in XIX, col. 434, 13 febbraio 1515; XX, col. 234, 28-29 maggio 1515; LVII, col. 528, 18 febbraio 1533. Una "istoria a modo di comedia" del Cherea veniva recitata in chiesa di San Trovaso il 17 maggio 1523: XXXIV, col. 148).
82. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, pp. 226-228. Sulla commedia dei Trionfanti, che aveva suscitato la virtuosa indignazione degli spettatori, M. Sanuto, I diarii, XXXVII, coll. 559-560; cf. G. Padoan, La commedia, p. 414, e ibid., pp. 393-394, per le preoccupazioni politiche, piuttosto che moralistiche, che avrebbero ispirato il decreto del 1508.
83. M. Sanuto, I diarii, XXIX, col. 591, 27 gennaio 1521; XXXV, col. 375, 27 gennaio 1524. Cf. P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", p. 30.
84. V. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, pp. 222-225, e P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 41-43. Cf. M. Sanuto, I diarii, XXI, col. 411, 21 dicembre 1515; XXXVI, col. 450, 30 giugno 1524. (in questa occasione - un ricevimento in onore del duca d'Urbino - anche tre solenni procuratori "fono levati et ballono").
85. M. Sanuto, I diarii, XIV, col. 200, 8 maggio 1512; cf. XXV, col. 350, 15 aprile 1518.
86. Sull'uso veneziano di intrattenersi nei giardini v. L. Zorzi, Carpaccio, pp. 96-97. M. Sanuto, I diarii, LVI, coll. 405-406, 15 giugno 1532, parla della recita di "una comedia latina" nell'"orto" di una dimora patrizia.
87. M. Sanuto, I diarii, LV, col. 380, 24 gennaio, e col. 608, 9 marzo 1532.
88. Ibid., XV, coll. 434-435, 20 dicembre 1512 (case dove si balla), XXXVII, col. 578, 14 febbraio 1525 (festino dei servitori: la breve annotazione sanudiana non sembra contenere elementi sufficienti a suffragare l'ipotesi - avanzata da L. Urban Padoan, Le Compagnie della Calza, p. 112 - di una Compagnia della Calza fondata da servi). Gli ambienti in cui ci si riuniva a ballare potevano però essere anche locali aperti al pubblico, non troppo dissimili forse da certe ambigue scuole di ballo delle quali il consiglio dei dieci ordinava a più riprese la chiusura: v. M. Sanuto, I diarii, XXV, col. 19, 6 ottobre 1517; XXVI, col. 278, 14 dicembre 1518; XXIX, col. 466, 15 dicembre 1520; XXXVI, col. 410, 18 giugno 1524. Cf. P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 30-31, 34.
89. Il 7 febbraio 1526 a Ca' Trevisan alla Giudecca, nel corso di una festa offerta ad ambasciatori stranieri, alti ecclesiastici e patrizi dal patriarca di Aquileia, il banchetto veniva movimentato dall'aprirsi di alcuni pasticci che rivelavano un contenuto a sorpresa: da uno di questi usciva, mettendosi a scorrazzare per la tavola, un gallo spennacchiato e con la cresta tagliata, allusione beffarda alla sconfitta subita dai Francesi a Pavia (M. Sanuto, I diarii, XL, coll. 789-790; cf. G. Padoan, La commedia, pp. 414-415). V. anche P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", pp. 37-38.
90. M. Sanuto, I diarii, LIV, coll. 80-81.
91. Venezia nel MCDLXXXVIII, pp. 84-85, 94; M. Sanudo, De origine, pp. 30, 64-65, 172; Id., I diarii, VII, col. 579; XXIII, col. 599; XXIX, col. 547; XXXIV, col. 236; LIII, coll. 361-362; LIV, col. 80 e col. 198; LVI, col. 405 (ma informazioni su banchetti sono reperibili in molti altri passi dei Diarii). Cf. Bartolomeo Cecchetti, La vita dei veneziani nel 1300, "Archivio Veneto", n. ser., 30, 1885, pp. 77-78; Arte della cucina. Libri di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini, dal XIV al XIX secolo, a cura di Emilio Faccioli, I, Milano 1966, pp. 398, 403, 406; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 389-392, 493-495; Ivano Paccagnella, Cucina e ideologia alimentare nella Venezia del Rinascimento. Appunti da fonti letterarie, in Civiltà della tavola dal Medioevo al Rinascimento, a cura di Agostino Pertusi-Gherardo Ortalli-Ivano Paccagnella, Vicenza 1984, pp. 37-65.
92. Si vedano, ad esempio, le procedure per le nozze tra Vienna Gritti, nipote del doge Andrea, con Polo Contarini quondam Zaccaria, 14-25 gennaio 1525; o il parentà della figlia di Zuan Francesco Morosini quondam Piero con Anzolo Badoer di Piero, 12 aprile 1526 (M. Sanuto, I diarii, XXXVII, coll. 440-441, 445, 470-471, 473-476; XLI, col. 167). Cf. F. Sansovino, Venetia, I, pp. 401-402; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 331-335.
93. M. Sanuto, I diarii, IV, col. 121, 26 settembre 1501. Questo divieto intendeva impedire al doge di ricevere, sotto varie forme, gesti di omaggio personale da parte di membri del patriziato, come era stato solito fare l'allora appena defunto doge Agostino Barbarigo.
94. Ibid., XL, col. 710. Le nozze patrizie, infatti, erano affare che riguardava la collettività tutta: cf. F. Sansovino, Venetia, I, p. 401.
95. M. Sanuto, I diarii, LVII, coll. 525-526; cf. P. La Rocca, "Né altro fu fatto che balar", p. 44.
96. Facevano eccezione quelli che avevano luogo in Canal Grande, all'interno di strutture galleggianti che consentivano al pubblico di ammirare quanto si svolgeva all'interno: cf. M. Sanuto, I diarii, LIII, col. 229, 29 maggio 1530 (nozze della figlia di Piero Diedo quondam Francesco con Antonio Marcello di Girolamo).
97. Le notizie sulla famiglia Freschi sono tratte da Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 165 (= 8867), Memorie dell'illustre famiglia de' Freschi (e cf. J. Morelli, Delle solennità, pp. 20-30). Per le nozze del "popular" Hieronimo Garzoni v. M. Sanuto, I diarii, LVIII, col. 133, 5 maggio 1533.
98. Come avveniva il 9 febbraio 1525 per le nozze tra Filippo Contarini quondam Zaccaria e la figlia di Antonio da Pesaro: M. Sanuto, I diarii, XXXVII, col. 549.
99. Parte di essa - oro e monete per un totale di 4.000 ducati veniva - messa in mostra nel corso di una festa per nozze da Lezze-Contarini, a San Polo. "Et è ben fato, ch'il pol far", commentava il Sanudo (I diarii, VII, col. 161, 14 ottobre 1507).
100. Ibid., VI, col. 437, 4 ottobre 1506.
101. Ibid., VII, col. 60, 29 aprile 1507 (per trasgressioni o deroghe, XIII, col. 428, 1° febbraio 1512, e XIV, col. 325, 14 giugno 1512; per un delitto commesso a una festa nuziale sotto la protezione della maschera, XXIV, col. 289, 24 maggio 1517).
102. Al quale, verosimilmente, l'estrema vecchiezza che di lì a due giorni lo avrebbe condotto a morte non aveva concesso lucidità sufficiente per do-mandarsi se davvero, come sosteneva il Sanudo, questa recita fosse "cossa molto discoreta da far davanti la Signoria" (ibid., XXXIV, col. 124, 5 maggio 1523; cf. G. Padoan, La commedia, pp. 409-410).
103. M. Sanuto, I diarii, XI, col. 812, 13 febbraio 1511; XII, col. 139, 28 aprile, e col. 303, 28 luglio 1511 (cf. col. 11, 2 marzo, e col. 16, 3 marzo 1511); XIII, col. 428, 1° febbraio 1512. Nel 1513 la guerra avrebbe indotto un'altra Freschi, Isabetta, a rinunciare per le sue nozze alla pubblica pompa, ma non a un allegro convito con la partecipazione di maschere allusive a varie professioni o condizioni.
104. Ibid., VIII, col. 497.
105. Su questo argomento, fondamentale G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe. Si veda anche Stella M. Newton, The Dress of the Venetians, 1495-1525, Aldershot 1988.
106. Mary M. Newett, Canon Pietro Casola's Pilgrimage to Jerusalem in the Year 1494, Manchester 1907, pp. 339-341; flagrante, da parte dei Dolfin - i quali, peraltro, si erano astenuti dall'offrire rinfreschi agli ospiti - il reato di trasgressione alle leggi emanate nel 1476 e nel 1489 (G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, pp. 239-240. I "parti delle donne" sarebbero stati segnalati come occasioni di lusso smodato in un decreto del senato del 1535: ibid., p. 203).
107. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, p. 108; ma assai più preciso Stanley Chojnacki, Marriage Legislation and Patrician Society in Fifteenth-Century Venice, in Law, Custom and the Social Fabric in Medieval Europe. Essays in Honor of Bryce Lyon, a cura di Bernard S. Bachrach - David Nicholas, Kalamazoo (Michigan) 1990, pp. 163-184. V. anche Id., Dowries and Kinsmen in Early Renaissance Venice, "Journal of Interdisciplinary History", 5, 1975, pp. 571-600.
108. M. Sanuto, I diarii, IV, col. 745, 19 febbraio 1503; XII, col. 11, 2 marzo 1511.
109. Ibid., LIV, col. 304, 18 febbraio 1531, e LVII, coll. 494 e 526, 8 e 16 febbraio 1533. Nel 1523 Si apprezzava l'intransigenza con cui Andrea Gritti imponeva di cambiarsi d'abito a una nipote andata a Palazzo a congratularsi con lui per la sua elezione a doge "vestita d'oro [...> contra le leze" (ibid., XXXIV, col. 159, 21 maggio 1523; v. anche XXIV, col. 341, 9 giugno 1517; XXXIII, col. 552, 25 dicembre 1522; LVI, coll. 92-93, 22 aprile 1532).
110. Il 5 ottobre 1507 venivi trovata sulle scale di palazzo Ducale una lettera anonima, indirizzata al doge, in cui si denunciavano per abituale violazione delle leggi suntuarie, e specialmente per l'uso illegale di "manege grande", tre patrizie, una Soranzo, una Emo e una Cappello (ibid., VII, col. 158).
111. Il testo del decreto è riportato in Giuseppe Nicoletti, Intorno alla acconciatura del capo e calzature delle donne veneziane, Venezia 1884, pp. 23-27. Tale moda sopravvisse tuttavia fino al primo secolo XVII (ibid., p. 14).
112. M. Sanuto, I diarii, LIII, coll. 55-60
113. Cf. Id., De origine, p. 23. Degni di "ogni gran Reina" i gioielli che nel 1442 figuravano nel corredo nuziale di Lucrezia Contarini (P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, p. 390). Nel 1497 un viaggiatore tedesco vedeva indosso alla giovane e bella sposa di un ricco cittadino gioie per l'incredibile valore - così gli assicurava una persona competente - di seicentomila ducati (Viaggio in Italia nel MCDXCVII del cav. Arnolfo di Harff di Colonia sul Reno, con introduzione e note di Alfred Reumont, "Archivio Veneto", 11, 1876, pp. 402-403 [pp. 124-146, 393-407>).
114. Citato da G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, p. 186.
115. Si trattava in realtà di moda tedesca, giunta a Venezia circa un decennio dopo il suo primo affermarsi oltralpe. V. S.M. Newton, The Dress, pp. 37-41, e cf. M. Sanuto, I diarii, VIII, col. 163, 4 maggio 1509, e XLI, col. 307, 10 maggio 1526.
116. V. M. Sanuto, I diarii, XXI, col. 411, 21 dicembre 1515 ("festizuola" organizzata da Zorzi Corner procurator per onorare Carlo di Vendôme) e XXIV, col. 341, 9 giugno 1517 (nozze Foscari-Grimani, con partecipazione di otto pellegrini in partenza per la Terrasanta "uno di quali è nepote dil duca di Saxonia"). Cf. G. Bistori, Il Magistrato alle Pompe, p. 35.
117. M. Sanuto, I diarii, LIV, in particolare coll. 60-63, 66-67, 81.
118. Cesare Vecellio, Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo. Di nuovo accresciuti di molte figure, Venetia 1598, p. 109r; notizie sulla moda veneziana del Rinascimento si traggono in particolare dalle pp. 49v-59r, 62v-118r di quest'opera. V. inoltre M. Sanudo, De origine, pp. 22-23; M. M. Newett, Canon Pietro, pp. 144-145; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 370-398, e II, pp. 276-312; Rosita Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, II-III, Milano 1964-1966, passim; Jacqueline Herald, Renaissance Dress in Italy 1400-1500, London-New Jersey 1981, passim; Stella M. Newton, The Dress; Profumi e cosmesi nella Venezia del '500, a cura di Bepi Monico - Giuliana Grando, Venezia 1985; Achille Vitali, La moda a Venezia attraverso i secoli. Lessico ragionato, Venezia 1992, passim.
119. Contrassegnata dall'accesso al maggior consiglio, che normalmente aveva luogo a venticinque anni. Portavano la vesta anche i cittadini; nel loro caso, era la famiglia a decidere quando fosse venuto il momento di farla indossare al giovane (cf. Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, p. 80).
120. M. Sanuto, I diarii, III, col. 558, 29 luglio 1500, e LVI, col. 376, 9 giugno 1532, riferisce come due capitani generali da mar vestissero di cremexin alla cerimonia di consegna dello stendardo.
121. Sul colore verde: ibid., III, col. 95, 31 gennaio 1500, ritiene degno di nota il fatto che un avvocato recentemente morto fosse solito andare "vestito di verde"; J. Herald, Renaissance Dress, pp. 120 e 122, ricorda come nella Milano e nella Venezia del secolo XV il verde scuro potesse essere anche un colore da lutto. Sul colore giallo: M. Sanuto, I diarii, IV, col. 291, registra che il 30 luglio 1502 un popolare che prostituiva la moglie veniva portato in giro per la città a dorso d'asino, vestito di giallo, in testa una corona ornata di corna; e nel 1562 l'uso di un velo giallo sarebbe stato imposto alle meretrici (R. Levi Pisetzky, Storia, III, p. 223). Sul beretin: M. Sanuto, I diarii, XXX, col. 480, 6 luglio 1521, e cf. XXXI, col. 28, 9 luglio 1521, tramanda ai posteri la stravaganza di Vincenzo Grimani che, per voto, vestiva completamente di beretin e perfino in occasione dell'elezione del padre Antonio al dogado aveva rifiutato di "meter vesta di color".
122. Nei Diarii non si contano le ammirate descrizioni dell'abbigliamento del Gritti. V. anche F. Sansovino, Venetia, I, p. 472, ove si indica inoltre Nicolò Marcello, eletto nel 1473, come il primo doge a vestirsi completamente d'oro; ma fin dal sec. XIII era uso che il doge possedesse una veste di panno d'oro (G. Fasoli, Liturgia, p. 271).
123. È pur vero che certi senatori potevano dimostrarsi indegni di tale segno di distinzione: come quelli che, invitati nell'ottobre 1530 a una colation in onore del duca di Milano, facevano delle loro ampie maniche un uso del tutto improprio riempiendosele "di confezion con vergogna grande de chi li vedeva". V. per questi episodi M. Sanuto, I diarii, XXIX, col. 630; LIV, col. 81.
124. Come nel caso di Bertucci Zorzi quondam Marco, un altro sordido avaraccio ("mai si vedeva con una bona vesta, né spendeva un soldo et cumulava danari") che si faceva chiamare "monsignor" pur non avendo benefici ecclesiastici di sorta (ibid., XXXV, col. 190, 13 novembre 1523).
125. Non sfuggiva al curiosissimo e meticoloso Marin Sanudo quanto un "becho [stola> di panno negro" stonasse sulla vesta di scarlatto di un procuratore: ibid., LVI, col. 242, 21 maggio 1532.
126. Questi vestivano tutti di scarlatto alla messa di Pentecoste del 1509, in segno di "gran mesticia" per la recentissima disfatta di Agnadello: ibid., VIII, coll. 372-373.
127. Entrambi questi colori si potevano però indossare anche in circostanze liete, quali le nozze: cf. ibid., XXXVII, col. 445, 16 gennaio 1525.
128. Ibid., III, coll. 47, 315, 554; IX, col. 358. Secondo quanto si può dedurre dalle testimonianze del diarista, i condannati a morte vestivano in genere, ma non necessariamente, di nero o di bianco (spesso una camicia e in capo una scuffia); i piedi potevano essere calzati o nudi.
129. Venezia nel MCDLXXXVIII, pp. 89 e 93.
130. I decreti dell' 11, marzo 1480 e del 13 aprile 1513, che punivano con 100 ducati di multa l'uso di questa acconciatura (pene più pesanti erano comminate se la colpevole era una prostituta), sono riportati da G. Nicoletti, Intorno alla acconciatura, pp. 19-22. Nel 1494 il Casola vedeva gran quantità di capelli finti messi in vendita da contadini in piazza San Marco, e precisava che le donne se ne servivano per un'acconciatura che le rendeva simili a uomini (M. M. Newett, Canon Pietro, p. 144). Cf. Giovanni Grevembroch, Gli abiti dei veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, III, Venezia 1981, p. 112; Guido Ruggiero, I confini dell'eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Venezia 1988, pp. 198-199. Sul "terrore generato dal ribaltamento dei ruoli e delle posizioni" nella società rinascimentale v. Maria Giuseppina Muzzarelli, "Contra mundanas vanitates et pompas". Aspetti della lotta contro i lussi nell'Italia del XV secolo, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 40, 1986, p. 375 (pp. 371-390)
131. A patto, ovviamente, che a portarle non fossero religiose insofferenti della regola: nel 1525 il patriarca Girolamo Querini, scoperta una monaca della Celestia "con drezuole [treccine> in testa di cavelli", provvedeva di persona a tagliargliele (M. Sanuto, I diarii, XXXIX, col. 345. Cf. XV, col. 543, per un'altra monaca insubordinata del monastero di San Biasio, che nel febbraio 1513 indossava "una peliza damaschin bianco fodrà di martori").
132. Per spose con bareta v. ibid., VI, col. 535, 23 gennaio 1507, e XXIII, col. 526, 24 gennaio 1517; una "zoia [ghirlanda> di seda" dalla quale pendevano "zoie e perle" portava il 18 febbraio 1531, giorno delle sue nozze, la figlia di Zuan Francesco Loredan quondam Marco Antonio (ibid., LIV, col. 304).
133. Ibid., XX, coll. 222-223, 22 maggio 1515 (una figlia di Alvise Rizzo, scrivano alla messetaria, andata sposa in quell'anno al patrizio Alessandro Querini quondam Giacomo, portava nei capelli "fil d'oro da filar e una zoia di foie di provincha [pervinca>"); XL, col. 425, 6 dicembre 1525.
134. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, p. 387.
135. M. Sanuto, I diarii, XXXVI, coll. 119, 121, 572. Cf. S.M. Newton, The Dress, p. 144.
136. M. Sanuto, I diarii, LIII, col. 42, 7 marzo 1530. La lettera (di Paxin Berecio, al seguito dell'ambasciatore veneziano Nicolò Tiepolo) parla di "bionda de calzina", e i gusci d'uovo calcinati erano un ingrediente di una delle tante ricette proposte a questo fine dalla cosmesi cinquecentesca (si veda Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. III. 9 (= 5221), Ricettario, sec. XVI, c. 53). Allo stoicismo delle Veneziane rende il giusto tributo Cesare Vecellio, spiegando che "tutte, o la maggior parte delle donne di Venetia si fanno biondi li capelli" stando sedute nelle "altane" - le logge di legno scoperte sovrastanti i tetti delle case - "sul colmo del gran calore del sole, sopportando molto per questo effetto" (C. Vecellio, Degli habiti, p. 113).
137. Viaggio in Italia, p. 403.
138. Ricettario, c. 54r-v. Questo prontuario spazia dal-l'economia domestica alla profumeria alla medicina, arrivando a suggerire ricette davvero preziose come A far che 'l marito ami la moglie, o A far parer vergine la donna che non sia.
139. Sono ipotesi avanzate da Stanley Chojnacki, The Power of Love: Wives and Husbands in Late Medieval Venice, in Women and Power in the Middle Ages, a cura di Mary Erler - Maryanne Kowalewski, Athens-London 1988, p. 131, e da G. Scarabello, Le dogaresse, p. 174.
1140. M. Sanuto, I diarii, XIV, 24 marzo 1512.
1141. Così E. Muir, Il rituale, p. 343. V. anche le osservazioni di M. Casini, I gesti, pp. 237-238.