CERRINI, Gian Domenico, detto il Cavalier Perugino (o Giovan Domenico Perugino)
Nato a Perugia il 24 ott. 1609 da Francesco di Giovan Battista e "Orsolina sua consorte", fu battezzato, il 30 dello stesso mese, nella cattedrale di S. Lorenzo (Perugia, Archivio capitolare, Libro dei battesimi, 1606-1627, c. 42v).
Il Pascoli (1730, p. 52) riferisce che il C. ebbe la sua prima educazione alla scuola di Gianantonio Scaramuccia, presso il quale rimase non poco tempo prendendo pratica nel disegno, esercitandosi nel "colorire, e copiare" e facendo "qualche operetta d'invenzione". Se si accoglie come valida la notizia - anch'essa riportata dallo scrittore, ma certo abbastanza discutibile - che il C. dopo questo discepolato decise di trasferirsi a Roma, alla scuola di Guido Reni, bisogna ammettere che l'artista sia entrato in contatto con il maestro anteriormente al 1627, anno in cui il pittore bolognese, contrariato per la vicenda di S. Pietro (gli affreschi con le Storie di Attila commissionati dal cardinale Barberini), abbandonò d'improvviso la città.
D'altra parte, se si fosse verificato un reale rapporto con Guido Reni, G. P. Bellori, molto attento nelle sue Vite nel ricordare i seguaci del bolognese, non avrebbe taciuto del C., da lui conosciuto con sicurezza, come dimostra l'accenno ai suoi dipinti (Nota delli musei ... [1664], a cura di E. Zocca, Roma 1976, p. 49) presso la casa di un tale Simone Ruggeri. La Borea, al cui saggio ci si riferisce anche per dati bibliografici, ha giustamente rilevato gli anacronismi delle fonti.
Se non è facile ipotizzare un contatto diretto con il Reni, al contrario ammesso dalle fonti (Orlandi e Pascoli), è innegabile riconoscere nel C. un legame con la visione classicistica che muove dalle esperienze dei bolognesi; d'altro canto è importante rilevare che la prima formazione di questo artista avviene in ambito perugino a contatto con Gianantonio Scaramuccia, allievo di Annibale Carracci e amico molto stretto di Guido Reni (Pascoli, 1732, p. 180).
L'evidente interesse del C. per gli esempi pittorici di questi artisti non preclude tuttavia la sua ricerca verso altre esperienze figurative, dalla maniera statuaria ed imponente delle forme di Cristoforo Roncalli - anche egli maestro di Scaramuccia - ai sentiti valori chiaroscurali di alcune opere del Lanfranco, dal moderno classicismo di A. Sacchi al cortonismo riformato del Romanelli.
Sconosciuta è per ora la produzione degli esordi pittorici del Cerrini. Il dipinto che si pone ad apertura del catalogo delle opere dell'artista - ordinato - recentemente dalla Borea con alcune importanti integrazioni - è la pala d'altare del transetto destro di S. Maria in Traspontina a Roma, raffigurante l'Apparizione della Trinità a s. Maria Maddalena de' Pazzi, databile, per la presenza di un'iscrizione sul pilastro destro dell'altare che ne ricorda l'anno di costruzione, al 1639.
Non è infatti accettabile la proposta avanzata da A. Muñoz (in G. Giovannoni, S. Agata dei Goti, Roma 1924, pp. 157-160), e respinta giustamente dal Longhi (1925), che appartengano alla mano del C. gli affreschi del catino absidale e le grandi tele di navata della chiesa di S. Agata dei Goti a Roma, databili su basi documentarie al 1633-36. Queste opere sono infatti da ricondurre al perugino P. Gismondi, artista di educazione cortonesca, che le eseguì - come si legge anche nel Pascoli - "d'ordine del cardinal Barberini".
La prima opera sicura del momento romano del C. resta dunque la tela in Traspontina dove l'artista, lungi dall'adottare quel terso e smaltato cromatismo alla maniera del Sassoferrato (Voss) caratteristico della più tarda produzione, introduce effetti di luminismo suggeriti dall'esperienza del Lanfranco (più che da quella del Guercino: Waterhouse, 1937, p. 52), in un contesto che risulta determinato da un evidente intento combinatorio di motivi tardomanieristici, non lontani dai modi del Pomarancio, e di aspetti stilistici e tipologici (ad esempio, i vecchi in primo piano) desunti dal repertorio di Andrea Sacchi. Queste stesse componenti figurative si ritrovano in due tele del C. nella chiesa di S. Carlino alle Quattro Fontane, documentate al 1642 e al 1643 (Pollak). Raffiguranti S. Orsola e l'Apparizione della Sacra Famiglia alle ss. Caterina e Agnese (ill. in L. Mortari, in Mostra di restauri 1969, Roma 1970, pp. 26 s.), queste opere illustrano chiaramente lo sviluppo pittorico del C. nel senso di un distacco molto più netto dai modi del classicismo di Guido Reni per un più aperto apprezzamento tipologico delle morbide forme del Romanelli.
A un momento stilistico non lontano (1640-45: Waterhouse, 1937, p. 52) appartiene l'Assunta della Chiesa Nuova (cappella Spinelli), creduta di Aurelio Lomi, ma in seguito giustamente ricondotta (Longhi) alla mano dell'artista perugino.
Al fallito tentativo di ottenere l'ambita commissione di una tela per la basilica romana di S. Pietro (1644: Pollak), segue l'incaricò di realizzare (1650) la pala dell'altar maggiore per la chiesa di S. Carlo al Corso (S. Carlo Borromeo che prega per la liberazione dalla peste).Rimossa dalla sede originaria nell'ultimo quarto del Settecento, questa tela, in seguito dispersa, si conosce oggi da un'incisione ritenuta opera del Maratta (fig. 8, in Borea, e ibid., n. 26), e da un disegno autografo del C. conservato nel Gabinetto degli Uffizi (R. Roli, I disegni ... del Seicento..., Treviso 1969, p. 141). Il dipinto, come l'altro pure disperso (Riposo dalla fuga in Egitto), noto da un'incisione di G. B. Benaschi (1652), doveva documentare molto bene l'attività matura del C., quando la suggestione del classicismo - pur presente nei tagli compositivi, nel disegno assai nitido delle forme e in alcune ricorrenti connotazioni dei tratti fisionomici delle figure - trova un deciso superamento, ma non a favore del cortonismo, nel vibrante grafismo dei panneggi e nei mobili valori della luce.
Di natura stilistica molto affine e per questo forse contemporanei, i due quadri con il Martirio di s. Sebastiano della Galleria Colonna di Roma e del Musée d'Art et d'Histoire di Ginevra, simili nell'impianto compositivo, ma diversi nella posa delle figure, rappresentano il momento culminante del percorso pittorico del C. e pongono l'artista perugino accanto ai maggiori rappresentanti della cultura romana di metà secolo, che è caratterizzata da uno spirito indipendente, alieno da vincolanti riferimenti alle tendenze artistiche dominanti (Borea). Appartengono ancora a questa fase il S. Giovanni Battista della chiesa di S. Angelo Magno ad Ascoli Piceno, eseguito a Roma e inviato nella città marchigiana, come risulta dall'atto di acquisizione, nel 1656 (Fabiani); la tela della chiesa di S. Egidio, sempre ad Ascoli Piceno, con la Madonna in gloria e s. Pietro (Lazzari, Orsini); l'Apparizione di Gesù Bambino a s. Antonio da Padova nella cappella Gaetani in S. Isidoro a Roma (1655-56: Quinn, Daly); il David della Galleria Spada, del quale è ignota la datazione, ma che si può comunque collocare, per i forti contatti che presenta con il Battista di Ascoli Piceno, in questo stesso momento cronologico.
La lunga permanenza del C. nell'ambiente artistico romano si interrompe - sia pure per pochi anni - in seguito alla decisione del pittore di trasferirsi per qualche tempo a Firenze. Stando ai dati documentari che fissano il soggiorno fiorentino tra il 1656-57 e il 1661, è evidente che questo trasferimento, ponendosi in diretta continuità con il periodo romano che lo precede, esclude il frapporsi di una parentesi trascorsa, secondo il Pascoli, a Perugia.
D'altra parte, se è difficile sostenere che il soggiorno perugino dell'artista possa essersi concluso in pochi mesi, essendo tuttora numerosi i documenti di questa permanenza, è pur chiaro che le opere "perugine", connotandosi di caratteri singolari che non sono facilmente riconducibili a questo momento cronologico, appartengono quasi sicuramente a una fase stilistica più avanzata.
La produzione fiorentina del C. si svolge in prevalenza su commissione di esponenti della famiglia dei Medici (Mattia, Leopoldo, Ferdinando), per i quali - come appare dai documenti - l'artista esegue non pochi quadri, che oggi, dopo un'attenta ricognizione, sono stati - se pure in parte - identificati (Borea). Sono infatti di mano dell'artista, e in tutto rispondenti alle descrizioni che ne danno gli inventari di casa Medici, il Mosè ed Aronne dell'Accademia Petrarca di Arezzo, opera in cui il pittore sembra orientarsi - forse anche per esprimere il suo dissenso dal dominante fenomeno del cortonismo - verso un recupero dei modi di Andrea Sacchi, il Giuseppe che interpreta i sogni della collezione V. Spark di New York, riconosciuto come autografo dal Longhi nel 1925, il S. Girolamo della certosa di Firenze, tra i dipinti più fini ed accurati del momento maturo dell'artista, il Mosè conle tavole della legge, il S. Bernardo e l'Agar con l'angelo nei depositi delle Gallerie di Firenze, la Sacra Famiglia con s. Elisabetta nella chiesa dei SS. Mario e Cirillo a Pian degli Ontani presso Pistoia, replica con alcune varianti delle tele di analogo soggetto di Potsdam (Sans-Souci) e di Perugia (chiesa di S. Pietro e Galleria nazionale dell'Umbria).
Altre opere spettanti al C. sono inoltre conservate a Firenze, come la lunetta del chiostro di S. Spirito, raffigurante S. Agostino che onora la Fede con le sue opere, un tempo attribuita a Paolo Gismondi (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, IX, 1, Firenze 1761, p. 55; W. e E. Paatz, Die Kirchen von Florenz, Frankfurt 1953, p. 149), ma in seguito ricondotta dalla critica al nostro artista sia sulla base di un documento (Borea, p. 21), sia per lo stile del tutto proprio al linguaggio pittorico del C. (Borea); la Portatrice di uova della Galleria Corsini, antica ma accettabile attribuzione (Medici, 1880) confermata dal Voss nel '24; la Sacra Famiglia con s. Elisabetta, giànella raccolta Feroni, ora nei depositi degli Uffizi. Si trovavano inoltre nella città, oggi purtroppo non rintracciabili, altre tele documentate del C. tra cui un Caino ed Abele, una Carità romana, un Eraclito e Democrito, un Tempo che scopre la Verità. A un esame complessivo di questa fase si nota che le opere del C., per quanto risultino caratterizzate da aspetti e tendenze non uniformi, hanno come dato che le accomuna un aperto ed insistito riferimento ai modelli del classicismo bolognese, un essenziale schematismo disegnativo, una visione del tutto purificata da ogni reminiscenza barocca. In sostanza, si delinea nel C. l'atteggiamento di un recupero consapevole - forse anche per polemico contrapposto con le scelte adottate dal Berrettini - del linguaggio limpido e unitario della più schietta tradizione del classicismo.
Questo aspetto arcaizzante del C., che, accanto a un cromatismo limpido e terso, è il carattere più vistoso e singolare della tarda produzione dell'artista, impronta in misura considerevole anche il gruppo di opere perugine, per il quale si potrebbe ipotizzare un momento cronologico non distante dal 1661 che è l'anno in cui il C. lascia Firenze, nuovamente diretto verso Roma. L'attivo soggiorno perugino è provato dal numero di dipinti (per gran parte oggi non reperibili) ricordati nelle guide della città (Orsini, Siepi) e da tre tele ancora conservate di cui due nella chiesa di S. Pietro (Vergine col Bambino e S. Giovanni Battista)ed una nella Galleria nazionale dell'Umbria (Sacra Famiglia con s. Elisabetta).
Tra le opere citate dalle fonti (una Carità in palazzo Ansidei, un S. Sebastiano in casa degli Azzi, dei "quadri ovali con mezze figure degli eroi e delle eroine del testamento vecchio" in palazzo Baldeschi, una Maddalena in palazzo Crispolti, una tela di identico soggetto in palazzo Penna, un "ritratto" nella casa degli Oddi, un dipinto di soggetto non precisato nell'appartamento del conte Sperello Aureli), una prima proposta di identificazione è stata recentemente avanzata (Borea) per il "ritratto" di casa degli Oddi; per esso, oggi conservato in una collezione privata di Firenze, è stata supposta tuttavia - sulla base di confronti stilistici con il ritratto di ignoto gentiluomo che compare in una tela del C. raffigurante l'Allegoria della pittura (Bologna, Pinacoteca nazionale: Riccomini, 1971; Borea, ill. n. 10) - una datazione non distante dal 1650-55, anteriore, cioè, al soggiorno fiorentino dell'artista.
Un altro tentativo di identificazione potrebbe a nostro avviso essere fatto per i due dipinti raffiguranti la Maddalena dei palazzi Penna e Crispolti; c'è ragione di ritenere - dato anche il legame stilistico con le altre opere perugine - che le due tele di analogo soggetto dei musei del Prado e del Louvre, riconosciute come autografe del C. rispettivamente dal Voss (1924) e dal Longhi (1925), provengano da queste collezioni.
Il periodo perugino dell'artista si protrae non oltre il 1661-62, se nel 1663 la grande impresa decorativa della cupola di S. Maria della Vittoria a Roma risulta interamente completata (Mola, Martinelli). Quest'opera, che segna la ripresa della seconda permanenza del C. nell'ambiente artistico romano, illustra in termini molto chiari l'orientamento stilistico del pittore nella fase finale del suo percorso. Gli affreschi della cupola di S. Maria della Vittoria confermano infatti la tendenza, espressa anche in precedenza, a risolvere in termini originali e con esiti spesso alternativi il rapporto con le maggiori affermazioni della cultura pittorica contemporanea.
La decorazione della cupola della Vittoria, raffigurante l'Assunzione di s. Paolo, con preciso valore di richiamo al più antico edificio lì esistente (S. Paolo al Quirinale), non si pone infatti in relazione - ma nemmeno, diremmo, in concorrenza - con le analoghe imprese decorative del Lanfranco a S. Andrea della Valle o del Cortona a S. Maria in Vallicella. Essa è piuttosto il risultato di una scelta stilistica singolare che trova, senza essere innovatrice (giustamente è stato detto - Borea - che in questo affresco il C. realizza volutamente "una specie di antologia di se stesso"), la strada di una valida alternativa ad un semplice schieramento nelle correnti; fatto questo di cui l'artista è consapevole quando scrive in una lettera del 17 luglio 1666 (in Borea, p. 22), a un "principe" di casa Medici, di aver rischiato addirittura di "essere amazato dai miei nemici" a causa delle pitture di questa cupola; l'opera tuttavia dovette essere accolta con successo se, come scrive l'Orlandi, ne furono scritte "varie poesie in lode".
L'estrema attività, che si svolge in prevalenza a Roma (il Pascoli è il solo a ricordare un suo breve soggiorno napoletano del quale non si hanno testimonianze), è attestata dalla pala d'altare raffigurante un Miracolo di s. Biagio, untempo nell'omonima cappella della chiesa di S. Carlo ai Catinari, ora sopra la porta della sagrestia (1669 circa: Cacciari, Ortolani), e dalla tela tuttora conservata nella chiesa del SS. Sudario dei Piemontesi raffigurante il Beato Amedeo inginocchiato di fronte alla Vergine, commissionatagli verso il 1667 in occasione della causa di beatificazione di Amedeo IX di Savoia (Vichi, 1970).
Le due opere, entrambe caratterizzate nel calibrato impianto compositivo, nei valori cromatici molto tersi e nei caratteri tipologici delle figure da un chiaro accostamento stilistico al moderno linguaggio del Maratta confermano la tendenza dell'artista ad orientarsi, fin dal periodo fiorentino, verso il recupero di aspetti classicistici.
Per questo, opere del C. mancanti di un riferimento cronologico come la Venere ed Anchise di Berlino (Bode Museum), il Cristoe la samaritana della Galleria nazionale d'arte antica di Roma, la Liberazione di s. Pietro della Gall. Pallavicini a Roma, l'Allegoria della Pittura di coll. priv. mantovana (Borea, ill. n. 23), il Tempo e la Bellezza del Prado, la Fortuna della Gemäldegalerie di Kassel, proprio in quanto caratterizzate da ritmi disegnativi vibranti (soprattutto nella resa delle vesti) e da motivi pittorici che rivelano una maggiore apertura verso il barocco, crediamo si debbano collocare non tanto nel periodo conclusivo dell'esperienza pittorica dell'artista - come è stato di recente ipotizzato (Borea) - quanto invece in un momento precedente, anteriore a quello fiorentino. A questo stesso gruppo di dipinti sembra essere stilisticamente vicino un disegno attribuibile al C., raffigurante Tobia e l'angelo, conservato nel Gabinetto disegni e stampe dell'Accademia di Belle Arti di Perugia (Cento disegni dell'Accademia di Belle Arti di Perugia... [catal.], Roma 1977, pp. 48 s.), probabile studio preparatorio per la tela di identico soggetto della chiesa di S. Francesca Romana a Roma, attribuita all'artista dal Waterhouse (1976, p. 63).
Il C. morì a Roma il 30 apr. 1681, e fu sepolto nella chiesa di S. Salvatore in Campo (Roma, Arch. storico del Vicariato, S. Salvatore in Campo,Morti, 2, c. 51). Dagli Stati d'anime della stessa parrocchia risulta che dal 1680 il C. abitava in piazza Trinità dei Pellegrini con una giovane moglie fiorentina (Vittoria Panatici o Parratici) di trentun anni e la di lei sorella, zitella. Secondo le fonti il C. avrebbe avuto due fratelli: uno, il minore, Luigi, anch'egli pittore (Thieme-Becker); l'altro, di nome Giantommaso, commerciante di gioielli (Pascoli).
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