Cesare Baronio
«Formidabile […] autore di un’opera che è presente in tutte o quasi tutte le […] biblioteche» (Cantimori 1975, p. 272), campione di una ricostruzione del passato priva di orpelli, tesa a esaltare la superiorità dei papi e la continuità apostolica, Baronio fu controversista e cultore di antiquaria, revisore di cronologie, editore di fonti e polemista convinto di difendere la verità cattolica che ai suoi occhi coincideva con quella storica. Discussi sin dalla loro apparizione, oggi è utile chiedersi fino a che punto gli Annales si pongano in continuità con il metodo umanistico, quanto abbiano contribuito alla nascita della storia ecclesiastica e religiosa cent’anni prima del bollandismo e quanto a stabilire l’egemonia della storia sacra su quella civile nell’età barocca italiana. Il monumento di Baronio, in ogni modo, fu una pietra miliare della Controriforma e uno snodo nel percorso che porta alle indagini filologiche di Ludovico Antonio Muratori e alla storiografia erudita europea.
Cesare Baronio nacque la notte tra il 30 e il 31 ottobre 1538 a Sora, nel Vicereame, da Camillo e da Porzia Febonia. Studiò a Veroli e, più tardi, a Napoli per poi trasferirsi a Roma, completare gli studi di diritto e intraprendere una carriera che il padre voleva mondana. Fu però folgorato dal carisma di Filippo Neri, entrò nel gruppo dei primi oratoriani e si fece sacerdote (1564). Sviluppò così una fede austera e malinconica e fu spinto a dedicarsi alla storia per tenere conferenze ai padri dell’Oratorio che, dal 1575, divennero congregazione e, nel 1577, si stabilirono alla Vallicella.
A farlo protagonista della Roma postridentina pensò Gregorio XIII che su suggerimento di Neri lo incaricò, insieme con Roberto Bellarmino e Silvio Antoniano, di rivedere il Martirologio per la riforma del calendario e della liturgia. Fu allora che mise in luce doti di storico e passione per le fonti, fino a comparire come solo commentatore e prefatore del testo. In margine a quel lavoro stilò anche la vita di Ambrogio (edita nel 1587) e di Gregorio di Nazianze (apparsa nel 1680 negli Acta sanctorum). Nel 1584 fu bibliotecario della Vallicella e nel 1593 successe al defunto Neri come prefetto dell’Oratorio. A quella data erano apparsi i primi volumi dell’Historia ecclesiastica controversa o Annales Ecclesiastici, la replica all’Ecclesiastica historia secundum centurias (1559-1574) dei teologi luterani di Magdeburgo guidati da Matija Vlačić (Flacius Illyricus). L’opera ebbe l’immediato plauso della curia romana presentandosi con i crismi dell’ufficialità.
Legato a Carlo Borromeo, ad Agostino Valier e a Guglielmo Sirleto, a cui si rivolse per avere i manoscritti e i libri (anche proibiti) della Vaticana, fondò l’Oratorio di Napoli ed entrò a far parte della curia come confessore di Clemente VIII (1594). In quella veste contribuì alle scelte del papato Aldobrandini, che si smarcò dalla Spagna e revocò la scomunica di Enrico IV di Francia, l’ex capo ugonotto convertitosi al cattolicesimo. Gli oratoriani in quel frangente non furono unanimi: e se l’amico Tommaso Bozio, penna estrema di controversista, avversò il perdono schierandosi con gli zelanti guidati da Francisco Peña, Baronio stilò un Apologeticus (Borrelli 1967, pp. 131-38) il cui contenuto fu anticipato nella dedica al papa e nel quinto volume degli Annales per poi essere difeso in un’Apologia ad Apologeticum (Borrelli 1967, pp. 142-52). Vi erano rubricati i casi di assoluzione dalla scomunica contro relapsi per supportare la soluzione adottata dal papa. Schierato dunque contro Peña, Baronio provò a censurarne i testi; lavorò all’Indice come uomo del papa e collaborò alla revisione della lista dei libri proibiti e delle regole di censura varate nel 1596; fu protonotario (1595) ed ebbe la porpora con il titolo dei SS. Nereo e Achilleo (1596), chiesa che fece restaurare, trasferendovi solennemente i corpi dei martiri e di Flavia Domitilla.
Come cardinale accompagnò il papa nella presa di Ferrara del 1598 ed entrò nella Congregazione dell’Indice e in quella dei Riti: la sede in cui contribuì a elaborare nuove procedure per le canonizzazioni e il riconoscimento dei culti tributati ai fondatori di ordini religiosi morti in odore di santità (tra cui figurava Neri). Austero nella gestione della casa (Giovanni Botero ne fece un porporato ideale in Dell’uffitio del cardinale, 1599), nel 1597 fu prefetto della Vaticana, si occupò della Stamperia e favorì la nomina di Bellarmino a cardinale (1599). Fece parte del gruppo incaricato di rivedere il Messale (1604) e intervenne nella disputa de Auxiliis contro le tesi di Luis de Molina. Tuttavia, il mancato riconoscimento nel IX volume degli Annales della tradizione che attestava per vera la predicazione di san Giacomo in Spagna, lo schierarsi con Federico Borromeo nelle dispute con il potere civile milanese, la posizione assunta nell’affare di Enrico IV e le tesi enunciate nell’XI volume degli Annales sulla monarchia sicula gli meritarono l’avversione della Spagna quando, morto Clemente VIII (1605), si fece il suo nome come papa. Pur raccogliendo decine di voti in Concistoro, gli furono preferiti prima Alessandro de’ Medici (Leone XI) e poi Camillo Borghese (Paolo V). Si difese dall’accusa di essere nemico della Spagna indirizzando una lettera a Filippo III e il nuovo pontefice lo chiamò nel gruppo incaricato di rivedere il Rituale. Fulminato l’interdetto si impegnò nella battaglia di scritti che oppose Roma a Venezia stilando una Paraenesis che ebbe ampia circolazione, fu volgarizzata da Francesco Serdonati e attaccata da Marcantonio De Dominis. Poi, logorato dall’opera che lo aveva impegnato per trent’anni, morì a Roma il 30 giugno 1607.
«Gran cronista di Dio», come lo definì Giovan Battista Marino nella Galeria (1620), Baronio fu un protagonista della controversia sul terreno della storia. La lotta religiosa del 16° sec., infatti, costrinse le Chiese occidentali ad affinare le armi critiche; e la produzione storica si moltiplicò con un maggiore scandaglio delle fonti di cui sono testimonianza la scrittura disadorna di Baronio e, sul piano teorico, il libro X dei Loci theologici (1563) di fray Melchor Cano. E se il mondo riformato si dotò di martirologi in cui rivendicò il coraggio di quanti erano periti per mano dei ‘papisti’ (si pensi al Catalogus testium veritaris di Illyricus, 1556), Johannes Molanus ripubblicò il Martirologio di Usuardo (1568), mentre Roma incaricò Pietro Galesini di stilare un nuovo testo ufficiale che, però, lasciò insoddisfatta la curia. In campo agiografico erano apparse le Sanctorum priscorum patrum vitae di Luigi Lippomano, riviste e ampliate da Laurentius Surius (1551, 1570-1577).
Ma l’impresa di depurare il Martirologio a Roma fu una fatica diversa: i papi intendevano rivendicare la continuità tra i martiri antichi e i moderni eroi della fede come prova dell’autentica Chiesa e rispondere ai riformati emendando la liturgia dagli eccessi di leggenda. Il testo della commissione incaricata di rivedere l’opera di Galesini fu ultimato nel 1584, e fu su quel lavoro collettivo che Baronio apportò le correzioni agli elogi e aggiunse le note corredandole con le fonti antiquarie e con una Tractatio che rese l’edizione del testo del 1586 un’opera baroniana come le successive rivedute e corrette (1587, 1589, 1598).
Continuò a lavorare sul Martirologio fino alla morte (alcune chiose furono integrate nell’edizione postuma del 1630 da Giacomo Volponi); ma furono gli Annales a fare di lui lo storico ufficiale di Roma. Una prima commissione incaricata di confutare i magdeburghesi fu insediata nel 1570 e vide protagonista Sirleto; tuttavia Baronio prese a lavorare alla sua opera a partire dal 1577, spinto da Neri a cui più tardi attribuì l’ispirazione e larga parte del merito. L’impresa era intentata perché né Biondo Flavio né Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, né il suo continuatore Onofrio Panvinio avevano stilato una storia della Chiesa; d’altra parte, non parvero di grande valore né l’Historia sacra (1570) di Girolamo Muzio né l’Adversus Magdeburgenses (1572) di Francisco de Torres. Ben diversa la sorte dell’Historia ecclesiastica che per incarico di Gregorio XIII il ‘laico’ Carlo Sigonio iniziò a stilare, ma abbandonò all’anno 311 perché la curia non gradì affatto la sua autonomia di giudizio e l’accuratezza filologica del testo. Pertanto la fatica di Baronio – che consultò i manoscritti di Sigonio a Roma – fu enorme, anche perché la scelta del genere annalistico comportò la necessità di concordare una cronologia che tenesse conto di testi antichi e recenti e delle edizioni dei classici e dei Padri apparse nell’ultimo secolo.
Trascorsero nove anni prima che vedesse la luce il I volume, che uscì nel 1588 coprendo la storia di Gesù e del primo secolo cristiano. Il II volume, per gli anni 100-306, apparve nel 1590; poi, con una cadenza irregolare, seguirono gli altri: il III (dal 307 fino al 361) nel 1592; il IV (dal 363 al 395) nel 1593; il V (dal 396 al 440) nel 1594; il sesto (dal 441 al 518) nel 1595; il VII (dal 518 al 590) nel 1596; l’VIII (dal 590 al 714) nel 1599; il IX (dal 715 all’842) nel 1600; il X (dall’843 all’anno 1000) nel 1602; l’XI (dal 1000 al 1099) nel 1605; il XII (dal 1100 al 1198) nel 1607.
Altri tentativi di cimentarsi con una simile impresa (come quello intrapreso da Carlo Bascapé) furono abbandonati perché lo sforzo di Baronio si impose subito. Il suo approccio alla storia, del resto, era chiaro: senza discorsi diretti né concessioni ai modelli narrativi classici esaltati dai trattatisti di ars historica, la storia profana e quella civile servivano come trama per mettere in luce il trionfo della fede sui nemici, il potere dei papi nella sfera spirituale e temporale e la continuità della Chiesa di Roma con il mandato apostolico. E se per i centuriatori l’argomento dell’antiquitas era da rigettare, per Baronio fu dirimente quanto la scelta dei testimoni e delle fonti.
Nell’Ordo, qui servandus proponitur in historia ecclesiastica pervestiganda (1587 ca., ora edito in Zen 1994, pp. 347-54), l’oratoriano provò una prima periodizzazione dell’era cristiana ed elencò gli autori affidabili (come poi farà per tutti i libri Antonio Possevino nella Bibliotheca selecta, 1593). Per i secoli fino a Costantino tale lista comprendeva Eusebio, Giuseppe Flavio, Filone di Alessandria, Damaso, Egesippo, Teodoreto; per il 4° sec., e fino a Teodosio II, Rufino, Severo Sulpicio, Orosio, Girolamo, Socrate Scolastico, Cassiodoro e i profani Zosimo e Ammiano Marcellino; per gli anni fino all’impero di Maurizio (6° sec.), Procopio, Gregorio di Tours, Paolo Diacono, Niceforo Callisto, Isidoro; fino alla morte di Carlo Magno, Beda, Reginone, Sigeberto, Mariano Scoto, e per la parte orientale della cristianità (distinta dalla translatio Imperii in poi) Niceforo Gregora e Leonzio Scolastico. Per le crociate la fonte è Guglielmo di Tiro, per i sassoni Martino Polono e Saxo Grammaticus; per l’Europa del Nord Olaus Magnus; per la Gran Bretagna Polidoro Vergilio; per Venezia Marco Antonio Sabellico, e così via.
Un testo era tanto più attendibile quanto più vicino ai fatti che narrava; ma le cronache non bastavano e occorreva ricorrere alle fonti conciliari manoscritte e alle epistole che per Baronio erano il documento più importante. Conoscendo i suoi limiti, come la mancata conoscenza del greco, egli si affidò all’aiuto di uomini come Alvise Lolin, Jacques Sirmond e Sirleto, che gli fornì la traduzione di manoscritti vaticani pubblicati per la prima volta negli Annales. E non mancò il soccorso di revisori che Baronio individuò nella cerchia oratoriana a Roma e Napoli: Antonio Talpa, Tommaso Galletti, Giovenale Ancina e Camillo Severini (gli fu invece ostile Antonio Gallonio). Gli Annales, inoltre, lo misero in contatto con eruditi di ogni parte d’Europa: Jean Papire Masson (l’autore degli Annales Francorum, 1577, il quale gli inviò il De episcopis Urbis che Baronio contribuì a emendare per evitare l’inserimento nell’Indice); Fronton Du Duc (editore di Crisostomo, Atanasio, Basilio e Gregorio di Nissa, che gli segnalò errori presenti nell’VIII vol. e inviò i manoscritti con le varianti di Orosio e Cesario di Arles); Justus Lipsius, che si affidò a Baronio per rivedere la Politica (1589). Come scrisse a Talpa, spiegando il valore controversistico di un’opera non teologica, «altra è la professione del historico da quella del difensore de’ dogmi», poiché fornite le fonti occorre «lassar al lettore o catholico o heretico […] cavarne la certezza della verità et da quella formarne argumenti in destruttione delle heresie» (9 dicembre 1589, cit. in Calenzio 1907, p. 255).
Ma, in linea con le tendenze dell’Oratorio, Baronio mise a frutto anche le fonti antiquarie, i mosaici, le epigrafi, forse i manoscritti delle Antichità di Roma di Pirro Ligorio e le indagini sulle catacombe promosse nel ‘revival paleocristiano’ che caratterizzò Roma dagli anni di Gregorio XIII e vide partecipe il giovane Baronio entusiasta per la scoperta (1578) del presunto cimitero di Priscilla. Importante fu il contatto con Antonio Bosio, con cui ispezionò il sarcofago di Cecilia. L’autore di Roma sotterranea (che apparve post mortem sulla scia del De ritu sepeliendi mortuos di Panvinio) fu suo ammiratore, e lo fu pure Pompeo Ugonio, autore dell’Historia delle Stationi di Roma (1588). Il lavoro sui martiri, del resto, stimolò la stesura di agiografie come quelle delle vergini sante romane di Gallonio (che si segnalò per il suo Trattato de li strumenti di martirio, 1591), mentre Baronio inserì nei suoi volumi i disegni di un centinaio di monete visionate nelle raccolte di Angelo Breventano, Fulvio Orsini, Lelio Pasqualini, Orazio Tigrini, facendo così circolare quelle fonti numismatiche. Fu lamentata negli Annales l’assenza di notizie su un dato culto, su una tomba, su una tradizione locale; e i monaci di Cassino si adirarono perché nel VII volume fu messo in dubbio che Gregorio Magno fosse benedettino. Ma Baronio (che si difese in questo caso in uno scritto) non mirò a collezionare frammenti di storia sacra, ma a trarre il succo della Storia: il trionfo di una Chiesa sempre uguale a se stessa contro gli eretici e i nemici.
Così egli argomentò come gli scolastici erano soliti fare in una quaestio, e non è rozzo accostare gli Annales (come si è sempre fatto in chiave apologetica) alle Controversiae di Bellarmino. Le fonti, poste una dopo l’altra e seguite da commento, sigillavano la continuità dei dogmi e del primato papale: quel Mysterium iniquitatis di Philippe de Mornay, che non a caso polemizzò con Baronio. E l’opera era tanto interna al punto di vista pontificio da passare sotto silenzio il ruolo giocato dall’imperatore nel convocare il Concilio di Nicea (vol. III, anno 325) e da mescolare documenti autentici e leggende apocrife, privilegiando le fonti romane e le lettere dei papi su ogni altro testimone (Fubini 1999, p. 154).
Assertore della potestas directa, Baronio minò l’autenticità e dichiarò falsa la donazione di Costantino. Il tema era scivoloso perché i riformati si erano appropriati di Lorenzo Valla per dimostrare la natura demoniaca del potere temporale pontificio. Sirleto esercitò un ferreo controllo contro chi insinuasse la falsità dell’atto (Sigonio), ma, dopo la sua morte, Baronio non assecondò quanti (come Bozio) ne difendevano l’autenticità e ottenne che l’Indice non ponesse esplicitamente lo scritto di Valla nella lista dei libri proibiti del 1596. L’atto esaltato negli affreschi vaticani, scrisse a Talpa nel 1590,
è pieno di bugie inescusabili. Vi prego per carità non mi fate imbrattar la penna a […] defendere sì fatte menzogne a Dio odibili […]. Ho visto quanto sopra di ciò è stato scritto da altri […] e trovo tutto esser pagliaccia (cit. in Zen 1994, p. 232).
In un primo tempo per evitare polemiche (era in corso la revisione dell’Indice) nel III volume (1592) degli Annales, all’anno 324, scrisse che forse la donazione era un apocrifo inadatto a fondare il principato dei papi; ma nel XII (1607), all’anno 1191, ne asserì l’inautenticità. Non fu solo lo scrupolo di storico a porlo sulla scia degli umanisti: infatti a risultargli scandaloso era soprattutto il fatto che si facesse dipendere un potere papale da un’elargizione civile. Il mandato di Pietro era la fonte della potestas in ambito spirituale e mondano; e tanto bastava a Baronio che sulla caduta di Roma dichiarò che non si era trattato di una sciagura (come in Biondo, che pure aveva esaltato il trionfo dei cristiani), ma di un agostiniano disegno della Provvidenza, che aveva reso suoi instrumenta il sacco della città e Alarico (vol. V, anno 410). Persino Teodorico (ariano e crudele) gli parve un buon esempio di principe per lo sforzo di preservare la Chiesa prima dell’arrivo dei Longobardi (vol. VII).
Del resto, al contrario di Sigonio nel De Regno Italiae, e contro le tesi machiavelliane, nei volumi VIII e IX, egli descrisse i Longobardi come una minaccia alla libertà della penisola. I papi furono i difensori dell’Italia per avere invocato il soccorso franco e avere operato quella translatio che gli orientali e i riformati contestavano. D’altra parte, l’Italia appare sempre un campo di contesa invaso da forze esterne o salvato dalla presenza benigna dei papi.
Ma per confutare le dottrine di miscredenti e di protestanti come Pier Paolo Vergerio e John Bale, occorreva asserire la continuità della sedia di Pietro; e per questo Baronio (vol. X, anno 853) confutò la leggenda della papessa Giovanna, che conobbe nuova fortuna nel 16° secolo. Come Panvinio che annotò Platina, e come Bellarmino nelle Controversiae, Baronio ritenne quella storia il frutto della manipolazione dei testi operata nel mondo greco, o della debolezza femminile che meritò a Giovanni VIII la fama di donna; e per dimostrarlo si appoggiò su un’opera di Florimond De Rémond. Inoltre, non tacque la decadenza del papato nell’alto Medioevo, ma sottolineò l’assenza di eresie in quell’arco di tempo: un dato che smentiva l’assimilazione del papato con l’anticristo. Né mancavano i riferimenti alla storia del suo tempo. Nel VI volume, trattando della conversione dei Franchi, egli fece allusione a Enrico IV; e alla fine del VII, parlando della conversione del khanato di Rus, inserì un’appendice sull’unione con i Ruteni (1595-96). Insomma, gli Annales esaltarono la storia sacra facendo della storia civile (così importante per Sigonio) il campo in cui si esplicava la forza della Chiesa e dei suoi privilegi difesi fino a dichiarare eretico chi li contestasse. E si può giustamente parlare dell’opera come di un monumento della ‘Ragion di Stato ecclesiastica’ che si rivolse persino contro la cattolica Spagna (Galasso, in Baronio e l’arte, 1985).
La Regia monarchia sicula indicava i poteri in campo ecclesiastico che si ritenevano goduti legittimamente dai sovrani dell’isola e si facevano risalire alla Quia propter prudentiam tuam di Urbano II. Infatti con la bolla, stilata per Ruggero d’Altavilla che aveva ‘liberato’ quella terra dagli arabi, il papa rinunciava a nominare un legato senza il consenso del sovrano e dei suoi successori (1098). Goffredo Malaterra, in una Chronica normanna pubblicata nel 1578, interpretò la grazia come concessione dei poteri di legazia e ne affermò la trasmissione a tutti i sovrani dell’isola, e Giovan Luca Barberi inserì il documento nella Descriptio Siciliae (1508), dicendo che i re godevano di prerogative del pontefice in quanto legati apostolici per diritto perpetuo. Filippo II promosse allora la nascita di un foro della Regia monarchia incaricato di amministrare quei privilegi, compresa la facoltà di agire nelle controversie che prevedevano l’appello a Roma. E nel 1583 una serie di leggi completò la costruzione di un tribunale, vera spina nel fianco per la curia.
Fu in un contesto di dispute giurisdizionali che Baronio attaccò gli spagnoli e negò (a torto) l’autenticità della bolla in una dissertazione in coda all’XI volume pubblicata anche in forma autonoma. Se pure il diploma fosse vero, esso era stato male interpretato e interpolato e concedeva solo il non invio di un legato senza fondare una ‘monarchia’ ecclesiastica ereditaria dopo Ruggero. La reazione, immediata, s’intrecciò con la polemica sulla predicazione di san Giacomo, che vide la stesura di un trattato (1609) di Juan de Mariana in risposta agli Annales. Così, senza interventi censori da parte dell’Inquisizione spagnola (ma nel 1594 giunse voce a Baronio che si stavano per proibire gli Annales), alla morte del cardinale, dopo anni di discussioni, nel 1610 la Corona ordinò di impedire la circolazione dell’XI volume nelle terre soggette a Madrid (ma già nell’edizione Plantin del 1608, il volume era apparso privo dell’appendice).
Gli Annales si arrestano al 1198; ma si trattava di un’opera ufficiale e si pensò di proseguirli. Così, scomparso Baronio, a continuarli furono Abraham Bzowski in nove volumi per gli anni 1198-1572 (1616-1672) e Henri De Sponde in due o tre volumi per gli anni fino al 1646 (1641-1659). Tuttavia, i veri discepoli furono riconosciuti in Odorico Rinaldi, che pubblicò dieci volumi partendo dal 1198 e giungendo al 1565 (1646-1677); Giacomo Laderchi, che continuò l’opera di Rinaldi per il papato di Pio V con tre volumi (1728-1737); e Augustin Theiner, in tre volumi che chiusero il racconto al 1855 (1856), ma furono proseguiti per l’ultima edizione in 37 volumi comprendente i 12 di Baronio (1864-1883).
Hanno poi rilievo le traduzioni parziali e le edizioni lucchesi con le note di Giovanni Domenico Mansi e Antoine Pagi (18° sec.). Tra gli epitomatori, a loro volta tradotti, si segnalarono Ludovico Aureli, Bzowski e De Sponde (che scrissero in latino); Rinaldi e Francesco Panigarola (che stilò un precoce Compendio del I vol. in italiano, 1590); e Piotr Skarga (che ridusse l’opera in polacco tra il 1603 e il 1607). Del resto, tradurre o far circolare epitomi significò impedire la lettura dell’originale che incontrò resistenze, oltre che in Spagna, nella gallicana Francia.
Non mancarono i confutatori e i critici, di parte cattolica e riformata. Lukas Holste, bibliotecario vaticano, elencò circa seimila errori fattuali degli Annales; e un giudizio critico formulò, alla fine del Seicento, Louis Ellies Du Pin nella Bibliothèque des auteurs ecclésiastiques. Erano gli anni in cui i bollandisti soppiantavano l’agiografia baroniana, mentre, su tutt’altro fronte, Pierre Bayle evitò di dedicare una voce a Baronio nel Dictionnaire (1697). Ma fu soprattutto Sarpi a manifestare un’attenzione ostinata e polemica nei confronti del cardinale, tanto che in una lettera a Jacques Gillot il 2 marzo 1610 (in Sarpi 1961, p. 145) lo definì l’evangelista della curia pur usando gli Annales come arsenale per stilare i consulti e il Trattato delle materie beneficiarie (dove, contro Baronio, tracciò una storia dei vizi dei papi).
Esplicito è il giudizio nella lettera del 22 luglio 1608 all’erudito calvinista Isaac Casaubon, che corrispose con l’oratoriano:
Contendere con Baronio è come combattere con Ercole. Hanno […] scritto a tutti i loro ministri in tutta Italia: stiano attenti che non si scriva qualche cosa […] contro Baronio o, se scritta altrove, non si introduca in Italia (Sarpi 1969, p. 285).
L’8 giugno 1612 ricordò a Casaubon di avere conosciuto lo storico a Roma giudicandolo uomo «sempliciotto», privo di sue opinioni e ottuso nel difendere il partito che gli si ordinava di tenere. Pur se «immune da frode», Baronio non era esente da «leggerezza e temerità» e l’opera era polemica, pedante e piena di errori e giudizi prolissi. Baronio «restringe alle ragioni del solo papato i disegni della divina Provvidenza» ed era avversario indegno di Casaubon (Sarpi 1969, pp. 291-92), che per confutare gli Annales progettava le esercitazioni De rebus sacris et ecclesiasticis apparse a Londra nel 1614.
Nel frattempo Sarpi, in una Scrittura del 1612, aveva tentato di confutare il volume XII degli Annales, dove, sulla base di fonti solide, si narrava la pace tra l’impero e Alessandro III (1177), sminuendo il contributo di Venezia alla lotta contro il Barbarossa e negando il riconoscimento papale del dominio della città sul Mare Adriatico (Sarpi 1969, pp. 623-31).
Ma se il servita giudicò Baronio un esempio di faziosità, Tommaso Campanella lo esaltò nella Historiographia (pubblicata nel 1638), Herman Conring studiò gli Annales per le sue ricerche germaniche e Gottfried Wilhelm von Leibniz ne lodò la serietà. Più complessa la fortuna dopo la fine del Seicento, quando si affermarono la nuova agiografia e la moderna erudizione. Se le storie ecclesiastiche di Jacques-Bénigne Bossuet e di Claude Fleury erano preferite agli Annales (e sotto Clemente XII si progettò una nuova storia ufficiale affidata a Giuseppe Orsi), tornare su quelle pagine e su quelle fonti significò misurare limiti e progressi del lavoro storico e l’apertura del mondo curiale e italiano alla modernità e ai lumi.
Come scrisse Muratori a Giuseppe Bianchini, incaricato di continuare l’opera, «veggo l’immortale Baronio che va molte volte assai franco», senza temere di dire una verità che la Chiesa non deve ostacolare (5 novembre 1740). Già prima aveva ricordato a Bianchini che l’opera di Baronio era solida anche se priva «di tanti aiuti, che noi ora abbiamo» (21 maggio 1735); ma egli non apprezzò negli Annales l’ampio ricorso ai miracoli, alla leggenda e all’apologia provvidenzialistica: «tutte le azioni de’ Papi si rappresentano da essi come sante e giustissime, inique tutte quelle di chi non ha operato a tenore di Roma» (25 gennaio 1739, citazioni tratte da Epistolario, a cura di M. Campori, 1900-1910).
Del resto, già il suo ‘maestro’ Benedetto Bacchini, nella Manuductio ad philologiam ecclesiasticam (1704-1705 ca.), aveva ripercorso i primi due secoli cristiani esaltando l’impiego di fonti nuove (monete, epigrafi, reperti, lettere) ma elencando gli errori fattuali e cronologici dell’opera. Fu equilibrato il giudizio di Girolamo Tiraboschi nella Storia della letteratura, mentre in una delle Dissertationi (1780) Francesco Zaccaria si sentì in dovere di difendere Baronio dai suoi detrattori (i giansenisti e altri nemici della Chiesa).
Negli anni di Pio IX e del Concilio Vaticano I l’impresa di Baronio fu esaltata e continuata da una curia alle prese con la temuta modernità e con la fine del potere temporale. Il Risorgimento riscopriva la questione longobarda e una storia civile che affondava le radici in Sigonio, Muratori e Pietro Giannone; mentre Francesco D. Guerrazzi nel Marchese di Santa Prassede (1853) confessava candidamente che Baronio suscitava lo sbadiglio. Cessate le lotte dell’Ottocento, fu Giosue Carducci a marcare la continuità tra Baronio e Muratori aprendo la ristampa dei Rerum italicarum scriptores (1900); mentre Antonio Gramsci, nei Quaderni 5 e 28, scriverà che la storiografia tedesca ed europea doveva molto all’erudizione italiana, facendo anche il nome di Baronio. Di diverso parere la sintesi di storia della storiografia di Eduard Fueter (1911), il quale bollò gli Annales come un’opera inficiata dall’apologetica che ne metteva in ombra i pregi. Del resto, si riapriva proprio allora il solco tra la ricerca storica e la Chiesa cattolica.
In un clima di caccia alle streghe, in coincidenza con la Pascendi e con il terzo centenario della morte (1907), che vide l’uscita di una biografia di Generoso Calenzio e di una prima raccolta di studi (1911), Angelo Roncalli (poi Giovanni XXIII) tenne a Bergamo una conferenza in cui esaltò Baronio come «l’iniziatore anche della storia civile dei popoli secondo il Cristianesimo». Egli, si legge, che non negò la provvidenza, stava in un punto medio tra Agostino e Bossuet ed era superiore a Francesco Guicciardini e a Niccolò Machiavelli.
La conferenza fu ripubblicata a ridosso del Vaticano II da don Giuseppe De Luca (1961) che, aggiornandone le note, ne ricostruì il significato nel clima antimodernista e ripercorse gli studi baroniani salvando poco e auspicando una nuova stagione di studi. Il fascismo, d’altra parte, aveva esaltato la ‘romanità’ di Baronio; Giorgio Falco (1933) l’aveva interpretato nell’ambito della polemica sul Medioevo; e negli anni di Pio XII (in cui apparve uno scritto, 1952, di Arsenio Frugoni, che lo definì storico onesto ma incapace di guardare al travaglio dottrinale e religioso della Chiesa come comunità) ha rilievo solo il contributo di Pontien Polman (1932) che colloca bene gli Annales nelle controversie del 16° secolo.
Una nuova stagione di studi giunse con le ricerche sull’Oratorio di Mario Borrelli, Alberto Pincherle e Antonio Cistellini; e con i lavori di Sergio Bertelli, Cyriac Pullapilly, Eric Cochrane, Albano Biondi. Dal versante cattolico, Paolo Prodi sottolineò la distanza di metodo tra Sigonio e Baronio in un saggio del 1977; mentre Hubert Jedin (1978), prima di morire, lodò i meriti di Baronio come fondatore della storia della Chiesa e senza tacerne i limiti come storico del dogma. Negli stessi anni, per merito di Romeo De Maio e di altri studiosi, il Centro studi Vincenzo Patriarca organizzava il primo dei convegni sorani che hanno dato vita a tre raccolte di saggi (1982, 1985, 2009); e proprio in quest’ambito di attività si collocano gli studi di Stefano Zen (1994).
Giuseppe Finocchiaro, da parte sua, ha ricostruito il lascito di libri e manoscritti di Baronio alla Vallicelliana e il suo sforzo di promozione della stamperia oratoriana (2005, 2008). E se l’istituto storico dei filippini promuove ricerche e pubblicazioni (si vedano gli «Annales Oratorii»), altre indagini (Vittorio Frajese, Gigliola Fragnito, Miguel Gotor), grazie alle carte del Sant’Uffizio rese accessibili nel 1998, mettono in luce il ruolo di Baronio e degli oratoriani durante il papato di Clemente VIII e nella stesura delle nuove regole di censura libraria e di controllo della santità. Ma forse i risultati più fecondi sono quelli giunti da quanti, nel solco di Arnaldo Momigliano, hanno lavorato sul rapporto tra filologia umanistica e antiquaria (Carlo Ginzburg, Riccardo Fubini, Anthony Grafton) o sui percorsi dell’ars historica e della scrittura agiografica nell’epoca delle controversie di religione (Giuseppe Antonio Guazzelli, Simon Ditchfield, Irena Backus e altri).
Martyrologium Romanum. Notationes atque Tractatio de Martyrologio auctore Caesare Baronio, Romae 1586.
Vita Sancti Ambrosii, in S. Ambrosius, Opera, t. 6, Romae 1587, pp. 1-46.
Annales Ecclesiastici, 12 tt., Romae, Typographia Vaticana, Tornerius (solo t. 3), Typographia Oratorii (solo tt. 4-6), 1588-1607.
De Monarchia Siciliae dissertatio ex tomo XI Annalium, Parisiis s.d.
Paraenesis ad Rempublicam Venetam, Romae 1606.
De vita S. Gregorii Nazianzeni, in Acta Sanctorum. Maii, t. 2, Antverpiae 1680, pp. 373E-429C.
Epistolae et opuscula, recensuit Raymundus Albericius, Romae 1759-1770.
G. Calenzio, La vita e gli scritti del cardinale Cesare Baronio, Roma 1907.
G. Spini, I trattatisti dell’arte storica della Controriforma italiana, in Contributi alla storia del Concilio di Trento e della Controriforma, 1° vol., Firenze 1948, pp. 110-36.
A. Roncalli, Il cardinale Cesare Baronio, a cura di G. De Luca, Roma 1961 (già in «La scuola cattolica», 1908, 36, 13, pp. 3-29).
P. Sarpi, Lettere ai gallicani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961.
M. Borrelli, Le testimonianze baroniane dell’Oratorio di Napoli, Napoli 1965.
M. Borrelli, Ricerche sul Baronio I-II, «Studi secenteschi», 1966, 7, pp. 69-95; 1967, 8, pp. 97-220.
P. Sarpi, Opere, a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, Milano-Napoli 1969.
S. Bertelli, Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografia barocca, Firenze 1973.
D. Cantimori, Umanesimo e religione civile nel Rinascimento, Torino 1975.
C. Pullapilly, Caesar Baronius, Notre Dame 1975.
P. Prodi, Storia sacra e Controriforma. Note sulle censure al commento di Carlo Sigonio a Sulpicio Severo, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 1977, 3, pp. 75-104.
H. Jedin, Kardinal Caesar Baronius, Münster 1978 (trad. it. Brescia 1982).
E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981.
Baronio storico e la Controriforma, Atti del Convegno internazionale di studi, Sora (6-10 ottobre 1979), a cura di R. De Maio, L. Gulia, A. Mazzacane, Sora 1982.
Baronio e l’arte, Atti del Convegno internazionale di studi, Sora (10-13 ottobre 1984), a cura di R. De Maio, A. Borromeo, L. Gulia et al., Sora 1985 (in partic. la premessa di G. Galasso ora in Id., Dalla ‘libertà d’Italia’ alle ‘preponderanze straniere’, Napoli 1997, pp. 316-34).
A. Biondi, La storiografia apologetica e controversistica, in La storia, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, 4° vol., t. 2, Torino 1986, pp. 315-33 (ora in Id., Umanisti, eretici e streghe, a cura di M. Donattini, Modena 2008, pp. 555-74).
S. Zen, Baronio storico, Napoli 1994.
S. Ditchfield, Liturgy, sanctity, and history in Tridentine Italy, Cambridge 1995.
R. Fubini, Baronio e la tradizione umanistica, «Cristianesimo nella storia», 1999, 20, pp. 147-59.
I. Backus, Historical method and confessional identity in the Era of the Reformation (1378-1615), Leiden-Boston 2003.
G. Finocchiaro, Cesare Baronio e la tipografia dell’oratorio, Firenze 2005.
Nunc alia tempora alii mores, Atti del Convegno internazionale, Torino (24-27 settembre 2003), a cura di M. Firpo, Firenze 2005.
C. Ginzburg, Il filo e le tracce, Milano 2006.
I libri di Cesare Baronio in Vallicelliana, a cura di G. Finocchiaro, Roma 2008.
Baronio e le sue fonti, a cura di L. Gulia, Sora 2009.
A. Grafton, Arnaldo Momigliano and the tradition of ecclesiastical history, 2012, http://www.history.umd.edu/HistoryCenter/papers/Grafton_Arnaldo%20Momiglia-no%20and%20the%20Tradition%20of%20 Ecclesiastical%20History.pdf (2 giugno 2013).
Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, a cura di G.A. Guazzelli, R. Michetti, F. Scorza Barcellona, Roma 2012.
Sacred history, ed. K. van Liere, S. Ditchfield, H. Louthan, Oxford 2012.
Nei Ragguagli di Parnaso (II, 14) Traiano Boccalini rappresentò Tacito che lamenta l’assenza di storici moderni dotati di sale politico. La sola eccezione è quella di Santoro, «Tacito novello», «saporitissimo scrittor latino degli Annali de’ suoi tempi». Paolo Emilio nacque a Caserta nel 1560 e morì a Urbino nel 1635. Nipote del cardinale Giulio Antonio Santoro, che ne promosse la carriera, dopo la morte dello zio fu arcivescovo di Cosenza (1617) e di Urbino (1623). Il 7 settembre 1627 tenne il sinodo e più tardi facilitò il passaggio del ducato sotto il dominio dei pontefici con la fine dei Della Rovere. Gli sono attribuite le Memorie istoriche concernenti la devoluzione dello Stato d’Urbino (1723).
Nella Storia della letteratura italiana Girolamo Tiraboschi scrisse che, dopo Baronio, tra gli scrittori di martirologi e vite dei santi poche penne erano sfuggite all’agiografia: una era quella di Santoro. Tuttavia, egli era noto soprattutto per una «Storia generale dei suoi tempi» di cui non si videro «che alcuni frammenti fra le mani de’ dotti» (Storia, t. 4, 1833, p. 428). Tiraboschi alludeva agli Annales, che coprivano gli anni 1572-1609 e furono lodati da Gian Vittorio Rossi nella Pinacotheca imaginum (3 voll., 1645-1648). Dell’opera apparve a stampa solo un brano edito dall’amico Aldo Manuzio nelle Lettere volgari (1592, pp. 86-93). Scrivendo a Pietro Pisone Soazza, Manuzio lodò il testo e ne inviò la parte dedicata alla Napoli del Duecento e ai conti di Caserta, in cui Santoro criticava il Boccaccio delle novelle I, 5 e X, 6 e narrava la vera storia di Siligaita e Manfredi. Non sappiamo perché gli Annales non videro la luce, ma furono noti fino al 18° secolo. Nelle Memorie-storico critiche degli storici napolitani (t. 2, 1782, pp. 546-51) Francescantonio Soria riferisce poi che Francesco D. Sertorio possedeva un volume con parti dell’opera (Annalium fragmenta). Forse gli annali non furono finiti, o forse riferivano i fatti del tempo in modo spregiudicato; comunque sia, Santoro editò solo un’opera minore e due martirologi che i bollandisti non giudicarono bene e che, con ogni probabilità, gli furono sollecitati dallo zio che lo spinse a scrivere di storia sacra.
Dedicato a Clemente VIII, XII virgines, et martyres (1597) racconta le biografie di dodici martiri a pochi anni di distanza dalla circolazione delle storie dell’oratoriano Antonio Gallonio. Il testo inoltre è attraversato da una manierata polemica contro la filosofia aristotelica, il mondo antico e il paganesimo. Le lussuriose o stoiche eroine dell’età classica, per l’autore, non potevano eguagliare le gesta delle sante, raccontate sulla scorta degli scrittori antichi ai quali si aggiungono i moderni: Johannes Molanus, Laurentius Surius, Luigi Lippomano, Girolamo Vida. Importanti sono le pagine che chiudono la vita di Margherita (pp. 173-74), in cui afferma di non narrare favole o «rumores» e di non aver scritto mai nulla «contra dignitatem historiae, cuius anima in veritate consistit». Come in Baronio, che ricorda in un passo dell’opera (p. 58), è viva l’attenzione per l’antiquaria. Nello stesso anno Santoro pubblicò le Vitae beatorum apostolorum Petri & Pauli (1597), dedicate ad Agostino Valier con un’epistola di Manuzio. Le vite includono il racconto della storia della Palestina e dell’impero del 1° sec., e drammatizzano la vicenda degli apostoli contrapponendo a Pietro Simon Mago (che aizza l’odio di Nerone) e a Paolo un popolo ebraico intento a complottare contro i cristiani. Le biografie si chiudono con la storia dei corpi dei santi e con l’edificazione del Vaticano, in polemica con Martino Lutero e con Giovanni Calvino.
Pochi anni dopo, Santoro stilò una Historia monasterii Carbonensis (1601) in cui ricostruì, con tanto di fonti trascritte, il passato del cenobio. Tra i pochi testi citati (p. 14) figura il De antiquitate et situ Calabriae di Gabriele Barrius (1571), attribuito a Guglielmo Sirleto; e alla stregua di quel libro l’opera appare come una storia sacra della Calabria e della Lucania a partire dal 10° secolo. I Normanni sono lodati per aver restaurato il cristianesimo in Sicilia e per le crociate; ma alle loro conquiste risaliva il potere di quei «tyrannunculi» (i baroni) che iniziarono a vessare, e vessavano ancora, i monaci e le popolazioni locali (pp. 46-47). La storia del Regno di Napoli fa da sfondo alla narrazione fin dalla lotta tra Federico II e il papato, difensore dell’Italia dalla crudeltà germanica. L’opera fu tradotta e continuata nel 1859 da Marcello Spena (v. nuova ed. di L. Branco, 1998).