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Beccaria, Cesare

di Giuseppe Bedeschi - Enciclopedia dei ragazzi (2005)
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Beccaria, Cesare

Giuseppe Bedeschi

Il primo grande critico della pena di morte

Profondamente influenzato dagli illuministi francesi ‒ disse di dovere a Montesquieu "la sua conversione alla filosofia" e di essere stato spinto da Claude-Adrien Hélvétius "con forza sulla via della verità" ‒, nel 1763 il milanese Beccaria scrisse Dei delitti e delle pene, un'opera contro la pena di morte e la tortura che ebbe un influsso enorme sulla cultura e sulla civiltà europea

La critica della pena di morte

Nato a Milano nel 1738 da nobile famiglia, Cesare Beccaria studiò nel Collegio dei Gesuiti di Parma e si laureò in giurisprudenza a Pavia. Nel 1768 venne nominato professore di economia politica alla Scuola Palatina di Milano. Entrato in contatto col cenacolo del periodico Il Caffè (dominato dalla personalità di Pietro Verri), di cui fu fecondo collaboratore, scrisse nel 1763 Dei delitti e delle pene, opera pubblicata anonima a Livorno (1764) ma che, tradotta in Francia, ebbe gli elogi di Voltaire, di Denis Diderot e di Jean-Baptiste d'Alembert, dandogli fama europea. L'obiettivo fondamentale di Beccaria fu quello di mostrare come i codici e le procedure penali del suo tempo costituissero un insieme di abusi dovuti alla superstizione religiosa, alla violenza sociale e politica, alla crudeltà dei costumi ("apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbono essere patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi"). Il presupposto teorico del trattato di Beccaria era che gli uomini si erano riuniti in società sulla base di un patto, in virtù del quale essi avevano ceduto parte della loro libertà ("la minima porzione possibile") per averne in cambio sicurezza ‒ e qui si avvertiva l'influsso del Secondo trattato sul governo di Locke. La società, quindi, aveva sì il diritto di punire coloro che attentavano alle sue regole, ma le pene non dovevano mai superare la necessità di conservare il vincolo con il quale gli uomini si erano associati. La pena di morte era dunque illegale, perché nessuno di coloro che aveva aderito al patto istitutivo della società aveva alienato il diritto alla vita, che non rientrava, evidentemente, nella "minima porzione possibile" dei diritti ceduti dagli individui al governo per averne in cambio protezione e sicurezza.

Contro le pene disumane

Lo stesso discorso valeva per le pene disumane (come la tortura). Fra le garanzie che la società doveva dare agli individui, conformemente al patto originario, c'era anche quella che i cittadini non dovevano essere trattati come colpevoli finché non fosse stata provata la loro colpa. Beccaria realizzò una completa laicizzazione del diritto penale che, sulla base della sua costruzione concettuale, doveva occuparsi di reati e non di peccati; allo stesso modo il giudice non doveva più essere concepito come un uomo ispirato, ma come il tutore di un dato ordinamento giuridico. E come a certi reati devono corrispondere certe pene, secondo una proporzione fondata su basi razionali, così i cittadini, uguali di fronte alle leggi, devono essere sottoposti alle stesse pene, quale che sia la loro condizione sociale. Dei delitti e delle pene ebbe una diffusione e una fortuna straordinarie: fu tradotto, oltre che in francese, anche in inglese, in tedesco e in spagnolo; Voltaire ne scrisse un commento, e Diderot alcune note. L'imperatrice Caterina II di Russia invitò il giurista milanese a Mosca e promosse una riforma del codice penale ispirata ai suoi principi. Cesare Beccaria morì a Milano nel 1794.

Processo e garanzie

"Una crudeltà, consacrata dall'uso della maggior parte delle nazioni" scrive Beccaria "è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violato i patti, co' quali gli fu accordata. […] Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo, o è incerto: se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perché tale è, secondo le leggi, un uomo, i cui delitti non sono provati".

(da Dei delitti e delle pene)

Vedi anche
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