Cesare Beccaria
Cesare Beccaria è stato, insieme a Pietro Verri, il maggior rappresentante della grande stagione dell’Illuminismo milanese. La sua opera più conosciuta rimane Dei delitti e delle pene. La sua teoria economica ebbe minor risonanza immediata: essa, pur subendo l’influenza di varie correnti di pensiero, rivela un’elaborazione altamente personale in cui il fatto economico viene inserito in un ampio contesto storico, culturale, sociale e istituzionale. Al libero dispiegarsi dell’iniziativa individuale è riconosciuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo del sistema. La piena rivalutazione di Beccaria, avviata da Joseph A. Schumpeter nella sua History of economic analysis (1954), trova ampi consensi, tanto che oggi è ritenuto uno degli autori importanti nello sviluppo della scienza economica presmithiana.
Cesare Beccaria nacque a Milano il 15 marzo 1738, da una famiglia patrizia agiata ma non ricca; a otto anni fu mandato a studiare nel Collegio Farnesiano (o Collegio de’ Nobili) di Parma, tenuto dai Gesuiti e riservato ai figli della nobiltà lombarda. Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza di Pavia, dove si laureò il 13 settembre 1758. Tornato a Milano, frequentò l’Accademia dei Trasformati, dove incontrò Giuseppe Parini e altri personaggi importanti nel panorama intellettuale milanese. Strinse amicizia con Pietro Verri, che rappresentò un punto di riferimento fondamentale nel suo primo sviluppo culturale. Sempre seguendo il gruppo di Verri, entrò nell’Accademia dei Pugni, che riuniva i più brillanti esponenti dell’Illuminismo milanese. Su sollecitazione di Verri, nel 1762 stese il suo primo scritto: la nota, pubblicata anonima a Lucca, Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nell’anno 1762. Tra il 1764 e il 1766 contribuì alla rivista «Il Caffè» con sette articoli. Tra questi, su temi economici, notevole il Tentativo analitico sui contrabbandi (1764).
Nell’estate del 1763 fu indirizzato dai fratelli Verri a studiare i problemi della legislazione penale. Da questi studi nacque Dei delitti e delle pene, pubblicato anonimo a Livorno nel 1764. Il successo fu immediato, non solo in Italia ma anche all’estero: innanzi tutto in Francia, dove riscosse l’incondizionato plauso dei philosophes, e poi nel resto dell’Europa. A soli 26 anni, Beccaria diventò un personaggio di fama internazionale.
Nel 1766 si recò a Parigi, dove però il carattere chiuso e schivo lo indusse a interrompere il soggiorno anzitempo, deludendo i fratelli Verri che lo avevano spinto a intraprendere il viaggio per diffondere e far apprezzare l’Illuminismo milanese. Il viaggio stesso diventò un motivo di rottura con Pietro Verri, trasformando l’antica amicizia in un rapporto pieno di contrasti; solo con il tempo i due si riavvicinarono, senza però mai rinnovare quei vincoli che li avevano legati in precedenza.
Nel 1768 l’amministrazione austriaca attribuì a Beccaria la cattedra di economia politica (detta allora di scienze camerali) presso le Scuole palatine, cattedra che egli tenne per oltre due anni. La trascrizione delle sue lezioni venne pubblicata postuma nel 1804 da Piero Custodi, con il titolo Elementi di economia pubblica. Nel 1770 Beccaria pubblicò le Ricerche intorno alla natura dello stile, che fu accolto piuttosto freddamente, senza rinnovare il successo di Dei delitti e delle pene. Fu la sua ultima pubblicazione.
Nel 1771 entrò a far parte dell’amministrazione pubblica, dove fu nominato dapprima membro del Supremo consiglio dell’economia (chiamato in seguito Nuovo magistrato camerale) e poi (1786 e 1789) capo di due successivi dipartimenti del Consiglio di governo: incarichi con importanti competenze, fra cui l’annona e la zecca. Nel 1791, infine, entrò nella Giunta per la riforma del sistema giudiziario civile e criminale. Morì a Milano il 28 novembre 1794.
Beccaria applica alle materie economiche lo stesso approccio adottato negli altri suoi studi: la ricerca dei principi primi, il rigore sistematico (a questo riguardo basta leggere le prime pagine della consulta Riflessioni intorno un piano delle leggi per le cambiali, che, pur essendo uno scritto a carattere burocratico, è un gioiello di impostazione metodologica), la capacità di ragionare per modelli formali.
I fondamenti del pensiero economico di Beccaria sono già presenti in Dei delitti e delle pene, il suo primo lavoro impegnativo, che rimarrà il suo capolavoro. Questo libro, che giustamente Franco Venturi (1965) definisce epocale, riesce a intercettare una serie di idee che circolavano all’epoca e a tradurle in una trattazione altamente innovativa, tale da produrre una vera e propria sensazione nel mondo culturale europeo: per primo egli giustifica in modo chiaro la pena come strumento preventivo e non già retributivo.
Com’è noto, le fonti ispiratrici di Beccaria sono molteplici (Thomas Hobbes, John Locke, Jean-Jacques Rousseau, Claude Helvétius ecc.), e comprendono svariate correnti filosofiche del Settecento; secondo recenti interpretazioni, Beccaria produce un sistema in cui confluiscono aspetti della filosofia utilitarista, contrattualista e giusnaturalista, dando luogo però a una visione originale (Francioni, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, 1990, pp. 69-87). L’aspetto contrattualistico è evidente in Beccaria:
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. […] Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità (Dei delitti e delle pene, in Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta da L. Firpo, G. Francioni, 1° vol., a cura di G. Francioni, 1984, p. 25).
Negli Elementi di economia pubblica il formarsi della società viene descritto in modo analogo:
Le nazioni sono una moltitudine d’uomini mossi a vivere in società per difendersi reciprocamente da ogni forza esteriore, e contribuire nell’interno al bene comune procurando il ben proprio (Elementi di economia pubblica, in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte moderna, t. 11, 1804, p. 19).
Il valore dell’individuo è centrale nell’intero sistema, perché la società nasce nei limiti e nella misura in cui i singoli soggetti sono disposti a rinunciare alla propria libertà: «Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne’ romanzi» (Dei delitti e delle pene, cit., p. 30).
Tuttavia il contrattualismo di Beccaria si differenzia da quello di Locke in quanto non riconosce il diritto di proprietà tra i diritti naturali individuati da Locke. Infatti in Dei delitti e delle pene non solo troviamo la celebre frase su «il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto)» (p. 75), ma anche l’affermazione secondo la quale «il commercio, la proprietà dei beni, non sono un fine del patto sociale, ma possono essere un mezzo per ottenerlo» (p. 111).
Queste affermazioni mostrano come per Beccaria la proprietà non vada considerata un diritto naturale, ma un requisito che facilita la costituzione del patto sociale: la sua stipulazione avviene infatti più agevolmente quando sono garantiti anche i diritti di proprietà. Questa visione viene ribadita negli Elementi di economia pubblica, quando, proponendo una limitazione ai diritti di proprietà sui boschi, Beccaria risponde così alle possibili critiche:
Qual giustizia d’impedire a ciascheduno di trarre a suo arbitrio quel profitto ch’egli voglia dai propri fondi? […] Si deve ciò non ostante considerare che la proprietà è figlia primogenita e non madre della società; […] e che questo diritto e questa proprietà sono nati dalla difesa reciproca con cui gli uomini senza espressa convenzione, ma per tacita adesione di comuni circostanze e di comuni interessi si sono garantite le attuali loro possessioni (Elementi di economia pubblica, in Scrittori classici, cit., t. 11, p. 229).
Da qui discendono certe propensioni egualitarie espresse in Dei delitti e delle pene e la critica portata alla diseguale distribuzione delle ricchezze negli Elementi di economia pubblica.
Accanto al fondamento contrattualista appare, per gli aspetti più propriamente economici, il carattere utilitarista del sistema di Beccaria. Tuttavia il suo utilitarismo corretto da prospettive giusnaturaliste lo porta a conclusioni differenti da quelle sostenute da Jeremy Bentham (che pure si riconosceva debitore nei confronti dell’umanista milanese): secondo Bentham, il cui utilitarismo costituisce la base della teoria economica classica dell’Ottocento, la massimizzazione dell’utilità della collettività può avvenire anche senza aver riguardo a eventuali danni che si infliggano a una minoranza; questo invece non può avvenire nella visione di Beccaria, perché vi sono diritti fondamentali che non possono essere violati (Francioni, in Cesare Beccaria, cit.).
Per certi aspetti, del resto, Dei delitti e delle pene si presta a essere configurato come una vera e propria analisi di economia del diritto. In esso compare l’affermazione che la legislazione ha lo scopo di favorire il massimo della felicità divisa per il maggior numero dei soggetti (concetto, quello della felicità, che nella letteratura economica coeva si identificherà con quello di utilità). Frase non nuova, che in quegli anni o in anni immediatamente precedenti, svariati autori (Francis Hutcheson, Helvétius, P. Verri), avevano già utilizzato, e che manifesta l’adesione a una visione utilitarista in campo economico. Il concetto di pena viene impostato come una valutazione tra costi e benefici che è tipica del ragionamento economico. L’equilibrio si ha quando la rinuncia alla libertà (perdita di utilità) è pari al vantaggio che si acquista con il fatto di essersi assicurata la libertà di agire secondo le proprie inclinazioni al netto della libertà a cui si è rinunciato.
Un ulteriore, esplicito esempio di analisi economica del diritto si trova nella trattazione, sempre in Dei delitti e delle pene, del fenomeno del contrabbando, oggetto anche di un breve scritto di poco posteriore, il citato articolo Tentativo analitico sui contrabbandi, pubblicato nel 1764 sul «Caffè» e chiaramente ispirato dalle riflessioni contenute in Dei delitti e delle pene. L’articolo è molto importante per almeno due ragioni. Una è che Beccaria, tra i primi, utilizza l’analisi matematica e i metodi probabilistici nello studio dei problemi sociali (Da Empoli, in Alle origini del pensiero economico, 1996, pp. 121-26). Il modello si propone infatti di individuare una sorta di tariffa ottima per contrastare il contrabbando, e cioè il livello del dazio protettivo che rende non convenienti le attività illegali; collegandolo inoltre, in termini di rapporto costi/benefici, agli effetti di maggiori spese destinate ai controlli. L’altra ragione è la consapevolezza, da parte di Beccaria, che lo strumento matematico applicato alle scienze sociali ha dei precisi limiti di metodo, cosa che oggi viene spesso dimenticata:
Dissi fino ad un certo segno, perché i principj politici dipendono in gran parte dal risultato di molte e particolari volontà e da variissime passioni, le quali non possono con precisione determinarsi, ridicola sarebbe una politica tutta tessuta di cifre e di calcoli (Tentativo analitico, in Scrittori classici, cit., t. 12, p. 237).
Il pensiero economico di Beccaria si trova espresso al meglio negli Elementi di economia pubblica. Come giustamente mette in rilievo Schumpeter, grande estimatore di Beccaria (tanto da definirlo l’Adam Smith italiano), gli Elementi di economia pubblica, pubblicati postumi, sono solo lezioni dettate dall’autore, che le rivide ma, sebbene sollecitato, non volle mai procedere alla loro pubblicazione. Esse inoltre riguardano una sola parte delle materie che Beccaria intendeva sviluppare, mancando le sezioni sui tributi e sulla polizia, che non vennero trattate nel corso delle lezioni. La maggiore opera del Beccaria conserva quindi un carattere non completo e non definitivo.
Come già rilevato per Dei delitti e delle pene, le riflessioni in tema di economia di Beccaria sono ovviamente il risultato dell’intreccio di idee e teorie che si erano formate e venivano formandosi in quel periodo, molto fecondo per l’elaborazione del pensiero economico, il quale si stava affrancando dalle altre branche di quelle che si definiscono scienze morali.
Beccaria, nella sua prolusione tenuta presso le Scuole palatine e nel piano di lezioni presentato sempre per lo stesso corso, cita numerosi autori del Seicento e del Settecento: Sébastien Vauban, Montesquieu, Jean-François Melon, David Hume, e, tra gli italiani, Antonio Genovesi. Queste influenze sono indubbie, e particolarmente evidenti quelle dei fisiocratici e di Richard Cantillon; però ciò che conta non è tanto il ricostruire esattamente i suggerimenti e le idee che Beccaria può aver tratto sui singoli punti dai diversi autori, quanto esaminare come egli abbia organizzato l’intera materia, e come questa sistemazione evidenzi la sua originalità, che lo pone tra gli importanti pionieri presmithiani della disciplina.
Il nucleo essenziale delle prime tre parti degli Elementi di economia pubblica può essere sinteticamente riassunto in quattro temi che si intrecciano in modo non sequenziale. Il primo riguarda la spiegazione del funzionamento, della struttura e dell’organizzazione del sistema produttivo. Il secondo, i meccanismi che consentono l’ampliamento dell’offerta del sistema. Il terzo, l’espansione della domanda causata dal crescere dei bisogni della società e quindi dei consumi. Il quarto, le considerazioni che potremmo definire di politica economica, con le quali si individuano i vincoli che possono costituire freni allo sviluppo del sistema e, conseguentemente, gli interventi che possono allentare o eliminare gli ostacoli, valorizzando al massimo le forze spontanee della società.
Secondo un procedimento caro al suo spirito analitico, Beccaria nelle prime pagine mira già a individuare la proposizione attorno alla quale tutte le proposizioni della teoria economica si possono ricondurre:
Tutte le scienze hanno sempre questo canone fondamentale, questa proposizione universale, che non è altro che l’enunciazione del legame comune di tutte le proposizioni particolari costituenti il corpo d’una scienza (Elementi di economia pubblica, cit., t. 11, p. 23).
Per quanto riguarda in particolare l’economia, sottolinea più avanti:
primo principio d’ogni operazione economica sarà quello d’eccitare la maggior quantità possibile di prodotto utile e contrattabile, di togliere di mezzo ciò che diminuisce questa massima quantità di tali prodotti (t. 11, p. 32).
Quindi gli Elementi di economia pubblica si aprono con una descrizione di come l’azione economica dei singoli soggetti si combini con quella degli altri agenti per dar vita a un meccanismo in grado di finalizzare verso un obiettivo comune l’intero sistema economico. Il processo produttivo parte, secondo Beccaria, dall’agricoltura, che produce quanto è necessario e indispensabile per vivere. Senza cibo l’uomo non può vivere: «[...] né le cose da lavorare vi sarebbero se la terra non le producesse» (t. 11, p. 29). L’importanza assegnata all’agricoltura indica l’influenza esercitata dalla fisiocrazia; ma l’indipendenza dai fisiocratici si deduce immediatamente dal fatto che per Beccaria non esistono classi sterili: tutte le classi, e non solo quelle agricole, sono produttive.
Il prodotto agricolo può essere diviso in due componenti: la prima serve per il sostentamento di chi lavora nell’agricoltura, la seconda, il sovrappiù, per essere scambiata con i beni prodotti dal settore manifatturiero. Il lavoratore del settore manifatturiero, peraltro, «deve avere prima di tutto la materia da lavorare, indi vivere e procacciarsi le cose necessarie, anzi fino ad un certo segno le comode all’uso della sua vita durante tutto il tempo del lavoro» (t. 11, p. 29). Il secondo principio, che riguarda il settore delle arti e delle manifatture, «sarà quello di fare piccoli per volta, ma più spessi guadagni [salari] che sia possibile» (t. 11, p. 226). Questo secondo principio vuole assicurare che vi sia sufficiente potere di acquisto per garantire lo scambio economico tra i due settori.
Il processo di sviluppo è condizionato dal sovrappiù, in quanto tanto maggiore è la produzione agricola che non viene assorbita dal sostentamento di chi lavora nel settore, tanto maggiore è la quota di tale produzione che può essere scambiata con beni manifatturieri, garantendo il fondo salari su cui può vivere il settore manifatturiero. Maggiore efficienza nel settore agricolo significa maggior sovrappiù, offrendo la possibilità al settore manifatturiero di ingrandirsi. Analogo ragionamento può essere applicato al settore manifatturiero: a parità di sovrappiù agricolo, tanto maggiore sarà il prodotto scambiabile quanto più efficiente è il settore manifatturiero.
Fondamentali quindi sono i livelli di efficienza dei due settori. Esiste un rapporto di complementarità tra di essi; onde l’osservazione di Beccaria che questa complementarità, essendo «fattizia», si può instaurare anche tra sistemi economici che sono divisi da confini politici.
Beccaria definisce poi il costo di produzione dei prodotti. Questo è composto da due parti: il costo della materia prima e il costo complessivo del lavoro.
Fra le persone che entrano nel travaglio d’una cosa qualunque non vi devono essere compresi solamente i travagliatori di quella ma ancora coloro che forniscono il vitto, il vestito e gli altri comodi e necessità della vita ai primi, e così successivamente quelli che li somministrano a quest’ultimi (t. 11, p. 229).
Quindi, se dal valore di qualunque prodotto si sottrae il valore della materia prima, tutto il restante rappresenta la somma dei consumi, e cioè degli alimenti di tutte le persone che hanno direttamente o indirettamente contribuito al «travaglio». Si noti tra l’altro che il valore delle stesse materie prime è rappresentato dagli alimenti «che si debbono consumare da quelle persone e per tutti quei tempi che s’impiegano nelle di lei riproduzioni» (t. 11, p. 336). Il costo di produzione può quindi essere risolto totalmente nel costo del lavoro, diretto e indiretto, impiegato nella produzione del bene.
Dal modo in cui Beccaria ricostruisce il costo di produzione si comprende come la produzione di ciascun bene sia legata, attraverso l’utilizzazione di beni intermedi, ad altre attività produttive. Questo è un punto molto importante: l’interrelazione all’interno e tra i diversi settori dell’economia descritta da Beccaria anticipa concettualmente il sistema delle tavole delle interdipendenze settoriali. Certamente anche i fisiocratici prima di lui avevano descritto le connessioni esistenti nel sistema produttivo, ma Beccaria analizza con maggior dettaglio e acutezza come l’attivazione di diversi settori o di prodotti produca effetti espansivi differenti, a seconda dei loro coefficienti di relazioni settoriali e intersettoriali e cioè del loro grado di integrazione nel sistema (Porta, in Cesare Beccaria, 1990, pp. 356-70; Porta, Scazzieri, in Alle origini del pensiero economico, 1996, pp. 15-58).
Una volta stabilito quali relazioni «strutturali» intercorrano tra le attività economiche del sistema, si possono cercare di individuare le azioni che sollecitano l’offerta complessiva.
Innanzitutto, va sottolineato che per Beccaria la forza propulsiva dello sviluppo economico diventa massima quando le forze produttive siano lasciate libere e in concorrenza le une con le altre.
In secondo luogo, anticipando Smith, Beccaria nota come lo sviluppo delle società sia stato contrassegnato da una crescente divisione del lavoro, che ha consentito enormi aumenti di produttività.
In terzo luogo, come viene giustamente sottolineato da Jean-Baptiste Say, Beccaria ha una precisa idea dell’importanza di ciò che genera il processo di accumulazione. Questo è messo in moto da un atto di risparmio, che proviene dalla sottrazione di una parte del prodotto totale, la quale, invece di essere consumata, viene accantonata per consentire opere di miglioria e per acquistare attrezzi. L’atto di risparmio genera l’investimento, in quanto a esso è finalizzato. Una conseguenza importante del processo di accumulazione è l’aumento della produzione delle derrate alimentari che consente la crescita del numero delle persone sostenibili dal territorio. Per Beccaria un aumento della popolazione è un fatto positivo: «Se la popolazione è utile per l’aumento del travaglio che produce naturalmente, lo è ancora perché rende più sicuro e forte il paese» (Elementi di economia pubblica, cit., t. 11, p. 46); e presenta aspetti di dinamicità tali da attrarre nuova popolazione ed energie produttive. È l’aumento dell’attività produttiva che provoca un aumento della popolazione, e non viceversa. Su questo tema Beccaria risulta essere in contrasto con la successiva posizione sostenuta dagli economisti della scuola classica inglese, i quali, accettando l’ipotesi di rendimenti marginali decrescenti in agricoltura, sosterranno la tesi malthusiana che giudicava con diffidenza l’aumento della popolazione.
Tra gli elementi importanti nel determinare l’offerta del sistema, Beccaria, unico tra gli autori italiani dell’epoca (ivi compreso P. Verri), percepisce l’importanza del ruolo specifico dell’imprenditore come strumento di sviluppo economico (Klang, in Cesare Beccaria, 1990, pp. 371-406). Partendo dalla distinzione tra grande e piccola proprietà in agricoltura ai fini della produttività complessiva, mette in rilievo come sia in realtà più importante la distinzione tra la grande e la piccola coltura. Richiamando la discussione in atto tra gli economisti francesi, afferma l’importanza della figura del fittavolo, concepito come figura imprenditoriale in grado di assicurare, con l’apporto di capitali, una produzione più efficiente.
Lo sviluppo del sistema economico, però, non può avvenire se contemporaneamente all’aumento dell’offerta non si espande anche la domanda dei beni di consumo. Senza questa, il sistema si arresterebbe in uno stato stazionario. Bisogna quindi individuare la molla che spinge i bisogni ad aumentare in modo continuo. Beccaria distingue i tipi di consumo in quattro categorie: consumi del «bisogno», del «comodo», e «della voluttà e della pompa ed ostentazione».
La prima categoria di consumi è sostanzialmente immutata nel tempo, in quanto dipende dalla popolazione e dal clima: corrisponde alle esigenze vitali della popolazione. I consumi della seconda categoria invece «non prendono accrescimento che colla coltura delle nazioni, con lo spandersi del lume delle scienze, […] colla distribuzione della massa delle ricchezze in un numero maggiori di mani» (Elementi di economia pubblica, cit., t. 11, p. 266). La terza e la quarta categoria del consumo dipendono dall’esistenza di una società raffinata, in cui peraltro vi è forte diseguaglianza di reddito.
Secondo Beccaria, quindi, lo sviluppo del sistema dipende soprattutto da un processo di incivilimento della società (in particolare, egli pensa che sia la classe dei proprietari terrieri a esercitare la maggiore influenza su tutta la struttura dei consumi; t. 11, p. 51). I consumi «opulenti» sono concepiti come un male minore in quanto, sebbene impieghino in modo non ottimale le risorse, rappresentano uno stimolo alla produzione, mantenendo alto il livello del consumo. Coerentemente, Beccaria si dichiarerà contrario alle leggi suntuarie.
Due parti molto corpose degli Elementi di economia pubblica sono dedicate all’agricoltura politica e alle arti e manifatture. Queste due parti sono dirette a individuare gli ostacoli da rimuovere e le iniziative da intraprendere in modo da facilitare lo sviluppo del sistema economico.
Per avere un’idea su quali siano per Beccaria gli strumenti per aumentare «il commercio di una nazione» è sufficiente riportare questo passo degli Elementi di economia pubblica:
Diremo che per quattro mezzi principali si aumenta il commercio di una nazione. […] Primo, per la massima concorrenza sia de’ compratori come de’ venditori, sian pure nazionali o esteri come si voglia, e questa si ottiene col maggior grado di libertà a tutti da fare quel commercio che più piace. […] Questa concorrenza da se sola fa nascere i commerci utili veramente allo stato e […] impedisce il temuto monopolio. […] Secondo mezzo è il basso prezzo della mano d’opera, il qual basso prezzo nasce e dalla concorrenza medesima […] onde ogni opera nel minor tempo possibile e dalle più poche mani che si può venga fatta. [...] Il terzo consiste nella massima facilità dei trasporti (t. 12, pp. 95-96).
Il quarto mezzo finalmente consiste nei bassi interessi del denaro.
Questa impostazione fortemente favorevole alla libera iniziativa privata non esclude ovviamente l’intervento dello Stato. Per rimuovere gli ostacoli e favorire il settore agricolo, Beccaria ritiene sia utile difendere un reddito minimo per gli agricoltori, evitare una sperequazione troppo forte nella distribuzione delle terre, diffondere l’istruzione tra gli agricoltori, propagare il progresso tecnologico, assicurare la predisposizione di adeguate infrastrutture (come strade e canali) per abbassare i costi dei trasporti, imporre tributi sulle terre e sulle manifatture che non siano troppo alti, per non rappresentare un disincentivo nocivo al loro sviluppo. La fede liberale di Beccaria non può essere messa in dubbio, ma egli è ben consapevole del fatto che esistono limiti alla capacità del mercato di risolvere al meglio tutte le difficoltà. Per es., in tema di proporzione ottimale fra le differenti colture delle terre, è persuaso che questa si raggiunga lasciando libero il mercato. Tuttavia, se per avventura il mercato non dovesse trovare la soluzione ottimale, per ottenerla egli suggerisce di intervenire con un sistema di tributi e sussidi molto articolato. È il programma di una vera e propria politica di programmazione e di regolazione.
Beccaria si mostra anche particolarmente attento nell’individuare quelli che noi chiamiamo i fallimenti del mercato, quando cioè «mai o troppo tardi l’interesse privato giungerà ad unirsi col pubblico» (t. 11, p. 233). Un primo caso è rappresentato dalle asimmetrie informative, che Beccaria individua lucidamente molto prima che questa categoria analitica venisse elaborata dagli economisti: «dove la scoperta delle frodi è molto lenta e remota, ed il guadagno che apportano è presente e considerabile» (t. 11, p. 233), allora l’intervento pubblico è giustificato. Un secondo caso è quello dello sfruttamento economico ottimale dei boschi, tema da lui affrontato anche come funzionario pubblico: Beccaria è a favore di una regolazione del settore, e dimostra in maniera del tutto corretta come gli orizzonti temporali normali dei privati possano portare a risultati non ottimali quando i rendimenti sono realizzabili completamente solo nel lungo periodo.
Un commento a parte meritano altre due questioni, che attireranno l’attenzione fortemente critica di Francesco Ferrara (1852) sul carattere protezionista delle proposte di Beccaria.
La prima riguarda l’utilizzo del sistema fiscale per perseguire quello che oggi definiremmo finalità di politica industriale: la proposta di Beccaria, in linea con quella suggerita da P. Verri, proponeva di utilizzare i dazi doganali per fini di politica economica, e in particolare di colpire con dazi all’esportazione le materie prime che uscivano dal Paese, e con dazi all’importazione i prodotti manifatturieri provenienti dall’estero. È evidente che Beccaria avanzava questa proposta in presenza di prassi protezionistiche diffuse e di sistemi fiscali che si appoggiavano molto sugli introiti daziari. Egli subiva influenze di tipo mercantilista, anche se si trattava di un mercantilismo il cui obiettivo era la massimizzazione dell’occupazione. Non aveva invece preoccupazioni sugli equilibri degli scambi con l’estero, perché esplicitamente aderiva alla tesi (condivisa da Hume) secondo la quale il bilancio con l’estero non poteva essere permanentemente in squilibrio: forze spontanee avrebbero agito per riportare il bilancio in pareggio, dal momento che l’avanzo (disavanzo) nel bilancio avrebbe provocato un aumento (diminuzione) dei prezzi nel Paese in attivo (passivo), facendo quindi venir meno i vantaggi (svantaggi) competitivi.
L’altra questione rilevante riguarda l’annona. Su questo tema P. Verri era stato sempre molto deciso, proponendo all’amministrazione una liberalizzazione totale del regime annonario (il piano, com’è noto, fu respinto dal Supremo consiglio dell’economia con notevole durezza). Beccaria, negli Elementi di economia pubblica, discute a lungo sul tema, esprimendo preferenza per la liberalizzazione, ma si cautela: «Nel novero di questi casi ci contenteremo di alcune soluzioni ipotetiche e condizionate, non assolute e generali, come la natura stessa delle circostanze esige dall’avveduto politico» (t. 11, p. 178). In presenza di circostanze particolari, per es. il timore o anche il sospetto di possibili carestie, può essere opportuno limitare la libertà di contrattazione. Di questa materia così rilevante per lo Stato milanese, Beccaria dovrà in seguito occuparsi più volte come magistrato preposto all’annona. In tale qualità, Beccaria mostrerà sensibilità per un progressivo scioglimento e allentamento dei vincoli che costituivano la struttura di un sistema molto regolamentato. Tuttavia assumerà un atteggiamento relativamente prudente, preoccupato di evitare possibili arresti nei flussi di derrate alimentari in un sistema vincolistico particolarmente articolato. L’elemento propulsivo in questo settore risulterà Wenzel Anton, principe di Kaunitz-Rietberg, cancelliere di Stato (cioè ministro degli Esteri) dell’Impero d’Austria dal 1753 al 1792.
La politica economica di Beccaria può essere seguita anche attraverso i suoi atti di governo. Le consulte che Beccaria curò nel corso dei lunghi anni passati come alto funzionario dell’amministrazione, sono numerosissime e su svariati temi: oltre all’annona affrontò materie molto importanti quali la moneta, i regimi fiscali del commercio della seta con la Svizzera e la Germania, l’abolizioni delle Università (corporazioni), l’abolizione della tassa mercimoniale, la disoccupazione dei tessitori nella regione di Como e così via. L’impressione che si ricava è quella di un Beccaria che spesso utilizza, anche con finezza, le sue elaborazioni teoriche, pur dovendo spesso fare i conti con vincoli legislativi e politici che in diverso grado, a seconda della materia, lo condizionano. Alcune consulte tra le più importanti (Le consulte amministrative inedite di Cesare Beccaria, a cura di C.A.Vianello, 1943; Romagnoli 1958) erano già state pubblicate, ma con l’uscita, a partire dal 1984, della monumentale Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, in cui vengono riprodotte tutte le carte di Beccaria funzionario, vi è ora la possibilità di dare un giudizio più esatto del Beccaria politico economico. L’esame è iniziato su singoli settori (Massetto, in Cesare Beccaria, 1990, pp. 279-328), ma non è ancora arrivato a una valutazione complessiva in cui si metta a fuoco quanto l’azione di Beccaria sia dipesa dalle sue inclinazioni dottrinali, quanto dalle indicazioni e dagli ordini che venivano da Vienna e quanto, infine, dalle forze politiche e dai gruppi di potere che reggevano allora la polis milanese (Capra 1998).
Una volta fissate in modo preciso la struttura e le relazioni che costituiscono il nucleo portante del sistema economico reale, Beccaria, nella quarta parte degli Elementi di economia pubblica, passa ad affrontare il tema del commercio, strumento essenziale affinché le relazioni potenziali del sistema trovino piena concretizzazione. Poiché senza scambi l’economia non funziona, egli in primo luogo studia i valori di scambio dei beni e in secondo luogo la funzione della moneta nel facilitare il commercio.
È unanimemente riconosciuto che le riflessioni di Beccaria sulla teoria del valore siano particolarmente importanti e da considerarsi all’avanguardia fino all’avvento della teoria neoclassica. Taluno anzi le considera il suo maggior apporto analitico (Hutchison 1988, p. 300). Già altri, tra coloro che avevano seguito le teorie soggettivistiche del valore, avevano percorso sentieri analoghi al suo. La trattazione di Beccaria, tuttavia, ha il pregio di evidenziare come le forme di mercato e, in generale, la presenza di pressioni concorrenziali abbiano rilevante influenza sul prezzo. Essa si basa sui due tradizionali elementi esplicativi del valore delle merci: l’utilità e la scarsità. Infatti i beni possono avere un valore solo se sono «utili», ma questo non è sufficiente perché abbiano anche un valore di mercato se la loro quantità è illimitata. Il valore dipende contemporaneamente dall’utilità e dalla scarsità. Viene così risolto il famoso paradosso dei beni che possono avere utilità grandissima ma che hanno valore di scambio nullo.
Da questo inizio, se si vuole elementare, Beccaria sviluppa una serie di considerazioni in cui viene spiegata l’evoluzione degli scambi, dal regime di baratto, dove le merci si scambiano in ragione dell’utilità relativa, alla moneta, che serve da misura alla quale si rapportano i beni scambiati. L’argomento viene sviluppato introducendo una teoria del prezzo che poggia su una teoria della domanda e dell’offerta. Pur nel quadro di un sistema non ancora messo totalmente a punto (manca ancora il concetto di marginalità), Beccaria introduce quella che è la parte più originale della sua teoria sul tema, una sorta di analisi dinamica della determinazione del prezzo. Infatti, il produttore che riesce a fornire il prodotto a costi più bassi rispetto agli altri concorrenti sarà in grado di incamerare il profitto, non limitandosi a vendere sulla base dei suoi costi di produzione. Queste rendite che derivano dall’esistenza di processi produttivi più efficienti spariranno, o comunque diminuiranno, quando l’offerta degli altri produttori si adeguerà in termini di efficienza: inoltre, è chiaro che in equilibrio il prezzo sarà uguale al costo di produzione quando c’è concorrenza perfetta. Nel caso di monopolio bilaterale, invece, correttamente Beccaria ritiene che il prezzo non sia determinabile, dipendendo dalle strategie contrattuali dei due soggetti (Elementi di economia pubblica, cit., t. 11, p. 345).
Sul tema della moneta Beccaria è tornato più volte, partendo dal citato Del disordine e dei rimedi, proseguendo poi con gli Elementi di economia pubblica e con due importanti consulte, del 1771 (in Edizione nazionale, cit., 6° vol., Atti di governo, serie 1, 1771-1777, a cura di R. Canetta, 1987, pp. 14-65) e del 1778 (7° vol., Atti di governo, serie 2, 1778-1783, a cura di R. Canetta, 1990, pp. 42-52).
Già nel primo lavoro vi sono spunti e riflessioni, importanti per il modo rigoroso adottato nel mettere in luce le cause del disordine delle monete. L’impianto teorico, molto influenzato da Pompeo Neri e Gian Rinaldo Carli, non evidenzia particolari originalità. Beccaria, però, rivela anche in questo caso il rigore metodologico della sua indagine, formulando tre teoremi che dimostrano inconfutabilmente la fondatezza della sua tesi principale, cioè che le parità ufficiali non vengono rispettate se non corrispondono al valore del contenuto metallifero delle monete, cosa che frequentemente si verificava («la legge civile vince su quella dello Stato»).
In questo saggio Beccaria si dichiara contrario a una coniazione di monete di metalli nobili per lo Stato milanese, che non possedeva miniere di quei metalli ed era in continui rapporti commerciali con Stati limitrofi già possessori di monete di pregio. Per porre fine al disordine, egli propone di rifondere le monete di vile conio (il circolante) con un contenuto metallico maggiore, per riportare il valore di segno a quello reale. Data l’impossibilità di fissare una volte per tutte il rapporto di parità tra le monete, perché il loro valore dipende dalle diverse vicende del commercio e delle miniere, suggerisce di nominare un «ministro» preposto alla materia, in modo da tenere aggiornati i valori di grida delle monete con quelli di mercato (Porta, Scazzieri, in Alle origini del pensiero economico, 1996, pp. 15-58).
Negli Elementi di economia pubblica, i temi del primo saggio vengono ripresi negli stessi termini, ma integrati nello schema generale dedicato alla moneta, che per Beccaria non ha natura pattizia, ma nasce dagli usi e costumi. Vengono, inoltre, ribaditi con maggiori dettagli i meccanismi che, in presenza di monete aventi contenuti metallici non corrispondenti al valore legale, producono una rarefazione della moneta «buona» e un afflusso della moneta «cattiva». Soprattutto viene messo a fuoco come la svalutazione secondo i valori di mercato della moneta di rame nei confronti della moneta di pregio, possa nuocere ai salariati che vengono pagati secondo i valori di «grida», inducendo redistribuzioni di reddito indesiderate.
In contrasto con le tradizionali posizioni mercantilistiche e con strette teorie quantitative della moneta, Beccaria dedica molta attenzione agli aspetti relativi alla velocità di circolazione della moneta, sostenendo che non è tanto la quantità di moneta che conta ma quanto questa circola ed è attiva. Espressamente dichiara, infatti, che la quantità di moneta non è ricchezza: «Non sono i segni, ma le azioni che formano la forza e la felicità de’ cittadini» (Elementi di economia pubblica, cit., t. 11, p. 302). La velocità di circolazione della moneta è un segno di vitalità economica, e tra l’altro è una grandezza variabile.
Quando Beccaria riprende il tema della moneta nella consulta del 1771, rimane fedele alle sue tesi originarie. Modifica la sua posizione solo sull’opportunità di procedere al conio di una moneta locale di pregio, che in questa occasione trova la sua approvazione. Non è escluso che in questo caso abbia giocato l’appartenenza a un’amministrazione che riteneva la coniazione di una moneta nobile un fatto di prestigio.
La trattazione della moneta si conclude con l’esposizione della teoria dell’interesse e del cambio. In merito alla prima, le idee di Beccaria non presentano carattere di originalità e seguono principalmente le teorie del tasso di interesse reale, determinato dal profitto ottenibile nel settore agricolo. Molto più brillanti nell’esposizione risultano le pagine dedicate alle cause e circostanze che determinano il tasso di cambio.
Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta da L. Firpo, G. Francioni, 16 voll., Milano 1984-2009.
Si vedano in particolare:
Dei delitti e delle pene, 1° vol., a cura di G. Francioni, Milano 1984.
Ricerche intorno alla natura dello stile, in Scritti filosofici e letterari, 2° vol., a cura di L. Firpo, G. Francioni, G. Gaspari, Milano 1984, pp. 65-232.
Riflessioni intorno un piano delle leggi per le cambiali, in Atti di governo, serie 1, 1771-1777, 6° vol., a cura di R. Canetta, Milano 1987, pp. 70-84.
All’Edizione nazionale manca solo il 3° vol., che comprenderà gli scritti di economia.
Nel frattempo, alcuni di tali scritti possono essere reperiti nella serie Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte moderna, tt. 11 e 12, Milano 1804. Si vedano in particolare: Elementi di economia pubblica, parti I-III, t. 11, pp. 8-360, e parte IV, t. 12, pp. 7-166; Prolusione letta il giorno 9 gennaio 1769 nell’apertura della nuova cattedra di scienze camerali nelle Scuole palatine di Milano da Cesare Beccaria, t. 12, pp. 167-90; Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nell’anno 1762, t. 12, pp. 191-234; Tentativo analitico sui contrabbandi, t. 12, pp. 235-42; Relazione della riduzione delle misure di lunghezza all’uniformità per lo Stato di Milano, t. 12, pp. 243-313.
Si vedano inoltre:
Piano delle lezioni di pubblica economia che si danno nello spazio di due anni dal professore di questa scienza, in C.A. Vianello, La vita e l’opera di Cesare Beccaria: con scritti e documenti inediti, Milano 1938, pp. 221-55.
Opere, 2 voll., a cura di S. Romagnoli, Firenze 1958.
G. Pecchio, Storia dell’economia pubblica in Italia, ossia epilogo critico degli economisti italiani, Milano 1832, rist. a cura di G. Gasparri, Carnago 1992, 19942, pp. 144-52.
F. Ferrara, Prefazione, in Biblioteca dell’economista, 1a serie, 3° vol., Trattati italiani del XVIII secolo: Genovesi, Verri, Beccaria, Filangieri, Ortes, Torino 1852, pp. V-LXX.
L. Cossa, Guida allo studio dell’economia politica, Milano 1876, 18923 (con il titolo Introduzione allo studio dell’economia politica).
C.A. Vianello, La vita e l’opera di Cesare Beccaria: con scritti e documenti inediti, Milano 1938.
J.A. Schumpeter, History of economic analysis, ed. E. Body Schumpeter, London 1954, rist. New York 1959, passim.
F. Venturi, Introduzione, in Illuministi italiani, a cura di F. Venturi, 3° vol., Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Milano-Napoli 1958, pp. IX-XVIII.
R.D. Theocharis, Early developments in mathematical economics, London 1961, 19832, pp. 20-25.
F. Venturi, Introduzione a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino 1965, pp. VII-XXXIX.
F. Venturi, Settecento riformatore, 1° vol., Da Muratori a Beccaria, 1730-1764, Torino 1969, pp. 644-747, e 5° vol., L’Italia dei lumi, t. 1, La rivoluzione di Corsica, le grandi carestie degli anni Sessanta, la Lombardia delle riforme, 1764-1790, Torino 1987, pp. 425-854.
Sul disordine delle monete a Milano nel Settecento: tre saggi di Cesare Beccaria e Pietro Verri, a cura di A. Quadrio Curzio, R. Scazzieri, Milano 1986.
T. Hutchison, Before Adam Smith. The emergence of political economy, 1662-1776, Oxford 1988, pp. 298-307.
Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Atti del Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita, Milano-Roma 1990 (in partic. A. Carera, Cesare Beccaria, magistrato in provincia di annona, pp. 425-67; A. Cova, Beccaria e la questione delle monete, pp. 407-24; G. Francioni, Beccaria filosofo utilitarista, pp. 69-87; D.M. Klang, Cesare Beccaria, Pietro Verri e l’idea dell’imprenditore nell’illuminismo milanese, pp. 371-406; G.P. Massetto, Economia e pena nell’opera di Cesare Beccaria, pp. 279-328; P.L. Porta, Le lezioni di economia di Cesare Beccaria, pp. 356-70).
Alle origini del pensiero economico in Italia, 2° vol., Economia e istituzioni. Il paradigma lombardo tra i secoli XVIII e XIX, a cura di A. Quadrio Curzio, Bologna 1996 (in partic. P.L. Porta, R. Scazzieri, Concorrenza e società civile, pp. 15-58; D. Da Empoli, Teoria economica del diritto e teoria della giustizia, pp. 121-26).
C. Capra, Gli intellettuali e il potere: i casi di Beccaria e di Verri, in L’età dei lumi. Saggi sulla cultura settecentesca, a cura di A. Santucci, Bologna 1998, pp. 211-58.
R. Faucci, L’economia politica in Italia, dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino 2000, pp. 84-91.
P. Groenewegen, Eighteenth-century economics: Turgot, Beccaria and Smith, and their contemporaries, New York 2002, pp. 3-76.