Cesare Beccaria
A Cesare Beccaria si devono i concetti fondamentali del diritto penale moderno. La filosofia, nelle sue mani, fu uno straordinario strumento di lotta politica, che gli permise di smantellare il pensiero e il linguaggio giuridico di antico regime. Oltre al celeberrimo Dei delitti e delle pene, Beccaria scrisse anche testi meno noti e letti, dedicati all’economia e all’estetica. La sua azione si mosse sul duplice terreno della teoria e della pratica, della riforma dei saperi e dell’amministrazione concreta, per promuovere la felicità terrena degli esseri umani in una prospettiva immanente e nella totalità dei suoi aspetti pubblici e privati.
Cesare Beccaria nacque a Milano il 15 marzo 1738. Nell’autoritratto che scrisse su sollecitazione del suo traduttore francese, accenna con disprezzo agli «otto anni di educazione fanatica e servile» trascorsi dal 1747 al 1755 nel Collegio de’ nobili di Parma (Carteggio, a cura di C. Capra, R. Pasta, F. Pino Pongolini, 1° vol., 1994, p. 220). Altrettanto negativa, tanto da non meritare menzione, appare la seconda fase dei suoi studi, che lo vide passare dai gesuiti ai giuristi e conseguire nel 1758 il dottorato in legge all’Università di Pavia. L’autentica formazione iniziò soltanto dopo, nell’anno della «conversione alla filosofia», il 1761, quando Beccaria lesse le Lettres persanes (1721) di Montesquieu (Carteggio, cit., p. 222). Non a caso, le opere nate da questa svolta prenderanno di mira proprio i saperi che avevano caratterizzato la sua formazione ufficiale: Dei delitti e delle pene è un’opera di devastante polemica contro il fanatismo religioso e la barbarie giudiziaria del suo tempo, mentre il libro sullo stile affronta un problema centrale della retorica, disciplina fondamentale dell’insegnamento gesuitico.
Laureato in legge e figlio primogenito di un patrizio, possedeva le due condizioni necessarie per accedere alle più alte cariche e magistrature dello Stato. Il suo destino sociale e intellettuale subì però un’improvvisa inversione di rotta in seguito all’incontro, avvenuto alla fine del 1760, con la giovane Teresa Blasco, figlia di un ufficiale siciliano. Beccaria decise di sposarsi contro il divieto del padre, che vedeva nella temuta mésalliance la fine repentina dell’ascesa familiare. E a causa della disobbedienza fu cacciato di casa. I due sposi, forse ispirati dalla Julie di Jean-Jacques Rousseau, che fu pubblicata proprio nel 1761 e la cui vicenda poteva sembrare analoga alla loro, diedero il nome di Giulia alla prima figlia: la futura madre di Alessandro Manzoni nacque così nel 1762, da un matrimonio che non s’aveva da fare.
Il dissidio familiare scoppiato in casa Beccaria era espressione di un conflitto generazionale più ampio, che a sua volta affondava le radici in una grave crisi politica e culturale. Cesare strinse amicizia con altri giovani aristocratici in conflitto con i propri padri e impegnati persino a sostenere la politica accentratrice di Vienna, in radicale contrasto con l’ideologia della nobiltà milanese. Tra questi enfants terribles della nobiltà cittadina spiccava la figura carismatica di Pietro Verri, su invito del quale Beccaria scrisse Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nell’anno 1762, stampato a Lucca nel 1762: l’opuscolo proponeva un metodo aritmetico per rimediare alle storture del sistema monetario locale. Fu ancora l’amico Verri a suggerire il successivo libro, che si sarebbe scagliato contro l’ingiustizia della giurisprudenza criminale milanese. Il pamphlet, rivisto dallo stesso Verri, intitolato Dei delitti e delle pene (pubblicato nel 1764, aggiornato nel 1765 e poi nel 1766), ottenne un imprevisto, fulmineo successo europeo. L’autore si era messo al riparo da ogni sospetto di parzialità presentando il libro anonimo, già dal titolo, come una riflessione sui principi universali del diritto di punire: alla cui luce non solo la giurisprudenza locale ma tutta quella europea apparve a molti lettori come un barbaro residuo del passato feudale.
Al «Caffè» (1764-66), la rivista ideata e diretta da Verri, Beccaria contribuì con sette articoli. Alla fine del 1766 intraprese un viaggio a Parigi con Alessandro, fratello di Pietro, per raccogliere gli omaggi dell’intellighenzia francese. Per l’assoluta mancanza di entusiasmo da parte dello stesso acclamato autore, il viaggio fu un fiasco; e, peggio, sancì la rottura dell’amicizia tra Beccaria e i due Verri. Nel 1768, Beccaria si vide attribuire la nuova cattedra di economia e commercio istituitasi presso le Scuole palatine di Milano: dal gennaio 1769 dettò le sue lezioni, pubblicate postume nel 1804 con il titolo di Elementi di economia pubblica. Ritardato dalla preparazione del corso, apparve poi nel 1770 il suo unico scritto che abbia risposto non a una sollecitazione esterna, ma a un progetto del tutto personale, peraltro già abbozzato sul «Caffè»: le Ricerche intorno alla natura dello stile (una seconda parte, rimasta incompiuta, fu stampata postuma nel 1809). Dell’altro progetto degli stessi anni, mai portato a termine, non ci sono pervenuti che pochi frammenti: dedicato a una storia filosofica dell’incivilimento, il libro si sarebbe forse intitolato Il ripulimento delle nazioni.
Il corso di economia, biennale, fu ripetuto due volte. Nel 1771 Beccaria ottenne il posto che aveva ambito, venendo nominato alto funzionario negli organi di governo della Lombardia austriaca. Per i successivi ventitré anni si dedicò alla gestione pragmatica dell’interesse pubblico, lasciando un’enorme mole di «atti di governo» stesi di suo pugno. Immerso nella prosa del mondo, non scrisse più libri. Morì a Milano il 28 novembre 1794.
Lo scopo dichiarato di Beccaria, nello scrivere Dei delitti e delle pene, era quello di denunciare la crudele severità della giustizia criminale del tempo – anche se un suo intento meno vistoso, ma senz’altro importante, era di sottolineare come, proprio per colpa di questa severità eccessiva, molti delitti restassero impuniti (cfr. Foucault 1975). Tanto per ragioni di umanità quanto per motivi razionali di giustizia e di efficienza, sostiene Beccaria, occorre punire meno azioni, e con meno violenza.
Per giungere a questo risultato, l’argomentazione prende il via dal concetto di contratto sociale. Diversi, rivali, uguali e liberi sono per natura gli esseri umani, a cui non si possono dunque imporre norme e limiti che non siano voluti da loro stessi. Solo il consenso – non certo quello empirico, ma quello idealmente ricostruito dalla ragione – può rendere legittimo il potere. Ma quella di Beccaria è una versione antigiusnaturalistica del patto: gli uomini, accecati dalle passioni, sono ritenuti incapaci di prendere le distanze dall’interesse privato e immediato. Non si può quindi supporre che abbiano acconsentito ai valori dell’interesse comune gratuitamente, per puro scrupolo morale, ma si deve assumere che il consenso civile sia stato opera delle stesse passioni: il patto scaturì dalla violenza di una vera e propria guerra che, se forse non mise a repentaglio la sopravvivenza stessa della specie, stancò talmente gli uomini da farli rinunciare alla libertà originaria. Le leggi sono l’espressione razionale di quella stanchezza, della voce primitiva della passione stanca.
Tale descrizione a tinte fosche del cuore umano, egoistico e miope, non serve tuttavia, come in Thomas Hobbes, a giustificare l’assolutismo come unico mezzo per arginare la forza disgregante degli interessi particolari. Lungi dal rendere necessario, dunque legittimo, un potere senza limiti, il pessimismo antropologico di Beccaria prescrive una drastica contrazione dei limiti del potere. Infatti, se a condurre al contratto sociale non fu una libera, razionale definizione del bene pubblico, ma una rinuncia coatta ispirata dal timore, una formazione di compromesso per sfuggire alla guerra di tutti contro tutti; se gli uomini hanno acconsentito all’autorità con la morte nel cuore, si deve concludere che essi non abbiano accettato di compiere che il più piccolo sacrificio, concedendo cioè al sovrano il minimo potere possibile:
Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile (Dei delitti e delle pene, a cura di G. Francioni, 2009, § II, p. 148).
Il gravoso ma esile sacrificio che trasforma l’uomo in cittadino è dunque tutt’altro che l’alienazione «totale» e «senza riserve» descritta dall’odiosamato Rousseau (Contrat social; trad. it. a cura di B. Carnevali, 2002, p. 30). A differenza di quello rousseauiano, il contratto di Beccaria non cambia il «modo di essere» (p. 29) dei contraenti: non li affranca mai dall’egoismo, né li costringe a rinunciare al primato dei loro interessi particolari. Non si vede, peraltro, la ragione per cui vi si dovrebbe rinunciare: non c’è niente di male nel ricercare il proprio benessere. L’egoismo non è malvagità: non va dunque sradicato.
E tuttavia, il compito delle leggi resta quello di moderare le passioni. Un assunto contro cui si potrebbe portare l’esempio delle repubbliche antiche, che generavano la passione del bene pubblico nel cuore dei cittadini. Ma questa via ci è ormai preclusa: nel mondo moderno, solo le tirannidi governano con passioni forti, spaventando continuamente i sudditi e traendoli in inganno sui loro interessi. I moderni regimi moderati devono invece adempiere alla propria missione storica, che consiste nell’incivilimento, nell’addolcimento dei costumi. Sono le leggi moderate, con la loro stessa costanza, a impedire preventivamente l’accendersi, l’eccitarsi delle umane passioni. Ed è fuorviante pensare che si possa raggiungere tale scopo attraverso la repressione e il soffocamento. Sin dagli inizi dell’età moderna, un’ampia corrente di pensiero ha dimostrato come ogni attacco frontale alle passioni sia destinato non solo a fallire, ma a produrre un effetto opposto di esasperazione, inasprendo ciò che si voleva placare (cfr. A.O. Hirschman, The passions and the interests: political arguments for capitalism before its triumph, 1977). A regnare negli animi umani non è la ragione ma l’opinione, «che ubbidisce alle lente ed indirette impressioni del legislatore, che resiste alle dirette e violente» (Dei delitti e delle pene, cit., § XXXII, p. 256).
Maturata anche a contatto con la tradizione empiristica e sensistica, da John Locke a Claude-Adrien Helvétius, il cui De l’esprit (1758) viene indicato nell’autoritratto come una delle fonti principali della «conversione» filosofica, questa convinzione porta Beccaria a sottolineare che la sensibilità umana non può essere contrastata: essa è parte della natura, e la natura è incontrastabile. Oltre all’esperienza, anche la ragione «dichiara inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo» (§ XVIII, p. 204): non solo perché, non potendo essere rispettate, intaccano la rispettabilità di tutte le leggi, ma anche perché esacerbano le passioni anziché frenarle, fomentando una naturale reazione di controspinta. Il compito del potere non può dunque essere quello di ostacolare o limitare le passioni, tant’è vero che sono proprio le passioni, e non la giusnaturalistica ragione, a limitare il potere. Bisogna soltanto instradarle, impedendo che gli interessi umani si urtino a vicenda: «la politica istessa […] non è altro che l’arte di meglio dirigere e di rendere conspiranti i sentimenti immutabili degli uomini» (§ XXIII, p. 214). Così devono fare le leggi penali: infondere timore, distogliendo i cittadini dalle azioni lesive della coesione sociale, ma senza restringere minimamente lo spazio delle azioni conciliabili tra loro, per quanto siano mosse da passioni puramente egoistiche. Ecco l’appello lanciato da Beccaria al legislatore: «Saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno» (§ XLVI, p. 294).
Nel contratto sociale, gli uomini hanno dunque rinunciato non alle loro passioni, ma a una minima parte della loro facoltà di agire. Ma cosa volevano ottenere in cambio dell’indesiderato «sacrificio» cui si sono trovati costretti? La risposta sembra contraddittoria, perché doppiamente paradossale: gli individui erano liberi, più liberi che mai, ma non chiedevano altro che di essere liberi; e si sono procurati la libertà riducendola, rinunciando a una sua parte. La contraddizione tuttavia è inesistente, mentre il paradosso trova ragione nella stessa natura della libertà umana, pianta fragile che non può crescere senza tutori. Nello stato di natura, infatti, dove vige una totale indipendenza da qualunque vincolo, la libertà è «resa inutile dall’incertezza di conservarla» (§ I, p. 146), perché il timore della libertà altrui inibisce ogni azione. Diventare liberi significa rendere utile la libertà, abolendo l’incertezza permanente dello stato naturale: garantire la libertà con la sicurezza e tranquillità dello stato civile, legando le azioni umane con il vincolo delle leggi. Ecco perché la sola, vera libertà non è quella naturale, ma quella civile, che si definisce come una riduzione della prima, come dono e abbandono di una porzione di libertà naturale. Essere liberi non equivale a un poter agire senza vincoli, ma a un poter agire in mezzo a vincoli noti e stabili, tali da consentire a ognuno di prevedere l’esito delle proprie azioni. Scopo fondamentale dello stato civile è dunque senz’altro la libertà; ma, come ha insegnato Montesquieu, nominato ben tre volte da Beccaria che non cita nessun altro autore, tale libertà non designa altro che la sicurezza, o meglio «l’opinione della propria sicurezza» (§ XXIX, p. 240). Non un genere di azioni (quelle libere da vincoli), ma uno stato d’animo: libertà non è altro che la serena, tranquilla fiducia di chi sa di poter fare qualunque azione lecita senza temere di venire ostacolato dalla volontà arbitraria di altri e sapendo, inoltre, esattamente cosa rischia se mai fosse tentato da qualche azione illecita.
Resta però da capire cosa e come il sovrano possa punire con giustizia. Il minimo possibile con la minima violenza, si è detto: ma come stabilire concretamente questa soglia, questo limite drastico? La risposta va cercata nei principi del diritto penale, desunti dal contratto sociale. Questi principi, esposti nei primi dodici paragrafi dei Delitti, sono tre: l’idea di utilità, che è la «base della giustizia»; l’istanza di libertà, «dogma politico» e «assioma» delle società legittime; e, infine, il «principio infallibile» dei «minori mali possibili».
L’origine ideale delle società assegna alle leggi penali una funzione puramente umana e civile. Il fine delle società è estraneo a qualsiasi progetto di redenzione: non ha nulla a che fare con la salvezza delle anime. Pensare che uomini interessati soltanto al piacere presente abbiano sacrificato parte della propria libertà per scrupolo morale o religioso è un pio desiderio, degno di un romanzo più che di una ricostruzione storica. Il fine di tutte le azioni umane è infatti l’utile, che consiste nella ricerca del piacere e nella fuga dal dolore; e l’ordinamento civile ha l’unico compito di rendere la libertà utile, cioè concreta, reale, effettiva. Si potrebbe a questo proposito parlare di «utilitarismo», se non altro perché lo stesso Jeremy Bentham ha individuato una fonte del proprio pensiero nell’icastico motto che condensa questa idea: l’unico, vero compito delle leggi, scrive Beccaria, è «la massima felicità divisa nel maggior numero» (Dei delitti e delle pene, cit., Introduzione, p. 142). Il termine va però inteso nel senso ristretto talvolta usato per alcune dottrine settecentesche, come quella di Helvétius, e diverso da quello attestato solo a partire da Bentham. Anche se fondato sul primato dell’utile, il modello antropologico beccariano è infatti perfettamente coerente con un concetto di giustizia fondato sul consenso, e quindi sul modello giuridico del contratto, respinto invece dall’utilitarista inglese (cfr. Francioni, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, 1990). Vogliamo l’utile non perché è giusto, ma esso è giusto perché lo vogliamo: l’umana felicità non ha alcun contenuto sostanziale. L’idea di giustizia si definisce dunque come la massima compatibilità reciproca delle singole libertà, senza riguardo al loro valore etico:
La sola necessità ha fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana (Dei delitti e delle pene, cit., § VII, p. 164).
Da questo principio dell’utile derivano tre regole fondamentali del diritto criminale.
Innanzitutto, le leggi penali non devono oltrepassare la sfera dell’utile. Un’azione deve essere proibita solo qualora metta in pericolo la vita civile, ma non per un motivo morale o religioso: «l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione» (§ VII, p. 164). Su questo monito di Beccaria, Franco Venturi ha scritto:
Il diritto penale usciva desacralizzato dalle sue mani. Egli aveva posto alla base di tutto il suo ragionamento una distinzione che andava contro una tradizione di millenni: una cosa era il delitto, tutt’altra il peccato (Venturi 1969, pp. 705-706).
Il principio dell’utile prescrive inoltre un’importante regola di proporzionalità delle pene fondata sul criterio del danno pubblico, in modo da rendere i delitti tanto più rari quanto più sono pericolosi: le pene più dure previste per i delitti più gravi dissuaderanno maggiormente dal commetterli. Questa regola va contro la legislazione di antico regime, che metteva assurdamente sullo stesso piano, come si osserva nei Delitti (§ XXXIII, p. 262), «chi assassina un uomo» e «chi uccide un fagiano» (cioè chi cacciava nelle tenute aristocratiche), comminando a entrambi la pena di morte. Questa innaturale e tirannica confusione, afferma Beccaria, distrugge «i sentimenti morali, opera di molti secoli e di molto sangue» (§ XXXIII, p. 262). La distinzione morale tra i delitti, socialmente utile, va salvaguardata mediante quella giuridica tra le pene che, non basata su criteri morali, produce pur sempre effetti morali.
Le leggi penali dovrebbero infine attenersi a una regola di analogia tra i delitti e le pene, il cui effetto deterrente sarà tanto più forte quanto più chiaro sarà il legame con il reato. Si tratta, tuttavia, di un principio di secondo ordine, da rispettare «quanto più si possa» (§ XXIX, p. 206), ma che Beccaria è disposto tranquillamente ad abbandonare di fronte a istanze più impellenti, come nel caso del furto e dell’omicidio.
La condizione irrinunciabile perché la libertà risulti utile è «l’opinione della propria sicurezza», che rappresenta dunque una finalità fondamentale del vivere civile, superiore all’utilità non per astratta gerarchia dei valori, ma per il motivo razionale che ne costituisce il presupposto medesimo, lo strumento di effettuazione:
L’opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi, senza temerne altro inconveniente che quello che può nascere dall’azione medesima, questo è il dogma politico che dovrebb’essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere legittima società (§ VIII, p. 168);
Io non trovo eccezione alcuna a quest’assioma generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o quando sia innocente (§ XI, p. 176).
Gli uomini non sono liberi, non fanno ciò che vogliono quando temono che le proprie azioni vengano arbitrariamente ostacolate. Non basta dunque che le leggi impediscano quelle poche azioni che arrecano danni alla nazione: bisogna che le norme giuridiche siano dichiarate pubblicamente e applicate con rigore, senza eccezioni di sorta.
Combinato con la base della giustizia, il dogma o assioma delle società legittime sottopone allora l’istituzione penale a due principi che vanno in senso contrario: quello del legislatore è utilitaristico, mentre quello del giudice è deontologico. A guidare il primo è l’utilità sociale: le pene non devono far soffrire inutilmente per espiazione, vendetta, o desiderio di ripristinare un’armonia turbata, ossia per ragioni rivolte al passato, ma devono guardare solo al futuro, perché solo il futuro può essere modificato. «Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali» (§ XII, p. 178). L’istituzione penale rischia però di minacciare la sicurezza dei cittadini se non lega le mani dei magistrati. Se il giudice potesse scegliere le pene interpretando personalmente la loro opportunità sociale, i cittadini tornerebbero in quell’incertezza che proprio l’istituzione penale aveva il compito di eliminare. All’argomento aristotelico dell’equità che, nella dottrina di antico regime, serviva a giustificare l’interpretazione giurisprudenziale, Beccaria replica: un giudice che interpreta, anche se in nome delle cosiddette circostanze, diventa ipso facto legislatore, infrangendo il principio della separazione dei poteri. La volontà imprevedibile e arbitraria di un singolo si sostituisce alla voce pubblica e costante della legge; e la libertà politica va in frantumi. Proprio perché il legislatore è consequenzialista, deve impedire al magistrato di agire in modo consequenzialistico, e a questo scopo deve sottoporre l’intera giustizia penale al principio di legalità o certezza del diritto: «non può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino» (§ III, p. 150); «Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge» (§ IV, p. 152). Questo principio giuridico indica anche un traguardo politico: abbattere «l’intermediario dispotismo» dei magistrati (§ XXVIII, p. 240) significa infatti, più in generale, abbattere quello dei «corpi intermedi» tanto celebrati da Montesquieu. In questa prospettiva Beccaria ripone la propria fiducia nel potere sovrano e, per la prima volta nella storia delle idee, dà alla parola «dispotismo» un valore positivo, come «dispotismo di un solo» (§ IV, p. 156) capace di spezzare l’ingiusto «dispotismo di molti» (p. 155).
L’ordinamento penale deve quindi obbedire a un utilitarismo della regola ante litteram: produce conseguenze migliori quando i magistrati rispettano le regole deontologicamente, non teleologicamente. Questa combinazione di norme da rispettare e valori da massimizzare rispecchia la fusione di contrattualismo e utilitarismo. I contraenti, uguali, diversi, mossi dall’interesse, non possono essere costretti e castigati che in nome dell’utile. Ma l’utilità medesima suppone la sicurezza: la soddisfazione del loro desiderio prescrive un ferreo, assoluto regno delle norme. Il fine giustifica pertanto i mezzi, ma in senso antimachiavellico, se i mezzi designano appunto un rispetto incondizionato di regole. Regole che devono valere ugualmente per tutti, senza riguardo alle distinzioni di status e di circostanze: in caso contrario, alcuni avrebbero più diritti, più libertà di altri, e si tornerebbe nell’insicurezza dello stato naturale.
La rigida osservanza del principio di legalità porta così Beccaria verso un’inedita ed esigente forma di garantismo penale. Tale garantismo, come è stato notato, ha forse suggerito conclusioni eccessive e inapplicabili, a cominciare da quella che proibisce al giudice di interpretare le leggi penali; ma ha anche prodotto esiti di altissimo valore, destinati a segnare profondamente il diritto moderno. I Delitti contengono, per es., la prima formulazione del moderno principio della presunzione d’innocenza, diverso dalla sua versione antica (in dubio pro reo) in quanto toglie di mezzo ogni stato intermedio tra la colpevolezza e l’innocenza. Tale principio forma il primo e maggior argomento di Beccaria contro la tortura: «Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice» (§ XVI, p. 190).
Dai principi correlati dell’utilità e della libertà, Beccaria deduce insomma, con logica stringente, la necessità di ripensare e riformare interi settori della legislazione criminale. Così è, per es., per la questione della valutazione delle prove giudiziarie, affrontata nei paragrafi XIII-XVIII, e che va subordinata sia alla legge antropologica dell’interesse che ai due suddetti principi: un testimone deve essere considerato tanto meno affidabile quanto più ha interesse a mentire; le prove reciprocamente dipendenti devono ridursi a una sola e, per valutare la loro forza, è meglio affidarsi al convincimento di non professionisti; le delazioni segrete mettono a repentaglio la sicurezza dello stato civile, e devono di conseguenza essere proibite; la tortura è non soltanto ingiusta, ma inefficace; il pubblico ministero dovrebbe essere indipendente dall’esecutivo; vanno infine banditi i giuramenti, in quanto inutili.
Nei paragrafi dedicati alle pene (XIX-XXVIII) viene spesso chiamato in causa un altro principio, già stabilito in precedenza. Le pene devono essere applicate speditamente; le violenze sulle persone non vanno punite con multe pecuniarie; a tutti vanno comminate le stesse pene, senza riguardo alle distinzioni di rango; i furti vanno puniti con i lavori forzati, l’infamia con pene infamanti, gli oziosi con pene di bando; i beni dei banditi non dovrebbero essere confiscati; in generale, le pene devono essere dolci e la pena di morte va abolita. Queste regole sono desunte da un principio di ampia portata, derivato in linea diretta dal patto sociale: «non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare ai minori mali possibili» (§ XIX, p. 206). Al criterio dell’utile va dunque aggiunto quello più restrittivo del necessario che, anche qui, viene fatto risalire a Montesquieu: «per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari […]: tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura» (§ II, p. 148). Gli uomini, infatti, non hanno acconsentito a tutto ciò che fosse utile, ma solo alle minime rinunce possibili, cioè a quelle davvero necessarie. Se una pena può essere più o meno utile, essa sarà però giusta solo se necessaria, e dunque ingiusta non solo se dannosa (se accresce la criminalità) o inutile (se non la accresce, ma non la diminuisce nemmeno), ma anche se utile e non necessaria (se la diminuisce, ma se lo stesso risultato può essere raggiunto a un prezzo minore, o se il prezzo da pagare è insopportabile). Da questo principio di parsimonia punitiva si ricavano due regole.
In primo luogo, per proibire un’azione, non basta dimostrare che la sua scomparsa aumenta il benessere generale. Occorre invece accertarsi che un eventuale aumento del benessere non venga annullato dalla diminuzione del benessere indotta dalla nuova norma. Il principio dei minori mali possibili prescrive dunque un impegno costante alla depenalizzazione. Punire è un male necessario, cui è giusto rassegnarsi solo in caso di assoluta necessità: una società degna di questo nome punisce solo di malavoglia, e dunque il meno possibile. Dove sia possibile raggiungere lo stesso risultato per vie diverse, si dovrà sempre scegliere questa alternativa. Ecco perché una teoria della giustizia penale non può restare circoscritta entro la sola sfera giuridica, ma deve coinvolgere tutte le istituzioni capaci di diminuire la violenza, in primis le leggi economiche e l’istruzione pubblica: le principali cause dei delitti sono l’ignoranza e la miseria, che Beccaria ritiene per lo più provocata dalle cattive leggi economiche del suo tempo, nate e cresciute a sostegno di un assetto cetuale ormai superato, ingiusto e rovinoso. Infatti, «non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo» (§ XXXI, pp. 254-56).
In secondo luogo, lo stesso principio prescrive uno sforzo permanente per mitigare le pene. Il dolore del reo è solo un male necessario che, privo di ogni bontà intrinseca, deve essere il minore possibile. Il diritto penale trova la sua giustificazione razionale nella capacità di ridurre la violenza: «non solo la violenza dei delitti, ma anche la violenza delle reazioni ai delitti» (L. Ferrajoli, introduzione a R. Sbardella, Beccaria: “Dei delitti e delle pene”, con note, 2005, p. 19); la pena è dunque legittima solo se riesce
ad essere la legge del più debole in alternativa alla legge del più forte che vigerebbe in sua assenza: del più debole che, nel momento del reato, è la parte offesa, nel momento del processo è l’imputato e in quello dell’esecuzione è il condannato (p. 20).
Il legislatore – ma non certo il giudice – deve sempre addolcire le pene quando ciò non diminuisca la loro efficacia deterrente. Tale processo seguirà l’addolcimento dei costumi, ma dovrebbe essere avviato già subito, e su grande scala. L’intero sistema punitivo di antico regime, ammonisce Beccaria, era basato su errori funesti: si riteneva che la forza deterrente delle pene fosse proporzionale al dolore inferto al reo. Le pene atroci servivano a sovrani e magistrati, traviati da false idee ereditate dalla barbarie feudale, a sfogare le loro passioni tiranniche, anziché a moderare quelle dei cittadini. Ormai, però, l’umanità e la verità hanno fatto passi promettenti, avvicinandosi al trono, e facendo emergere una nuova categoria del lessico giuridico e politico: quella dei «diritti degli uomini» (Dei delitti e delle pene, cit., § XI, p. 175), le garanzie inviolabili che tutelano i singoli non in quanto sudditi, ma in quanto esseri umani. Del resto, Montesquieu ha dimostrato ciò che conferma anche la filosofia sensistica: l’infallibilità di pene dolci e ripetute riesce di gran lunga più dissuasiva dell’intensità passeggera di pene violente.
Da questa istanza di dolcezza, perfetta espressione del connubio illuministico di sensibilità e ragione, deriva il capitolo più lungo e più celebre del libro, in cui vengono dimostrate sia l’ingiustizia che l’inutilità della pena di morte:
Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita ? […] Non è dunque la pena di morte un diritto […]. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità (§ XXVIII, p. 228).
A una breve ma definitiva argomentazione de iure fondata sul contratto sociale, segue quindi una lunga argomentazione de facto destinata a confermare che il mondo umano non è costretto a scegliere tra il giusto e l’utile.
Gli scritti degli anni 1769-70 rovesciano allora la prospettiva: al problema di come ridurre la violenza tra gli uomini, ossia l’infelicità, subentra quello di come aumentare il piacere e la felicità. Nelle Ricerche intorno alla natura dello stile, Beccaria si concentra sui diletti dell’immaginazione, privati e gratuiti; nelle lezioni di economia, sulla ricchezza delle nazioni e la soddisfazione degli interessi.
Contro l’errore di molti filosofi moderni, Beccaria sostiene che la filosofia moderna combatte i precetti delle vecchie poetiche, ma non l’idea stessa di precetti e regole. L’empirismo di Locke permette anzi di rifondare razionalmente un sistema poetico normativo che non sia basato, come in passato, sul principio di autorità, sull’osservazione di testi considerati belli, ma della cui bellezza non si sa dare ragione. Alla scienza dell’uomo, al metodo analitico dei moderni spetta il compito di sviluppare quella poetica filosofica cui Beccaria intende ora contribuire, limitandosi alla sola questione dello stile, e a una sola parte di esso. Distingue, infatti, tra una parte dello stile che riguarda la scelta delle parole, cioè in base a ritmo e sonorità, e una parte che riguarda invece quella delle idee, cioè dei concetti espressi nel discorso: solo a quest’ultima sarà dedicata l’opera. In questo senso, e poiché non è possibile scegliere le idee principali, lo stile riguarderà solo la scelta delle idee accessorie, aggiuntive, non indispensabili.
A guidare questa scelta è un’operazione di calcolo, un calcolo delle sensazioni: si devono misurare le sensazioni destate dalle idee accessorie e destinate a dare più forza, più energia a quelle principali. Scopo dello scrittore è infatti quello di trovare il giusto equilibrio tra povertà e abbondanza, tra una monotonia languida, noiosa, e una varietà confusa, faticosa:
Quanto maggior numero di tali sensazioni risplenderanno intorno alle idee principali, tanto maggiore sarà il piacere per chi legge o ascolta, perché sentirà un maggior numero di corde sensibili fremere dentro di sé; ma al di là di un certo numero la copia soverchierà l’attenzione (Ricerche intorno alla natura dello stile, a cura di G. Gaspari, in Edizione nazionale delle opere, 2° vol., 1984, cap. I, pp. 85-86).
Tutto si riduce, come in politica, alla determinazione aritmetica di un massimo possibile: questo il «principio fondamentale di ogni stile, cioè il massimo di sensazioni compossibili tra di loro» (cap. IV, p. 108).
Lo stile si definisce allora dal legame che si viene a creare tra le idee accessorie, nonché tra queste e le idee principali: se, per es., le idee accessorie «saranno di egual forza e di egual importanza costantemente», si parlerà di stile fluido; di stile conciso, invece, se «le idee principali, accompagnate da poche accessorie, ma importanti, si succedono rapidamente» (cap. IX, p. 141); e così via. Contro una lunga tradizione, Beccaria sostiene tuttavia che la scelta di uno stile non dipende da quella del genere letterario, ma solo dalla natura delle idee principali, troppo varia e articolata per corrispondere alle classificazioni di poetica.
Gli ultimi due capitoli dell’unica parte pubblicata nel 1770 vertono infine sui discorsi volti non a «enunciare una verità», ma a «eccitare un sentimento» (cap. I, p. 81). Si passa quindi, apparentemente, dalla retorica alla poetica. Ma questa vecchia distinzione ha ormai perso ragion d’essere, dal momento che in ambito sensistico tutti i discorsi sono oggetto di poetica, perché producono tutti sensazioni. Semmai, il secondo genere di componimenti necessita, oltre che della moderna scienza delle idee, anche di quella delle passioni, corredata nell’ultimo capitolo da una teoria dell’entusiasmo.
Nella seconda parte pubblicata postuma, Beccaria affronta il classico problema dell’invenzione. La prima parte ha insegnato a scegliere la migliore tra espressioni diverse: ma come abituare la mente a coniare di volta in volta un gran numero di espressioni? Il metodo andrà ricavato dalla storia delle lingue. Infatti, fu nel secondo stato delle nazioni, «poetico, imaginoso ed eloquente» (cap. XVI, p. 194), che i discorsi esercitarono la massima forza su lettori e ascoltatori: per merito di una perfetta corrispondenza tra il numero delle idee e quello delle parole, queste richiamavano immediatamente quelle. Ma ne derivarono due conseguenze: la prima, positiva, fu la nascita delle scienze e della filosofia, grazie a una lingua sempre più astratta e analitica, mentre la seconda, negativa, condusse al terzo stato delle lingue, caratterizzato da un numero di parole superiore a quello delle idee da esse richiamate, e da una maggiore connessione tra le parole che non tra le idee.
Da questo ultimo stato non si può ormai più uscire; tuttavia lo scrittore può, anzi deve provare a tornare indietro:
Dunque l’esercizio dell’eccellente scrittore sarà quello di perpetuamente sforzarsi di non lasciar che la mente si carichi di parola alcuna senza che ella non sia stabilmente più associata colla sua precisa e determinata idea corrispondente, che colle altre parole connesse per l’andamento della lingua con lei medesima (p. 200).
In un contesto minacciato da uno sviluppo verbale incontrollato, il grande poeta ha il dovere di ricondurre ogni parola alla sua origine sensibile.
Il libro sullo stile, tradotto in francese, fu accolto negativamente dai suoi pochi lettori e cadde subito nell’oblio (lo lesse però, e ne rimase impressionato, il giovane Giacomo Leopardi). Più lusinghiero, ma non troppo entusiasta, fu il giudizio del pubblico sulla Prolusione al corso di economia, che fu stampata nel 1769 e tradotta in inglese e francese. Beccaria, chiamato dal 1771 a più alte mansioni, serbò nel cassetto il testo delle lezioni successive, articolate in quattro parti: «princìpi e viste generali», «agricoltura politica», «arti e manifatture», «commercio».
Dettato su richiesta del sovrano, come le prime opere erano state scritte su invito degli amici (Beccaria scrisse quasi sempre per sollecitazione esterna), il corso riporta in primo piano le preoccupazioni politiche degli esordi. Vi si ritrova però una preoccupazione presente anche nel libro sullo stile: quella di proporre un sapere nuovo fondato sulla «scienza dell’uomo in tutti i tempi e in tutti i luoghi» (Elementi di economia pubblica, a cura di P. Custodi, 11° vol., 1804, parte III, § 26, p. 310). La filosofia moderna ha permesso infatti di superare la concezione prescientifica dell’economia, che si affida al caso, all’abitudine, alla pratica. Titolare della seconda cattedra di economia mai istituitasi in Italia (dopo quella napoletana di Antonio Genovesi), Beccaria si preoccupa dunque di giustificare la scientificità della propria disciplina, nonché della sua stessa esistenza come disciplina autonoma, non inclusa tra le competenze dell’etica o della giurisprudenza.
L’economia è passibile di un trattamento scientifico, argomenta implicitamente il professore, perché le azioni umane, essendo mosse dall’interesse che è la «forza primitiva dell’animo nostro» (parte II, § 4, p. 120), sono regolari e prevedibili: «ciò che noi chiamiamo eventualità e fortuna è soggetto a regole costanti e periodiche fissate dall’ordine eterno e dalla suprema provvidenza d’un Dio regolatore» (parte I, § 45, p. 91). La scienza nuova può dunque far leva su dati statistici e inconfutabili, e soprattutto su modelli matematici. Così, nel breve Tentativo analitico su i contrabbandi apparso sul «Caffè» nel 1764, e destinato a proporre una tariffa doganale atta a disincentivare il contrabbando, Beccaria era giunto a un risultato economico attraverso un ragionamento puramente matematico, offrendo una delle prime analisi di econometria ante litteram. In generale, anche l’economia, come la politica e l’estetica, dipende dalla determinazione aritmetica di un massimo possibile:
diremo essere fine generale e principio insieme reggitore di tutta la politica economia, di eccitare nella nazione la maggiore quantità possibile di travaglio utile […], e di opporsi a tutto ciò che potrebbe tendere a diminuire questa massima possibile quantità d’utile travaglio (Elementi di economia pubblica, cit., parte I, § 17, p. 35).
Ma l’economia ha conquistato la propria autonomia anche dimostrando l’accordo, l’armonia degli interessi umani, a dispetto della loro apparente discordia. I politici del passato si sono fermati alle apparenze, considerando lo scontro degli interessi privati come il principale nemico dell’interesse pubblico. Fonte del loro errore è stata ancora la vecchia concezione secondo cui, per governare gli uomini, bisogna reprimere le passioni, piegandole a forza verso il bene comune. In realtà, soltanto dal punto di vista del privato, a parte subiecti, può sembrare che gli interessi siano nemici fra loro: un’autentica scienza degli interessi che consideri le cose a parte obiecti permette al contrario di capire come la concorrenza sia lo strumento medesimo della più perfetta soddisfazione di tutti. Tentare di dirigere con leggi e regolamentazioni la scena degli interessi già di per sé armoniosa, in quanto retta dall’«invisibile provvidenza», è un errore prescientifico (parte III, § 15, pp. 286-87). L’economista insegna dunque al sovrano non tanto ad agire quanto piuttosto a non agire, o ad agire per via di levare, eliminando le barriere che ostacolano il flusso regolato delle umane azioni: «le arti si mettono da se medesime al necessario equilibrio, se le cattive leggi e le viziose operazioni politiche non le sbilanciano. Le operazioni economiche si riducono a non permettere e moltissime a non fare» (parte I, § 28, p. 54).
L’interesse comune – spiega infatti Beccaria – non è che il risultato degl’interessi particolari, e questi interessi particolari non si oppongono al comune interesse, se non allorché vi sieno cattive leggi che li rendano contraddittori tra di loro (parte II, § 4, p. 120).
Sul delicato problema dell’annona, per es., si deve concludere che «il migliore di tutti i sistemi» è la «libertà assoluta, ossia il non sistema» (parte II, § 46, p. 196).
La moderna scienza dell’uomo conferma insomma in ambito economico ciò che aveva già dimostrato in ambito giuridico-penale: ribadisce il
non mai abbastanza ripetuto assioma, che la disciplina coattiva e le pene hanno per sola regola la necessità; che le leggi animatrici ed i premi sono i soli mezzi che dimanda la perfezione, e che oltre questi due moventi estremi dell’uomo, tutto il resto è meglio combinato dalla libertà e dalla concatenazione degl’interessi lasciati a loro medesimi ed ai loro naturali andamenti, per cui tendono ad equilibrarsi ed a riunirsi (parte III, § 33, p. 335).
Dopo soli due anni di insegnamento economico, Beccaria fu invitato dal sovrano a mettere in pratica le teorie che aveva elaborato e presentato per dieci anni. Per comprendere appieno quest’ultima fase della sua carriera, è necessario tornare al contesto dei primi scritti, nati dal sodalizio con Pietro Verri.
La polemica contro i patrizi milanesi era all’ordine del giorno: per abbattere il loro potere, bisognava screditare le competenze giuridiche che lo rendevano legittimo. Quella di Beccaria e dei suoi amici fu dunque anzitutto una battaglia contro le prerogative politiche conferite dalla cultura giuridica, come scrisse lo stesso Verri:
La zecca, l’annona, le acque, le manifatture, il commercio tutto è in mano dei Dottori, i quali, imbevuti delle opinioni del tempo di Bartolo, veramente o non hanno idea della economia politica o ne hanno di tali che sarebbe meglio il non averne (Memorie sincere, in P. Verri, Scritti di argomento familiare e autobiografico, a cura di G. Barbarisi, 2003, p. 104).
Alla vecchia, polverosa scientia iuris, intrisa di concetti medievali, e ormai inutile ai fini della politica odierna, Verri contrapponeva la scienza tutta moderna dell’economia. Si capisce allora perché il primissimo compito affidato a Beccaria sia stata la redazione di un opuscolo sulle monete: al giovane dottore, venne chiesto di esercitare le sue capacità non di giurista, ma di matematico, per risolvere una questione che non era di diritto, ma di economia. Pur essendo dedicati al diritto penale, anche i Delitti vanno tuttavia ricondotti a questo conflitto delle facoltà: Beccaria non intendeva tanto esprimere la propria indignazione di fronte alla giustizia di antico regime, quanto combattere l’egemonia politica del diritto – e con essa tutto l’assetto istituzionale del governo milanese.
Il «libriccino», come fu definito da Manzoni, getta le basi di un diritto penale interamente sottratto al sapere giuridico. Per capire in che senso, va ricordato come il sapere giuridico di antico regime fosse permeato di storia e di cultura ermeneutica: esso consisteva in precise, erudite conoscenze delle tradizioni e usanze, richiedeva una sicura preparazione sulle regole dell’interpretazione testuale, e una duttile, sapiente capacità di valutazione della gerarchia delle fonti normative. Come abbiamo visto, invece, il nuovo diritto penale riconosce una sola fonte, cioè la norma legislativa, emanata dalla sola voce del sovrano: non a caso, «leggi» è la prima e l’ultima parola dei quarantasei paragrafi dell’edizione definitiva dei Delitti. La legge è la stessa per tutti, in tutto il territorio, e non si lascia interpretare. Le sentenze, essendo sue pure applicazioni letterali, non rappresentano una fonte alternativa; la dottrina può offrirne un commento, che sarà tuttavia puramente descrittivo, quasi letterale, e comunque privo di ogni autorità. Nessun diritto naturale, nessuna ratio scripta quale il diritto romano, ha inoltre forza normativa per interpretare i casi difficili o ignorati dalla legge; il diritto consuetudinario, in cui rientrano, secondo Beccaria, le Novae constitutiones che, promulgate nel 1541, regolano le competenze delle istituzioni milanesi, è infine liquidato come un’aberrazione della storia. Il diritto penale non ha nulla a che fare con il sapere giuridico.
Così facendo, Beccaria non solo ridimensiona drasticamente il sapere giuridico ma, almeno per quanto riguarda la sua parte penale, trasforma profondamente il suo statuto epistemologico: da cultura delle eccezioni, arte della prudenza, il sapere del penalista deve diventare pura e semplice conoscenza delle regole. La vecchia scientia iuris, quale storia e sociologia dei casi e delle circostanze, il cui oggetto era il diverso, il contingente, l’accidente, ha perso ogni utilità per i penalisti. Agli addetti ai lavori, si chiede solo di conoscere la legge e di saperla applicare. Oltretutto, la cultura giuridica tradizionale è inutile anche per lo stesso legislatore penale. La produzione di nuove norme non richiede tanto la conoscenza del diritto vigente o delle tradizioni passate, quanto quella di un ordine delle cose che precede e sorregge il diritto: quello dell’animo umano e della storia filosofica dei costumi. A tale conoscenza, Beccaria dà il nome di filosofia o scienza dell’uomo. Ora, secondo uno dei suoi principali insegnamenti, il criminale non va considerato un deviante, ma una persona del tutto normale. Le conoscenze richieste al legislatore sono dunque quanto mai distanti da ogni teratologia delle eccezioni, da ogni sociologia dei margini. Il criminale altro non è che un individuo calcolatore ed egoista: un uomo come tutti gli altri. L’interesse è il motore di tutte le azioni umane, sia lecite che illecite. Al legislatore non spetta pertanto correggere gli uomini, ma i dati del calcolo: deve rendere l’osservanza delle leggi più interessante del delitto.
È vero che esistono calcoli irragionevoli, deliri che portano ai delitti perché sconvolgono la scala dei valori. Ma sono le cattive leggi a provocarli: a scatenare la logica pazza dei criminali è la logica pazza dello Stato. L’argomento è illustrato in due straordinarie prosopopee, in cui Beccaria fa parlare un povero incitato al delitto dalla pena capitale. Nel discorso razionale del filosofo irrompe dunque la voce di un personaggio traviato dalla violenza di Stato, e dissuaso dal rispettare quelle leggi da cui non si sente rispettato. Vedendo inoltre come le stesse leggi commettano proprio l’azione considerata la più grave di tutte, «e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle pene, cit., § XXVIII, p. 236), il povero finisce per non rispettare più la vita medesima, il cui valore viene platealmente svilito dallo Stato. Agli errori dei cittadini, il legislatore deve invece rispondere con pacata ragione. I delitti non rientrano infatti nella categoria dell’eccezione né per le loro cause (gli interessi), né per le loro conseguenze (le pene), e non scatenano alcuna guerra, alcuno stato di emergenza.
A questo tentativo di riformare in profondità il diritto penale vanno infine ricollegate le scelte linguistiche di Beccaria, che si esprime volutamente in una lingua diversa da quella giuridica. Con lo style coupé, attico, della filosofia moderna, cerca di creare una lingua giuridica secca, univoca, trasparente, razionale, sulla falsariga dell’assiomatica geometrica. La brevità stessa e la lingua dei Delitti si offrono come un modello di scrittura per il futuro codice penale, la cui limpidità e semplicità renderanno inutile ogni interpretazione e aboliranno il potere degli azzeccagarbugli.
La cattedra universitaria offre a Beccaria un perfetto terreno di azione e diffusione per la polemica contro il dominio dei togati e della cultura giuridica. L’economia politica liquida infatti la scientia iuris tradizionale come anacronistica, perché dimostra di essere l’unica scienza in grado di fornire alla politica moderna gli strumenti concettuali e le cognizioni pratiche di cui ha bisogno.
Da questo punto di vista, la funzione governativa assunta dal 1771 appare allora come un approdo. Beccaria si trova infatti a lavorare concretamente a quelle riforme che tendono ad affidare tutto l’evolversi del diritto alla sola volontà del sovrano legislatore. Ma c’è di più. Con le sue mansioni di amministratore illuminato, estromette definitivamente la cultura giuridica dall’azione pubblica, giacché queste mansioni consistono appunto nell’occuparsi di ciò che al giurista era tradizionalmente demandato: le eccezioni, i casi, le circostanze. La produzione legislativa è così interamente sottratta ai giuristi; l’applicazione della legge non richiede alcuna preparazione giuridica in senso tradizionale, ma solo la conoscenza della norma; mentre del particolare e dell’eccezionale si occupa l’amministratore. Il giurista – nel senso tradizionale – non ha davvero più voce in capitolo nella politica moderna.
In tal senso, la riflessione di Beccaria rivela un’intima coerenza, che salda la sua intera carriera, filosofica e professionale. Solo il libro sullo stile potrebbe sembrare estraneo alla battaglia di tutta la sua vita, ma, in realtà, anche in questo libro, come nelle riflessioni sul diritto e sull’economia, si propone un’opera di riforma, una riforma disciplinare a partire dalla critica della retorica e della poetica tradizionali. Il disegno filosofico di Beccaria, in altre parole, appare interamente riconducibile a un progetto di riforma dei saperi.
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