BRANCACCIO, Cesare
Nacque a Napoli verso il 1515 e doveva far parte della famiglia Brancaccio, fra le più cospicue della città. Studiò legge, si addottorò in utroque iure, conseguendo anche il notariato, e abbracciò in data imprecisata lo stato ecclesiastico: come tale figura nel breve di Paolo IV del 27 sett. 1556, che lo qualifica "dilectum filium magistrum Cesarem Brancatium clericum Neapolitanum, utriusque iuris doctorem, notarium nostrum" (cfr. Ancel, p. 474).
Le notizie relative alla sua biografia restano comunque, salvo i quattro anni (dal 1555 al 1559) trascorsi al servizio pontificio, assai scarse e frammentarie.
Al suo arrivo a Roma dalla Francia nell'agosto del 1555, in veste di fuoruscito del Regno di Napoli, si disse che era stato "uno de i capi della revolutione di Napoli seguita al tempo del sig. don Pedro viceré...", almeno così riferì all'ambasciatore fiorentino Averardo Serristori donna Giovanna d'Aragona, la madre di Marcantonio Colonna. Tale notizia permette di identificare il B. con il Cesare Brancazo, deputato del seggio di Nido, che nel 1547 ebbe effettivamente una certa parte nella rivolta napoletana contro il viceré don Pedro de Toledo, occasionata dal tentativo di introdurre l'Inquisizione spagnola nel Regno.
Tommaso Pagano, uno degli esponenti della rivolta, in una deposizione rilasciata l'8 sett. 1547 ai magistrati che conducevano l'inchiesta sulla sommossa, dichiarò che nell'agosto precedente, dopo che la rivolta sembrava essersi smorzata in conseguenza del ritorno dalla corte imperiale di Placido di Sangro, uno degli ambasciatori cittadini inviati a Carlo V, e della promulgazione di un indulto imperiale, il B. "deputato del segio de Nido pigliò assumpto de scriver la dicta lettera al principe de Salerno et altri dela corte fando intendere de quello era succeso dela pregione de Placito et del bando dele arme et de altre cose succese in dicta cità dopo facta dicta, publicatione del ordine de Soa Maestà" (cfr. Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1037, f. 277). L'iniziativa di avvertire Ferrante Sanseverino, l'altro ambasciatore dei Napoletani, rimasto ancora presso la corte imperiale, dello sleale modo di procedere di don Pedro, che da un lato promulgava l'indulto di Carlo V e in nome della raggiunta pacificazione prendeva in consegna le armi dei rivoltosi e dall'altro faceva arrestare il Sangro e minacciava altre violente rappresaglie, mirava al solito obiettivo, perseguito inutilmente dai rivoltosi, di dividere Carlo V dal suo viceré per colpire quest'ultimo e conservare la fedeltà al primo. Il carattere scopertamente antivicereale della iniziativa non sfuggì ai magistrati inquirenti che cercarono di accertare se occorreva addossarne al solo B. tutta la responsabilità o non anche agli altri deputati. Su questo punto però il Pagano restò assai reticente, dichiarando di non ricordare bene come si erano svolte le cose. Ulteriori elementi, ancora più gravi, a carico del B., risultarono dalla deposizione, rilasciata nello stesso settembre, dal testimone Aurelio Del Tuppo, il quale dichiarò che nel corso della riunione tenuta dai deputati della città nella chiesa di San Lorenzo per discutere la questione della lettera da inviare al Sanseverino, il B. gli chiese di procurare il sigillo della città, tenuto dal segretario Paolo Palmieri, "perché se havea da scriver non sa che lettera et bisognava sigillarla". Il Del Tuppo andò a prendere il sigillo e lo consegnò al B. che si guardò bene dal restituirlo. Alla fine della riunione il B. abbandonò la chiesa come gli altri convenuti, ma vi ritornò subito dopo, con la scusa di avere dimenticato la cappa, e s'impossessò del registro della corrispondenza ufficiale della città. Gli elementi emersi dalle due deposizioni erano evidentemente più che sufficienti per indurre la giustizia a procedere direttamente contro il B. che dovette darsene per inteso e abbandonare il Regno alla svelta.
Certo è che il B. raggiunse, in data imprecisata, i numerosi fuorusciti napoletani che in Francia aspettavano una spedizione militare per rientrare nel Regno al seguito. delle armi francesi. Nel 1552 risulta infatti al servizio del re di Francia e nell'estate fu mandato a Roma dal Sanseverino, passato nel frattempo anch'egli dalla parte francese, con l'incarico di invitare i fuorusciti napoletani che vi si trovavano a concentrarsi a Ostia, dove li avrebbe raccolti una flotta francese per una spedizione sul Regno di concerto con la flotta turca. Ciò riferì nel processo a suo carico il fuoruscito napoletano Cesare Carafa che lo vide a Roma e ne ebbe un espresso invito a mettersi a disposizione del Sanseverino. Lo stesso Carafa precisò che il B. nell'ambiente dei fuorusciti napoletani passava per un attivo agente francese.
In tali circostanze non riuscì difficile al B. entrare al seguito del cardinale Carlo Carafa, del quale divenne uno dei più intimi e fedeli collaboratori. I saldi legami col Carafa avevano del resto nei rapporti di parentela intercorrenti tra i Brancaccio e i Carafa un importante presupposto. Nell'agosto del 1555, pochi mesi dopo l'elevazione di Gian Piero Carafa al soglio pontificio col nome di Paolo IV, il B. fu chiamato a Roma dalla Francia e, sotto la personale protezione dell'onnipotente cardinal nepote, iniziò una fortunata carriera al servizio pontificio. Il 4 genn. 1556 fu nominato da Paolo IV governatore di Roma e nello stesso tempo protonotario apostolico, non avendo ancora alcun grado ecclesiastico.
La nomina all'alta carica di un uomo senza alcun passato curiale non mancò di destare l'attenzione dei diplomatici accreditati presso la corte pontificia, che del B. lasciarono un ritratto assai poco lusinghiero: egli passava infatti per uomo profondamente corrotto, per sodomita e assassino. Che tale fama non fosse usurpata si può dedurre da alcuni episodi che coloriscono di tinte alquanto fosche il suo breve periodo di governatorato. Si sa infatti di certi soprusi perpetrati a danno dell'arcivescovo Verallo, che riuscì a sottrarsi alla detenzione in Castel S. Angelo solo versando la cospicua somma di 5.000 scudi. L'episodio ebbe ripercussioni clamorose, dato che il Verallo faceva parte del collegio degli uditori di Rota, sottratto da particolari privilegi alla giurisdizione del governatore. Le proteste del potente collegio degli uditori cozzarono tuttavia contro l'intransigenza del cardinal Carafa, che non tollerava critiche di sorta al suo protetto. Ad un episodio assai più grave accenna Niccolò Franco che nei suoi costituti davanti all'Inquisizione romana ricordò il governatore di Roma "e come facesse amazzare uno del Regno che allogiava in casa sua per torgli i denari che haveva".
Il B. non restò comunque se non pochi mesi nella carica di governatore di Roma: il 27 settembre Paolo IV lo accreditava come nunzio alla corte di Enrico II in sostituzione del vescovo di Viterbo Sebastiano Gualterio che veniva richiamato.
La nomina del B., voluta ancora una volta dal cardinal nepote, cadeva in un momento delicatissimo, quando la rottura con gli Spagnoli era già consumata senza che l'intervento francese risultasse sicuro. L'invasione spagnola dello Stato della Chiesa era infatti già cominciata, e il Carafa sentì il bisogno di avere alla corte di Francia un rappresentante di tutta fiducia, capace di eseguire rigorosamente le sue direttive intese a ottenere un'immediata ripresa dell'iniziativa militare francese in Piemonte e l'invio di un corpo di spedizione nello Stato pontificio.
Il B. lasciò Roma il 30 settembre e arrivò a Parigi, dopo una breve sosta a Ferrara, il 20 ottobre. Fu ricevuto dal re già il giorno dopo e una seconda volta il 26: il 27 ottobre poté scrivere esultante al Carafa di avere avuto da Enrico II la formale dichiarazione "che spera far vedere al mondo che, se li suoi antecessori hanno travagliato per defension de la Chiesa, lui è per avanzarli et travagliarsi tanto più, quanto più si vede obligato" (cfr. Ancel, p. 487). Il rapido successo ottenuto non mancò di procurargli tutte le lodi del Carafa che il 2 novembre gli scrisse "del buon modo, che havete tenuto co'l re et con tutti quei signori, et de la destrezza vostra che habbi tanto satisfatto a S. Mtà, mi è stato detto tante cose, che Dio 'l voglia che le sien vere tutte; ho molto piacere di non mi essere ingannato de la fede, che ho sempre hauta in voi, et vi prego a perseverar tuttavia in meglio come son certo che farete..." (ibid., p. 489). Il principale obiettivo diplomatico del B. sembrava quindi pienamente conseguito. Il 5 novembre egli scriveva infatti al Carafa: "il re mi tornò a replicare quel che sempre mi ha detto, che non si perde hora di tempo a fare tutte le provisioni necessarie, et che fra quattro giorni manderebbe in Piemonte il marescial Brisac, et fra pochi dì il duca di Guisa..." (ibid., p. 490).
Ma il gioco politico del Carafa non era così semplice: per lui non si trattava solo di avere l'appoggio francese contro gli Spagnoli, ma di giocare tutte e due le carte, quella francese e quella spagnola, al solo esclusivo vantaggio degli interessi pontifici. Così mentre il B. si affannava a dare reiterate assicurazioni sull'apprestarsi dell'intervento francese, il Carafa iniziava trattative col duca d'Alba, in quel momento viceré di Napoli e comandante delle truppe spagnole impegnate nello Stato della Chiesa; il 19 novembre si arrivò a concludere una tregua di dieci giorni, seguita subito dopo da una nuova di quaranta giorni, con la prospettiva di un accordo ben più duraturo.
Le ripercussioni francesi di tali avvenimenti erano facilmente prevedibili: Enrico II si sentì giocato dall'abile Carafa e riversò tutto il peso della sua indignazione sul B. che, all'oscuro del sottile gioco politico del suo protettore, riusciva solo con gran difficoltà a nascondere il suo imbarazzo. Il 6 dicembre consigliò al Carafa di rompere le trattative con gli Spagnoli nella convinzione che se ne potesse ricavare "poco frutto"; in un secondo dispaccio del 14 dicembre riferì ampiamente dei veri e propri interrogatori subiti a corte, mostrandosi fermamente convinto dell'inconsistenza dei sospetti francesi. La dabbenaggine dell'inesperto diplomatico arrivò al punto da attribuire la responsabilità delle burrascose reazioni del re cristianissimo alla malafede dei diplomatici francesi a Roma "che scrivono altramente, come ministri del diavolo e non di re, ... vedo che per crescere tanto più le suspitioni scriveno quel che V. S. Ill.ma fa e quel che mai anco ha pensato di fare, aggiongendo e mutando a modo lloro..." (cfr. Ancel, p. 531), concludendo semplicisticamente che "per far cognoscere a S. M.tà queste ribaldissime iniquità, sarebbe assai necessario, non solo a proposito, che V. S. Ill.ma li scrivesse una litera assai distesamente e particolare, dandoli cunto di quanto si è facto, et come tucto è facto con voluntà e parer di mons. di Silva, et riquedere detto Monsignor che debba far fede a S. M.tà della verità, ..., e se ne doglia con re di tute queste calunnie che se gl'usano" (ibid., p. 532).
L'atteggiamento, politicamente assai sprovveduto, del B. servì meravigliosamente il gioco diplomatico del Carafa, che non aveva nessuna intenzione di rompere con la corte francese, e voleva anzi impegnarla sempre più sulla via della ripresa della guerra in Italia. Al B. scrisse così il 24 dicembre di far sapere al re che egli non pensava "ad altro che al servitio et essaltatione sua", cercando di confermarlo nell'equivoco e in particolare nella tesi della malafede dei diplomatici francesi. Il 28 dicembre rincalzò infatti: "ho inteso quanto la mi scrive circa le malignità di Lansache...; se esso Lansache vorrà dire il vero et non andar su per le falsità, confesserà che io non ho mai fatto cosa alcuna che lui et li altri ministri, et particolarmente il Marescial et Mons. di Memoransi non ne sieno stati partecipi" (cfr. Ancel, p. 541). Forte nella conferma del suo protettore, il B. persistette dunque nel suo atteggiamento e non senza successo, se il 3 genn. 1557 il re scrisse al Carafa di accettare le spiegazioni offerte dal nunzio sulla natura puramente tattica delle trattative condotte con gli Spagnoli e di ritenersi soddisfatto. In realtà il re cristianissimo mostrava di contentarsi delle spiegazioni fornite dal B. perché, spintosi ormai troppo avanti sulla via della ripresa della guerra, aveva tutto l'interesse a giocare ancora la carta dell'alleanza pontificia. Il B. si trovò così di nuovo e senza alcun merito sulla cresta dell'onda.
Intanto però a Roma scoppiava uno scandalo di grandi proporzioni che minacciava di rovinargli definitivamente la carriera: ancora al tempo del suo governatorato era stato arrestato un giovane Tedesco, venditore ambulante, che aveva denunciato relazioni omosessuali con alcuni personaggi altolocati di Roma fra i quali lo stesso B., intervenuto con tutta la sua autorità per mettere a tacere lo scandalo, facendo anche distruggere gli atti processuali. Un qualche sentore arrivò tuttavia al papa che, indignatissimo, fece riaprire il processo, deciso a non avere riguardi per nessuno e tanto meno per il Brancaccio. La posizione di questo, che passava per probabile candidato alla porpora cardinalizia, si fece difficile; la sua difesa fu una sola: calunnie messe su per colpire un protetto del Carafa, al quale toccava ancora una volta di trarlo in salvo. A lui infatti si raccomandò in una lettera del 4 apr. 1557, lamentando "la compassione che ho de noi altri servitori, che non habbiamo da andare flagellati et infamati per il mondo" (cfr. Ancel, p. 563). L'intervento dell'onnipotente cardinal nepote fu come sempre decisivo: il 4 luglio gli comunicò "la gratia fatali da N. S.re per havere conosciuto la sua inocenza", ma nello stesso tempo l'invito a concludere la nunziatura inFrancia e a tornare a Roma "perché habbiamo disegnato servirci di lei in altro" (ibid., p. 575).
In verità era stato lo stesso B. a sollecitare il suo richiamo in una lettera al Carafa del 2giugno: "conosco che a me sarà molto difficile fare in questa corte buono servitio a V. S. Ill.ma, perché lo havere negotiato tutte le cose passate et la andata de questo esercito, ..., mi rende hora grandemente odioso. Onde crederei che ogni homo novo ci fosse meglio visto, et così havesse megliore adito a penetrare ne' segreti della corte e farle servitio" (cfr. Ancel, p. 572). Nel corso della primavera le relazioni franco-pontificie si erano guastate di nuovo, essenzialmente per l'insorgere di seri contrasti sul modo di condurre la campagna antispagnola in Italia. Ma questa divergenza di fondo aveva provocato in varie altre questioni minori un'assoluta intransigenza di Paolo IV nei confronti dei desideri della corte francese. Al B. toccò così subire tutta l'irritazione del re e della regina che lo ridussero a mal partito, tanto da indurlo a chiedere di tornare a Roma.
Lasciò la corte il 22 luglio, confortato da una lettera del re piena di elogi per il comportamento tenuto nel corso della nunziatura e da un regalo del valore di mille scudi. Il 15 agosto arrivò a Roma e il 19 fu ricevuto dal papa, dal quale, come riferì l'ambasciatore veneziano B. Navagero "fu molto ben veduto, havendoli anco detto S.S.tà ch'essendosi giustificato dell'innocenza sua, e conosciuto che l'opposizioni passate et infami erano state calunnie, l'havea più caro che mai" (cfr. Ancel, p. 575).
Liberato da ogni sospetto infamante, il 1º sett. 1557 il B. fu nominato soprintendente dello Stato ecclesiastico, una delle più alte cariche della corte pontificia che lo poneva tra i più stretti collaboratori del cardinal nepote. Nel corso del mese di settembre gli avvenimenti precipitarono e in conseguenza della sconfitta francese di San Quintino Paolo IV dovette capitolare davanti agli Spagnoli. Nella nuova situazione, col duca d'Alba a Roma, il B., fuoruscito napoletano, correva seri rischi, cosicché il Carafa, che pure l'aveva voluto con sé come persona di sua stretta fiducia, pensò bene di allontanarlo da Roma e il 22 ottobre lo nominò governatore della Marca. Neanche in questa nuova carica poté restare a lungo: la disgrazia del suo protettore, al quale soltanto doveva la fortunata carriera al servizio pontificio, lo travolse inesorabilmente: il 6 marzo 1559 fu esonerato dalla carica e il 9 dello stesso mese arrestato, per ordine espresso di Paolo IV, insieme con il suo luogotenente Sante Canaglione, e, tradotto sotto buona scorta a Roma, raggiunse il Carafa nelle prigioni di castel S. Angelo, dove appare tra i suoi famigliari ancora nel giugno del 1560.
Riacquistò la libertà qualche anno dopo e si trasferì in Francia: nel febbraio del 1563 risulta infatti a Parigi.
Tale circostanza indurrebbe a identificare il B. col mons. Cesare Brancazo, protetto e corrispondente del cardinale Guglielmo Sirleto, che proprio in questo periodo fu sistemato in Francia, dal nunzio Vincenzo Lauro al servizio del cardinal Francesco Tournon. Una lettera di questo mons. Brancazo al Sirleto in data di Parigi 10 marzo 1573 fa esplicito riferimento a un soggiorno romano anteriore di circa quindici anni al suo trasferimento in Francia e offre un ulteriore elemento a favore dell'identificazione col Brancaccio. Questo mons. Brancazo era però un ebreo convertito al cattolicesimo: il Lauro lo raccomandò infatti al cardinal T. Galli il 16 ott. 1572 "affine che il difetto di natura, che è in lui, ciò è l'esser nato et vissuto molti anni hebreo et poi fatto christiano, non venga a diminuire, non pure la pietà et vertú de l'animo di lui, ma etiandio la importanza del negocio, per cui esso vien mandato" (cfr. Nunziature di Savoia, I, p. 422).Se si accoglie l'identificazione, il B., ebreo di nascita, si sarebbe convertito al cattolicesimo con tutta probabilità negli anni compresi tra il 1535 e il 1541, quelli che videro la definitiva espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli, e, adottato dalla famiglia Brancaccio, avrebbe avuto aperta la strada a un posto nel seggio di Nido e a una carriera adeguata alla sua nuova condizione di gentiluomo napoletano. Tuttavia l'assoluto silenzio sulla sua origine ebraica nelle fonti relative al periodo trascorso al servizio pontificio lascia ancora dubbia l'identificazione in attesa di elementi più probanti. Tali fonti, abbastanza numerose e ricche di informazioni minute e circostanziate, rinviano a un ambiente rigorosamente antisemita (la persecuzione contro gli ebrei romani e l'istituzione del ghetto voluti da Paolo IV risalgono proprio al 1556, quando il B. era governatore di Roma), nel quale non gli mancavano certo i nemici pronti a sfruttare ogni motivo a suo svantaggio.
Il mons. Brancazo neofita, alla morte del cardinal Tournon, passò al servizio del cardinale Charles de Bourbon Vendôme per conto del quale, nell'autunno del 1572, venne in missione a Roma "con lettere sue et di quelle M.tà per render conto a N. S. della conversione et abgiuratione del re di Navarra et del prencipe di Condé, delli quali porta anche lettere a S. B.ne, che dimostrano la divotione et la obedienza loro verso de la S.tà S. et della Sede apostolica" (cfr. Nunziature di Savoia, I, ibid.). Il Galli promise al Lauro tutto il suo appoggio per il Brancazo che dovette svolgere la sua missione romana con successo. Nella primavera del 1573, nella lettera già ricordata al Sirleto, si raccomandava per un sollecito disbrigo della pratica relativa alla concessione di un beneficio ecclesiastico che gli veniva ritardata "per le detrattioni et false inventioni de certe persone grande, le qualle con l'authorità et grandezza loro si sforsanno de privarmi di questo bene". Una nuova lettera a Federico Ranaldi in data di Parigi 13 apr. 1573 ritorna ancora sulla stessa questione del beneficio contrastato e costituisce l'ultima traccia nota di mons. Cesare Brancazo.
Secondo la testimonianza di un cronista contemporaneo il B., che "fu nel tempo di Paulo 4. governator di Roma, et poi vicario di un vescovo nella Francia, doppo alcuni tormenti da lui constantemente sopportati, chiodato in croce, nella quale christianamente predicando passò alla vita beata" (cfr. L. Contarino, L'antiquità,sito,chiese,corpi santi,reliquie et statue di Roma con l'origine e nobiltà di Napoli, Napoli 1569, p. 105). Allo stato attuale delle ricerche è impossibile accertare l'autenticità di tale notizia, che si concilia tuttavia assai male con tutto quello che della biografia del B. è noto.
Il B. fu amico di Bernardo Tasso che tra il 24 nov. 1557 e il 20 genn. 1558 gli indirizzò tre lettere nelle quali sollecitava il suo intervento per ottenere il privilegio di stampa del poema Amadigi.
Fonti eBibl.: La biografia del B. per gli anni passati al servizio pontificio è stata ricostruita sui docum. da R. Ancel, Nonciatures de France. Nonciatures de Paul IV..., I, Nonciatures de S. Gualterio et de C. Brancatio, Paris 1909-1911, pp. XXV-XXXII, che pubblica anche i dispacci della sua nunziatura, pp. 474-576. Ma cfr. anche G. Moroni, Dizion. di erudiz. storico-ecclesiastica..., XLI, Venezia 1846, p. 65; Calendar of State Papers and manuscripts,relating to English affairs,existing in the archives and collections of Venice..., VI, part I-III, a cura di R. Brown, London 1877-1884, ad Indicem; Regesti di bandi editti notificazioni e provvedimenti diversi relativi alla città di Roma ed allo Stato Pontificio, II, Roma 1925, ad Indicem;A. Mercati, I costituti di Niccolò Franco (1568-70)dinanzi l'Inquisizione di Roma esistenti nell'Archivio segreto vaticano, Città del Vaticano 1955, pp. 155, 184, 195. Le notizie sul periodo precedente si trovano in Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1037, ff. 277, 278; G. De Blasiis, Processo contro Cesare Carafa inquisito di fellonia, in Arch. stor. per le prov. napoletane, II (1877), pp. 829, 832 s., 835. Le lettere di mons. Cesare Brancazo si conservano in Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6184, cc. 287r; 6185, cc.92rv, 164rv, 143r; 6191, c. 411. Il dispaccio del Lauro è pubblicato in Nunziature di Savoia, I (15 ott. 1560-29 giugno 1573), a cura di F. Fonzi, Roma 1960, in Fonti per la storia d'Italia, XLIV, pp. 422, 428, 430. Per i rapporti con B. Tasso cfr. Delle lettere di M. Bernardo Tasso, II, Padova, 1733, pp. 339-342, 355 s.