Cesare Cremonini
Cesare Cremonini fu per oltre cinquant’anni docente di filosofia naturale nelle Università di Ferrara e di Padova, interprete e sostenitore dell’epistemologia e della fisica aristoteliche. E proprio in questo ruolo contribuì in modo sostanziale a difendere l’Università di Padova dalle mire egemoniche della curia papale e della Compagnia di Gesù e a conservare lo spirito di tolleranza religiosa e di rigore speculativo che già gli studenti riconoscevano come caratteristico di quell’ateneo. Di questo suo impegno civile siamo ancora oggi debitori.
Cremonini nacque da una famiglia di pittori di origine cremonese a Cento, un paese tra Ferrara, Modena e Bologna a quel tempo soggetto alla signoria degli Este. Il giorno della sua nascita non è noto; è noto, invece, che fu battezzato il 22 dicembre 1550. Dopo aver studiato lettere umane, intraprese lo studio del diritto, che però – mosso da tempo dal desiderio, come scrisse molti anni dopo, di «veder lunge, e d’intender a dentro la cagion de le cose» (Chlorindo e Valliero. Poema, atto 3°, scena 5ª, 1624, p. 92) – lasciò per gli studi filosofici. Non è noto con certezza lo Studio ove si formò. Secondo quanto egli stesso scrisse, seguì le lezioni di Federico Pendasio (1526-1603) – che fu docente di filosofia naturale a Padova dal 1565 al 1571 e a Bologna dal 1571 alla morte – e fu studente a Ferrara. È più che probabile che egli si sia addottorato nello Studio di questa città.
In Ferrara frequentò il circolo degli intellettuali di corte e, entrato nelle grazie del duca Alfonso II d’Este (1533-1597), nel 1578 fu nominato in quello Studio docente straordinario di secondo luogo di filosofia naturale. Vi tenne lezione dall’anno accademico 1578-79 fino al 1589-90 incluso, in un crescendo di incarichi e di fama. Dal 1581-82 fu contemporanemente docente straordinario di primo luogo e docente ordinario di secondo luogo di filosofia naturale. Dal 1584-85 al 1586-87 fu solo docente ordinario di secondo luogo di filosofia naturale, ma dal 1587-88 divenne docente ordinario di primo luogo. Nel 1588-89 gli fu assegnata anche la cattedra di ‘Sfera ed Euclide’, ossia relativa al Tractatus de sphaera di Giovanni di Sacrobosco e agli Elementi di Euclide: una cattedra non priva d’importanza, a cavallo tra matematica, astronomia e astrologia.
Nel 1590, forse anche a seguito di contrasti con altri docenti dello Studio di Ferrara, Cremonini si trasferì allo Studio di Padova. Il 23 novembre 1590 fu nominato docente ordinario di secondo luogo di filosofia naturale e il 27 gennaio 1591 tenne la sua prima lezione. L’ambiente dello Studio di Padova non era più quieto di quello di Ferrara. Nel 1599 lo stesso Cremonini ebbe a dichiarare che «i docenti dello Studio di Padova, a causa della rivalità e di altre gravi contese, con grande frequenza si tendono tranelli e inside, e ciò con arti e modi maligni» (Decreto della inquisitione dell’anno 1599, in Poppi 1993, p. 61). Questo non significa che Cremonini avesse un carattere rissoso; al contrario, era dotato di grande affabilità e fascino ed era capace di intrattenere relazioni eccellenti anche con pensatori assai lontani da lui sul piano speculativo, quali Francesco Patrizi e Galileo Galilei.
Negli ultimi mesi del 1591 Cremonini fu tra i protagonisti della battaglia della Universitas artistarum – ossia dei filosofi e dei medici – dello Studio di Padova contro il concorrente Gymnasium patavinum della Compagnia di Gesù. Con una celebre orazione tenuta a nome dello Studio di fronte al Senato della Repubblica veneta il 20 dicembre 1591, egli ottenne la chiusura pressoché immediata del Ginnasio dei gesuiti. Quell’evento, collocato all’interno del quadro del conflitto tra il papato e il partito della nobiltà veneziana anticurialista, fu l’origine di uno scontro politico che vide Cremonini sotto processo presso il Sant’Uffizio per il resto della sua vita. Ciononostante, dopo alcuni anni difficili, nell’anno accademico 1601-1602 fu nominato docente ordinario di primo luogo di filosofia naturale e mantenne tale incarico fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle successive tre decadi fu protagonista di numerose polemiche: con Galilei sulla natura dei cieli (1605); con Giorgio Raguseo sulla natura degli elementi, sul valore della storia delle interpretazioni di Aristotele e su questioni didattiche (1613); con Alessandro Tassoni (ma attraverso Giuseppe degli Aromatari) sul petrarchismo (1611-13); con Pompeo Caimo sul galenismo (1626-27). Per molti anni fu il docente di filosofia naturale più celebre d’Europa. Morì in Padova il 18 luglio 1631, quasi certamente di peste polmonare.
Secondo una vulgata vecchia di almeno un secolo e mezzo, Cremonini fece parte di quella schiera di seguaci di Aristotele che non solamente respinsero le scoperte galileiane, ma si rifiutarono persino di accostare l’occhio al telescopio costruito dallo scienziato pisano, impedendo così a se stessi di verificare direttamente la verità di quanto Galilei andava dicendo a proposito delle montagne della Luna, delle fasi di Venere, dei satelliti di Giove e, dunque, della vera natura dei cieli. Si tratta di una vulgata fortunatissima, che dona a Cremonini l’unica fama pubblica di cui egli al presente goda: la fama del cattedratico miope, del nemico del vero sapere, dell’esempio per eccellenza dell’ottusità accademica di ogni tempo.
Si tratta di una vulgata falsa. Riteniamo che sia nata da una lettura frettolosa di alcuni testi coevi al supposto evento; testi che è opportuno riprendere in mano. Il 19 agosto 1610 Galilei, che si trovava ancora a Padova ma che era ormai in procinto di trasferirsi a Firenze, scriveva a Johannes Kepler (1571-1630) una lettera in cui, oltre a rispondere a una richiesta dello stesso Kepler, si lamentava dell’ostilità e del silenzio con cui erano state accolte le sue osservazioni. In particolare, a proposito dei docenti dello Studio di Padova così egli scriveva:
Che dire dei più celebri filosofi di questo Studio i quali, colmi dell’ostinazione dell’aspide, nonostante più di mille volte io abbia offerto loro la mia disponibilità, non hanno voluto vedere né i pianeti, né la luna, né il cannocchiale? […] Questo genere di uomini ritiene infatti che la filosofia ‹naturale› sia un libro come l’Eneide e l’Odissea e che le verità siano da ricercare non nel mondo o nella natura, bensì (per usare le loro parole) nel confronto dei testi (G. Galilei, epistola ad Johannem Keplerum, Paduae 19 Augusti 1610, in Id., Le opere, sotto la direzione di A. Favaro, 10° vol., 1934, lettera 379, p. 423).
In quel momento, Cremonini era già il filosofo più celebre dello Studio di Padova; è dunque lecito chiedersi se Galilei si stesse riferendo anche a lui. Sta però di fatto che Galilei non fa nomi. In una lettera del 6 maggio 1611 Paolo Gualdo, suo amico, scrive allo stesso Galilei:
Abbiamo qui l’Ill.mo S.r Andrea Morosini, il quale non può patire che ’l Cremonino, mentre V.S. è stata qui, non habbia procurato né voluto vedere queste sue osservationi, havendole io detto ch’ella se gli era offerta di andare sino alla sua propria casa per fargliele vedere; onde le pare che habbia torto contrariarle senza haverne fatto qualche esperienza (P. Gualdo, lettera a G. Galilei, Padova 6 maggio 1611, in G. Galilei, Le opere, cit., 11° vol., 1934, lettera 526, p. 100).
Il medesimo Gualdo ribadisce il punto in una nuova lettera a Galilei del 29 luglio 1611, aggiungendo però un particolare interessante:
Fui uno di questi giorni dal detto S.r Cremonino, et entrando di ragionare di V.S. [ossia di Galilei] io le dissi, così burlando: il S.r Galilei sta con trepidatione aspettando ch’esce l’opra di V.S. [ossia di Cremonini; Gualdo qui si riferisce alla Disputatio de coelo, che sarà però pubblicata solamente nel 1613]. Mi rispose: Non ha occasione di trepidare, perché io non faccio mentione alcuna di queste sue osservationi. Io risposi: Basta ch’ella tiene tutto l’opposito di quello che tiene esso. O, questo sì, disse, non volendo approvare cose di che io non ho cognitione alcuna, né l’ho vedute. Questo è quello, dico, ch’ha dispiacciuto al S.r Galilei, ch’ella non abbia voluto vederle. Rispose: Credo che altri che lui non l’habbia veduto; e poi quel mirare per quegli occhiali m’imbalordiscon la testa: basta, non ne voglio saper altro. Io risposi: V.S. iuravit in verba Magistri; e fa bene a seguitare la santa antichità. Doppo egli proruppe: Oh quanto harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste girandole, e non lasciar la libertà Patavina! (P. Gualdo, lettera a G. Galilei, Padova 29 luglio 1611, in G. Galilei, Le opere, cit., 11° vol., lettera 564, p. 165).
Questo testo è usualmente portato come prova decisiva del fatto che Cremonini si rifiutò di guardare attraverso il telescopio di Galilei. Sennonché, il senso di quanto Gualdo scrive è altro. Si osservi la differenza tra «vedere» e «mirare». Dice Cremonini a Gualdo: «quel mirare per quegli occhiali m’imbalordiscon la testa». Come avrebbe potuto Cremonini dir questo se non avesse effettivamente guardato attraverso il telescopio di Galilei? A rigore, non sappiamo se accettò di guardare oggetti celesti, se accettò di farlo più volte – come sarebbe stato necessario per valutare le affermazioni di Galilei – o se utilizzò lo strumento solamente per guardare oggetti sulla Terra; nondimeno è chiaro che Cremonini, benché sessantenne, non rifiutò di guardare attraverso il telescopio: ciò che si rifiutò di fare, fu vedere. Egli, cioè, si rifiutò di accogliere l’interpretazione che Galilei dava di ciò che sosteneva di vedere.
Se, dunque, non di guardare si tratta, bensì di interpretare quanto Galilei sosteneva di vedere, la posizione di Cremonini si fa più interessante e complessa. Non vi sono dubbi che egli nutrisse una profonda ammirazione per Aristotele, che ne abbracciasse le tesi e che, come oggi sappiamo, la sua visione del cosmo fosse errata. Tuttavia, va anche detto che a quella data, la fine di luglio del 1611, era ancora in numerosa compagnia e che, nel momento in cui diceva a Gualdo «credo che altri che lui [ossia Galilei] non l’habbia veduto» (ossia, intendo: credo che solamente Galilei interpreti in quel modo ciò che sostiene di aver veduto), non era mal informato. Non minore importanza ha la natura della prospettiva di fondo di Cremonini. Da un lato, riteneva che la matematica non potesse essere utilizzata proficuamente in ambito fisico. Da questo punto di vista, la conoscenza scientifica di cui era fautore era, almeno in parte, strutturalmente diversa da quella praticata da Galilei. Dall’altro lato, riteneva che far scienza consistesse nell’individuare le cause dei fenomeni. Coerentemente con questa impostazione, posta dunque, ad es., la comparsa di una luce puntiforme fissa nel cielo e priva di parallasse (la stella nova del 1604), non si poteva affermare sulla base di questi soli dati che vi fosse stato un mutamento nei cieli al di sopra del cielo della Luna; occorreva piuttosto fornire una descrizione della natura dei cieli, coerente in sé e con le conoscenze già acquisite, capace di dar ragione della possibilità di un mutamento siffatto.
Di fronte a questa richiesta e a questo problema lo stesso Galilei si mostrò ondeggiante, talvolta rifugiandosi nel suo compito di semplice ‘matematico’, non tenuto pertanto a fornire spiegazioni circa la natura ‘fisica’ dei fenomeni, talvolta arrischiandosi a proporre ipotesi circa tale natura non meno problematiche di quelle proposte dagli ‘aristotelici’. L’impostazione ora veduta, peraltro, fu tenuta fermamente da Cremonini in occasione di ogni controversia di cui fu protagonista; in particolare egli la fece valere contro i medici galenisti, i quali ritenevano di poter utilizzare i dati osservativi senza aver l’onere di collocarli nel contesto di una dottrina filosofico-naturale complessiva.
Il falso storico di cui ora ci siamo occupati non costituisce l’unico ostacolo a una corretta ricostruzione del profilo intellettuale del nostro autore. Come osservarono già i suoi contemporanei, Cremonini pubblicò un numero limitato di testi filosofici. I suoi sforzi in ambito speculativo furono consegnati principalmente all’oralità delle lezioni, delle quali circolarono numerose trascrizioni manoscritte. Le trascrizioni giunte fino a noi, tuttavia, presentano problemi interpretativi non marginali. Su alcune questioni cruciali, quale quella relativa alla natura dell’anima umana, esse offrono tesi in parte difformi. Il fatto non deve sorprendere: queste trascrizioni furono realizzate in momenti diversi della vita di Cremonini e testimoniano il contenuto di lezioni dettate a tipi diversi di pubblico. Cremonini teneva regolarmente lezione non solamente nel contesto dello Studio di Padova, ma anche privatamente; in particolare, tenne per molti anni lezioni ai monaci dell’abbazia di Santa Giustina di Padova. Tutto questo, unito al fatto che non molte energie sono state dedicate in tempi recenti allo studio di questo autore, ha impedito alla critica storiografica di giungere a un quadro di sintesi solido e condiviso del suo pensiero. A ciò va aggiunto che Cremonini scrisse e pubblicò anche opere letterarie non disprezzabili, le quali, in alcuni luoghi, presentano contenuti di natura filosofica, ma appare difficile stabilire se e in quale modo questi lavori siano utilizzabili per ricostruire il pensiero del nostro autore.
Disponiamo, tuttavia, di un testo prezioso: il Lecturae exordium, pronunciato da Cremonini in occasione della sua prima lezione in Padova. Con esso, avvalendosi anche delle sue capacità letterarie, il nostro pensatore rivolse al pubblico dei potenziali studenti – e, indirettamente, ai maggiorenti che lo avevano voluto docente in Padova – una suggestiva exhortatio ad philosophiam nella quale presentava sinteticamente la propria visione del mondo e della filosofia.
La sezione propriamente filosofica del testo in questione può essere vista come suddivisa in due grandi parti. Nella prima Cremonini pone in luce il perpetuo divenire del mondo e il problema antropologico di cui, grazie a tale divenire, l’uomo diviene consapevole. Il succedersi delle stagioni, scrive il nostro autore, già rende evidente il perpetuo nascere e morire di ogni cosa e, in definitiva, del mondo stesso. Tale avvicendarsi di volti della natura dovrebbe suscitare in noi stupore e venerazione, tuttavia così non accade: l’abitudine rende insensibili agli eventi quotidiani, anche quando sono mirabili. Il corrompersi di ogni cosa, però, non può essere ignorato altrettanto facilmente. Esso coinvolge terre e civiltà e suscita sgomento. Con abile mossa retorica, e con commozione probabilmente sincera, Cremonini scrive che si può a stento riflettere senza lacrime sulla rovina dell’antica Atene.
Proprio al centro del mondo un tempo fiorì la rinomatissima città di Atene, da cui naquero un Focione, un Platone e un Alcibiade, crebbero un Aristotele, un Demetrio e un Alessandro e infiniti altri, nei confronti dei quali siamo debitori, per giudizio unanime di tutte le epoche successive, di tutto quanto di elevato ed eccellente vi è nella nostra vita. Chi non conosce Atene non conosce il Sole. Ritorniamo a quei teatri, stupendi certo per il loro splendore architettonico, ma ancor più dotati di straordinario valore per chi, o amando il riso li osservasse riempirsi del sale della comicità, o desiderando soggetti commoventi contemplasse i medesimi trasformarsi in luoghi di dolore in virtù dei versi della tragedia. Richiamiamo alla memoria i templi, i palazzi, le piazze […]. La stessa Roma ha fatto proprie le leggi greche. Ma ora siete crollate, o alte mura. Il celebre Liceo e la raffinata Accademia sono diventati spelonche e caverne. I colli che furono abitazioni degli dei sono diventati dirupi […]. Il paese che divinamente infondeva negli animi un sentimento di grandezza, ora ispira sconforto (C. Cremoninus, Lecturae exordium, 1591, in Id., Le orazioni, a cura di A. Poppi, 1998, pp. 17 e 19).
Questa parte dell’orazione, contrassegnata dalla ripetizione dell’aforisma «il mondo non è mai: nasce e muore continuamente», si conclude con l’affermazione del dovere dell’uomo di conoscere se stesso. L’uomo, scrive Cremonini, si scopre in mezzo alle tribolazioni dell’incostanza; ebbene, la conoscenza di sé è l’unico strumento capace di dare all’uomo serenità.
Questa riflessione segna il passaggio alla seconda parte del discorso. Essa offre un’analisi della natura dell’uomo e un tentativo di individuare la via per vivere felicemente. Anche questa seconda parte è caratterizzata dalla ripetizione di un aforisma: «tanto si conosce se stessi, quanto si è filosofi». Il nostro autore argomenta innanzi tutto a favore dell’utilità e necessità della filosofia come scienza capace di stabilire il tipo di vita da condursi al fine di ottenere serenità e, correlativamente, come scienza capace di rendere possibile tale tipo di vita. L’uomo nasce con una ragione priva di ogni conoscenza, di qualsiasi tipo essa sia, e tale da essere capace di acquisire conoscenze solamente attraverso i sensi. Questa condizione, prosegue Cremonini, è di estremo pericolo: è infatti possibile che il senso ci rappresenti un’immagine tale che, se ci si lasciasse attrarre da essa, si cadrebbe in un abisso di infelice miseria. Ecco perché occorre esaminare la natura dell’anima, dei sensi – intesi anche come fonti di passioni – e della ragione, e perché occorre determinare e conservare il loro corretto ordine. Questa consapevolezza permetterà alla ragione di conservare il proprio ruolo di sovrana dell’anima. Come si vede, conclude Cremonini, per fondare una vita felice occorre conoscere se stessi, e per conoscere se stessi occorre la filosofia, la quale modella la condotta morale.
Ciò non implica che la filosofia esaurisca qui il proprio compito; al contrario, essa è utile e necessaria anche come scienza teoretica, capace di stabilire la natura di se stessi e del mondo e di dare, al termine di questo percorso conoscitivo, serenità. La realtà, scrive Cremonini, è costituita sia da forme invisibili e immortali, che abitano la regione sovraceleste e che non sono soggette ad alcun mutamento, sia da realtà mutabili, in perenne avvicendamento. L’uomo è un microcosmo: a somiglianza del sommo Dio è costituito da una mente che permane in se stessa senza oscillazioni e mutamenti; a somiglianza del ruotare dei cieli passa discorsivamente da un termine all’altro; a somiglianza degli animali e delle piante sente e vegeta; a somiglianza delle sostanze composite è corpo e membra; a somiglianza delle sostanze elementari ha temperamento e qualità. L’uomo, desiderando conoscere se stesso e vedendosi microcosmo, sviluppa il desiderio di conoscere anche il cosmo, così come comprende di avere il potere di sviluppare questa conoscenza.
Allorché comprenderà di aver ricevuto in dono un intelletto onnipotente, che mediante una meditazione audace – ma felicemente audace – è in grado di abbracciare l’intera articolazione della realtà – di poter solcare mari e terre, procedere sicuro fra fulmini e tempeste, salire in cielo, stare insieme agli dei, rifugiarsi nel seno di Dio –, nulla gli risulterà irraggiungibile, nulla arduo, nulla inaccessibile (C. Cremoninus, Lecturae exordium, cit., p. 37).
L’itinerario speculativo di Cremonini prende le mosse dalla conoscenza di sé, prosegue nella comprensione della capacità della natura di vestirsi e spogliarsi di forme, passa attraverso la comprensione del darsi di un’ininterrotta scala di perfezioni nelle specie delle cose, e giunge infine al congiungimento pacificante e gioioso con Dio.
Lui che non è pervenuto all’esistenza da alcun inizio temporale, che non è stato bambino né giovane e non sarà vecchio, ma sussiste perpetuamente nella sua identità con sé, nella sua compiutezza ed ineffabilità, vivendo una vita felicissima consistente nella contemplazione intellettiva di se stesso, quale ci è possibile vagamente immaginare ma in nessun modo comprendere. Qui infine, postosi sopra il proprio stato di uomo mediante quella conoscenza alla quale avrà potuto dare avvio cominciando da se stesso, elevatosi fino a Dio e a Dio congiuntosi mediante quella mente che di Dio è l’immagine, si acquieterà, si allieterà, gioirà (C. Cremoninus, Lecturae exordium, cit., p. 39 ).
Il comando delfico di conoscere se stessi, conclude Cremonini, costituiva dunque un invito sia alla retta formazione dei costumi, sia alla teoresi. Ebbene, la filosofia si occupa precisamente tanto della vita morale che della vita teoretica; dunque, tanto si conosce se stessi quanto si è filosofi. Colui che avrà seguito quel comando, ossia il filosofo, sarà stabile nelle tempeste della condizione mortale.
L’orazione di Cremonini presenta numerosi aspetti degni di nota. Tra questi la scarsità di menzioni esplicite di Aristotele, il ricorso frequente a Platone, la presenza di citazioni di Francesco Petrarca e di Dante Alighieri e, soprattutto, la rigorosa mancanza di ogni accenno a una visione del mondo, dell’uomo o di Dio di tipo cristiano. A proposito di quest’ultimo punto, l’orazione di Cremonini si sviluppa con sottigliezza, evitando sia di sollevare qualsivoglia elemento di contrasto con dottrine religiose cristiane, sia di menzionare qualsivoglia elemento di contatto. Tutto ciò che il nostro autore dice di Dio può trovarsi anche in opere di autori pagani. Parla di Dio e di mondo senza né affermare né negare una dipendenza del secondo dal primo. Non fornisce alcun chiarimento circa la natura dell’operare di Dio, se non un adiaforo «illud idem est quod operatur». Allorché sostiene che la ragione corre il grave pericolo di essere serva dei sensi, nulla dice circa le ragioni di tale pericolo, né addita altro rimedio che la presa di coscienza della propria natura. Illustrando l’ascesa della mente a Dio, non accenna in alcun modo alla questione del ruolo di una mediazione di natura religiosa nel compiersi di una siffatta ascesa. Né la respinge né l’invoca; semplicemente la ignora. Se si pone mente a quante attenzioni, dalla metà del 13° sec. in avanti, i teologi cattolici avevano dedicato al tema utrum praeter physicas disciplinas alia doctrina sit homini necessaria (ovvero – per usare le più esplicite parole di Giovanni Duns Scoto – «se sia necessario ‹per la salvezza dell’uomo› che, nello stato presente, gli sia infusa soprannaturalmente una qualche dottrina speciale, ossia una dottrina tale che egli non la possa ottenere con il lume naturale del suo intelletto», Ordinatio, Prologus, pars 1, q. unica, n. 1, in Id., Opera omnia, studio et cura Commissionis Scotisticae, 1950, p. 1), non si potrà non pensare che il silenzio del nostro autore sia eloquente. Infine, la beatitudine di cui Cremonini parla è quella teorizzata dagli aristotelici universitari fin dalla seconda metà del 13° sec.: il congiungimento, tramite un’ascesi speculativa, con un Dio che è pensiero pensante se stesso.
La centralità che, nell’orazione ora considerata, il nostro autore assegna al tema dell’uomo, di ciò che muove l’uomo a interrogarsi su di sé e di ciò che esso scopre di sé, e l’uso che egli fa di testi e prospettive non aristotelici sollecitano una domanda. Cremonini fu ed è universalmente considerato come uno dei grandi – e tetragoni – esponenti dell’aristotelismo sviluppatosi in ambito universitario tra il tardo Medioevo e la prima età moderna; quale significato hanno dunque, in un quadro siffatto, questi elementi?
Si potrebbe rispondere, con Giovanni Gentile, che Cremonini si colloca in una tradizione speculativa attenta alla questione del valore dell’uomo; una tradizione che, nata nella Firenze del Quattrocento, giunta ad alte cime in Marsilio Ficino e in Giovanni Pico, passa attraverso Giordano Bruno e giunge fino alla prima delle orationes inaugurales di Giambattista Vico (G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, in Id., Opere, 14° vol., 1968, p. 84). Oppure si potrebbe osservare, con Eugenio Garin, che Cremonini «fu pensatore non volgare», dai vasti interessi, in cui si manifesta l’influenza di Pico (E. Garin, Storia della filosofia italiana, 1966, t. 3, pp. 558-60), e vedere in questo una vena che fa del nostro autore, in qualche misura, un figlio del Rinascimento. Oppure si potrebbe dire, come ha scritto Luigi Olivieri, che il testo del nostro aristotelico costituisce un’occasione «per comprendere i modi autentici di manifestarsi della tradizione aristotelica, della filosofia delle Università fra Cinquecento e Seicento, al di là delle contrapposizioni astratte e meramente ripetitive di ‘Umanesimo’ e ‘Scolastica’, ‘Aristotelismo’ e ‘Platonismo’. Ciò a partire dalle fonti», prosegue Olivieri, «che Cremonini qui mostra, esplicitamente o implicitamente, di saper utilizzare, e che caratterizzano subito l’aristotelismo e lo scolasticismo cremoniniani – qualora se ne voglia parlare – come incapaci di tollerare le suddette contrapposizioni» (L. Olivieri, introduzione a C. Cremonini, Orazione per l’inizio dell’insegnamento padovano, in Id., Le orazioni, cit., p. 6). Ferma restando l’acutezza di queste osservazioni, si può però aggiungere che Cremonini si rivela autore inequivocabilmente rinascimentale innanzi tutto nella decisione di rigettare la validità degli impieghi e delle interpretazioni medievali dei testi di Aristotele. Su questo punto sono illuminanti alcune pagine della sua commedia satirica Le nubi, nella quale il nostro pensatore sbeffeggia Giorgio Raguseo (professore ordinario di filosofia naturale di secondo luogo in Padova dal 1601 al 1621, e dunque diretto concorrente di Cremonini), seguace e fautore dell’uso medievale di costruire quaestiones sui testi di Aristotele e di prescindere poi da tali testi nel dare soluzione a esse.
Probo [un fittizio allievo di Raguseo]: […] Aristotele è un huomo ch’ha inteso molto, e dopo di lui son huomeni da molto i suoi espositori [cioè gli interpreti antichi]. Questi han formato una filosofia ch’è buona, e ferma, e bella. Ma sopra tutto quel che questi han detto son rimasti gran dubbi, non saputi da essi, benché sorgan da’ lor detti; di questi i successori han fatto scielta e fatte questioni, separate dal testo, ne le quali oltre la vera e sana intelligenza che s’ha del testo, s’han mill’altre cose, gratiose a saper per lor medesime. Carino [cioè Cremonini]: Vedi, povero me, ch’io mi credevo che il più di queste tanto da te magnificate questioni non foss’altro che invogli, e fosser morte dal non haver in fronte le materie vedute, o se vedute, non vedute se non così a barlume, e havea udito dire che ’l testo d’Aristotele è la scusa, e chi l’intende ben tronca e recide la multiplicità di queste ciance. Probo: Ciancie? Che ciancie? Vi sono argomenti che, mi dice il Maestro [cioè Raguseo], se venisse Aristotele non saprebbe disciorli (C. Cremonini, Le nubi, atto 2°, scena 4ª, in U. Montanari, L’opera letteraria di Cesare Cremonini, in Cesare Cremonini, 1990, pp. 171-72).
Nel sostenere la tesi secondo la quale i testi di Aristotele vanno interpretati tramite il confronto con altri testi di Aristotele, Cremonini incarnò una forma mentis schiettamente rinascimentale. Per la medesima ragione tuttavia, sebbene non per quest’unica ragione, si trovò – con ogni probabilità – a esser tra coloro che Galilei accusò di ritenere «che le verità siano da ricercare non nel mondo o nella natura, bensì […] nel confronto dei testi» (G. Galilei, epistola ad Johannem Keplerum, cit., p. 423).
Molto altro, in verità, dovrebbe essere detto a proposito della logica, dell’epistemologia e della fisica cremoniniane; è però necessario esaminare ora gli aspetti propriamente civili del pensiero e dell’azione del nostro autore. La questione più celebre nella quale fu coinvolto, e della quale fu importante protagonista, è quella, già citata, relativa alla chiusura del Gymnasium patavinum della Compagnia di Gesù.
Negli ultimi decenni del Cinquecento la curia papale e i gesuiti svilupparono un preciso progetto politico-culturale di ‘riconquista’ del controllo della società e degli Stati europei. Questo progetto era basato sulla messa in opera di un insieme di elementi concatenati: tra essi, in particolare, l’intervento diretto della curia romana in ambito politico (sia sul piano esterno, attraverso la creazione di un sistema di alleanze – in particolare con la monarchia spagnola –, sia sul piano interno, attraverso l’affermazione di diritti giurisdizionali), e l’acquisizione del controllo delle istituzioni educative e della formazione delle classi dirigenti. Di questo disegno faceva parte anche la fondazione e lo sviluppo – per quanto dettati da vicende in parte casuali – del Ginnasio di Padova della Compagnia di Gesù.
Grazie all’effetto trainante delle scuole gesuitiche di grammatica e retorica e alla struttura a collegio di tale istituzione, nella seconda metà degli anni Ottanta del Cinquecento i corsi di filosofia tenuti dai gesuiti in questa sede vennero seguiti da un numero crescente di studenti laici, tra i quali molti rampolli di famiglie nobili veneziane e padovane di primo rango. Lo scopo dei gesuiti era ben definito: fornire ai giovani nobili veneziani, e quindi alla futura classe dirigente della Repubblica, una formazione dottrinalmente conforme ai dettami del cattolicesimo controriformista e operativamente finalizzata a creare soggetti obbedienti alle direttive della curia romana. Il fatto che il Collegio avesse sede nella medesima città in cui aveva sede un celebre Studio pubblico era considerato un elemento tatticamente vantaggioso. Tuttavia, nelle intenzioni dei gesuiti lo Studio pubblico avrebbe dovuto, nel lungo periodo, essere svuotato di importanza e trasformato in una costellazione di collegi controllati dai diversi ordini religiosi. Conseguentemente, la presenza di studenti protestanti – che ancora caratterizzava Padova nella seconda metà del Cinquecento – avrebbe dovuto cessare e Padova avrebbe dovuto divenire un polo di attrazione per la nobiltà cattolica controriformistica transalpina.
In questo processo, la Compagnia di Gesù commise un errore tattico: tentò di conferire la laurea agli studenti del proprio collegio e di farlo sulla base di privilegi pontifici. A causa di tale fatto la Universitas artistarum patavina ruppe ogni indugio, incaricando infine Cremonini di presentare una supplica al Senato della Repubblica; precisamente su tale fatto il neodocente di filosofia naturale richiamò ‘diplomaticamente’ l’attenzione nell’orazione che tenne di fronte al Senato il 20 dicembre 1591: i gesuiti, rilevò Cremonini, tenevano, senza alcun permesso, lezioni pubbliche su materie insegnate nello Studio di Padova e conferivano lauree sulla base di privilegi non concessi dalla Repubblica veneta. Il nostro autore ripeté più volte questa considerazione nel corso dell’orazione ma da essa, con acutezza, non trasse motivo per alcuna richiesta. Piuttosto, sostenne che il Ginnasio dei gesuiti danneggiava lo Studio pubblico diffamandolo, sottraendo a esso allievi e creando occasione di scontri tra gli studenti e proprio sulla base di questi rilievi chiese al Senato di proibire ai gesuiti di tenere in quella sede lezioni aperte al pubblico. L’orazione ottenne l’effetto sperato: il 23 dicembre, dopo un’accesa discussione e un voto a stretta maggioranza, il Senato ingiunse ai gesuiti di cessare le lezioni.
Si possono nutrire pochi dubbi sul fatto che l’operato di Cremonini in occasione dell’affaire del Ginnasio gesuitico di Padova costituisca la ragione principale della successiva e più che trentennale messa in stato di accusa del nostro autore da parte del Sant’Uffizio. Fin dai giorni immediatamente seguenti il voto del Senato veneto, negli scritti dei gesuiti egli divenne il «mercenario filosofo, tolto dal fango e dalle cannuccie del pantano ferrarese, ingeritosi Iddio sa come, anzi rendutosi per pochi fiorini a servire barbari concetti e piggior lingua il Bò di Padoa» (G.D. Bonaccursi, Risposta al Cremonino per li Padri Gesuiti, in M. Sangalli, Università accademie gesuiti. Cultura e religione a Padova tra Cinque e Seicento, 2001, p. 121), che ha meritato che «da tutto il cristiano mondo debba esser esterminato» (P. Comitoli, Risposta apologetica all’invettiva del Cremonino contra i Padri Reverendi del Giesù per occasione del loro Studio in Padova, in M. Sangalli, Università accademie gesuiti, cit., p. 110).
Da almeno il 1598 in avanti Cremonini fu oggetto di costanti ‘attenzioni’, e persino di una condanna – nella forma della messa all’Indice della sua Disputatio de coelo –, da parte dell’Inquisizione romana. Le accuse più gravi rivolte contro Cremonini furono quelle di sostenere la mortalità dell’anima umana e l’eternità dei cieli. Queste accuse, unitamente ad alcune importanti testimonianze coeve, hanno generato una lunga discussione circa il reale pensiero di Cremonini su quei temi. Gli studi condotti negli ultimi tre decenni hanno mostrato che è probabile che egli ritenesse che la filosofia non abbia la capacità di dimostrare apoditticamente l’immortalità dell’anima e l’esser creato del mondo; nondimeno, non meno degna di nota è la natura politica dell’attacco portato dal Sant’Uffizio contro Cremonini e della difesa di quest’ultimo. A partire almeno dal 1601, il nostro autore appare aver legato le proprie sorti a quelle del partito dei senatori veneti anticurialisti. La curia romana e i gesuiti intendevano colpirlo non semplicemente come pensatore, ma soprattutto come esponente, sul piano culturale, dei circoli anticurialisti: riuscire a infliggergli una condanna, in effetti, avrebbe avuto un effetto dirompente sulla tenuta di quel fronte. Questo spiega perché il Sant’Uffizio respinse alcuni dei tentativi di compromesso offerti dallo stesso Cremonini e spiega anche perché Cremonini si rifiutò tenacemente di accettare di ‘emendare’ l’opera, la Disputatio de coelo, su cui si erano infine concentrate le attenzioni e le richieste dell’Inquisizione romana. I documenti superstiti – per es., le dichiarazioni che egli rese nel 1619 all’inquisitore di Padova – sono inequivocabili.
Quanto al mutar il mio modo di dire, non so come poter io promettere di trasformar me stesso. Chi ha un modo, chi un’altro. Non posso ne anco retrattare espositioni d’Aristotele, poiché l’intendo così, e son pagato per dichiararlo come l’intendo, e nol facendo sarei obligato alla restituzione della mercede; così anco non posso retrattare considerationi haute circa li interpreti, e refutationi ch’habia fatte delle loro esplicationi: ci va l’honor mio, l’interesse della cathedra, e per tanto del Prencipe (C. Cremonini, Risposta all’Inquisitor di Padova, 1619, in Poppi 1993, p. 105).
Si noti l’ultima riga della dichiarazione: la posta politica in gioco è chiara a tutti; le questioni relative alla natura dell’anima e dei cieli sono ormai divenute piccola parte di un quadro più vasto.
Ciò non implica che le tematiche dottrinali non svolgano un ruolo nelle vicende ora in esame. Al contrario, sono di grande rilevanza; esse, però, non sono ristrette all’ambito della filosofia naturale e ci conducono direttamente al cuore dell’impegno civile di Cremonini. Egli fu per decenni patrono della Natio germanica artistarum dello Studio di Padova, ossia il primo referente per ogni questione disciplinare e politica dell’organizzazione degli studenti ultramontani in filosofia e medicina; una natio, si noti, nella quale erano presenti molti studenti protestanti. Egli promosse attivamente l’istituzione, avvenuta nel 1616, del Collegio veneto artista, ossia di un organo che permettesse agli studenti protestanti di addottorarsi in Padova senza essere soggetti all’obbligo della professione di fede cattolica. Non stupisce vedere i senatori veneti filopapali accomunare nei loro attacchi Cremonini e la Natio germanica.
Caso esemplare è quello relativo alla fortuna in Padova di Pompeo Caimo (1568-1631), già medico in Roma del cardinale Alessandro Peretti e docente, per interessamento di quest’ultimo, alla Sapienza. In questa circostanza, tra il 1626 e il 1629, i senatori veneti filopapali, allo scopo di infliggere una sconfitta a Cremonini e alla Natio germanica, dapprima accolsero la venale richiesta dello stesso Caimo, il quale nulla sapeva di anatomia, di essere nominato docente anche di tale materia, e a seguito delle crescenti proteste degli studenti, in particolare ultramontani, nominarono Caimo – il filopapale Caimo – addirittura alla carica di presidente del Collegio veneto. Per due anni accademici gli studenti che vollero seguire lezioni di anatomia di buona qualità furono perciò costretti a lasciare Padova. Quando, nel 1629, fra il tripudio degli studenti transalpini Cremonini fu finalmente nominato presidente del Collegio veneto ed ebbe luogo la prima laurea sotto la sua presidenza, la Natio germanica artistarum offrì al suo patrono un ritratto inciso che venne distribuito insieme a carmi gratulatori.
Questi eventi portano alla luce il nucleo più stabile e storiograficamente certo del pensiero e dell’impegno civile di Cremonini. Se in trent’anni d’indagini il Sant’Uffizio non riuscì a provare che Cremonini non era un ‘buon cristiano’, ben difficilmente vi potranno riuscire gli storici, ammesso e non concesso che abbia senso dedicarsi a un tema siffatto. È invece certo, e storicamente significativo, che Cremonini non fu un cristiano filopapale. Fin dal 1591 egli aveva ben compreso quale fosse l’obiettivo dei gesuiti, della curia papale e dei circoli curialisti in genere: il dispiegamento di un progetto di egemonia culturale, l’instaurazione di un regime religioso dispotico e intollerante.
Vennero questi Padri poveri in umilissima sembianza, incominciarono ad insegnare la grammatica a’ fanciulli e così a poco a poco, così pian piano, io non so come accumulando ricchezze, di mano in mano insinuandosi, sono pervenuti ad insegnar tutte le scienze, con intenzione, cred’io, di farsi in Padova i monarchi di sapere, purché anco si contentino di così poco, e trionfare dello Studio della Repubblica venetiana, distruggendolo (Orazione contro i gesuiti a favore dello studio di Padova, in Id., Le orazioni, cit., p. 68).
Contro questo progetto di dispotismo politico-religioso Cremonini si battè per quarant’anni. È questo, a ben vedere, il ‘gioco dissimulato’ di cui parlò Gabriel Naudé (1600-1653): «Cremonini cachoit finement son jeu en Italie : nihil habebat pietatis et tamen pius haberi volebat. Une de ses maximes étoit : intus ut libet, foris ut moris est» (Naudaeana et Patiniana. Ou singularitez remarquables, prises des conversations de mess. Naudé et Patin, 17032, pp. 56-57). Naudé, tuttavia, deformò il significato dell’operato di Cremonini, piegandolo ai propri intenti e alle proprie prospettive esplicitamente libertine. A prescindere da ciò che Cremonini pensava circa i dogmi della religione cattolica e la loro dimostrabilità filosofica, e su cui ben difficilmente gli storici potranno dire qualcosa con sicurezza, ciò che è certo è che egli non intese essere maestro e fautore di irreligiosità; intese essere maestro e fautore di tolleranza. Ancora nel 1637 la Natio germanica artistarum ottenne che uno stemma in pietra recante le armi araldiche di Cremonini fosse collocato, non a caso, sopra la porta d’ingresso del Collegio veneto. Possiamo a buon diritto vedere in esso un simbolo di quel motto, «melius habere lentem religionem quam ferventem», che tanti studenti appresero in quei decenni del Seicento a Padova. È di questa tolleranza, che è libertà civile, che Cremonini parla nell’esclamazione, quasi profetica, che chiude la già ricordata lettera del 1611 di Gualdo a Galilei: «Oh quanto harrebbe fatto bene anco il S.r Galilei, non entrare in queste girandole, e non lasciar la libertà Patavina!».
Per uno di quegli scherzi che fa la storia, tra i primi fautori della nuova scienza galileiana vi furono intellettuali di estrazione nobiliare filopapale, come Giovanni Francesco Sagredo, o addirittura filogesuitici, come il Gualdo. Fu questa, tra nuova scienza e curia romana, un’alleanza di breve durata, tuttavia essa fece in tempo a proiettare su Cremonini non solamente l’ombra dell’eresia, ma anche quella della stupidità. L’indagine storica ha invece messo in luce che egli – benché meno geniale del suo collega, amico e (sul piano ‘scientifico’) avversario Galilei – fu un pensatore acuto e di profonda umanità. Una figura singolarmente prossima, per alcuni importanti aspetti, a quella del suo contemporaneo Paolo Sarpi e che per questo necessiterebbe, per essere correttamente intesa, di strumenti interpretativi raffinati e di studi approfonditi quali quelli messi in campo per la comprensione del pensiero del servita veneziano. Diremo dunque, per il momento, semplicemente che Cremonini fu un intelligente docente universitario che si servì del proprio ruolo per difendere e procurare spazi di libertà civile oltre che per sé, anche per i propri studenti e – a ben vedere – per tutti.
Numerosi testi manoscritti, testimonianza dell’insegnamento di Cremonini, sono tutt’ora conservati in varie biblioteche europee. Per un elenco e una descrizione di questi testi, cfr. Cesare Cremonini. Aspetti del pensiero e scritti, Atti del Convegno di studio, Padova (26-27 febbraio 1999), a cura di E. Riondato, A. Poppi, 2° vol., Padova 2000, pp. 33-452. Alcuni testi manoscritti sono stati pubblicati all’interno di studi recenti. Se ne può leggere l’elenco, nella forma di note di edizione, in M. Magliani, Le opere a stampa di Cesare Cremonini, in Cesare Cremonini, 2° vol., 2000, pp. 9-30.
Lecturae exordium habitum Patavii VI. Kalend. Februar. M.D.XCI. quo is primum tempore philosophiae interpres ordinarius eo est profectus, Ferrariae 1591 (rist. più recente e trad. it. in Id., Le orazioni, a cura di A. Poppi, Padova 1998, pp. 3-51).
Oratione in nome della Università di Padova, in Decret de la Seigneurie de Venise contre les Jesuites, Paris 1595 (rist. più recente e trad. it. in Id., Le orazioni, a cura di A. Poppi, Padova 1998, pp. 59-69).
Explanatio prooemii librorum Aristotelis De physico auditu. Cum introductione ad naturalem Arist. philosophiam, continente Tractatum de paedia, descriptionemque universae Aristoteliae philosophiae. Quibus adiuncta est praefatio in libros De physico auditu, Patavii 1596 (trad. it. del solo Tractatus de paedia in F. Fiorentino, Cesare Cremonini e il “Tractatus de paedia”: con la traduzione italiana del “Tractatus”, Lecce 1997).
De formis quatuor corporum simplicium, quae vocantur elementa, disputatio, Venetiis 1605.
Disputatio de coelo in tres partes divisa, de natura coeli, de motu coeli, de motoribus coeli abstractis. Adiecta est apologia dictorum Aristotelis de Via Lactea ‹et› de facie in orbe Lunae, Venetiis 1613.
Apologia dictorum Aristotelis de quinta caeli substantia adversus Xenarcum, Ioannem Grammaticum, et alios, Venetiis 1616.
Apologia dictorum Aristotelis de calido innato. Adversus Galenum, Venetiis 1626.
Apologia dictorum Aristotelis de origine, et principatu membrorum adversus Galenum, Venetiis 1627.
De calido innato, et semine, pro Aristotele adversus Galenum, Lugduni Batavorum 1634.
Tractatus tres. Primus est de sensibus externis. Secundus de sensibus internis. Tertius de facultate appetitiva, revidit T. Lancetta, Venetiis 1644.
Nel primo delle sue Meteori a difesa per Aristotile contro li astrologhi giudiciarij, in Raccolta medica, et astrologica. Divisa poi in discorsi, a cura di T. Lancetta, Venetia 1645.
Dialectica, a cura di T. Lancetta, Venetiis 1663.
Le nubi, in Cesare Cremonini, 1990, pp. 151-224.
In Aristotelis librum De divinatione per somnum commentarium adiecta versione Graeca anonyma Theophilo Corydalleo fortasse adiudicanda primum edidit Antonius Antonioni, «Miscellanea marciana», 1992-1994, 7-9, pp. 9-101.
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