De Lollis, Cesare
Filologo (Casalincontrada, Chieti, 1863- ivi 1928), professore di letterature neolatine prima all'università di Genova (1891) e poi (1905) in quella di Roma, trattò argomenti danteschi in distinti momenti della sua vita: un manipolo d'indagini, purtroppo non folto, nelle quali si spazia, come nei restanti settori della sua attività, dalla ricerca filologica all'intelligenza dei fatti culturali e poetici, con rara facoltà di penetrazione e vivace modernità di vedute sorrette da severa e vasta fondazione dottrinaria. Il gusto dell'analisi formale, che fu anche frutto di maturo sapere filologico, la tendenza a fissare gli sfondi culturali ponendoli in attivo ricambio con i valori espressivi e la nativa vocazione a centrare il nucleo vivo dei problemi, chiaramente determinandoli, compaiono anche nelle pagine che egli dedicò a Dante. Meglio che in brevi scritti sulla fortuna del poeta in Francia e Spagna, nei quali sembra rilevante, ancora più della varietà di richiami culturali, la capacità di collocare il tema entro limiti sanamente storici e realisticamente essenziali, e oltre che in saggi come quello rivolto a studiare il rapporto fra Stilnovo e " Noel Dig ", nel quale le relazioni istituite son tutte fermentate da intrinseche valutazioni, la varia vena dello studioso si esplicita soprattutto in quattro saggi di diverso impegno.
L'articolo Postille autografe di D. ha la sua genesi nelle affermazioni di A. Pakscher, volte a sostenere l'ascrizione al pugno di D. delle glosse che figurano in margine al codice provenzale Vat. 3207. Il De L. dimostra, con amabilità ma senza concessioni sul piano scientifico, l'inaccettabilità dell'ipotesi con argomenti di molta concretezza, e a comprova corregge, benché non integralmente, l'edizione delle postille fornita dal Pakscher. Anche alla trattazione d'ordine filologico, ma già con diverso indirizzo e con più patenti aperture verso l'analisi critica, può ricondursi il saggio del 1901 su Quel di Limosì, inteso a identificare il trovatore Giraut de Bornelh nell'allusione di Pg XXVI 120; dove è importante la saldatura compiuta tra documentazione sagacemente pertinente e rilievi d'ordine formale, i quali ultimi porgono l'occasione al De L. di esprimere considerazioni di carattere generale assai fini e penetranti, talché il tema in senso stretto è oltrepassato da alcune valutazioni sulla problematica della lirica di scuola del Medioevo d'indubbia efficacia.
Un impianto parallelo e consimile si osserva nello scritto su D. e i trovatori provenzali, del 1899, in cui, proprio perché si assumeva un tema di più ampia dimensione culturale, gli era consentito d'inoltrarsi più francamente lungo il percorso del significato delle esperienze poetiche di Dante. Nella prima parte il De L., ponendo a raffronto alcuni passi della Vita Nuova e del De vulgari Eloquentia, s'intrattiene sulla cognizione da parte di D. della triplice direttiva della lirica occitanica, vale a dire l'amorosa, impersonata da Arnaut Daniel, la politica, rappresentata da Bertran de Born, e la morale, interpretata da Giraut de Bornelh, e specifica il senso delle concomitanze con la lirica di ‛ sì ' ivi istituite. Nella seconda parte, il romanista ricorda quali altri trovatori furono noti a D., ma non allo scopo di compilare un arido registro, bensì per illustrare come D., a differenza dei poeti di Sicilia, non solo ebbe " notizia precisa " del cenacolo lirico di oltralpe, ma soprattutto " notizia critica ", nel senso di un accoglimento dell'eredità occitanica e di un suo acquetamento entro le proposizioni poetiche di quella scuola solo per " quel tanto perfettamente conciliabile colla nuova concezione d'amore " (p. 331). Infine, una volta segnalato l'uso da parte di D. di alcune similitudini di marca provenzale - riprese tuttavia dall'interno, a differenza di quanto era accaduto nell'ambiente della Magna Curia, e ristrutturate con autentica validità innovativa -, lo studioso si sofferma a indagare il diverso valore dell'accadimento amoroso presso i trovatori e nel libello giovanile di D., istituendo una relazione, e meglio diremmo un'opposizione, fra la " non realtà " dei primi (forse tacciati con troppa severità di osservare un rigido schematismo formulistico) e la " realtà di idealità altissime " (p. 341) che poeticamente si attua nella Vita Nuova.
Accanto a codesto saggio, nel quale si ha un'operosa confluenza di critica e filologia nell'area della storia intellettuale, va menzionato, da ultimo, uno scritto che appartiene alla piena maturità dello studioso. Ci riferiamo alle pagine su La fede di D. nell'arte, le quali, com'è noto, nacquero dalla stimolante lettura del volume del Croce e rispondono all'esigenza di valorizzare e riqualificare più compiutamente le istanze culturali che condizionarono l'opera dantesca, riplasmate poi nel divenire poetico. Il discorso si sviluppa quindi lungo l'arco della " personalità ", positivamente riconsegnata alle componenti della sua civiltà, e vi si profila, con tratto sicuro, il vario evento letterario del Medioevo, di lingua latina, provenzale, italiana, allo scopo di individuarne l'azione sulla storia poetica di Dante. Viene fissata in tal modo non solo l'intrinseca fusione fra cultura e arte, dottrina e poesia, ma anche il valore della consapevolezza del poeta del suo debito culturale, inalienabile dallo stesso processo creativo.
Opere dantesche del De L.: D. e Goethe in Francia, in " La Cultura " XXVI (1907) 133-136; D. e la Francia, ibid. XXVII (1908) 657-662; Per un possibile D. francese, ibid. XXIX (1910) 84-86; D. e la Spagna, in Cervantes reazionario, ecc., Firenze 1947, 251-261; Dolce Stil Nuovo e " Noel dig de nova maestria ", in " Studi Mediev. " I (1904-5) 5-23; Postille autografe di D., in " Giorn. stor. " IX (1887) 238-248; Quel di Lemosì, in Scritti vari di filologia (Omaggio a E. Monaci), Roma 1901, 353-375; D. e i trovatori provenzali, in " Flegrea " I (1899) 321-342; La fede di D. nell'arte, in " Nuova Antol. " LVI (1921) 208-217.