FORNI, Cesare
Nacque a Vespolate (Novara) il 17 nov. 1890 da Pietro e Rosa Pozzi. Figlio di ricchi agricoltori della Lomellina, partecipò alla prima guerra mondiale col grado di tenente di artiglieria, promosso in seguito capitano per meriti di guerra. Ottenne una medaglia d'argento, due di bronzo e una medaglia d'oro conferitagli dalla Serbia.
Aderì ai fasci di combattimento nel 1919, muovendo i suoi primi passi nel fascismo torinese; operò nella Lomellina solo dal maggio del 1921. La carriera del F. fu rapida. Nel giugno del 1921 fu eletto rappresentante della Lomellina, poi designato rappresentante della Lombardia al congresso costitutivo del Partito nazionale fascista (PNF), al termine del quale entrò a far parte del comitato centrale. Il 7 dic. 1921 era infine chiamato a dirigere la federazione provinciale fascista di Pavia.
Durante lo sciopero "legalitario" dell'agosto 1922, alla testa delle sue squadre, il F. fu tra i protagonisti dell'assalto a palazzo Marino, sede del Comune di Milano. Partecipò quindi alla marcia su Roma in veste di responsabile delle squadre fasciste del "triangolo industriale".
Dal settembre 1922 al gennaio 1923, fu ispettore generale delle squadre della prima e seconda zona (Piemonte, Lombardia, Liguria e Veneto) della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), e poi, dal febbraio al maggio del 1923, comandante della prima zona (Torino). Ma il suo nome è legato alla stagione del dissidentismo fascista, sviluppatosi durante i primi due anni del governo Mussolini.
Il dissidentismo del F. fu intransigente, come del resto intransigenti furono sin dall'inizio i suoi criteri direttivi del fascismo provinciale pavese, ancorché forzatamente temperati dalle regole imposte da Roma e ispirate alla collaborazione con le forze affini. Ebbe modo di esprimere questa sua linea già nella formazione delle liste dei candidati per le elezioni comunali e provinciali del gennaio-febbraio 1923, quando si batté per limitare l'afflusso nelle liste fasciste di elementi senza un passato di convinta militanza o di sicuro fiancheggiamento del movimento fascista. La polemica contribuì ad inasprire i rapporti tra gli organi federali e numerosi fasci locali; il dissidio più serio, che fu all'origine del suo dissidentismo, si ebbe a Vigevano, dove i dirigenti del fascio locale si espressero a favore della collaborazione con elementi e forze politiche affini, in contrasto con il F., deciso a sbarrare a costoro l'ingresso nella lista di maggioranza. Anche se il F. aveva dovuto per il momento cedere, il conflitto aveva ripreso vigore dopo le elezioni con la scelta del sindaco, che era infine caduta, nonostante l'opposizione del F., su di un candidato gradito al fascismo moderato locale. La vicenda vigevanese ebbe un primo epilogo con l'espulsione dal fascio di tutti gli elementi ostili al Forni.
A scanso di equivoci, il F. ritenne opportuno, dopo le elezioni, riaffermare l'intransigenza delle proprie convinzioni. Lo fece in modo solenne con il discorso di investitura alla presidenza della deputazione provinciale, e lo ribadì in occasione del congresso provinciale del 17 giugno 1923, dove, oltre che confermare il bando, del resto scontato, a socialisti e popolari, mostrò avversione anche a liberali e democratici, la cui opera valutò "molto dubbia ed infida nei riguardi del Fascismo".
Nella sua veste di segretario provinciale di Pavia dei sindacati nazionali, carica che ricopriva dal 1921, il F. si era espresso contro il sindacalismo integrale di E. Rossoni, cioè contro l'ipotesi di scioglimento e successiva confluenza nelle corporazioni fasciste delle associazioni sindacali padronali con un intervento dalla tribuna dell'assemblea nazionale della Confagricoltura, riunitasi a Roma l'11 aprile del 1923. Sebbene avesse poi auspicato, nel tentativo di mitigare il senso delle sue dichiarazioni, la leale collaborazione di operai agricoli e datori di lavoro, tuttavia restò immutata nella sostanza la sua ostilità per l'ipotesi corporativa di Rossoni. Le vertenze andavano pertanto lasciate al libero confronto tra le controparti. Il fascismo doveva solo garantire il rispetto degli accordi da esse sottoscritti.
Di fatto la posizione del F. veniva a collimare con gli interessi degli agrari, i quali avversavano la presenza mediatrice degli organi corporativi ipotizzati dal Rossoni, poiché consapevoli della condizione di estrema debolezza in cui versavano le organizzazioni sindacali dei lavoratori della terra. In effetti, il ruolo di garante del rispetto dei patti agrari, che il F. assegnava al fascismo, si presentava velleitario e non privo di elementi contraddittori. Era infatti noto come tra gli inadempienti si trovassero anche, e soprattutto, gli agrari legati organicamente al fascismo. Il fascismo si sarebbe venuto a trovare nell'imbarazzante condizione di imporre regole a coloro che avevano generosamente finanziato l'offensiva del 1921 contro l'odiato potere mediatorio della Federterra per poter tornare a gestire la manodopera privi di qualsiasi obbligo sindacale.
Le vicende del fascio di Vigevano avevano rivelato nel fascismo pavese l'esistenza di un profondo dissidio, in cui l'elemento discriminante era rappresentato dall'evidente diversità della base sociale su cui poggiavano i due schieramenti contrapposti.
Risultano infatti con il F. soprattutto le forze del fascismo agrario delle pianure irrigue della Lomellina e del Vogherese, espressione della grande proprietà agraria e della grande affittanza, timorose entrambe che la politica delle alleanze con le forze affini, la normalizzazione della vita politica e l'ingerenza nei conflitti economici da parte del fascismo "regime" rappresentassero il preludio ad una fase della vita politica che avrebbe riaperto nelle campagne una partita con il proletariato agricolo per ora risolta a loro favore. Si schierò contro il F. il fascismo dei ceti medi urbani e quello della media e piccola proprietà contadina dell'Oltrepò pavese, che esprimevano in tal modo il malessere per la subalternità politica e organizzativa cui li aveva costretti lo squadrismo agrario lomellino, che, per essere stato il vero artefice della nascita e dello sviluppo del fascismo pavese, non aveva mai cessato di esercitare su di essi la propria indiscussa egemonia.
L'asprezza del contrasto preoccupò gli organi centrali del PNF, che, in attesa delle decisioni della giunta disciplinare, ritennero opportuno rinviare l'imminente congresso provinciale. Avveniva allora il primo strappo del F. nei confronti delle autorità centrali del PNF. Nonostante il divieto di Roma, egli riuniva a Pavia un centinaio di segretari dei fasci della Lomellina e del Vogherese a lui fedeli, che votarono un ordine del giorno a suo favore, accompagnandolo con l'invito a ritirare le dimissioni da lui presentate nel corso del convegno stesso.
Il 12 dic. 1923 la giunta disciplinare rendeva note le sue decisioni. Il F. veniva sospeso da tutte le cariche che ricopriva, la federazione pavese veniva commissariata e affidata a M. Rava; nel gennaio 1924 venivano espulsi dal PNF i membri dei direttori dei fasci di Stradella e Voghera, roccaforti del Forni. Questi decise di fare la sua rentrée nell'agone politico proprio durante lo svolgimento del congresso provinciale straordinario che avrebbe dovuto segnare l'avvio dei nuovi fasci epurati e ricostituiti. Riunì, infatti, a Voghera, in una sorta di controcongresso, i segretari politici dei fasci dissidenti, i quali, tra febbraio e marzo del 1924, presero ad organizzarsi nei Fasci nazionali. Inoltre il F. stabilì particolari intese col movimento di Raimondo Sala, anch'egli ex squadrista, ed ora fuori del PNF, proprio nella limitrofa provincia di Alessandria.
Se sul terreno operativo l'accordo tra i due dissidenti venne raggiunto abbastanza rapidamente, a una vera fusione dei due movimenti non si giunse mai. A impedirlo contribuivano l'esasperato carattere localistico, dal quale essi avevano preso le mosse senza riuscire mai a staccarsene, e i differenti caratteri assunti: intransigente il dissidentismo del F., transigente e percorso da istanze normalizzatrici quello del Sala e dei due leaders dell'associazione Patria e libertà, O. Corgini e A. Misuri. Ma, l'elemento che più di altri influì sul mancato incontro del F. con i più importanti dissidentismi fu il suo tenace "mussolinismo", espressione della sua incapacità di individuare nelle anomalie e degenerazioni del PNF che egli andava denunciando con coraggio le personali responsabilità di B. Mussolini.
In disaccordo con altri leaders dissidenti favorevoli all'astensione, il F. decise di partecipare, insieme con il Sala, alle elezioni del 6 apr. 1924. Il 12 marzo 1924 egli venne aggredito e selvaggiamente picchiato da una squadra di fascisti; in seguito l'istruttoria per il delitto Matteotti, grazie alle deposizioni di Cesare Rossi, poté accertare che l'ordine di colpire il F. era partito personalmente da Mussolini.
Al di là dei motivi immediati, le ragioni più profonde dell'aggressione sono da ricercarsi nella preoccupazione di Mussolini per la presenza di liste di dissidenti, le quali, per il prestigio che nell'elettorato fascista godevano alcuni loro leaders, potevano attrarre il voto di protesta dei settori del fascismo delusi dagli esiti ministeriali della marcia su Roma. Perciò il capo del fascismo gli riservò in genere un trattamento più duro di quello riservato ai partiti di opposizione.
Il consenso di ampi settori del fascismo per l'iniziativa politica del F. trovò conferma nei risultati elettorali. Egli risultò eletto, unico fra i candidati dissidenti fascisti, e nel collegio elettorale della provincia pavese i suoi Fasci nazionali raccolsero complessivamente il 9,2% dei voti. Ma l'ambiguità del personaggio e l'incertezza politica che ispirava la sua iniziativa fecero sì che egli continuasse a proclamarsi fascista e mussoliniano. Il F. tentò anche di rientrare nel PNF: ad impedire il successo della sua manovra di riaccostamento al partito furono gli sviluppi della crisi Matteotti, che dettero un nuovo impulso ai dissidenti usciti per lo più malconci dalla lotta elettorale.
Incoraggiati dal disorientamento di Mussolini e del fascismo, essi tentarono di nuovo l'aggregazione tra di loro e questa volta il ruolo unificante fu svolto dalla Lega italica di Sem Benelli, alla quale sulle prime il F. aderì. Ma, anche questa volta, finì per prevalere in lui il suo profondo "mussolinismo", che lo portò, nel novembre del 1924, a votare alla Camera, insieme con la maggioranza, la fiducia al governo. Il voto deluse anche i suoi più fedeli seguaci, molti dei quali lo abbandonarono per aderire a Patria e libertà.
Nel corso del primo semestre del 1925, il F. continuò ambiguamente a operare per giungere all'unificazione dei vari dissidentismi, e nel contempo a dichiararsi favorevole alla svolta autoritaria del 3 genn. 1925. A partire dal secondo semestre del 1925 del F. politico si hanno poche notizie. Agli inizi del 1926 egli pregava R. Farinacci di rendersi interprete presso Mussolini del suo desiderio di riconciliazione con il fascismo. Pur continuando a sottoporlo ad un regime di sorveglianza, in verità piuttosto blando, il governo, nel maggio del 1927, gli rilasciò di nuovo il passaporto per l'estero. Dai primi mesi del 1927, e per tutto il 1928, il F. visse per lunghi periodi in Somalia, dove godette della protezione del governatore della colonia, il suo amico C. De Vecchi, e dove cercò di realizzare alcuni ambiziosi progetti agricoli.
Nel maggio del 1929 gli venne tolta la sorveglianza. Anche se dai documenti non risulta il suo rientro ufficiale nel PNF, tuttavia per tutti gli anni Trenta i suoi rapporti con i vertici del partito appaiono buoni. In alcuni ambienti circolò la voce che fosse divenuto un ispettore dell'Opera vigilanza repressione antifascista (OVRA), ma la documentazione non consente di stabilire dati precisi. Sono del marzo 1941 alcune accuse al F. di ricostituzione in provincia di Pavia di nuclei di fascisti dissidenti, per le quali subì anche un breve arresto.
Il F. morì a Milano il 2 luglio 1943.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Pubblica sicurezza, 1923, b. 95, fasc. Fasci di combattimento - Pavia; Ibid., 1924, b. 73, fasc. Fascisti dissidenti - Pavia; Ibid., cat. A1, 1943, b. 36, fasc. F. C.; Ibid., Carte Farinacci, fasc. F. C.; Ibid., Polizia politica, Fascicoli personali, b. 36/A; Ibid., Presidenza Consiglio dei ministri, 1924, fasc. 1/6-3/872. Sull'azione del F. nella provincia pavese negli anni precedenti alla marcia su Roma, cfr. S. Bianchi Martina, Fascismo vigevanese. Cronaca, Milano 1928 e A. Bianchi, A noi! Storia del fascismo pavese, Pavia 1929, in cui appaiono i primi tentativi di analisi delle basi sociali del dissidentismo forniano. Cenni sul F. sono anche in G. Lumbroso, La crisi del fascismo, Firenze 1925 e A. Misuri, "Ad bestias!" (Memorie d'un perseguitato), Roma 1944; R. De Felice, Mussolini il fascista, I, Torino 1966, pp. 412 ss.; A. Lyttleton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1974, pp. 283 ss.; L. Zani, L'associazione costituzionale Patria e libertà (1923-25), in Storia contemporanea, V (1974), pp. 393-429 passim; G. Guderzo, Una provincia italiana sotto il fascismo: Pavia, in 1945/1975 Italia. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento, Milano 1975, ad Indicem; U. Parisi, Alle origini del dissidentismo forniano, in Annali di storia pavese, I (1979), pp. 10-19; E. Mana, Origini del fascismo a Torino (1919-1926), in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di U. Levra - N. Tranfaglia, Milano 1987, pp. 331, 334 s.; E. Signori, Il Partito nazionale fascista a Pavia, in Storia in Lombardia, VIII (1989), pp. 66-71; P. Lombardi, Per le patrie libertà. La dissidenza fascista tra "mussolinismo" e Aventino (1923-1925), Milano 1990, ad Indicem.