GENTILE (Gentile Pignolo), Cesare
Nacque a Genova nel 1614 da Pietro Maria e da Francesca Spinola di Giovan Battista, e fu ascritto alla nobiltà il 7 dic. 1636.
Il padre del G., unico figlio maschio di Cesare e di Aurelia Di Negro, apparteneva al più numeroso e prestigioso ramo dell'"albergo" Gentile, i Pignolo, che da Gasparo, marito di Teresa Doria di Lazzaro, dall'inizio del Quattrocento aveva mantenuto per oltre due secoli strette relazioni economiche e parentali con le grandi famiglie della nobiltà "vecchia" (come i Doria, i Pallavicino, gli Spinola) di orientamento filospagnolo. Tale ramo aveva già dato un doge alla Repubblica, Giovan Battista, nel 1577, mentre gli altri due dogi Gentile, Benedetto nel 1547 e Ottavio nel 1565, appartenevano a rami (rispettivamente Pevere e Oderico) di altra origine sociale, nonché di minore consistenza economico-politica. La famiglia del G. possedeva anche numerosi feudi, in Corsica (Bronetto, Erbalunga, Ronza), in Piemonte (Cassinelle, Molare, Tagliola e altri) e in Liguria Busalla, già feudo dei Fieschi e poi degli Spinola. Dopo la morte della prima moglie, Maddalena Pallavicino di Nicolò, il padre del G. aveva sposato la Spinola, mentre un altro Spinola, Lazzaro, sposava la sorella di Pietro Maria, Aurelia Gentile.
Il G. ebbe un solo fratello (o fratellastro), Nicolò, colto padre gesuita. Grazie alle ottime tradizioni culturali, specialmente della famiglia materna, il G. poté disporre nella propria casa di un'educazione di prim'ordine, sia dal punto di vista filosofico e letterario sia da quello militare e cavalleresco; tale formazione gli consentirà di frequentare anche corsi di diritto inutroque iure a Genova e a Pavia, anche se non risulta che sia giunto al dottorato.
Un episodio dell'adolescenza trovò invece plurima ed enfatica celebrazione nelle orazioni ufficiali per l'incoronazione ducale, tenute da Giovan Giacomo Grimaldi e dal reverendo Marco Gentile: la presenza del G. decenne sul campo militare al seguito del padre, impegnato come generale della Repubblica, insieme con Giovanni Gerolamo Doria, nella guerra sabauda del 1624-25. La retorica barocca degli oratori esplose in effetti epico-drammatici nel descrivere la cattura del padre e la quinquennale prigionia nelle carceri sabaude, il miracoloso salvataggio del bambino e la sua restituzione all'abbraccio materno, senza ovviamente precisare circostanze concrete e responsabilità; ma dagli annalisti si ricava che il padre del G., spinto anche da interessi personali per la difesa dei suoi feudi piemontesi, aveva assoldato a proprie spese un centinaio di uomini, agli ordini di Ferdinando Saporito da Levanto (altri cento ne aveva assoldati Giovan Francesco Serra e 400 archibugieri il principe Doria), e che in effetti non si era sottratto al diretto coinvolgimento sul campo nonostante fosse "di corta vista e di estenuata complessione" (Casoni, V, p. 55). Analogamente risulta che durante la lunga prigionia sia il padre del G. sia il Doria scrissero al governo genovese, probabilmente sotto imposizione, lettere - ritenute indecorose - per ottenere la liberazione in cambio di quella dei componenti della congiura di Giulio Cesare Vachero, mentre le famiglie del G. e del Doria premevano sul governo genovese con toni ricattatori. Dopo la liberazione, il padre del G. prese ancora parte attiva alla vita politica per almeno dieci anni e una volta fu anche tra i candidati alla carica ducale. Quanto al G., l'episodio giovanile resterà a enfatizzare anche nell'adulto i tratti di un carattere attivo e determinato.
Il G. assunse il primo incarico nell'aprile 1641, quando fu designato per l'accoglienza di Juan Alonso Enriquez de Cabrera ammiraglio di Castiglia, in scalo a Genova verso la Sicilia, dove era stato nominato viceré, ma il suo vero cursus honorum ebbe inizio nel 1645, quando entrò a far parte del Magistrato dei provvisori dell'olio, seguito nel 1647 dall'incarico di censore sopra la giustizia dei commerci e nel 1649 di nuovo provvisore, questa volta del vino.
In coincidenza con i rivolgimenti di metà secolo che hanno fatto parlare di crisi del Seicento, anche Genova, seppure in tono minore, viveva anni politicamente inquieti. Dal dicembre 1646 ai primi mesi del 1647 un gruppo di aristocratici organizzò la cosiddetta "mobba dei gentiluomini" (cioè l'ostruzionismo verso nuove ascrizioni); furono scoperte le congiure di Gian Paolo Balbi nel 1648 e di Stefano Raggio nel 1650; ebbero corso l'aspro scontro giurisdizionale tra la Repubblica e l'arcivescovo Stefano Durazzo nel 1648, i lunghi dibattiti sull'opportunità dell'acquisto del Finale e di Pontremoli, ma soprattutto la crisi con la Spagna nel 1653-54 e il conseguente acuirsi dei contrasti in seno alla classe di governo tra i settori della nobiltà che si mantenevano più rigidamente filospagnoli e quanti premevano sulla necessità di un radicale ribaltamento della politica estera a favore della Francia, tanto più convincente grazie al Mazzarino, e dell'Inghilterra.
Mentre la prolungata tensione politica aveva come conseguenza solo qualche ritocco istituzionale (il più importante, nel maggio 1652, fu la cosiddetta "unione dei Consigli", grande vittoria dei nobili innovatori, anche se le competenze dei due Consigli uniti venivano attentamente circoscritte), il G. proseguiva il tradizionale curriculum dei giovani nobili genovesi. La sua presenza non assunse ancora significativo peso politico, anche se non sembra casuale una certa competenza nella giurisdizione civile, penale e del lavoro. Così, dopo essere stato nel 1653 sindicatore dei giusdicenti delle tre podestarie suburbane di Bisagno, Polcevera, Sestri, e capitano della Polcevera nel 1655, nel 1656 fu incaricato di risolvere vertenze sulla giusta mercede degli operai. Il 6 giugno dello stesso anno fu estratto senatore ed entrò tra gli otto procuratori della Camera, l'organo centrale dello Stato, deputato all'amministrazione delle finanze. Ma, nello stesso anno, l'esplosione di quella che fu per Genova la grande peste (1656-57) dovette costringere anche il G. a plurimi incarichi d'emergenza.
Il Levati sostiene, sulla scorta dei toni enfatici delle orazioni celebrative del dogato, che il G. fu allora designato come preside della Sanità e che si prodigò con eccezionale coraggio e dedizione al proprio compito, ma il Casoni - molto documentato sull'argomento, cui dedicò anche uno studio specifico -, non fa cenno al G., pur citando molti aristocratici o religiosi che si resero benemeriti, anche al di fuori degli incarichi ufficiali (e l'unico Gentile citato dal Casoni è un Giovan Maria, gesuita nel lazzaretto).
Documentata e davvero intensa risulta invece l'attività del G. nel biennio 1658-60, dopo la fine del contagio, per la ricostruzione del tessuto economico e per la soluzione dei vari problemi di ordine pubblico. Preside della deputazione "ad publica laboreria pro solevandis artibus" e membro della deputazione "pro iustitia civili et criminali" (carica quest'ultima che condivise col futuro doge del 1665, Cesare Durazzo), il G. era contemporaneamente addetto al Magistrato dell'annona quando, nel dicembre 1660, fu di nuovo estratto senatore e riaggregato ai procuratori. Quindi, nel 1661, fu preside del Magistrato contro i banditi su tutto il territorio ligure; nel 1663 membro della Giunta di marina, nel 1664 tra i censori, nel 1665 sindicatore supremo. E mentre la peste e la necessità della faticosa ripresa vanificavano i progetti degli innovatori di ogni indirizzo (repubblichisti, antispagnoli, filofrancesi, autonomisti) e la congiuntura europea, con il rafforzamento della Francia dopo l'abbandono della duttile politica del Mazzarino, spingeva nuovamente la Repubblica verso le buone relazioni con la Spagna, il 10 maggio 1667, alla conclusione del mandato del combattivo Cesare Durazzo, il G. fu eletto doge con 319 voti sui 1115 dei due Consigli uniti. Non è difficile immaginare quasi compatto a suo favore il Minor Consiglio, roccaforte della nobiltà "vecchia" e filospagnola; ma la sua elezione dovette anche assumere un certo carattere provocatorio, se la sua incoronazione slittò di quasi un anno, all'aprile 1668, e se i sindicatori supremi nel frattempo emanarono un decreto che vietava l'utilizzo del titolo regale per il doge, rinnovando la polemica già aperta con Cesare Durazzo e dichiarandosi preoccupati del crescente "spirito monarchico".
Nonostante il decreto, officiando la cerimonia in duomo, mons. Francesco Camillo De Mari, vescovo di Nebbio, appellò il G. "regem nostrum" invece di "ducem nostrum", con lapsus che è difficile non ritenere intenzionale.
Tuttavia durante il suo dogato, come già il predecessore Durazzo, il G. dimostrò zelo caritatevole-religioso e fermezza nella difesa dei principî giurisdizionalisti. Così, mentre riconosceva la fondazione di un monastero delle brigidine all'Acquasola, rivendicava i privilegi del doge e dei membri del governo nei cerimoniali delle funzioni religiose; interveniva, dietro indicazione dei "biglietti di calice", a eliminare consuetudini arbitrarie dei gesuiti della chiesa di S. Ambrogio; otteneva, col consenso dei teologi della Repubblica, con decreto 4 maggio 1669, l'espulsione del padre inquisitore Michele Pio de' Pazzi e del frate Vincenzo Ferreri, notaio del S. Uffizio di Roma, colpevoli di aver fatto affiggere senza autorizzazione governativa un decreto della congregazione dell'Indice, con elenco di alcuni libri proibiti.
Al dogato del G. sono collegate altre due importanti iniziative, una di ordine culturale e l'altra militare: l'istituzione di quattro cattedre all'Università, e cioè diritto canonico e diritto civile, filosofia e matematiche, che erano state avviate nel secolo precedente da Ansaldo Grimaldi; la ricostruzione della fortezza di Vado Ligure e il raddoppio del contingente militare, come motivata precauzione nella prospettiva del rinnovarsi della minaccia sabauda. E nelle funzioni collegate alla difesa il G. assunse alti incarichi successivi al dogato, concluso con positivi riconoscimenti il 10 maggio 1669.
Era preside del Magistrato di guerra e membro della giunta dei confini tra il 1670 e il 1672, quando, nel giugno, Carlo Emanuele II di Savoia diede inizio alle ostilità. La seconda guerra savoiarda, in concomitanza con la congiura di Raffaele Della Torre, il nipote dell'omonimo giurista, produsse un forte effetto coagulante nella classe di governo e persino tra questa e i ceti subalterni e, grazie anche alle mediazioni internazionali, poté essere conclusa con complessivo successo della Repubblica nel gennaio 1673.
Benché molti membri della famiglia Gentile fossero impegnati in ruoli militari anche importanti, l'attribuzione dell'incarico di commissario generale al G. e un suo diretto coinvolgimento sul campo sembrano dovuti a un equivoco del Levati, che lo ha confuso con Giovan Battista Gentile, nel desiderio di sottolineare la presunta coincidenza tra avvio e conclusione di un'esperienza politico-militare nel segno antisabaudo.
In realtà, nel 1672, il G. svolgeva un ruolo più delicato come preside degli inquisitori di Stato, che si trovavano a dover gestire proprio la congiura di Della Torre.
A questo proposito, andrebbe forse approfondita la ragione per cui, secondo quanto riferito dal Casoni, Della Torre dimostrava particolare animosità nei confronti dei due procuratori perpetui, il G. e Giovanni Battista Centurione, come "suoi nemici e persecutori". Per il G. si potrebbero ipotizzare anche vecchie ruggini familiari, risalenti alla questione dei prigionieri della prima guerra savoiarda.
Del Magistrato di guerra il G. fu preside nel 1674 e nel 1679 e poi, dal 1675 fino alla morte, fece parte della Giunta di marina.
Morì il 19 dic. 1681 nel suo palazzo in S. Maria delle Vigne e fu sepolto nella cappella di famiglia in S. Siro.
Dalla moglie Benedetta Negroni di Giovan Battista ebbe due maschi e due (o forse tre) femmine. Pietro Maria - senatore nel 1660, fu marito di due Spinola, Maria e Faustina -, padre di un omonimo del G. che nel 1738 era capitano di Chiavari; Giovan Battista (forse celibe, e comunque senza prole); Maddalena, moglie di Giovan Battista Cattaneo, doge nel 1691; Francesca, moglie di Gerolamo De Mari, doge nel 1699, forse Teresa (o Francesca Teresa), monaca in S. Sebastiano a Pavia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Manoscritti, 495, c. 270; L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, Genova 1782, c. 410; F. Casoni, Annali di Genova, Genova 1800, V, p. 55; VI, pp. 121, 143; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, VI, Genova 1835, p. 211; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, p. 347; L.M. Levati, Dogi biennali di Genova, II, Genova 1930, pp. 243-257 (con bibl., anche delle fonti manoscritte); V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, p. 284; G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, p. 228; C. Bitossi, Il governo dei Magnifici, Genova 1990, p. 113; E. Graziosi, La prearcadia, in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), II, Genova 1992, p. 200.