Cesare Lombroso
Cesare Lombroso rappresenta, probabilmente, l’uomo di cultura italiano di fine Ottocento più noto al mondo. Le sue idee, inizialmente sviluppate in ambito medico-psichiatrico, ebbero, grazie al contributo di autori come Enrico Ferri e Raffaele Garofalo (1851-1934), un’immediata traduzione sul piano delle teorie giuridiche. La tendenza di Lombroso all’analisi del criminale, e del crimine, come fenomeno naturale è alla base dell’impostazione di studio di quella che assumerà in Italia il nome di Scuola positiva di diritto penale. Tale indirizzo non tarderà, a cavallo tra Otto e Novecento, a travalicare i confini nazionali e diffondersi, sotto diverse denominazioni, in molti Paesi europei ed extraeuropei.
Cesare Lombroso (il cui vero nome era Ezechia Marco) nacque a Verona il 6 novembre del 1835 da Aronne e Zefora Levi, appartenenti entrambi ad agiate famiglie ebraiche.
Terminati i primi corsi di studio, venne iscritto alla scuola di grammatica e poi a quella di umanità. Dal 1850 proseguì i suoi studi in forma privata. Nell’anno accademico 1852-1853, su suggerimento di Paolo Marzolo (1811-1868), medico e linguista al quale Lombroso rimase a lungo legato da un rapporto profondo di amicizia e stima, si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Pavia. Proseguì i suoi corsi nelle Università di Padova e Vienna, per fare ritorno definitivamente a Pavia, dove si laureò in medicina il 13 marzo del 1858, presentando una dissertazione sul cretinismo in Lombardia.
Rientrato a Verona, allo scoppio della Seconda guerra di indipendenza si arruolò volontario, nel maggio del 1859, nel Corpo sanitario dell’armata sardo-piemontese. Dimessosi dall’esercito nel 1865, venne richiamato in servizio in occasione della Terza guerra di indipendenza nel giugno dell’anno successivo. Nel novembre del 1866 fu definitivamente congedato.
Durante gli anni della sua permanenza nell’esercito Lombroso, a partire dal 1863, aveva tenuto corsi, a diverso titolo, all’Università di Pavia, ma solo nel 1867 venne incaricato ufficialmente dal Ministero di assumervi l’insegnamento di clinica delle malattie mentali in qualità di professore straordinario.
L’8 aprile del 1870 si sposò con Stella De Benedetti, soprannominata Nina. Dal matrimonio nacquero sei figli: Paola, Marzola (così chiamata in onore dell’amico Paolo Marzolo), Gina, Arnaldo, Leo e Ugo.
Nel 1871 Lombroso assunse la direzione del manicomio di Pesaro. Terminato il contratto, non lo rinnovò e, rientrato a Pavia, nel novembre del 1873 tornò a ricoprire il suo incarico universitario nell’ateneo cittadino.
Dopo complesse vicissitudini concorsuali, nel 1876 fu nominato ordinario di medicina legale all’Università di Torino. In questo stesso ateneo divenne, successivamente, professore di psichiatria nel 1896 e di antropologia criminale nel 1905.
L’incarico di medico delle carceri, assunto nel 1886, offrì a Lombroso un osservatorio privilegiato nella casa dei reclusi del capoluogo piemontese, attraverso il quale osservare dal vivo quel materiale umano che, dalla pubblicazione della prima edizione dell’Uomo delinquente (1876) avvenuta dieci anni prima, si era affermato come uno dei suoi principali oggetti di studio.
Dal sodalizio con Raffaele Garofalo (all’epoca giovane magistrato napoletano) nacque, nel 1880, la rivista «Archivio di psichiatria», uno dei periodici scientifici italiani più conosciuti, anche oltre i confini nazionali (Marchetti 2011). Lombroso rimase direttore della rivista sino al 1909, ossia sino all’anno della sua morte.
Nel 1893 si iscrisse al Partito socialista italiano, nelle cui liste venne eletto consigliere comunale a Torino in occasione delle consultazioni amministrative del 1902. Tre anni dopo, però, si dimise dall’incarico, non condividendo il progetto di un impianto idroelettrico e di un acquedotto municipale, appoggiato dal suo partito.
Lombroso morì a Torino nella notte tra il 18 e il 19 ottobre del 1909. Secondo la narrazione tramandata dalla figlia Gina (Lombroso Ferrero 1915), poco prima di morire Lombroso aveva apportato le ultime correzioni al suo lavoro Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, fenomeni nei confronti dei quali Lombroso mostrò un crescente interesse negli ultimi anni della sua vita.
«Tout à coup, un matin d’une triste journée de décembre, je trouve dans le crâne d’un brigand tout une longue série d’anomalies atavistiques […] A la vue de ces étranges anomalies, comme apparaît une large plaine sous l’horizon enflammé, le problème de la nature et de l’origine du criminel m’apparut résolu: les caractères des hommes primitifs et des animaux inférieurs devaient se reproduire a nos temps» (Discours d’ouverture, 1908, p. XXXII).
L’aneddotica messa in circolazione dallo stesso Lombroso, fa risalire la nascita dell’antropologia criminale, come si rileva dal passo appena citato, all’esecuzione di un’autopsia effettuata nel 1870 su di un presunto brigante calabrese di nome Giuseppe Villella. La vicenda, narrata a più riprese dallo stesso psichiatra veronese in forma contraddittoria, ha tutti i caratteri della leggenda (Villa 1985). Ciò non toglie che essa sia servita a sintetizzare un passaggio fondamentale della ricerca lombrosiana: l’esistenza di una fossetta occipitale interna, tipica di alcune scimmie inferiori e dei lemuridi, e presente nel cranio di Villella, era una testimonianza del fatto che i delinquenti rappresentavano una ricomparsa dell’ancestrale, del primitivo nel mondo moderno. Una sorta di varietà antropologica con tratti fisici differenziati rispetto all’uomo normale.
L’idea della ‘reversione atavica’ come causa del comportamento criminale venne messa a frutto da Lombroso sin dalla prima edizione del suo più celebre lavoro, L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie. La nozione di ‘atavismo’, in ogni caso, era già circolante prima che Lombroso se ne servisse per interpretare il fenomeno criminale (Marchetti 2009). Nessun ricercatore, però, l’aveva ritenuta capace di spiegare un complesso così vasto di fenomeni comportamentali (Villa 1985).
Raccogliendo riferimenti da una vasta letteratura che comprendeva autori come Franz Joseph Gall, Prosper Despine, Bénédict Auguste Morel e Henry Maudsley, Lombroso gettò le basi per uno studio sistematico e complessivo dell’uomo criminale.
Si è a lungo discusso sull’influenza del pensiero di Charles Darwin sulla stesura dell’Uomo delinquente, e più in generale sull’opera dello psichiatra veronese. Da questo punto di vista si può affermare che Lombroso mostrò di aderire, sin dai suoi primi studi giovanili, a una concezione dello sviluppo delle vicende umane di stampo vichiano, fortemente influenzata dall’approccio antropologico-linguistico di Marzolo. Anche quando darà alle stampe L’uomo bianco e l’uomo di colore (1871), il lavoro più sensibile alle tematiche darwiniane, Lombroso non mostrò di abbandonare la sua iniziale impostazione scientifica. Lo studio dell’origine e della pluralità delle razze umane sembra basarsi su un evoluzionismo abbastanza eclettico, in cui l’apporto dato dal pensiero darwiniano appare un contributo tra gli altri (Frigessi 2003).
Se si confrontano tra loro le cinque edizioni dell’Uomo delinquente risulta evidente come la teoria di Lombroso abbia subito cambiamenti di sostanza nel corso della sua carriera scientifica. Da un piccolo volume di appena duecentocinquanta pagine, nella prima edizione, si passò, nella quinta e ultima (1896-1897), a un’opera in tre tomi, corredata da un volume iconografico intitolato Atlante (1897).
Già nella seconda edizione (1878) del lavoro si avverte un cambiamento, se non del piano dell’opera, sicuramente delle intenzioni dell’autore che intende ora rivolgersi, in via principale, a un pubblico di formazione giuridica. Ma è nella terza (1884) e nella quarta edizione (1889) che Lombroso, seguendo una tendenza sempre più marcata a psicologizzare la devianza, individuò due nuove categorie di delinquenti nati: il «pazzo morale» e l’«epilettico». Introdotta nella terza edizione dell’Uomo delinquente, la nozione di pazzia morale (già ampiamente utilizzata in ambito psichiatrico) indicava degli individui che, provvisti di un fisico e di una intelligenza normali, erano incapaci di distinguere le buone azioni da quelle cattive. La nozione di epilessia, invece, trovò spazio nella quarta edizione dell’opera. Seguendo la convinzione del tempo in base alla quale gli epilettici potevano commettere dei reati durante un accesso convulsivo, Lombroso elaborò la nozione di «epilessia larvata», la quale poteva indurre comportamenti devianti anche in assenza di traumi fisici.
Su suggerimento di alcuni aderenti alla sua scuola e sulla scorta di critiche sempre più pressanti che provenivano da ambienti ostili all’idea del 'criminale nato', Lombroso diede, nelle edizioni dell’opera successive alla prima, uno spazio crescente all’approfondimento delle cause sociali della criminalità e ampliò la casistica dei tipi criminali, sino a comprendervi, inserendoli in una catalogazione non sempre coerente, i delinquenti occasionali e quelli per passione. Così come uno spazio crescente fu dato al tema della 'terapia del delitto' (cioè le misure sociali da adottare per prevenire il crimine) e a quello della pena.
Le teorie penalistico-criminologiche di Lombroso suscitarono consensi entusiastici e aperte opposizioni. A cavallo degli anni Settanta e Ottanta si raccolse attorno a lui una nutrita schiera di giovani giuristi (tra i quali spiccano Ferri e Garofalo) che seppe tradurre le proposte lombrosiane in un compiuto programma di riforma del diritto penale, dando vita a quella che prese il nome di scuola positiva di diritto penale. Attraverso una fitta produzione scientifica questi autori si incaricarono di delineare le linee essenziali di un diritto penale nel quale la nozione di pericolosità sociale fosse in grado di sostituire quella di responsabilità morale, e l’azione di prevenzione del crimine quella retributiva della pena (Marchetti 2008). Sul piano della divulgazione di queste idee, un ruolo decisivo fu giocato da due riviste di grandissima diffusione: in primo luogo l’«Archivio di psichiatria», fondato da Lombroso e Garofalo nel 1880 e, successivamente, «La scuola positiva», inaugurata da Ferri nel 1891.
A queste aperte adesioni fece però da contrappunto un’altrettanto vivace resistenza, sul piano sia nazionale sia internazionale.
In Italia le proposte di riforma del sistema penale ispirate alle idee di Lombroso incontrarono due linee di contrasto. In primo luogo, la fermissima opposizione di tutti quei giuristi che si inserivano nella tradizione del pensiero liberale e cattolico (autori che lo stesso Ferri radunò in un unico contenitore ideologico, che poi denominò scuola classica). Paladini di questa posizione, in Italia, furono autori come Enrico Pessina e Luigi Lucchini, il quale dalle pagine della sua «Rivista penale» si oppose con grande decisione al nuovo indirizzo di studi (Sbriccoli 1987). Che la posizione di questi autori fosse dominante in Italia, è dimostrato dal fatto che il primo codice penale per l’Italia unita, e cioè il codice Zanardelli del 1889, non accolse nessuna delle indicazioni avanzate in ambito positivista. Fatto che suscitò il pieno disappunto di Lombroso il quale, in concomitanza con l’approvazione del codice, diede alle stampe un libro intitolato Troppo presto (1888). Nel testo lo psichiatra veronese lamentava il fatto che il nuovo codice penale fosse stato redatto senza lasciare il tempo alle idee e alle proposte positiviste di trovare compiuta elaborazione.
Un altro filone critico nei confronti del pensiero lombrosiano è costituito da quegli autori che, pur approvando l’uso del metodo sperimentale per individuare le cause materiali del crimine, non condividevano la sua giustificazione su basi puramente biologiche, preferendo una spiegazione dell’eziologia del delitto fondata su motivazioni di carattere sociale ed economico. Autori come Filippo Turati e Napoleone Colajanni furono tra i primi divulgatori di questo indirizzo in Italia.
Le idee di Lombroso incontrarono forti resistenze e convinti estimatori anche fuori dai confini nazionali. L’occasione per una decisa presa di distanza dall’impostazione bioantropologica lombrosiana si ebbe all’interno dei Congressi internazionali d’antropologia criminale. In particolare nel secondo, tenuto a Parigi nel 1889 (Actes du Deuxième congrès international d’anthropologie criminelle, 1890), numerosi antropologi, psichiatri e giuristi, radunatisi attorno ad autori come Paul Topinard, Alexandre Lacassagne e Gabriel Tarde, proposero una spiegazione del fenomeno criminale saldamente ancorata a motivazioni di carattere sociale. La spaccatura tra le due anime del movimento fu talmente netta che gli autori italiani che facevano riferimento alla scuola lombrosiana, adducendo inadempienze di carattere organizzativo (ma più probabilmente temendo di essere messi in minoranza), disertarono il terzo congresso tenuto a Bruxelles nel 1892 (Actes du Troisième congrès international d’anthropologie criminelle, 1893).
Un tratto di originalità presente nel lavoro di ricerca di Lombroso fu quello di indagare non solo la figura del delinquente, ma anche tutte quelle forme della patologia sociale che oggi verrebbero definite 'della devianza'. Ciò permise allo psichiatra veronese di intervenire sui problemi e sulle prospettive connesse allo sviluppo della società italiana dell’epoca, divenendo in questo modo uno dei commentatori sociali più letto nell’Italia di fine secolo.
Le figure che popolano questa sorta di catalogo della devianza sono numerose. Al suo interno si muovono prostituite, geni, anarchici e profeti.
Il tema della prostituta trova spazio in un’opera scritta a quattro mani con Guglielmo Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1894). Per Lombroso (ma l’idea aveva non pochi sostenitori nella comunità scientifica), la donna apparteneva a un gradino inferiore, nella scala dell’evoluzione, rispetto a quello dell’uomo. Il fatto, in accordo con la sua teoria della tendenza criminale come frutto di un processo di reversione atavica, avrebbe dovuto spingere le donne verso il crimine con un’incidenza percentuale maggiore rispetto a quella degli uomini. La realtà, però, si incaricava di smentire in maniera clamorosa questa teoria. La soluzione al problema fu data, da Lombroso e Ferrero, con l’individuare nella prostituzione femminile l’equivalente del delitto maschile. In questo modo, aggiungendo i tassi di prostituzione a quelli di criminalità, si sarebbe potuta quantificare l’entità reale della devianza femminile.
Anche il genio fu studiato da Lombroso come espressione di un’anormalità, intesa però in questo caso in senso positivo. In uno scritto del 1855, intitolato Su la pazzia di Cardano, Lombroso si avvicinava per la prima volta alla connessione esistente tra anormalità psichica e personalità geniale. La questione troverà un imponente sviluppo in una serie di pubblicazioni che, partendo dalla stampa della prelezione del 1864 tenuta all’Università di Pavia, intitolata Genio e follia, si concluderà, attraverso successive edizioni, nell’opera monumentale L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all'estetica, del 1894. Un testo, questo, in cui il tema della follia e della genialità tenderanno a convergere con quello della devianza e della criminalità, quasi che gli estremi si dovessero, in un certo senso, toccare e confondere (Frigessi 2003).
Accanto all’uomo di genio Lombroso collocava il «mattoide», considerato come un anello di congiunzione tra il genio, il criminale e il folle. Il mattoide, per lo psichiatra veronese, era un individuo che aveva le sembianze di un genio, ma nella sostanza si trattava di un uomo comune. Dotato di senso pratico e di affetti normali, evidenziava la sua anormalità nella fase ideativa. Il mattoide, che mostrava di avere senso morale (fatto che lo distingueva dal criminale), non poteva essere considerato neanche un folle, perché in lui non si manifestava alcuna forma di delirio. Tra i mattoidi Lombroso inseriva Davide Lazzaretti, il profeta del monte Amiata, ucciso dai carabinieri nell’agosto del 1878 perché ritenuto a capo di una rivolta, e Giovanni Passanante autore di un attentato a Umberto I di Savoia, sempre nel 1878.
Anche il delitto politico venne affrontato da Lombroso nei termini di una sorta di devianza positiva (C. Lombroso, R. Laschi, Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, al'antropologia criminale ed alla scienza di governo, 1890). Una devianza cioè capace di far progredire la storia, urtando contro l’atteggiamento misoneista (il termine coniato da Lombroso stava a significare un atteggiamento di ripulsa nei confronti delle novità) tipico delle persone normali. Questa operazione veniva compiuta da Lombroso sulla base di una netta distinzione tra rivoluzioni e rivolte. Mentre le prime, infatti, avevano una loro giustificazione in quanto rappresentavano la rottura con una struttura sociale conservativa ormai storicamente inadeguata (e coloro che le capeggiavano non potevano essere considerati criminali), le seconde non erano che il segno di ribellismo e criminalità. Qualche problema Lombroso lo incontrò con gli anarchici, inseriti in un primo momento nel novero dei criminali nati e poi in parte riabilitati (Frigessi 2003) e considerati come delinquenti mossi da un eccesso di passione politica. In ogni caso Lombroso non smise mai di ribadire la netta diversità del progetto politico socialista da quello anarchico (Gli anarchici, 1894).
Lombroso fu indubbiamente uno dei personaggi più noti nell’Italia (e non solo) di fine Ottocento. La sua enorme fortuna di scrittore (così come la sua rapida rimozione dopo la morte) è indubbiamente legata alle ricerche intraprese sull’uomo delinquente. Ricerche che lo collocano tra i padri fondatori della moderna criminologia. La rivoluzione che egli apportò nell’ambito della scienza penale consisteva nel voler indagare il delitto come un fenomeno naturale, nel voler sostituire cioè all’entità giuridica dell’atto criminoso lo studio individuale del delinquente.
D’altra parte, come è stato sottolineato, Lombroso sviluppò la sua ricerca sul fenomeno criminale in un momento storico in cui, in Italia, i nodi della questione penale andavano acquistando uno straordinario rilievo, e gli stessi studi giuridici si aprivano a contaminazioni di metodi e culture che provenivano da altri settori del sapere (Sbriccoli 1974-1975).
Effettuare un bilancio complessivo dell’opera di Lombroso è un’operazione estremamente difficile. Anche a cent’anni dalla sua morte (Cesare Lombroso cento anni dopo, 2009). E questo perché convivono nell’autore atteggiamenti e idealità fortemente divergenti. Da una parte, infatti, è possibile individuare un Lombroso progressista, partecipe lettore della questione sociale, irriducibile avversario delle tentazioni politiche autoritarie di fine secolo, sensibile alle condizioni dei «delinquenti d’occasione», nei confronti dei quali propone pene dotate del minor contenuto afflittivo possibile, alternative alla prigione. Dall’altra, non è difficile cogliere nello psichiatra veronese un sostenitore a oltranza della difesa sociale e delle istituzioni di repressione e di controllo che l’accompagnano, oltre che un divulgatore convinto di principi biologizzanti e deterministici, in tema di tendenze criminali e devianti, che avranno una triste fortuna nei decenni successivi alla sua morte.
Questa sorta di perplessità del personaggio ha suggerito ad alcuni autori di effettuare una periodizzazione biografica in cui a un primo Lombroso, convinto sostenitore del paradigma medico-biologico, seguirebbe un secondo Lombroso, progressista e più sensibile ai temi sociali (Sidoti 2006). In realtà, l’impressione che si ha dalla lettura dell’opera dello psichiatra veronese è quella che ambiguità e contraddizioni la percorrano senza soluzione di continuità. Rendendosi tali ambivalenze più o meno visibili non tanto per una particolare tendenza ideale del momento dell’autore, quanto per le trasformazioni del contesto storico-culturale che accompagnarono lo svolgimento della sua ricerca.
Su la pazzia di Cardano, «Gazzetta medica italiana (Lombardia)», 1855, 6, 1, pp. 341-45.
Genio e follia. Prelezione ai corsi di antropologia e clinica psichiatrica presso la R. Università di Pavia, Milano 1864.
L’uomo bianco e l’uomo di colore. Letture sull’origine e la varietà delle razze umane, Padova 1871, Torino 18922.
L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Milano 1876; poi con il titolo L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza ed alle discipline carcerarie, Torino 18782, 18843; 2 voll., 18894; 3 voll. con Atlante, 1896-18975.
Troppo presto. Appunti al nuovo progetto di codice penale, Torino 1888.
C. Lombroso, R. Laschi, Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, all’antropologia criminale ed alla scienza di governo, Torino 1890.
Gli anarchici, Torino 1894, 18952.
L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’estetica, Torino 18946.
C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino 1894, 19275.
Discours d’ouverture, in Comptes-redus du VIe Congrès international d’anthropologie criminelle, Turin (28 Avril-3 Mai 1906), Turin 1908, pp. XXXI-XXXVI.
Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, Torino 1909.
G. Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso. Storia della vita e delle opere, Torino 1915.
M. Sbriccoli, Il diritto penale sociale, 1883-1912, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1974-1975, 3-4, pp. 557-642.
L. Bulferetti, Cesare Lombroso, Torino 1975.
R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano 1985.
M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La “Rivista Penale” di Luigi Lucchini (1874-1900), «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1987, 16, pp. 105-83.
Cesare Lombroso. Delitto, genio, follia. Scritti scelti, a cura di D. Frigessi, F. Giacanelli, L. Mangoni, Torino 1995.
L. Guarnieri, L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso, Milano 2000.
M. Gibson, Born to crime. Cesare Lombroso and the origins of biological criminology, Westport 2002.
D. Frigessi, Cesare Lombroso, Torino 2003.
D. Velo Dalbrenta, La scienza inquieta. Saggio sull’antropologia criminale di Cesare Lombroso, Padova 2004.
G. Armocida, Lombroso Cesare, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 65° vol., Roma 2005, ad vocem.
F. Sidoti, Criminologia e investigazione, Milano 2006.
P. Marchetti, L’armata del crimine. Teoria e repressione della recidiva in Italia. Una genealogia, Ancona 2008.
P. Baima Bollone, Cesare Lombroso e la scoperta dell’uomo delinquente, Torino 2009.
P. Marchetti, Le ‘sentinelle del male’. L’invenzione ottocentesca del criminale nemico della società tra naturalismo giuridico e normativismo psichiatrico, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2009, 38, pp. 1009-80.
Cesare Lombroso cento anni dopo, a cura di S. Montaldo, P. Tappero, Torino 2009.
P. Marchetti, Cesare Lombroso e l’«Archivio di psichiatria», «Diritto penale XXI secolo», 2011, 2, pp. 255-78.