Cesare Lombroso
Caso eccezionale nella storia culturale italiana per la fama delle sue opere, discusse in tutto il mondo, Cesare Lombroso fu psichiatra, antropologo, sociologo, ma incarnò soprattutto la figura del medico-filosofo, protagonista di quel nuovo orientamento che vide nelle scienze della vita il punto di partenza per un’antropologia, scienza nuova e gigante, erede degli scopi della filosofia. Protagonista e specchio dell’età positiva, di cui incarnò ideali e ambivalenze, Lombroso affrontò molti aspetti della vita individuale e sociale del Paese, saldando ricerca scientifica e impegno pubblico.
Nato a Verona il 6 novembre del 1835 da famiglia ebraica, in seguito al dissesto finanziario del padre si trasferisce a Chieri dove vive fino all’età di otto anni presso i parenti materni, imprenditori, tra cui David Levi, capo carbonaro, mazziniano e poeta, figura attraente per il giovanissimo Cesare. Tornato a Verona, cresce in un colto e laico ambiente femminile: la madre Zefira, volterriana e patriota, le sorelle, le amiche della Società letteraria di Verona presieduta dal mazziniano Carlo Montanari. Dato il clima repressivo del Lombardo-Veneto, lascia le scuole pubbliche e studia privatamente: si scopre ribelle, libero pensatore, ateo. È appena sedicenne quando, appassionato di storia e linguistica, pubblica su «Il collettore dell’Adige» di Verona i suoi primi lavori, tra cui la recensione al primo volume (Saggio di storia naturale delle lingue, 1847) dell’opera del medico e linguista Paolo Marzolo (1811-1868), Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, decisiva per lo sviluppo del suo pensiero. È di lì che apprende l’importanza dei segni e dei linguaggi per lo studio dell’uomo, nonché il gusto «di cercar fatti dappertutto, in tutte le branche della scienza» (cit. in Colombo 20022, p. 42). Seguendo il Marzolo s’iscrive a medicina, in cui si laurea il 13 marzo 1858. Il corso degli studi è movimentato: da Pavia passa a Padova e poi ancora a Pavia, dove Bartolomeo Panizza (1785-1867) insegna le tecniche di anatomia microscopica per lo studio del cervello. Prima della laurea si reca a Vienna. Apprende qui quell’approccio clinico-morfologico che caratterizzerà la sua ricerca, si appassiona alla psichiatria e tornato in Italia studia il cretinismo endemico, su cui svolgerà la propria tesi di laurea.
Dal 1859 al 1865 è la passione politica a decidere della sua vita. Nel maggio del 1859 raggiunge il Piemonte per arruolarsi come medico volontario; l’esercito diviene ‘miniera d’osservazione’ per le sue prime indagini antropologiche. Nel 1862 partecipa alla campagna contro il brigantaggio in Calabria: un’occasione per ampliare il suo campione di osservazione e sviluppare l’interesse etnografico. È la scoperta dell’antropologia della sofferenza.
Dopo la partecipazione alla Terza guerra d’indipendenza e la lotta contro il colera, nel 1866 lascia l’esercito. Nel 1867 è nominato professore straordinario di clinica delle malattie mentali a Pavia: si occupa di diagnostica, tecnica manicomiale, e dà inizio allo studio sistematico della pellagra. Con La circolazione della vita (1869),traduzione di Der Kreislauf des Lebens (1852) di Jakob Moleschott (1822-1893), contribuisce a diffondere il materialismo in Italia. Ma è il 1870 il suo anno decisivo. Risalgono infatti a quell’anno il matrimonio e l’autopsia del brigante calabrese Giuseppe Villella, morto per scorbuto e tifo. Con Nina De Benedetti, da cui avrà cinque figli, solo tre dei quali gli sopravviveranno, vivrà un solidale rapporto coniugale. Con l’autopsia di Villella siamo all’atto di nascita della teoria dell’atavismo e dell’antropologia criminale.
Nel 1876 pubblica L’uomo delinquente (che vedrà fino al 1896-97 quattro riedizioni accresciute) e diviene ordinario di medicina legale all’Università di Torino, dove dà vita a uno dei salotti intellettuali più vivaci della nazione. Nel 1880 fonda l’«Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente», organo del lombrosismo ma anche espressione di una cultura scientifica curiosa, aperta, e sensibile alla questione sociale. Mentre la sua teoria criminologica si diffonde e fa discutere, Lombroso non si ferma: affronta nuovi campi del sapere (ipnotismo, grafologia, controcultura dei carcerati), ritorna su ricerche già avviate (pellagra, genio e follia, delinquenza femminile), partecipa come perito a importanti processi, critica il nuovo codice penale, applica il suo metodo psichiatrico e antropologico alla politica (delitto politico, anarchismo, antisemitismo).
Muore il 19 ottobre del 1909. La sera prima aveva rivisto l’edizione di L’uomo delinquente che la figlia Gina aveva preparato per la traduzione negli Stati Uniti. In totale coerenza con le sue idee lascia la propria salma alla scienza per l’esame autoptico e per la sistemazione dei resti (scheletro, volto, cervello, visceri) nel museo antropologico da lui fondato nel 1892. È la risposta, concreta e senza repliche, a chi lo ha accusato di lavorare solo sui corpi della povera gente. L’annuncio della sua morte comparirà sui giornali di tutto il mondo, dalla Russia al Giappone.
La sterminata produzione di Cesare Lombroso, pur nella varietà dei temi, traduce la sua originaria e tenace aspirazione a ricostruire una storia naturale dell’uomo di cui L’uomo delinquente e L’uomo di genio costituiscono, con le loro numerose edizioni, i progressivi e ripetuti tentativi. Si tratta di due opere che riflettono, lungo un continuum organico, due visioni opposte della devianza: una negativa, in cui la teoria dell’atavismo rimanda all’idea di un’animalità primitiva riemergente nel delitto, e una positiva dove il concetto di degenerazione viene impiegato per leggere l’anticonformismo del genio o del rivoluzionario come fenomeno anticipatore di un futuro di maggior libertà e giustizia sociale.
Ma il Lombroso antropologo che, novello filosofo, risponde e discetta sull’uomo normale, l’uomo perfetto, l’uomo di genio, il politico, il rivoluzionario, il misoneista, la donna del futuro, il futuro del socialismo, non è più quel giovane ufficiale medico che, partito nell’esercito piemontese con l’idea di contribuire all’unificazione del proprio Paese, ne scopre e registra usanze, profili umani, anomalie e malattie. Da quegli anni attorno all’unità d’Italia lo separa un cambiamento di prospettive e di valori rilevabile sia sul piano ideologico e politico, sia su quello personale e professionale. S’intravvede infatti, nell’attività di Lombroso, un riflesso del mutare della società e della politica italiana, ferma restando la sua capacità di costituire un punto di riferimento per studiosi giovani e di diversa formazione (psichiatri, antropologi, magistrati, giuristi, politici sociali) attratti anche da quell’«abuso d’inframmettenza» con cui l’antropologo legittimava lo sconfinare della nuova scienza in ogni ramo dello scibile (C. Lombroso, Le nuove conquiste della psichiatria, «Rivista di filosofia scientifica», 1887, 6, p. 641).
Mentre il giovane ufficiale medico scopre nelle reclute alla visita di leva i segni di malattie legate alla miseria e alla degenerazione, si va progressivamente rafforzando in lui la consapevolezza di essere parte attiva di una nuova categoria di «tecnici sociali» impegnati a individuare, registrare e sanare le piaghe fisiche e sociali di un Paese non solo disunito nei costumi, nelle tradizioni e nelle culture, ma profondamente segnato dalla povertà, e caratterizzato da una netta frattura fra Nord e Sud. Sono medici, antropologi, psichiatri che, al di là della loro professione, si fanno convinti promotori e divulgatori del valore (anche etico e sociale) della scienza, nonché della portata rivoluzionaria di una conoscenza positiva e laica dell’uomo per la crescita della propria nazione permeata dalla cultura cattolica.
Dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, quando nella cultura italiana si passa da una prima e modesta presenza degli orientamenti tipici del positivismo europeo alla sua fioritura, sono gli scienziati (soprattutto medici e naturalisti) a emergere quali esponenti tra i più rappresentativi e visibili di un positivismo italiano che si caratterizzerà per la centralità della riflessione sul ruolo dei fattori biologici (physique) nella spiegazione della mente e del comportamento dell’uomo (moral). Affrontando questioni al confine tra medicina, giurisprudenza e filosofia, quali il problema della follia, dei suoi rapporti con la normalità e la devianza, e dunque della libertà (responsabilità e imputabilità), si propongono di rispondere concretamente ad alcune delle domande che hanno alimentato per secoli la riflessione filosofica sull’uomo: nuovi filosofi che al lavoro scientifico di base affiancano l’impegno a divulgare valore conoscitivo e risultati concreti della scienza, e contribuiscono a fare della professione medica una sorta di contraltare laico nella guida della popolazione, suggerendo norme comportamentali igieniche, sanitarie e sessuali del tutto sganciate dai valori del cattolicesimo.
A Pavia Lombroso si forma in un clima scientifico già animato da una forte tensione ‘positiva’ verso il valore dei fatti, la misurazione, la statistica, la sperimentazione e, non da ultimo, l’evoluzionismo che, di stampo più spenceriano che darwiniano, sarebbe divenuto nell’Italia di fine secolo la concezione filosofico-scientifica dominante. Anche in vista dell’unità d’Italia, i congressi degli scienziati italiani, susseguitisi dal 1839 al 1846, sono stati un segnale importante dell’impegno etico e politico della scienza di fronte ai bisogni della futura nazione. È in quell’atmosfera di risorgimento anche scientifico che va inquadrata la scelta di studiare medicina da parte di un Lombroso apparentemente già guadagnato alla storia e alle lettere.
Personalità in sintonia con i suoi tempi, Lombroso avvertì la portata civile prima ancora che politica di un sapere medico, scientifico e dunque laico, che, oltre che cura e prevenzione delle malattie, poteva farsi antropologia, conoscenza dell’uomo: una medicina militante, decisa a partecipare sia alla formazione dei nuovi cittadini italiani sia alla loro «rigenerazione» fisica tramite programmi d’intervento sanitario e di prevenzione. Certamente l’esperienza vissuta come medico militare alimentò in lui l’inclinazione allo studio antropologico e la convinzione della sua portata pratica e trasformatrice, sia in campo psichiatrico, sia in campo giudiziario.
Incisiva era stata la lezione di Moleschott, chiamato nel 1861 a Torino sulla cattedra di fisiologia da Francesco De Sanctis al fine di rinnovare gli studi medici, e fautore di una scienza materialistica dell’uomo che avrebbe dovuto diffondersi nelle masse insegnando – nuovo catechismo igienico-sanitario – che l’uomo è ciò che mangia e il suo pensiero una secrezione del cervello. Da parte di Lombroso, la citata traduzione di Der Kreislauf des Lebens, l’ammirazione per la figura di Moleschott come scienziato capace di trasmettere «certe vedute di Feuerbach» sull’uomo, sono anche l’occasione per esprimere il progetto etico e scientifico che da tempo accarezza la sua mente e che ha profonde radici nella sua prima educazione, laica e patriottica, avuta dalla madre e dall’ambiente intellettuale a lei vicino. Nella seconda metà degli anni Sessanta, anche in Italia i tempi sono ormai maturi per un radicale cambiamento di prospettiva culturale: naturalismo e positivismo hanno trovato i loro più convincenti promotori in esponenti della cultura universitaria (non filosofi di professione), quali lo storico Pasquale Villari (1826-1917) e il medico Salvatore Tommasi (1813-1888), la cui terza edizione delle Istituzioni di fisiologia (1860) segna il passaggio alla cultura filosofica del positivismo. Agli occhi di Lombroso e per la sua idea d’impegno civile, Moleschott appare la figura più autorevole nella cultura scientifica italiana, modello concreto e convincente di una scienza medica che si vuole laica e democratica: la forza persuasiva della sua «filosofia popolare» può essere continuata e portata su altri campi e temi. A incoraggiare Lombroso in questa prospettiva non è solo l’ottimismo circa le potenzialità della scienza e le sue soluzioni (che in alcuni casi si riveleranno semplicistiche o mistificatrici), ma, più a monte, il desiderio dell’auspicata vittoria del pensiero laico: primo passo per una ricerca del vero libera dalla «eunuca cultura del prete» (Castelnuovo Frigessi 2003, p. 55), tanto opprimente quanto infeconda per una conoscenza positiva del mondo e dell’uomo.
Nel 1870, in una lettera scritta a Moleschott proprio alla vigilia di Natale, Lombroso non ha dubbi circa la propria missione:
Noi troppo abbiamo bisogno di un apostolo del libero pensiero che ci scuota la fibra addormentata ed evirata del prete e che ci riconduca a Roma – ma ad una Roma novella del pensiero, non la vieta, pontificia, cattolica (Lettere inedite di Cesare Lombroso a Jacob Moleschott, in M. Patrizi, Addizioni al ‘dopo Lombroso’, Roma-Milano-Napoli 1930, p. 230).
È così che nella prefazione a La circolazione della vita manda un segnale ai lettori circa la svolta a cui la cultura italiana è chiamata: i più recenti esiti scientifici, tra cui, non ultimo, The origin of the species (1859) di Charles R. Darwin – uscita in lingua italiana nel 1865 – gli sembrano annunciare una rivoluzione filosofica epocale in cui si sente chiamato a dare il suo contributo. Di qui l’enfasi e la speranza nella realizzazione del progetto di una storia naturale dell’uomo dove verranno a cadere concetti superati quali libero arbitrio e colpa, e si prospetterà una nuova concezione del delitto e della pena. Si tratta di proseguire, sempre sulla strada di Moleschott, verso una psichiatria che in quanto scienza deve trovare nell’indagine biologica e nella misurazione i mezzi per studiare e sconfiggere il male, e in quanto nuova filosofia/antropologia promette il superamento del nichilismo terapeutico indotto dalla visione spiritualistica dell’uomo.
Prim’ancora di Moleschott, nella mente del giovane Lombroso avevano fatto breccia alcune letture, tra cui Giambattista Vico, e soprattutto l’esempio di Carlo Cattaneo, tra i primi in Italia a segnalare negli anni Quaranta il ruolo fondamentale della «libera scienza sperimentale» (F. Della Peruta, Cattaneo politico, 2001, pp. 133-34). Ad avvicinarlo a Cattaneo era stato Marzolo (collaboratore del «Politecnico»), in onore del quale Lombroso, uomo di grandi sentimenti ed entusiasmi, chiamò la prima figlia Paola Marzola.
Da Marzolo Lombroso apprese la necessità di un’alleanza tra approccio storico e studio scientifico dell’uomo, l’idea dello stratificarsi della storia dell’uomo nelle lingue, l’importanza dunque del testo (che per Lombroso sarà: linguaggio dei carcerati, gergo, tatuaggi, manufatti), rivelatore di significati altrimenti sconosciuti, e non da ultimo il modello di un unico metodo nello studio del mondo morale e del mondo fisico. Anche l’attenzione al pensiero di Cattaneo è rintracciabile nel precoce interesse di Lombroso per l’antropologia criminale: «V’ha, come diceva il nostro Cattaneo, un vero mondo intermedio tra il vizio e la malattia – che si chiama delitto» (Prelezione al corso di clinica di malattie mentali nella R. Università di Pavia, «Gazzetta medica italiana – Lombardia», s. V, 1863, 2, p. 7). Così, tredici anni prima della pubblicazione dell’Uomo delinquente, Lombroso apriva il suo primo corso universitario di clinica delle malattie mentali all’Università di Pavia: con un richiamo alla difficile delimitazione di concetti che, centrali nella concezione dell’uomo (malattia, passione, vizio, mania, colpa), sembrano mettere in questione i fondamenti della morale e del diritto. Si tratta, però, ancora di un progetto; e forse anche per questo non spiace a Lombroso – che in una lettera del 1889 a Émile Zola si rammaricherà di essere considerato un «demolitore sociale» più che uno scienziato rispettabile (cit. in F. Giacanelli, Il medico, l’alienista, in C. Lombroso, Delitto, genio, follia, 1995, p. 5) – dare all’interrogativo sui confini tra etica e medicina maggior autorevolezza, ricorrendo a una paternità esterna, non sua, ma comunque italiana. Dal «nostro Cattaneo» Lombroso riprende l’importanza del metodo sperimentale e dello studio dei fatti nel campo della scienza criminale, nonché l’idea feconda che
negli errori, nelle superstizioni, nelle imposture, nei delitti, nelle violenze dei tiranni, degli inquisitori e dei selvaggi, stanno scritti molti arcani della natura umana (Sulla pazzia di Cardano, 1855, in Id., Delitto, genio, follia, cit., p. 340)
e dunque che «esiste anche fra i manicomi l’uomo eterno di Vico»: nucleo su cui si modellano e si stratificano «il pazzo, il genio e l’uomo della storia» (p. 340).
Nondimeno le differenze tra i due pensatori ci sono e si renderanno sempre più evidenti, man mano che in Lombroso andrà accentuandosi la prospettiva biologistica e deterministica, e con quella il successo delle sue idee. Non era infine sfuggita a Lombroso l’importanza che Cattaneo aveva attribuito alla medicina per lo sviluppo di una nuova filosofia naturale, capace di penetrare ogni fenomeno umano nelle sue diverse «condizioni» e «parvenze», e dunque anche in quelle del delitto e delle pene; seppur in Cattaneo, a differenza che in Lombroso, grande rilievo era dato all’educazione come mezzo di prevenzione dei delitti e al rapporto tra devianza e società. Tuttavia non va neppure trascurata l’apertura al sociale che caratterizzerà il Lombroso degli anni Novanta.
La fine della carriera militare dopo la partecipazione alla Terza guerra di indipendenza, e la scelta di quella universitaria, non sono all’insegna di un ripiegamento: l’idea di partecipare in prima persona al rinnovamento dell’università e alla formazione di nuovi tecnici sociali sulla scia di quanto auspicato da De Sanctis con la chiamata di Moleschott, Moritz Schiff e Aleksandr I. Herzen negli atenei italiani, la fiducia nella divulgazione di una nuova concezione dell’uomo e un mai sopito impegno civile trovano il loro perno nel magistero universitario e nell’opera di divulgazione scientifica, cui Lombroso parteciperà attivamente insieme ad altri medici antropologi, primo fra tutti l’amico Paolo Mantegazza.
Gli anni Sessanta sono anni importanti per la militanza scientifica di Lombroso; il servizio prestato nell’esercito gli ha svelato un’Italia ancora sconosciuta, segnata dalla malattia e dalla povertà, nonché – è il caso del Meridione – dall’abbandono dello Stato. La risposta non tarda a venire. Lombroso s’impegna su tre fronti: sconfiggere la pellagra, sollecitare una ‘riabilitazione’ del popolo meridionale, cui si riconosce un passato di sfruttamento, e infine introdurre il metodo sperimentale nella psichiatria.
Non è dunque un caso che la citata Prelezione di Pavia sia dedicata alla «trista piaga e vergogna nostra della pellagra». Malattia gravissima, massimamente concentrata nella pianura padana, tradizionalmente sintetizzata nelle ‘tre D’ delle sue manifestazioni più evidenti (dermatosi, diarrea, demenza), per la frequenza delle complicanze psichiatriche e neurologiche la pellagra colpiva, alla fine degli anni Cinquanta, all’incirca la metà della popolazione manicomiale della Lombardia. Nel 1868 Lombroso decide di occuparsene con uno studio sistematico (grazie a risorse offerte dalla Carlo Erba), con cui giunge alla conclusione che l’origine della malattia non è da imputarsi al ‘monofagismo maidico’ cui sono costretti dalla povertà i contadini – come sostenuto dai colleghi Clodomiro Bonfigli (psichiatra) e Filippo Lussana (fisiologo) – bensì all’azione di sostanze tossiche, tra cui, in particolare, la pellagrozeina, prodotte dall’ingestione di mais di cattiva qualità (mal conservato, non maturo, ammuffito).
L’acceso dibattito non distoglierà Lombroso dalla sua posizione, che resterà sostanzialmente immutata fino alla pubblicazione nel 1892 della monumentale monografia sull’argomento (Trattato profilattico e clinico della pellagra) e che vedrà il riconoscimento ufficiale dello Stato italiano nella legge sulla pellagra del 1902 con cui vengono accettati impianto e proposte d’intervento: razionalizzazione della raccolta, controllo dell’immagazzinamento e del consumo del mais. Certamente Lombroso aveva dalla sua il fatto che quanto prospettava sulla base della sua spiegazione scientifica non usciva punto, come ebbe lui stesso a scrivere, «dalla linea del possibile». Leggibile anche come risposta organica alla politica moderata di fine secolo, la sua posizione era in linea con la concezione sperimentale della medicina e il paradigma batteriologico all’epoca dominante. Infatti, l’ipotesi di una malattia carenziale, come avevano intravisto con sensibilità sociale gli avversari di Lombroso, non era scientificamente sostenibile prima della scoperta delle vitamine e del loro meccanismo di assorbimento e di azione. Lombroso, invece, sulla base di dati raccolti rilevava che la bollitura del mais in acqua di calce prima dell’utilizzo, come in uso presso le popolazioni messicane in cui non si rilevavano epidemie di pellagra, era una prova della presenza di una tossina termolabile, causa della malattia.
Negli anni Sessanta lo sguardo medico di Lombroso esamina e accompagna un’Italia da scoprire e unificare. C’è il progetto di tracciare una geografia medica della penisola in cui mettere a punto caratteristiche antropologiche e condizioni sanitarie diversamente distribuite al Sud (tifo, tubercolosi), al Nord (gozzo, cretinismo e pellagra) e sulle coste (scorbuto); ma c’è anche l’accortezza di scorgere gli effetti sulla salute dei lavoratori dei primi processi d’industrializzazione (L’igiene degli operaj dei contadini e dei soldati: letture popolari, 1869). In quegli anni anche il diretto coinvolgimento nello studio delle malattie mentali, che ben presto si sarebbe indirizzato alle questioni della devianza e della responsabilità penale, prendeva in Lombroso i toni di una crociata:
Qualunque volta ci si affaccia un’opera od un problema di medicina legale delle alienazioni mentali – scriveva nel 1865 –, ci sentiamo involontariamente sorpresi da un senso di sconforto e di ribrezzo (La medicina legale delle alienazioni mentali studiate col metodo sperimentale, 1865, p. 5).
Ai termini misurati e precisi della medicina moderna la psichiatria contrapponeva ancora troppa vaghezza; bisognava dunque mettersi a studiare gli alienati «come un oggetto di storia naturale» (p. 5) e introdurre, anche nella psichiatria, il metodo sperimentale, che per Lombroso si riduceva alla ricerca sistematica e analitica del fatto concreto, materiale, misurabile. L’urgenza del suo intervento aveva già di mira la risoluzione del contrasto ormai radicalizzatosi tra magistrati e psichiatri, laddove per i primi nessun criminale era pazzo anche se alienato, mentre per gli altri i manicomi avrebbero potuto sostituire le carceri. Era un dibattito che avrebbe accompagnato il costituirsi della psichiatria italiana nel corso dell’Ottocento.
Quando nel 1862 Lombroso si accingeva a preparare il suo primo corso di lezioni universitarie di psichiatria, pur avendo deciso per la carriera accademica, non esitò a partire per il Sud, medico volontario, come detto, al seguito delle truppe per la repressione del brigantaggio. Era del tutto consapevole del ruolo che poteva rivestire il medico nel processo di unificazione.
Da quell’esperienza uscì l’anno dopo uno scritto, Tre mesi in Calabria («Rivista contemporanea», 1863, 11, pp. 399-433), con cui lo scienziato rendeva quasi fotograficamente la realtà lontana di etnie e popolazioni del tutto ignote, anche se ormai parte del nuovo Stato italiano. Tuttavia, nel profilo del popolo calabrese, pur ‘altro’, lo sguardo dell’intellettuale patriota e la tensione unificatrice che lo animava si volgevano al ritrovamento di un legame tra Nord e Sud su cui poter far crescere una coscienza civile unitaria. Così, anche là dove non sembrava scontato (nel miscuglio di razze ‘inferiori’ e ‘superiori’ di fatto riscontrato), l’evidente inferiorità del Meridione veniva imputata massimamente alla degenerazione: patologia appena entrata in scena nell’Europa di metà Ottocento e dove disturbo fisico e disturbo morale risultavano inestricabili, e dunque cause organiche e cause ambientali o socioeconomiche si compenetravano. Sul Sud, Lombroso avrebbe poi cambiato idea, ma nelle pagine del 1863 l’innegabile inferiorità del popolo meridionale risultava figlia della cattiva politica dei passati governi, che avevano letteralmente reciso lo stretto legame del Meridione con la civiltà. Le caratteristiche psicologiche riscontrate (vigore, passionalità, fascinabilità) venivano date non come razziali e immutabili, ma come risultato di una dominazione politica (i Borboni) tesa a sfruttarle a proprio vantaggio. C’era dunque nel Sud un problema di gestione delle masse che lo Stato avrebbe potuto affrontare piegando la fascinabilità in disciplinabilità politica a favore del processo di unificazione reale del Paese (R. Passione, Il Sud di Cesare Lombroso, «Il Risorgimento», 2000, 1, pp. 133-54).
Ancora una volta Lombroso dava la precedenza a quella forte tensione civile e politica che guidava l’operato di molti medici nell’Italia degli anni Sessanta, impegnati a individuare anche in campo sociale il legame tra miseria e malattia, che era alla radice dello stato d’indigenza, ma anche del rancore di molte popolazioni contadine e meridionali.
Negli anni Settanta Lombroso diviene lo studioso della devianza e il padre della criminologia. L’idea d’indagare i confini tra follia e delinquenza e di chiarire, a colpi di compasso, bilancia, crogiuolo e microscopio, le annose questioni che dividevano psichiatri e magistrati, era già da tempo nei suoi programmi. Dopo aver diretto a Pavia un piccolo reparto psichiatrico presso l’ospedale civile, nel 1871 diventa primario del manicomio San Benedetto di Pesaro, e negli anni immediatamente seguenti, frequentando le carceri tra Padova, Pavia e Milano, inizia «lo studio analitico diretto» dei delinquenti (Come nacque e come crebbe l’antropologia criminale, 1907, in Ricerche e studi di psichiatria e nevrologia, antropologia e filosofia, 1907, p. 3). A Pesaro, dove aveva raccolto una gran mole di dati e misurazioni, non era solo maturata l’idea della necessità dei manicomi criminali; nelle sue mani il San Benedetto è venuto trasformandosi: trattamento morale, ginnastica, scuole di disegno e di alfabetizzazione, giornale dei degenti, conferenze, gite in campagna, danno il segno del rinnovamento. Ma il richiamo dell’università è forte e Lombroso decide di ritornare a Pavia per proseguire le sue ricerche.
La rivelazione, come racconterà lui stesso anni dopo, costruendo la leggenda della sua scoperta scientifica, gli si è data nel 1870 nel corso della citata autopsia del cranio del brigante Villella. Qui, in luogo della consueta sporgenza determinata dalla ‘cresta occipitale interna’, l’esame autoptico aveva rilevato una concavità a fondo liscio (‘fossetta occipitale interna’) che aveva suggerito al Lombroso l’esistenza di una struttura nervosa molto antica nella scala filogenetica (‘verme del cervelletto’) rintracciabile in pesci, uccelli, scimmie inferiori (lemuri) e, a una certa epoca dello sviluppo, negli embrioni umani. Alla vista di quella fossetta gli parve «illuminato il problema della natura del delinquente» (Come nacque e come crebbe l’antropologia criminale, cit., pp. 3-4).
Forte della legge di ricapitolazione filogenetica di Ernst H. Haeckel, Lombroso vede nel criminale il ritorno del passato ancestrale e animale dell’umanità, per effetto di un blocco nello sviluppo embriogenetico. Il ‘delinquente nato’ è un soggetto non progredito, che riproduce nel presente i caratteri dell’uomo primitivo: vero e proprio anacronismo biostorico che compie azioni (delittuose) comunemente accettate (e dunque ‘naturali’) all’epoca cui corrisponde la sua struttura anatomica. Sei anni dopo, la pubblicazione di L’uomo delinquente segna una svolta nella scienza penalistica mondiale ed entra prepotentemente nel dibattito italiano sul nuovo codice penale. Lombroso non è certo l’unico a interrogarsi sulla diversità del criminale né a parlare di atavismo, ma è il primo che con un coup de théâtre mette al centro della questione criminale il delinquente, la sua personalità e la sua costituzione fisica, e fa dell’atavismo il pilastro per affermare la naturalità del delitto. Partito dalla volontà di distinguere tra follia e delinquenza, ma soprattutto dalla necessità pratica di far chiarezza nei casi dubbi tra responsabilità e irresponsabilità giuridica, è giunto alla conclusione che il delinquente nato non è responsabile perché non è libero, ma non è neppure curabile o rieducabile. Anziché punirlo, la società dovrà difendersene, e la penalistica italiana dovrà confrontarsi con la rivoluzione filosofica indotta dalle nuove scienze medico-antropologiche.
Nonostante le misure e le stigmate, i segni di criminalità ricercati minuziosamente nei corpi dei rei, l’impianto storicistico della sua antropologia, mediato dall’amico Marzolo, porta Lombroso ad affiancare ai dati somaticamente e fisiognomicamente accertabili la raccolta di tutto ciò che è traccia: così, di quei residui del passato che sono i delinquenti nati, Lombroso raccoglie manufatti, testi scritti, oggetti personali; prodotti di cui fa letteralmente incetta e che verranno resi noti in quello straordinario compendio di forme espressive della subcultura carceraria che è Palinsesti del carcere (1888), per poi costituire la base del suo Museo di criminologia. Parallelamente, di edizione in edizione, con il consueto stile dell’accumulazione progressiva di dati, citazioni e riferimenti, Lombroso arricchisce e modifica la sua teoria giovandosi anche dei consigli dei due giuristi, Enrico Ferri (1856-1929) – autore della Sociologia criminale (la cui prima edizione, con il titolo I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, è del 1881) – e Raffaele Garofalo (1851-1934), con cui dirige il suo «Archivio di psichiatria» e che, sotto l’egida della scuola positiva (o scuola italiana) di diritto penale, si occuperanno di riforma del diritto e del sistema punitivo; impegno a cui il codice penale Zanardelli sarebbe rimasto sostanzialmente indifferente e che invece avrebbe avuto riflessi su altri apparati (polizia e carceri) dell’amministrazione dello Stato (M. Gibson, La criminologia prima e dopo Lombroso, in Cesare Lombroso, 2010, pp. 15-32).
Mentre Lombroso ritocca la sua teoria introducendo la nozione psicopatologica di follia morale (1884), poi quella biologica di degenerazione, poi ancora quella neurologica di epilessia (1889), al delinquente nato vengono aggiungendosi altre figure: sono i rei d’occasione, d’impeto, d’abitudine, per passione e, nel mondo femminile, la prostituzione, delinquenza di genere per eccellenza. Così, in un testo che passa dalle 256 pagine del 1876 ai tre volumi del 1896-97, natura e società ricominciano a contendersi il ruolo di causa. Di più: segno ancora una volta della capacità di Lombroso di sentire i tempi e volerli interpretare, compare nelle pubblicazioni di quegli anni un nuovo tipo di devianza, ossia la degenerazione progressiva o devianza positiva che, attraverso le numerose edizioni anche straniere dell’Uomo di genio (altra «storia naturale» costruita nel tempo), ricongiunge creatività, innovazione e devianza (D. Castelnuovo Frigessi, La scienza della devianza, in C. Lombroso, Delitto, genio, follia, cit., p. 362).
Negli anni Novanta, di fronte a un’Italia in cui le tensioni sociali vanno crescendo e le delusioni della politica trovano voce nella protesta popolare, Lombroso riconosce come motore della storia il soggetto trasgressivo: sia il rivoluzionario, il genio o l’anticonformista. La degenerazione può quindi produrre anche creatività e innovazione, laddove è la normalità a essere socialmente infeconda: «Il vero uomo normale non è nemmeno colto, non è nemmeno erudito, non fa che lavorare e mangiare – fruges consumere natus» (L’uomo di genio, cit., 18946, p. XIII).
Lo sguardo sull’Italia e l’impegno a capirne le piaghe ritornano al centro dei suoi interessi. A lato della criminalità atavistica, dove camorra e mafia nell’edizione del 1889 dell’Uomo delinquente sono diventate caratteristiche razziali e dunque immutabili di un Sud complessivamente criminalizzato, Lombroso punta l’attenzione sulla nuova criminalità capitalista degli scandali bancari e della corruzione politica: degenerazione evolutiva dove alla violenza si sono sostituite la frode e l’astuzia. A un’Italia politicamente unita ma diseguale culturalmente, per la quale si sarebbero dovuti apprestare codici penali differenti (C. Lombroso, Troppo presto. Appunti al nuovo progetto di codice penale, 1888), succede ora un’Italia ancora divisa, ma tra un Nord politicamente corrotto e un Sud violentemente illegale.
Verso la fine del secolo, di fronte all’arrogante gestione dello Stato messa in atto da Francesco Crispi e alla politica economica antipopolare di Antonio Starrabba marchese di Rudinì, Lombroso ritrova la sua giovanile passione politica e si avvicina al socialismo: «Venne in casa nostra Anna Kuliscioff […] – scriveranno le figlie Paola e Gina – noi c’infervorammo per le questioni sociali, e con noi il papà» (G. Lombroso, P. Lombroso 1906, p. 91).
Cartina di tornasole dell’impegno politico di Lombroso, il Sud ritorna al centro delle sue riflessioni, come mostra la riedizione nel 1898 dello scritto sulla Calabria (in In Calabria 1862-1897: studii con aggiunte del dr. Giuseppe Pelaggi), dove in un paragrafo (nuovo) sulla criminalità la permanente situazione d’illegalità dell’Italia meridionale non è più imputata alla sua presunta inferiorità razziale (e dunque a una maggior predisposizione naturale al crimine), bensì a cause di tipo politico e socioeconomico, come l’ingigantimento del latifondo. La concezione del Sud «anomalia» dell’organismo Italia, avanzata nella quarta edizione de L’uomo delinquente (1889), o «cancrena e putrefazione», presente ne Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al delitto, all’antropologia criminale ed alle scienze di governo (1890, in collaborazione con R. Laschi), cede il posto alla tematizzazione della base economica del crimine e alla necessità dell’intervento statale. Lombroso stesso spiega così, nel 1903, quel mutamento:
Tardi, purtroppo, quando il capo incanutiva e le forze scemavan, ho sentito anch’io quanto errava lo scienziato che dimentica il mondo che s’agita e ferve attorno a lui (Il momento attuale, 1903, p. 10).
Scosso dai problemi sociali che agitano il Paese, di fronte ai delitti politici e alle singole azioni anarchiche, Lombroso intravvede una devianza che è prodotto sociale ed esula dalla sua idea di crimine come prodotto della natura biologica dell’agente.
L’anno in cui pubblicava la prima edizione de L’uomo delinquente, il 1876, Lombroso si era trasferito nell’ateneo e nella città di Torino dove sarebbe divenuto una figura di spicco di quella intellettualità torinese che, tra circoli, università, case editrici e giornali, viveva nella pratica del salotto borghese la propria vocazione civile e culturale di dialettica e scambio di saperi e idee politiche anche distanti: così, a casa Lombroso in via Legnano, dove persone diverse per età, indole, mentalità e ideologia, si riunivano tutte le domeniche attorno all’illustre padrone di casa e alla sua affabile moglie, perfetto cerimoniere. Erano universitari delle facoltà di Giurisprudenza e Medicina, tra le eccellenti d’Italia, esponenti della cultura cittadina, intellettuali di passaggio in città (Ernesto T. Moneta, Enrico Ferri, Anna Kuliscioff), anche stranieri (Max Nordau, Roberto Michels, Max Weber, Ellen K.S. Key), tutti pronti a dialogare con quello scienziato così polimorfo da vestire bene i panni del filosofo e politicamente così poco unilaterale da vantare, tra gli amici più cari, «l’arci-conservatore» Gaetano Mosca, al quale affidò il suo testamento (R. Michels, Cesare Lombroso, «Archivio di antropologia criminale», 1911, 32, p. 362).
A partire dagli anni Novanta e in seguito alla sua adesione al socialismo, resa pubblica nel 1893, Lombroso non solo si riavvicina alla politica e dunque propone una teoria pluricausale del crimine, ma rinvigorisce la sua vena divulgatrice attraverso un’intensa attività pubblicistica cui collaborano in modo diverso ma partecipe le figlie Paola e Gina, anche loro impegnate nel sociale e nella politica (V.P. Babini, In the name of father. Gina and Cesare Lombroso, in More than pupils. Italian women in science at the turn of the 20th century, ed. V.P. Babini, R. Simili, 2007, pp. 75-105). Già presente tra i nomi dei collaboratori scientifici del «Corriere della Sera», di «La Stampa» e della «Gazzetta del popolo» – che dedica più spazio degli altri due quotidiani agli articoli su temi scientifici di medicina, psicologia, criminologia –, Lombroso interviene su molti altri quotidiani italiani («L’Adige», «La Riforma», «Il Giorno», «Il Progresso», l’«Avanti!») raggiungendo pressoché tutta la penisola e avvicinando i lettori alle tematiche trattate (follia, delinquenza, spiritismo, genialità, casi clinici) con stimoli e riflessioni singolari, nonché una scrittura efficace e ardita (M. Forno, Scienziati e mass-media: Lombroso e gli studiosi positivisti nella stampa tra Otto e Novecento, in Cesare Lombroso, 2010, pp. 207-32). Più che stupirsi dello stile particolarmente divulgativo e del frequente peregrinare tra campi disciplinari diversi, è giusto leggere in quell’attività pubblicistica la prova di una riuscita carriera intellettuale e di un rinnovato bisogno di dialogare con il pubblico, per guadagnarlo al proprio stile di pensiero e trascinarlo nella pervicace curiosità a esplorare dimensioni sociali, culturali e fisiche dell’uomo.
Alla fine dell’Ottocento Lombroso è l’autore italiano più letto nel mondo, i suoi lavori sono tradotti nelle principali lingue e proprio il suo eclettismo gli ha ormai aperto strade in culture diverse da quella scientifica e italiana (cfr. J. Rigoli, Lire le délire: aliénisme, rhétorique et littérature en France au XIXe siècle, 2001). Non sempre rispettato e apprezzato, viene tuttavia molto letto, ripreso, contrastato, assorbito.
All’inizio del Novecento è scrittore conteso, oltre che dai quotidiani nazionali, dai periodici letterari come «La lettura» e «Il Fanfulla della domenica»; né si può escludere che quella sorta di patologizzazione della storia a cui, tra devianza atavistica e devianza positiva, tra criminalità e genialità, è infine giunto, abbia dato al suo pensiero un’aura di mistero e di cronaca nera non priva d’attrattive sul grande pubblico. Che non sia lui a cercare ascolto, ma i giornali a volere la sua firma ne fanno prova i guadagni consistenti: compensi che non sfigurano vicino a quelli di un già noto Gabriele D’Annunzio, e che nulla tolgono al fatto che Lombroso consideri un dovere degli uomini di scienza essere attenti alla realtà presente e intervenire non solo nel loro ambito disciplinare (Pazzi ed anomali: saggi, 1886, p. IX). I suoi articoli si leggono fin negli Stati Uniti, e non solo sullo specialistico «Journal of criminal law», ma anche sul «New York world» e sul «New York journal» che, toccate le ben 600.000 mila copie giornaliere, ripubblica regolarmente e «sempre nel posto d’onore» quanto Lombroso scrive sui giornali italiani (M. Forno, Scienziati e mass-media, cit., p. 224). Noti sono i suoi rapporti con la Germania, la Francia, la Russia, l’Argentina. Proprio perché viene spesso interpellato anche su temi lontani dalle strette competenze scientifiche, la sua figura si fa sempre più prossima a quella del filosofo impegnato a interpretare il suo tempo: pronto a rispondere non solo sull’uomo normale, l’uomo di genio, l’uomo delinquente, la donna del 20° sec., ma anche sui progressi dei partiti socialisti in Europa, sullo sviluppo della Germania, sulle dinastie reali europee. Di fatto, il redattore del «Figaro», nel 1896, non esita a chiedergli un parere sulla visita dello zar in Francia e gli accordi lì firmati; come precisato, si trattava semplicemente di esprimere un punto di vista «philosophique».
Genio e follia: prelezione ai corsi di antropologia e clinica psichiatrica presso la R. Università di Pavia, Milano 1864; ultima ed. come L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’estetica, Torino 18946.
Sull’istituzione dei manicomi criminali in Italia, «Rendiconti del Reale Istituto lombardo di scienze e lettere», 1872, 5, pp. 72-83, 150-61.
Prefazione a La circolazione della vita: lettere fisiologiche di Jac. Moleschott in risposta alle “Lettere chimiche” di Liebig, Milano 1869, p. XI.
L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Milano 1876, Torino 18782, 18843, 18894, 1896-18975.
Palinsesti del carcere: raccolta unicamente destinata agli uomini di scienze, Torino 1888.
Trattato profilattico e clinico della pellagra, Torino 1892.
La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (in collaborazione con G. Ferrero), Torino 1893.
Gli anarchici, Torino 1894.
Come nacque e come crebbe l’antropologia criminale, in Ricerche e studi di psichiatria e nevrologia, antropologia e filosofia, dedicate al prof. Enrico Morselli nel XXV anno del suo insegnamento universitario, Milano 1907.
Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, Torino 1909.
Delitto, genio, follia: scritti scelti, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, F. Giacanelli, L. Mangoni, Torino 1995, 20002.
G. Lombroso, P. Lombroso, Cesare Lombroso: appunti sulla vita, Torino 1906.
L’opera di Cesare Lombroso nella scienza e nelle sue applicazioni, a cura di L. Bianchi, Torino 1906, Milano 19082.
L. Bulferetti, Cesare Lombroso, Torino 1975.
P.G. Colombo, La scienza infelice: il museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso, Torino 1975, 20002.
R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita della psicologia criminale, Milano 1985.
D. Pick, Faces of degeneration: a European disorder, c. 1848-c. 1918, Cambridge (Mass.)-New York 1989, 19932 (trad. it. Firenze 1999).
D. Dolza, Essere figlie di Lombroso: due donne intellettuali tra ’800 e ’900, Milano 1990.
L. Baima Bollone, Cesare Lombroso ovvero il principio dell’irresponsabilità, Torino 1992.
D. Castelnuovo Frigessi, Cesare Lombroso, Torino 2003.
G. Armocida, Lombroso Cesare, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 65° vol., Roma 2005, ad vocem.
Cesare Lombroso cento anni dopo, a cura di S. Montaldo, P. Tappero, Torino 2009.
Il museo di antropologia criminale ‘Cesare Lombroso’, a cura di S. Montaldo, P. Tappero, Torino 2009.
Cesare Lombroso: gli scienziati e la nuova Italia, Atti del Convegno, Torino 2009, a cura di S. Montaldo, Bologna 2010.