MUSATTI, Cesare
MUSATTI, Cesare (Eugenio Luigi). – Nacque a Mira, presso Dolo (Venezia), il 21 settembre 1897, da Elia e da Emma Leanza.
Il padre, avvocato, fu uno dei fondatori della Camera del lavoro di Venezia, direttore dell’organo regionale del Partito socialista, consigliere comunale e primo deputato socialista cittadino. Anche la madre, originaria del Cilento, collaborava a un giornale del partito.
Crebbe a Venezia nella casa di famiglia, a contatto con il vivace mondo frequentato dai genitori. I primi studi si svolsero sotto la guida della madre e solo nel 1907 iniziò a frequentare il liceo Foscarini, dove scoprì di amare gli studi matematici e filosofici. Risalgono a questo periodo le prime amicizie, come quelle con Gigi Pancrazi e Nino Valeri, con cui restò in contatto per tutta la vita. Nel 1915 si diplomò con buoni voti, soprattutto in filosofia e in matematica, e su quest’ultima cadde la scelta accademica, nella facoltà di scienze dell’Università di Padova. Non tardò però a provare una certa insoddisfazione per il carattere eccessivamente specialistico del corso. L’evento decisivo fu la frequenza alle lezioni del suo primo vero maestro, Antonio Aliotta, che trasmise al giovane Musatti uno stile teoretico generale che sarebbe rimasto sostanzialmente intatto in tutta la sua vita, caratterizzato anzitutto da una forte inclinazione epistemologica. A interrompere gli studi arrivarono però nel 1916 il servizio militare e la partecipazione alla prima guerra mondiale, al termine della quale Musatti tornò all’Università, assai segnato dall’esperienza del fronte, ma ancora indeciso tra matematica e filosofia. A consigliarlo per la seconda fu Aliotta, che però, dopo avergli assegnato la tesi su «Geometrie non-euclidee e problema della conoscenza», si trasferì a Napoli. Il doloroso abbandono fu mitigato dall’incontro con Vittorio Benussi, giunto a Padova poco dopo l’armistizio come incaricato straordinario di psicologia sperimentale. Fu lui a portare Musatti alla laurea il 3 novembre 1921, anche se la tesi non aveva molto a che fare con la psicologia. Il lavoro, impregnato della lezione aliottiana, impegnò Musatti per quasi due anni e constava di oltre 400 pagine, arricchite da una ricca bibliografia in varie lingue.
Benussi invece gli insegnò le tecniche della psicologia scientifica, lo coinvolse direttamente nelle attività di laboratorio, lo condusse anche ad apprendere un rigore con cui rendere conto scientificamente della realtà dei fenomeni osservati. Inoltre, lo introdusse a un nuovo approccio, ricevuto da parte di un’altra scuola psicologica che stava sviluppando una psicologia centrata sui caratteri globali della percezione (percettologia). Si trattava della Gestalttheorie, avviata a Berlino da Max Wertheimer e dai suoi assistenti Wolfgang Köhler e Kurt Koffka, a partire da esperimenti sui fenomeni stroboscopici. La questione fu oggetto delle lezioni accademiche di Benussi del 1922-23, raccolte in dispensa dallo stesso Musatti, ormai divenuto suo assistente, e dalla collega Silvia De Marchi.
Musatti partecipò anche ad altre ricerche, come quelle sulla suggestione, diventata argomento principe dell’interesse di Benussi. Anche la tecnica ipnotica fu appresa dagli allievi, i quali non erano però autorizzati a praticarla per conto loro, dati i suoi potenziali pericoli. Lo stesso valeva per la tecnica psicoanalitica, visto che Benussi era stato per qualche tempo in analisi con Otto Gross, maestro peraltro assai discusso e discutibile. Anche Musatti fu sottoposto a una rapidissima psicoanalisi e probabilmente il trattamento fu condotto nei termini piuttosto schematici e didascalici, da sperimentalista insomma, che traspaiono dalle lezioni di Benussi del 1926. Il tentativo di collegare la psicoanalisi alla psicologia generale passò attraverso una conoscenza e comprensione del pensiero freudiano che, per i tempi, era di discreto livello, soprattutto alla luce del desolante panorama italiano. C’erano comunque alcuni punti di frizione con l’impostazione classica, peraltro ferma alle fasi embrionali della dottrina, ossia all’impostazione degli Studi sull’isteria, che Freud aveva nel frattempo rielaborato. A Musatti furono insomma trasmessi un insieme di dottrine e un intreccio di motivi che appaiono tanto dispersivi quanto vivacissimi. Non c’è dubbio che l’insaziabilità esplorativa di Benussi gli impedisse di giungere a una vera solidità sia teorica sia personale.
Nel frattempo, come assistente d’istituto, Musatti iniziò a tessere rapporti con i grandi della psicologia e della cultura italiana. La prima occasione fu la partecipazione ai congressi nazionali di psicologia e di filosofia, che si tennero a Firenze quasi in contemporanea nel 1923: il giovane studioso presentò due interventi estremamente indicativi dei campi che lo interessavano maggiormente in quegli anni. Al Congresso di filosofia intervenne con una comunicazione su La teoria di Einstein e la filosofia (Rivista di filosofia, 1925, n. 2, pp. 213-223), argomento che, in Italia, aveva da poco suscitato un ampio, quanto passeggero, interesse. La comunicazione presso gli psicologi, Sui fenomeni stereocinetici (Archivio italiano di psicologia, 1924, n. 2, pp. 105-120), scaturiva dagli esperimenti sulla percezione. Il suo primo libro, Analisi del concetto di realtà empirica (Città di Castello 1926), riassume e sviluppa i motivi intellettuali dei primi lavori e rappresenta forse la massima espressione del pensiero della scuola padovana di quegli anni.
Il tema principale è la definizione di una ‘realtà empirica’, distinta sia da quella ‘trascendente’, tipica dell’ontologia filosofica, che da quella ‘concreta’, ossia quella fornita dai dati nel loro puro darsi, privo di qualsiasi organizzazione.
Musatti stava cioè provando a definire un assetto di pensiero personale, anche se ancora in pieno fermento e ancora largamente debitore nei confronti di Benussi. Proprio alla fine del 1927 il rapporto col maestro si concluse, in modo tragico: lo psicologo triestino, sofferente da tempo per una grave sindrome maniaco-depressiva, si suicidò. Per l’allievo il trauma fu tremendo. Per fortuna vicino a lui, oltre ai compagni dell’ambiente universitario, c’era Albina Pozzato, una studentessa conosciuta sempre in quell’ambito e con cui s’era da poco unito in matrimonio. La scomparsa di Benussi significò la perdita della guida e della protezione, nonché l’abbandono in una situazione di transfert non risolta. Dal punto di vista pratico si pose anche il problema della cattedra lasciata vacante, con un laboratorio rimasto senza direzione. Fu Sante De Sanctis, lo psicologo romano (forse il più autorevole di tutta la Penisola) che aveva fatto arrivare Benussi a Padova, a imporre come successore proprio il giovane Musatti, che si vide assegnare l’insegnamento di psicologia sperimentale. Improvvisamente Musatti si trovò dunque a sostituire il suo maestro, con tutto il carico di angosce e responsabilità che ciò comportava. Decise quindi di abbandonare almeno il pericoloso terreno della suggestione, nel quale lo stesso Benussi aveva dovuto fronteggiare spiacevoli incidenti. Il campo privilegiato diventò quello percettologico e, in misura minore, quello psicotecnico, visto anche il crescente successo di quest’ultima linea di studi.
L’impegno principale riguardò l’approfondimento di temi sperimentali: il lie-detector su base pneumografica, per esempio, intorno al quale Musatti difese le procedure del maestro, affinandole però con considerazioni sugli aspetti emotivi coinvolti nelle rilevazioni. Inoltre utilizzò le sue lezioni per divulgare i contenuti internazionali più validi, proprio mentre in Italia avveniva una chiusura autarchica sempre più netta. Rispetto alla tendenziale involuzione di Benussi su se stesso, Musatti sentiva fortemente l’esigenza di farsi capire, di trovare appoggi, di puntare a un progresso culturale diffuso, senza per questo sacrificare né la validità scientifica, né le proprie convinzioni.
Nel 1930 la moglie Albina morì per un’affezione cardiaca congenita, aggravata dalla gravidanza di un bambino che, a sua volta, non sopravvisse per più di due giorni. Per Musatti il miglior modo per reagire al nuovo lutto fu gettarsi a testa bassa nel lavoro. In effetti, nel giro di un paio d’anni, produsse una discreta messe di esperimenti, ma, soprattutto, una notevole riflessione sul problema della percezione di forma, che sembra costituire la sua elaborazione intellettuale del lutto per Benussi, accompagnata da un primo cauto avvicinamento al gestaltismo. In ciò fu aiutato da Silvia De Marchi, che dal 1932 diventò sua moglie e gli diede il primo figlio, Riccardo.
L’atto più significativo di questo processo fu l’articolata risposta ad alcune critiche ricevute dai gestaltisti Eino Kaila e Pentti Renvall circa l’interpretazione della stereocinesi, che affrontava in termini generali il rapporto tra Forma e assimilazione (Archivio italiano di psicologia,1931, nn. 1-2, pp. 61-156), ossia la contrapposizione tra Max Wertheimer e Benussi, tra struttura ed esperienza. Musatti, in fondo, era convinto che tale opposizione fosse meno rigida di quanto i gestaltisti avessero pensato e che si potesse mirare a un paradigma generale della percezione che comprendesse il senso di entrambi gli approcci (Elementi di psicologia della forma, Padova 1938).
Peraltro, si occupava anche di altri temi, in particolare della psicologia della testimonianza dove, oltre a qualche nuova ricerca, tra cui spiccano quelle condotte attraverso lo strumento cinematografico, figura un corso tenuto su richiesta di Francesco Carnelutti, illustre collega della facoltà di giurisprudenza. Ne venne fuori qualcosa di simile a una critica generale della validità testimoniale, alla luce delle possibilità di errore a livello percettivo, degli influenzamenti emotivi, dell’inaffidabilità di molti criteri di valutazione della sincerità e di mille altre complicazioni possibili, tutt’altro che occasionali o patologiche e anzi legate alla normalità del rapporto con la realtà. L’iniziativa ebbe successo e Donato Donati, direttore della scuola di scienze politiche e sociali di Padova, propose a Musatti di pubblicare le dispense, che uscirono nel 1931 (Elementi di psicologia della testimonianza, Padova; poi riedite nel 1989). Intanto all’Università stavano crescendo i giovani, destinati a divenire i suoi principali allievi, in particolare Fabio Metelli e, successivamente, Gaetano Kanizsa.
Sul piano didattico, Musatti proseguiva l’articolato progetto di divulgazione delle principali scuole psicologiche contemporanee, culminato in uno scritto riassuntivo del 1938 (Gli indirizzi della psicologia contemporanea nei loro fondamenti psicologici, in Studi Urbinati, s. B, nn. 1-2, pp. 1-41), che mostrava l’utilità di un dialogo tra le diverse correnti, dato che le differenze si collocavano in gran parte al livello delle opzioni metodologiche e normalmente non erano indici della verità o falsità della teoria, ma solo dei suoi obiettivi e caratteri. Tra i campi che occupavano Musatti nella sua attività divulgativa rientrava ora anche la psicoanalisi, cui dedicò quasi due anni di corso. Si inserì anche nello sparuto gruppo della Società psicoanalitica italiana (SPI), che esisteva dal 1925, ma che fu riorganizzata nel 1931-32 dal triestino Edoardo Weiss, con Enzo Bonaventura unico ‘vero’ psicoanalista tra i pionieri italiani. Il nucleo centrale comprendeva Weiss e la moglie Vanda, nonché i primi allievi Nicola Perrotti ed Emilio Servadio, poi Alessandra Tomasi di Palma e lo stesso Musatti. In realtà, sulle prime Weiss non era convinto dell’opportunità di accettare l’allievo di un ‘ramo’ non del tutto ortodosso come quello Benussi-Gross, ma, alla fine, Freud in persona intercedette in suo favore, sensibile com’era alla sua posizione accademica.
Musatti si occupò di tradurre e far tradurre le opere di Freud, ma soprattutto portò nel 1933-35, in pieno oscurantismo, la disciplina nelle aule universitarie. Cominciò con una brillante esposizione delle tecniche esplorative e interpretative freudiane, per poi passare l’anno seguente a un approfondimento di vari aspetti della metapsicologia. Il risultato di questi corsi furono due corposi volumi di dispense (Lezioni di psicologia sperimentale dell’anno accademico 1933/34. La psicoanalisi, Padova 1934; Lezioni di psicologia sperimentale dell’anno accademico 1934/35. La dottrina psicoanalitica degli istinti, ibid. 1935). Si trattava essenzialmente della presentazione del pensiero di Freud, che non fu pressoché mai contestato. Eppure il vero protagonista delle lezioni era lo stesso Musatti, la cui autonomia emergeva nello sforzo di privilegiare esempi tratti sia dall’esperienza da lui direttamente accumulata nell’attività terapeutica sia dall’autoanalisi. La parte più importante era riservata al tema che per primo aveva colpito il suo interesse, ossia il sogno, cui veniva dedicato un ampio spazio, in una sorta di ripetizione personale della Traumdeutung freudiana. Nel corso successivo c’era invece un’esposizione abbastanza esauriente di tutte le principali teorie di Freud, anche se, limitate al 1923. Il modello di Benussi era tenuto ancora presente, ma Musatti pareva sempre più convincersi che non si potesse più rinunciare alla psicoanalisi, soprattutto alla luce dell’efficacia terapeutica delle sue scoperte, come quelle sugli istinti e sul legame tra vita adulta e infantile. Pensava anche di trarre un volume dalle dispense accademiche, completandole nelle parti più sommarie per ottenere un vero e proprio trattato generale.
Nel 1936 perse in pochi mesi il suocero, la seconda moglie e il padre, precipitando in un vero proprio inferno, con sua madre e un figlio a carico e il laboratorio da mandare avanti senza il prezioso aiuto della compagna. Ma riuscì a superare ancora una volta il tragico momento. Segno evidente ne fu l’innamoramento per una giovane, che sposò nel 1937: Carla Rapuzzi, che gli diede una figlia, Lisa, e lo accompagnò per più di 30 anni di vita comune.
Nuovi problemi si addensavano però sul suo capo, questa volta in ambito professionale, a seguito dello scatenarsi della campagna antisemita del regime fascista, che escludeva gli ebrei dagli incarichi pubblici. Il padre di Musatti era di famiglia ebraica, cosicché la posizione accademica del figlio fu messa in discussione: tornarono fuori improvvisamente chiacchiere sulla sua moralità, sulle sue convinzioni politiche e sulla serietà delle sue lezioni di psicoanalisi, considerate irriverenti e, alla fine, nonostante la solidarietà di alcuni colleghi e amici e la disponibilità dell’Università di Urbino, fu allontanato dall’insegnamento universitario. La strana legge dell’epoca gli permise però di lavorare nei licei: prima in Veneto, poi al Parini di Milano. Fu un periodo di grandi delusioni, nel clima della guerra ormai imminente, per la quale tra l’altro Musatti venne richiamato in artiglieria sul confine franco-piemontese, questa volta però non in modo traumatico e solo per pochi mesi. Si trasferì poi a Milano, dove iniziò a tessere qualche rapporto soprattutto con i militanti socialisti, partecipando alla nascita del Movimento di unità proletaria del suo amico Lelio Basso e coordinando alcuni contatti tra i socialisti milanesi e il comunista Concetto Marchesi, in vista della nascita del Comitato di liberazione nazionale (CLN).
Ma presto la situazione precipitò, con l’arrivo delle truppe tedesche in Italia e l’inizio di una persecuzione ben più spietata. Musatti si rifugiò allora a Ivrea, presso le fabbriche Olivetti, con cui era in contatto da qualche tempo, visto che il loro presidente Adriano Olivetti lo utilizzava come consulente psicologo per vari progetti di sviluppo organizzativo interno all’azienda, nel quadro di un progetto di rinnovamento mirato a conciliare necessità produttive e qualità della vita operaia.
Di fatto, quello fu il punto di partenza del Centro di psicologia che si sviluppò presso l’Olivetti negli anni seguenti, cui Musatti stesso collaborò in vari periodi e che coincise con la nascita della psicologia del lavoro in Italia.
Finita la guerra, dopo un periodo trascorso nel Canavese anche come sindacalista (per la neonata FIOM, Federazione impiegati operai metallurgici) e politico (rappresentante locale del PSI, Partito socialista italiano), tornò a Milano, per riprendere la carriera interrotta. Il mutato clima sociale gli permise di vedersi riconoscere diritti a lungo negati: anzitutto la cattedra di psicologia, che gli fu finalmente assegnata nella facoltà di lettere e filosofia della Statale. Qui avviò una massiccia attività divulgativa, che perseguì anche attraverso una fittissima quantità di impegni collaterali, come la collaborazione con il tribunale, in qualità di consulente psicologo (altra attività pionieristica per il Paese), o la frequentazione attiva della Casa della cultura (tra le più vivaci istituzioni culturali del periodo postbellico), o l’impegno crescente nell’attività terapeutica, formando i primi allievi psicoanalisti. Della psicoanalisi era addirittura considerato il principale referente nazionale, accanto in particolare a Servadio e Perrotti, coi quali, tra fasi alterne di concordia e di deciso scontro, pilotò gran parte dell’eccezionale successo della teoria freudiana in Italia. Fu infatti tra i riorganizzatori della SPI, che nel 1946 celebrò il primo congresso del dopoguerra, e naturalmente collaborò alle varie riviste che si succedettero in quegli anni come organi ufficiali della società: dapprima Psicoanalisi, diretta da Joachim Flescher poi, dal 1948, Psiche, sotto la guida di Perrotti. Infine, direttamente, ridiede vita, non senza opposizioni, alla Rivista di psicoanalisi – chiusa dalle autorità fasciste nel 1934 – che nel 1955 riprese a uscire con regolarità.
Agli inizi degli anni Cinquanta si recò a vedere con i propri occhi la situazione reale in URSS. Al ritorno pubblicò un resoconto del viaggio (Libertà di pensiero e dignità della persona nell’Unione Sovietica, in Comunità, 1953, n. 20, pp. 26-35), che lo pose in qualche modo al centro delle polemiche politiche del momento. Ma il suo impegno intellettuale nel campo rimase costante anche negli anni successivi. Da un lato ci furono altri viaggi nei Paesi del ‘socialismo reale’, sia in URSS, dove contribuì ad avviare un minimo di dibattito tra le correnti più aperte delle psicologia sovietica e la psicoanalisi temuta dal regime stalinista, sia in Cina, da cui riportò una viva speranza riguardo a quel problema del conformismo che in URSS aveva toccato con mano, seppur valutandolo risolvibile, e che in Cina gli era parso impostato in modo più consapevole. Dall’altro lato, ci furono vari articoli per riviste più o meno di parte, nei quali tentò di interpretare con gli strumenti psicologici le dinamiche politiche generali della contemporaneità, occupandosi in particolare dei problemi del rapporto tra l’esigenza egualitaria e i diritti dell’individualità.
La sua attività politica comprese anche la militanza vera e propria, con la frequentazione regolare delle sezioni socialiste e con varie candidature, che lo portarono tra l’altro a divenire consigliere comunale (1956 e 1970) e candidato al Parlamento.
Ma il suo ruolo fondamentale, nonostante i multiformi suoi interessi e impegni, rimase quello di maestro delle nuove generazioni, anche se la pur attivissima esperienza milanese non fu paragonabile per profondità di contributi intellettuali a quella padovana, nella quale Musatti aveva già proposto tutti i propri argomenti, che alla Statale furono solo ripresi ed approfonditi, a volte con risultati eccezionali, come nel caso della pubblicazione del Trattato di psicoanalisi (I-II, Torino 1949) sostanzialmente concluso già nel 1938 e poi accantonato.
Si tratta di un lavoro fondamentale per la cultura italiana, sul quale si sarebbero formate diverse generazioni di psicoanalisti e che rimane tuttora vitale. Gli obiettivi generali erano da un lato, la ferma intenzione di privilegiare gli aspetti più strettamente scientifici della psicoanalisi, a scapito di quelli di sapore filosofico; dall’altro, il desiderio di rivolgersi a un pubblico più vasto che non quello degli specialisti col proposito della massima divulgazione possibile. Il lavoro mostra l’evoluzione del pensiero psicoanalitico in sintonia con la storia intellettuale del suo creatore: eppure questa fedeltà all’originario freudiano passa attraverso il costante sforzo di affidarsi a materiale personale, quasi a voler proporre un’esperienza di profonda acquisizione di una lezione, criticamente appresa. Del resto, si tratta anche di un lavoro equilibrato e caratterizzato da una forma espositiva a oggi insuperata.
Il successo del libro fu enorme e fece quasi dimenticare altre iniziative meritevoli, dallo scritto Intorno al meccanismo dell’allucinazione (Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria,1947, n. 3, pp. 1-25), con la proposta di una teoria completa sul processo psicologico che conduce ai fenomeni allucinatori, fino alla creazione nel 1963 del Centro milanese di psicoanalisi, che ancora oggi porta il suo nome.
D’altronde, gli interessi psicologici di Musatti non si limitavano affatto alla psicoanalisi, tanto che i lavori più significativi riguardano la percettologia. In particolare, anche grazie all’aiuto del fedele Kanizsa, affiancato da numerosi allievi (tra cui Guido Petter, Giancarlo Zapparoli, Renato Sigurtà), il laboratorio da lui diretto realizzò nei primi anni Cinquanta un notevole ciclo sperimentale sulla percezione cromatica, intorno al classico tema dei rapporti tra il contrasto simultaneo (fenomeno particolare in cui due tonalità o chiarezze diverse vengono percepite, se accostate, con differenza qualitativa ancora maggiore) e la costanza dei colori (ossia la loro tendenza ad apparire con colori stabili nel variare delle condizioni ambientali). Il contributo musattiano fu prezioso per la lucidità metodologica con cui rilesse la storia della problematica, ma soprattutto per la scoperta (o meglio la rivalutazione consapevole di vecchie esperienze di Wilhelm von Bezold) di quello che fu poi definito l’‘effetto-Musatti’. Queste ricerche sul colore furono all’origine di un imponente ciclo di scritti di metodologia percettologica, concentrati nel periodo 1957-59 e apparsi in gran parte nella Rivista di psicologia, di cui Musatti aveva capitanato nel 1955 la rinascita, impegnandovi a fondo anche tutti i propri allievi.
Musatti si presentava, di fatto, come l’incontrastato protagonista della scena psicologica italiana: posizione che peraltro divenne sempre più evidente nei congressi nazionali a partire da quello di Chianciano del 1954, in particolare dopo la scomparsa di padre Agostino Gemelli nel 1959. In quegli anni, la sua attività si svolse parallelamente all’esperienza in Consiglio comunale. Il suo secondo mandato a palazzo Marino, ora come capogruppo del PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria), avvenne in un momento difficilissimo, successivo alla strage di piazza Fontana (1969), con le fosche vicende a essa collegate. All’Università erano iniziate le grandi proteste studentesche, rispetto alle quali ebbe un atteggiamento disponibile, apprezzato dagli studenti stessi. Tuttavia nel 1968, cessò l’insegnamento, per raggiunti limiti d’età.
La fine dell’impegno accademico fu molto traumatica, anche per la quasi concomitanza con la morte della terza moglie (1971), ma nemmeno questa volta la voglia di vivere fu domata. Certo, l’allontanamento dall’università non gli permetteva più di manovrare realmente le leve della politica culturale, come aveva fatto ancora in tutti gli anni Sessanta. Ma la sua vitalità non venne meno. Lo dimostrano le iniziative straordinarie che intraprese: la cura delle Opere complete di Freud (con introduzioni, prefazioni e cura delle traduzioni dei primi 12 volumi: Torino 1967-80), rimaste lo strumento fondamentale della cultura psicoanalitica nazionale, cui consentì un notevole salto di qualità, riconosciuto anche a livello internazionale; il costante coordinamento delle principali organizzazioni e iniziative della psicologia nazionale, anche nei periodi più difficili, come quando accettò di presiedere una SPI straziata dalle divergenze interne, finita addirittura sotto il commissariamento dell’Associazione internazionale. Segno di questa persistente vitalità fu anche il suo quarto matrimonio, nell’aprile 1977, con Mara Penna, che era stata sua paziente.
Negli ultimi anni si andarono inoltre intensificando alcuni interessi che avevano cominciato a delinearsi assai prima, come quello per il cinema, del quale Musatti, fin dai tempi di Padova, si era occupato anche sul piano teorico. La passione per l’arte, trascurata negli anni giovanili, condotti tra rigorosa filosofia e matematica, e raramente tematizzata negli anni maturi, esplose letteralmente nella terza età, con una prepotente vena che, una volta ridottisi gli impegni e i vincoli morali legati alla figura di docente universitario, si manifestò anzitutto nella frequentazione dei mass-media, con frequenti interventi pubblici, soprattutto radiofonici e televisivi. Questo nuovo aspetto trovò spazio anche in varie pubblicazioni.
Le prime tracce della svolta coincisero con l’uscita di Riflessioni sul pensiero psicoanalitico e incursioni nel mondo delle immagini (Torino 1976), in cui cominciarono ad apparire brevi racconti di episodi psicoanalitici e qualche scritto disimpegnato su tematiche artistiche: si tratta di un lavoro con obiettivi prevalentemente divulgativi, dove il bisogno letterario appare, per così dire, a livello di tentativo di nuovi percorsi di comunicazione. Ma il vero successo del nuovo corso giunse con Il pronipote di Giulio Cesare (Milano 1979), premio Viareggio, il primo di un ciclo di volumetti segnati da reminiscenze autobiografiche, in cui le componenti intellettuali tornano un po’ tutte in campo, ma ravvivate da una descrizione interamente liberata dai vincoli della comunicazione scientifica: Musatti era ormai divenuto il simbolo dello psicologo accessibile e rassicurante per il grande pubblico, a digiuno, ma avido, di questa nuova conoscenza.
Non ci furono più contributi scientifici, ma in compenso si affermò un prezioso stile narrativo, decisamente personale, che è forse più apprezzabile non tanto nei lavori programmaticamente artistici, come le sue due commedie (Psicoanalisti e pazienti a teatro, a teatro!: con due commedie in tre atti, Milano 1988), quanto in quelli che mischiano sensibilità letteraria, ricchezza tematica e volontà comunicativa.
Il ruolo di Musatti in campo intellettuale era, ormai da tempo, quello del grande istrione, dell’uomo curioso, del suscitatore di interessi e della guida metodicamente semplice e chiara. La sua mente fu lucida fino all’ultimo giorno di vita.
Morì il 20 marzo 1989 nella sua casa di Milano in via Sabbatini, assistito dai figli. È sepolto a Brinzio, accanto alla moglie Carla.
Fonti e Bibl.: Il materiale pertinente le oltre 200 pubblicazioni di M., con relative recensioni, oltre agli appunti e altro è reperibile presso l’Archivio storico della psicologia italiana all’Università degli Studi di Milano-Bicocca (www.archiviapsychologica.org). Alcuni documenti personali sono custoditi a Milano presso la moglie e i figli, presso il Centro milanese di psicoanalisi e presso l’Associazione per la ricerca psicologica applicata (ARPA) da lui fondata nel 1987. Inoltre: C. M., Fondazione Scientifica Querini Stampalia, Venezia 1989; Dal mondo fantasmatico al mondo percettivo. Suggestioni e attualità del pensiero di C. M., Padova 1990; R. Reichmann, Vita e opere di C. M., I-III, Milano 1996-2000; D. Romano - R. Sigurtà, C. M. e la psicologia italiana, Milano 2000.