PASCARELLA, Cesare
PASCARELLA, Cesare. – Nacque a Roma il 28 aprile 1858 da Pasquale, di origini ciociare, che, arruolatosi nella legione romana, partecipò alla guerra d’indipendenza del 1848, e da Teresa Bosisio, pia e illetterata, di origini piemontesi.
Di animo inquieto, incline alla solitudine, Pascarella amava compiere lunghe passeggiate fino alla Magliana e ai Castelli, o attraversare Roma aggrappato alle tradizionali ‘botticelle’. I genitori, che gestivano una tabaccheria in via Laurina, vollero correggerne il temperamento ribelle mettendolo, non ancora dodicenne, nel seminario gesuitico di Frascati. Da qui fuggì la mattina del 20 settembre 1870, allorché udì dei colpi di cannone annunziare la breccia di Porta Pia. Desideroso di assistere all’evento, compì a piedi il viaggio di ritorno a Roma in abiti talari, che gli procurarono l’avversione delle persone che incontrava per via. Dopo la fuga dal seminario il padre lo iscrisse alla scuola di piazza Apollinare, dove ebbe insegnante don Ignazio Garroni. Qui – ricordò poi Carlo Scifoni, suo compagno di classe divenuto sacerdote – non si peritava di usare il dialetto durante le interrogazioni a dispetto del veto imposto dai maestri, adducendo a giustificazione la grandezza di Roma antica, di cui il romanesco sarebbe stato tarda espressione.
Entrato all’Accademia di belle arti sotto la guida del pittore Domenico Bruschi, si mostrò insofferente alle esercitazioni e ai doveri accademici, preferendo dedicarsi al disegno en plein air; così, assieme all’amico pittore Alessandro Morani girava per le vie di Roma e della campagna alla ricerca di soggetti per acqueforti. Tale scelta, per i suoi disegni, in particolare di scorci e personaggi dell’Agro, ne influenzò la maniera pittorica anche degli anni a venire; Pascarella appartenne, infatti, ai ‘XXV della campagna romana’, gruppo di pittori sorto nel 1904 che si proponeva lo studio dal vero e la rappresentazione figurativa dei luoghi fòr de porta.
È tratto significativo di una personalità insofferente a direttive di natura coercitiva anche la scelta, per i suoi soggetti, della figura dell’asino. Nel definirsi «pittore d’asini», Pascarella intendeva certo assumere una posa scherzosa e irriverente, sovvertitrice dello status quo delle accademie di belle arti in cui si veniva formando. Ne è riprova la sorprendente perizia nel disegnare questi animali, ciascuno a rappresentare un carattere, un vizio o una virtù umani.
Concluso l’apprendistato artistico, Pascarella frequentò lo studio del pittore Attilio Simonetti. Entrò quindi nel giro degli studi d’arte di via Margutta, conoscendo artisti quali Ettore Ferrari e Telemaco Signorini, e frequentò il Circolo artistico, noto all’epoca anche per l’organizzazione di feste carnevalesche come la Cervara (una gita in costume il 21 aprile alle grotte sulla via Prenestina, poco fuori Roma) e la Carciofolata (una cena in Ghetto, i cui commensali erano i membri stessi del Circolo).
A ventitré anni Pascarella irruppe nelle redazioni dei giornali più in voga della Roma ‘bizantina’ e cominciò a legare la propria fama alla poesia in dialetto romanesco. L’aneddotica lo vuole introdotto nella redazione del Capitan Fracassa, rivista diretta da Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo), alla fine del marzo 1881, dopo uno spettacolo al teatro Costanzi, dove Pascarella sarebbe andato travestito da scimmia per prendere parte a un ‘Museo di animali impossibili’ allestito dai membri del Circolo artistico. In realtà, la prima collaborazione con il Fracassa risale al 9 marzo di quell’anno: una prosa scritta dopo un viaggio in Spagna, firmata «Pascariello» (altre due ne seguirono, pubblicate il 18 e il 25 aprile). Nella redazione del giornale, sita in via del Corso 195, Pascarella conobbe Gennaro Minervini, Pietro Cossa, Ferdinando Martini, Francesco Flores D’Arcais, Ugo Fleres, Giustino Ferri. Fu però con Gandolin e, soprattutto, Edoardo Scarfoglio e Gabriele D’Annunzio che allacciò più stretti rapporti di amicizia.
L’esordio poetico ufficiale di Pascarella risale al luglio dello stesso anno, allorché su La cometa del 1881. Strenna del Capitan Fracassa comparvero i sonetti La traggedia, La mora nera, Er Gesunnazzareno bisantino e A li giochi de li cavalli. Di questi solo il primo e l’ultimo furono in seguito autorizzati dal poeta.
A li giochi de li cavalli, in particolare, avrebbe aperto, con il titolo Li pajacci e qualche variante, la raccolta dei Sonetti edita nel 1900, rivelando già il modus poetandi del giovane: facendo coincidere (secondo un artificio adottato anche da Giuseppe Gioachino Belli) la voce poetica con quella di un popolano parlante il dialetto di Roma, Pascarella creò piccole storie, quadretti o più lunghe narrazioni. Qui è una donna che narra di essere stata testimone dell’incidente mortale che al circo ha visto coinvolti due trapezisti, il cui sangue è stato occultato da un po’ di sabbia e i cui cadaveri, prontamente condotti via, sono stati soppiantati dall’arrivo dei pagliacci.
L’affidamento della voce poetica a un popolano della Roma umbertina sarebbe stato teorizzato da Pascarella in un colloquio con Ugo Ojetti, cosicché, in ogni poesia dialettale, è il popolano a dover parlare in prima persona fornendo descrizioni, narrando, commovendo con la mimica e la voce. Quantunque ne attribuisse l’uso ai letterati che non avevano piena padronanza dell’arte, Pascarella sostenne la superiorità del dialetto sulla lingua in termini di immediatezza espressiva e pertinenza semantica, anche nel caso in cui il dialetto fosse, come nel suo caso, simile all’italiano per molti aspetti. Quello di Pascarella fu, infatti, un romanesco toscanizzato, risultato di un annacquamento se confrontato con quello di Belli. Più che dal fatto di non conoscere i sonetti del suo predecessore nel momento in cui cominciò a scrivere versi, tale scelta derivò da una precisa considerazione del veicolo linguistico: se questo per Belli era «gretta e sconcia favella», espressione di un volgo rozzo e ignorante, per Pascarella era la «lingua italiana pronunciata differentemente», idioma di un borghese che ha fatto il Risorgimento e si è nutrito di ideali patriottici (Felici, 1989, p. 196).
Apparsi due sonetti (Er tablò der padrone e C’è scappato l’ammazzato…) nella Cronaca bizantina del 31 agosto 1881, Pascarella tornò al Capitan Fracassa, che il 16 ottobre lo presentò al pubblico come pittore la cui specialità erano gli asini, pubblicandovi Er serpente a sonajji lo stesso giorno, Li malacci novi (23 ottobre), il dittico La comparsa (30 ottobre), e la collana di cinque sonetti Er morto de campagna (6 novembre), preceduta da una didascalia che chiariva come a Roma esistesse una ‘Compagnia della buona morte’, il cui compito era quello di cercare cadaveri dispersi nell’Agro per provvedere alla loro sepoltura. La collana, distinta dal crudo realismo descrittivo dell’ultimo sonetto, fruttò 50 lire al poeta e sarebbe stata ristampata l’anno dopo da Angelo Sommaruga, in 500 esemplari omaggio agli abbonati alla Cronaca bizantina. Dato il successo, Pascarella continuò a pubblicare nel Capitan Fracassa, dove apparvero il dittico La corsa de le bighe a Villa Borghese (13 novembre), Er gioco liscio (20 novembre), Se lo so’ lavorato e Er bollettino (27 novembre), Nina e Le forze (4 dicembre), Er Salone der Circolo (19 febbraio 1882).
Mentre il Capitan Fracassa continuava, per il 1882, a pubblicargli prose spagnole (11 e 18 aprile, proseguendo poi il 3, 16 e 29 maggio), il 30 aprile Pascarella intraprese un viaggio in Sardegna con Scarfoglio e D’Annunzio che, annunciato due giorni dopo sulla rivista di Gandolin come missione diplomatica, letteraria e sociale, avrebbe dovuto costituire l’argomento del Libro d’oltremare, commissionato da Sommaruga ai due letterati abruzzesi e a Pascarella per le illustrazioni. L’annunciato volume non fu mai scritto, ma dal viaggio furono tratti resoconti e articoli per il Fracassa, corredati dalle illustrazioni di Pascarella. Il primo articolo apparve sul numero dell’8 maggio: firmato «Papavero» (pseud. di Scarfoglio), includeva anche un sonetto romanesco senza titolo (poi In mare). Altre prose videro la luce il 10, 14, 21, 28 maggio e 26 giugno, sempre a firma Papavero (la prosa del 21 maggio si concludeva con il sonetto romanesco A le miniere). Continuando l’attività di poeta sulla rivista di Gandolin, Pascarella pubblicò il trittico A le capanne (2 luglio; poi Er maestro de noto nei Sonetti), nonché ulteriori prose spagnole (10 agosto, 25 ottobre, 24 novembre, 6 e 21 dicembre).
Il viaggio in Sardegna fu seguito da quello in Ciociaria, dove Pascarella si recò in groppa a un asino e che confluì in sette relazioni illustrate, pubblicate (con pseud. «Pictor») nel Capitan Fracassa del 17, 18 e 28 agosto, 7 e 10 settembre, 7 e 8 ottobre 1882. Risale a quell’anno la collana di cinque sonetti La serenata – storia di un tale che viene ucciso mentre canta stornelli sotto casa dell’innamorata, venendo poi vendicato da uno della sua compagnia – che portò la poesia di Pascarella sul piano di una narrazione scarna, ma a tinte forti, con accoltellamenti e vendette.
Senza abbandonare le partecipazioni ai veglioni del Circolo artistico (dove il 24 febbraio 1883 si recò in veste di suonatore ambulante), continuò a pubblicare prose nel Fracassa – Il modello (11 marzo 1883); Ricordi di un viaggio in Ciociaria (8 aprile); In montagna (come «Pictor», 1°, 6, 7, 17 giugno); Il mio pellegrinaggio (firmato «Pictor», 9 ottobre); un’altra serie In montagna (sempre come «Pictor», 10, 16 e 17 dicembre) – e poesie (il dittico di sonetti Li ciarlatani, 30 settembre). Del 1883 è anche l’inizio di una collaborazione con il Fanfulla della domenica, in cui apparvero i sonetti La Società de l’asfitichi e Na predica de mamma (7 ottobre) e il trittico A San Lorenzo (11 novembre).
La Cronaca bizantina, che frattanto vedeva intensificarsi la collaborazione con D’Annunzio, tornò a dargli spazio il 1° dicembre 1883 e il 16 gennaio 1884, con i sonetti amorosi del dittico A Ninetta. Mentre uscivano le novelle Mariaccia e Carciofolata (in Fanfulla della domenica, 3 febbraio e 13 aprile 1884), Pascarella fu protagonista di una curiosa scommessa al Circolo artistico con l’amico pittore Onorato Carlandi. Volendo dimostrare che le conferenze non sono noiose, ne scrisse una intitolata Il manichino, declamata il 18 marzo 1884 (il tema sarebbe stato ripreso nello scritto I manichini all’Esposizione di Torino, nel Fanfulla della domenica del 7 dicembre). Sul medesimo settimanale, sempre nel 1884, pubblicò anche sonetti: Er terno, Er cortello e Doppo er Fausto (6 luglio); la collana Er fatto de domenica (21 dicembre); La ginnastica educativa (28 dicembre). Dello stesso anno sono anche i cinque sonetti intitolati Er fattaccio, storia di un accoltellamento all’osteria, riportato da cinque punti di vista differenti.
Pubblicati i Ricordi di un viaggio in Ciociaria (in Fanfulla della domenica, 29 marzo 1885) ed edito Il manichino in elegante fascicoletto, con dedica a Carlandi, Pascarella pianificò un viaggio in India dopo un periodo di solitudine che lo aveva portato a diradare le visite al Circolo artistico. Imbarcatosi da Napoli il 27 settembre, raggiunse Bombay il mese successivo. Rientrato in Italia, nel 1886 pubblicò uno dei poemetti cui maggiormente è legata la sua fama: i venticinque sonetti di Villa Gloria, stesi durante la permanenza in India.
Si tratta di una rilettura dell’impresa in cui persero la vita i fratelli Enrico (Righetto) e Giovanni Cairoli dal punto di vista di un popolano che si immagina nel novero dei settanta partecipanti alla spedizione garibaldina. La narrazione, rapida e asciutta, rasenta il cronachismo nell’esposizione delle azioni compiute dai volontari, con qualche rara concessione a rallentamenti nel tempo del racconto (come nella descrizione della notte sul Tevere) e tratti di quel realismo che il poeta aveva sperimentato in precedenti componimenti (come nella descrizione del cadavere di Righetto). Lo spunto per la stesura provenne dal dialogo sull’impresa di Villa Glori, di sera, in un’osteria di Trastevere, con qualcuno che vi aveva realmente partecipato. L’opera fu edita da Pascarella a sue spese e stampata presso la tipografia Forzani del Senato. Giosue Carducci ne scrisse parole entusiastiche nell’articolo Arte e poesia (in Nuova antologia, 1° luglio 1886), decretandone l’originalità rispetto a Belli; se questo, al pari di Carlo Porta era stato artefice di «una poesia che nega, deride, distrugge» (Carducci, 1937, p. 387), Pascarella aveva invece narrato l’eroismo degli italiani morti in battaglia portando il dialetto ad altezze epiche. Ma l’entusiasmo di Carducci non fu sempre condiviso dalla critica coeva: solo il mese prima Carlo Dossi aveva accusato Villa Gloria di mancare di immediatezza nella rappresentazione del vero (Dossi, 1886, s.p.), mentre Enrico Nencioni additò il «prosasticismo» di alcuni sonetti (v. Fanfulla della domenica, 9 maggio 1886).
Nell’agosto-settembre del 1886 il poeta tornò in Spagna assieme a Gandolin; compì poi numerosi spostamenti in Italia, per lo più a piedi per recitare i suoi versi. Durante una tournée si recò a Gropello da Benedetto Cairoli, cui Villa Gloria era dedicata e, nel 1887, fu a Milano per incontrare Giuseppe Verdi. Il trittico poetico Cose der monno e il sonetto L’allustrascarpe filosofo apparvero rispettivamente nel Fanfulla della domenica del 15 maggio 1887 e nel numero dell’Illustrazione italiana pubblicato fra Natale e Capodanno, mentre in Nuova antologia videro la luce le prose Le memorie di uno smemorato e Gita sentimentale (in data 1° luglio e 1° dicembre 1887).
Sempre interessato alle arti figurative, disegnò una testa d’asino che modellò con la creta e fuse nel bronzo, presentandola all’Esposizione nazionale di Bologna nel 1888. In questi anni Pascarella lesse certamente per intero i sonetti di Belli – la cui conoscenza era stata parziale fino alla pubblicazione dei sei volumi a cura di Luigi Morandi (1886-89) – nonché i versi milanesi di Carlo Porta nell’edizione Robecchi (1887), che giudicò superiori a quelli del poeta romanesco.
È del 1890 la prosa Caffè Greco, che riproduce la conferenza tenuta nell’aula della Gran Guardia a Padova e a Firenze al Circolo artistico. Nel rinomato caffè romano di via dei Condotti Pascarella ritrovava gli amici del gruppo pittorico In Arte libertas (poi ‘XXV della campagna romana’), che formavano la cosiddetta «Brigata dell’Omnibus» (così chiamata dalla forma della saletta del caffè dove si riunivano).
Mentre la critica d’Oltralpe cominciava a interessarsi alla sua opera (nell’ottobre 1894 Paul Heyse segnalava il poeta nella Deutsche Rundschau e pubblicava una traduzione in tedesco di Villa Gloria), Pascarella attese alla stesura del poemetto La scoperta de l’America (Roma 1894), che gli richiese otto anni di lavoro e uscì con dedica alla madre.
Si tratta di cinquanta sonetti che ripercorrono la vicenda di Colombo, narrata sempre attraverso la mediazione di un popolano romanesco. Questi è un cliente di osteria che riformula ai compagni ciò che ha letto su un libro di storia universale. Il risultato è contraddistinto da voluti anacronismi e paradossi (Colombo che si reca dal «re de Spagna portoghese» proclamando la sua intenzione di scoprire l’America; l’indigeno che, presentandosi ai naviganti, si definisce con sorprendente consapevolezza ‘selvaggio’); acclimatamenti all’orizzonte culturale del narratore (Colombo che chiede alla regina tre caravelle sul tipo delle imbarcazioni che trasportano il marsala sul Tevere); qualche frecciata anticlericale di belliana memoria (il navigatore genovese la cui partenza è ritardata dalla burocrazia di una commissione di ministri, dietro cui si intuisce l’operato dei preti nemici della patria e del progresso). Nel poema c’è anche spazio per una celebrazione dell’indigeno che vive secondo natura, generoso e di buon cuore, pronto però a ribellarsi quando gli europei ne insidiano la compagna. Su tutto campeggia però la figura del navigatore, uomo tenace ed emblema delle virtù italiche, che sarebbe stato rovinato dagli invidiosi e – secondo il narratore – tratto in arresto al suo rientro.
Il successo del poema fu tale da sancire la fama di Pascarella su scala nazionale, complici anche le sue doti di fine dicitore, abile nel volgere con naturalezza fra toni drammatici e comici. La scoperta de l’America fu declamata alla Scala di Milano, quindi in Veneto, in Austria (dove alcuni sonetti furono tagliati dalla censura) e al Comune di Bologna (accompagnata da lusinghiera presentazione di Carducci) nell’aprile 1895. Anche i salotti si disputarono la presenza del poeta, al punto che «non vi fu dama romana che non avesse nel suo album un asinello del Pascarella» (Bizzarri, 1941, p. 93).
Poco dopo la mezzanotte del 14 giugno 1895 il poeta intraprese un viaggio a piedi da Roma a Venezia in compagnia dell’amico letterato Diego Angeli (che però si fermò all’altezza di Bologna). Il cammino richiese venticinque giorni e per la sua eccezionalità fu annunciato nel Don Chisciotte del 12 luglio. Rientrò a Roma il 14 agosto.
Seguì un periodo di silenzio operoso, durante il quale lesse forse le opere di Dante, donategli il 15 marzo 1898 dalla contessa Maria Pasolini nei tre volumi dell’edizione ‘oxfordina’. A testimonianza di una fama che si diffondeva anche all’estero, Émile Haguenin tenne una conferenza su Pascarella presso la Società degli studi italiani a Parigi. In Italia, invece, Ernest Bovet scrisse il primo articolo d’una certa ampiezza sul poeta (Nuova antologia, 1° maggio 1899). Nella crescente attenzione da parte dei critici non sarebbero mancate le valutazioni negative, prima fra tutte quella di Pietro Mastri (pseud. di Pirro Masetti), che, condannando quasi tutta la letteratura dialettale a un’irrevocabile inferiorità espressiva rispetto a quella in lingua, avrebbe negato l’afflato epico individuato da Carducci in Villa Gloria e criticato l’«artifizio letterario, anzi rettorico» di affidare la narrazione della Scoperta all’interposta persona di un popolano per dare alla poesia «un’apparenza di maggior verità e di più schietta naturalezza» (Mastri, 1903, p. 315). Né si sarebbe fatta attendere quella (più equa) di Croce, che avrebbe negato le categorie di ‘epica’ e ‘popolare’ per la poesia di Pascarella, riconducendola al contrario a mera prova di artista in cui si avvertono «la bontà, la malinconia, la celebrazione, l’aspirazione e la speranza della grandezza, l’anima di un italiano sulla quale sono passati il risorgimento nazionale e la poesia del Carducci» (Croce, 1911, 19687, p. 317).
Il 9 agosto 1899 Pascarella partì da Genova per recarsi in Argentina; rientrò a Roma l’8 gennaio 1900. In quell’anno apparve una prima sistemazione in volume dei Sonetti (Roma), che raccoglieva gran parte della sua produzione edita e che ebbe numerose ristampe rivedute e corrette dall’autore.
A inizio secolo Pascarella aveva già scritto una sessantina almeno dei testi che dovevano costituire un nuovo poema, Storia nostra: l’ambizioso progetto – intrapreso probabilmente nel 1895 e rivelato solo ad amici stretti come Ferdinando Martini e Arrigo Boito – di ripercorrere le vicende di Roma antica e del Risorgimento in 350 sonetti.
Apparso postumo per cura della Reale Accademia d’Italia (Mondadori, Milano 1941), il manoscritto si presenta lacunoso e comprende un totale di 267 testi, alcuni dei quali incompleti. La prima sezione si sofferma su episodi della storia di Roma, sorvolando sull’epoca imperiale (a parte Augusto e Nerone), fino alla diffusione del Cristianesimo e alla calata dei barbari. Dedicati pochi sonetti al Medioevo dei papi e degli antipapi e a quello dei pirati, un salto vertiginoso porta direttamente a Napoleone e poi al Risorgimento. La scelta di due grandi blocchi tematici trova ragione nelle parole del popolano narratore: per il primo parla la sua origine, che, pur con qualche anacronismo, lo autorizza a descrivere i fatti di Roma antica senza ricorrere all’ausilio di libri di storia; per il secondo garantisce la sua partecipazione diretta ai recenti accadimenti risorgimentali (Li fatti che so’ successi ieri: sonetto CCXXVI), che gli permette di soffermarsi sul fuggitivo Pio IX e dilungarsi sulle imprese di Garibaldi. Gli artifizi retorici adottati sono a un dipresso i medesimi della Scoperta, ma la maggiore aderenza al vero storico nella seconda parte (probabilmente anche verificato sui testi sul Risorgimento che presenziavano la biblioteca del poeta) è accorgimento quanto mai studiato; esso rientra in quella poetica del vero, frutto di osservazione diretta, che Carducci aveva già riconosciuto a Villa Gloria.
Dopo essersi recato in Abissinia (3 febbraio - 23 giugno 1902) e dopo un secondo viaggio in Sardegna nel maggio 1904 (ove tenne una lettura pubblica di Villa Gloria e della Scoperta al teatro civico di Cagliari), Pascarella recitò alcuni sonetti di Storia nostra il 14 novembre 1905 al teatro Valle di Roma, replicando il 4 marzo dell’anno dopo al Sannazaro di Napoli. Continuò a presentare il suo poema in fieri in vari teatri italiani (fra cui il Manzoni di Milano), fino all’ultima lettura pubblica compiuta a Roma il 7 giugno 1911.
Nonostante i pubblici riconoscimenti e la fama crescente, negli anni successivi Pascarella si chiuse in un progressivo isolamento, assecondando la sua natura sempre più schiva e dedicandosi alla stesura di Storia nostra. Nel 1920 apparve l’edizione delle Prose: 1880-1890 (Torino), «Ed. curata, integrata e sola riconosciuta dall’autore». Nel 1929 compì invece un secondo viaggio in India.
Non prese mai la tessera del Partito nazionale fascista (PNF) cui anzi parve guardare con perplessità; fu comunque nominato accademico d’Italia nel 1930 e, malgrado la ritrosia e l’aggravarsi della sordità, di cui soffriva da qualche anno, partecipò alle riunioni a Villa Farnesina. Nello stesso anno si recò in Cina e in Giappone, mentre fra il 1931 e il 1933 fu in viaggio sul Mediterraneo, in Nordamerica e nelle Indie olandesi.
Pascarella morì a Roma l’8 maggio 1940 senza aver concluso Storia nostra. Nel rispetto delle ultime volontà, la sua morte fu resa nota tre giorni dopo la tumulazione al cimitero monumentale del Verano a Roma.
Fonti e Bibl.: Acquistato nel 1941, il fondo Cesare Pascarella include le carte, gli epistolari, la biblioteca, i disegni, i quadri e le fotografie dell’autore ed è conservato in Roma, presso la Biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei. Per le poesie, le prose e i taccuini v. C. Pascarella, Opere, I-II, Milano 1955.
C. Dossi, Rassegna letteraria. Villa Gloria, in La Riforma, 15 giugno 1886; E. Bovet, C. P., in Nuova antologia, 1° maggio 1899, pp. 106-130; P. Mastri, La malerba dialettale, in Id., Su per l’erta, Bologna 1903, pp. 303-326; B. Croce, C. P. [1911], in Id., La letteratura della nuova Italia, II, Bari 19687, pp. 308-322; G. Carducci, Ed. nazionale delle Opere, XXIII, Bologna 1937, pp. 386 s.; XXVIII, Bologna 1938, pp. 215 s.; M. Menghini et al., n. speciale de L’Urbe, giugno 1940; A. Jandolo, C. P. Il mistero della sua casa…, Roma 1940; E. Bizzarri, Vita di C. P., Bologna 1941; A. Bruers, La biblioteca di C. P. [1941], in Id., Saggi sulla letteratura italiana e straniera, Bologna 1943, pp. 99-115; U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati [1895], Firenze 1946, pp. 239-248; F. Sarazani, Vita di C. P., Roma 1957; M. Aurigemma, P. prosatore, Roma 1959; L. Felici, Il romanesco di P., in Il romanesco ieri e oggi, a cura di T. De Mauro, Roma 1989, pp. 193-205; D. Angeli, Le Cronache del “Caffè Greco” [1930], Roma 2001, pp. 101-105; F. Mulas, D’Annunzio, Scarfoglio, Pascarella e la Sardegna…, Cargeghe 2007, pp. 33-56, 79-92; F. Onorati, Amor di patria in Verdi e P., in Strenna dei Romanisti, 2012, vol. 73, pp. 423-436.