STERBINI, Cesare
– Nacque il 29 ottobre 1783 a Roma, secondo di quattro figli, da Alessandro, nobile originario di Ferentino, presso Frosinone, e da Antonia Micheli, romana. Il nonno, Benedetto Micheli (1699-1784), fu oboista, compositore, poeta e librettista.
Stando a due fra le pochissime fonti biografiche primottocentesche, Cesare avrebbe ottenuto una cattedra di lingua greca e oratoria a soli diciotto anni (Marocco, 1834, p. 78; Necrologio anonimo nel Diario di Roma, 27 gennaio 1831, in Bini, 1998, p. 14). L’amico e collega librettista Jacopo Ferretti (1834) c’informa dell’erudizione di Sterbini nella letteratura drammatica greca, latina, italiana, francese e tedesca, nonché delle sue qualità di poeta teatrale: «economia strettissima nei recitativi, colpo di scena e situazione anche nelle semplici arie, eliminazione severa di subalterni oziosi» (p. 234). È verosimile, ma non provato, che Sterbini sia stato attivo in qualità di traduttore di drammi e di poeta improvvisatore; avrebbe preparato inoltre un commento critico della Commedia, rimasto inedito (Bini, 1998, pp. 8, 14). Come quasi tutti i librettisti coevi, Sterbini si guadagnò da vivere per altra via: dal 1814 fu funzionario nell’amministrazione pontificia, prima come minutante nella Segreteria generale del Tesorierato della Reverenda Camera apostolica (ossia estensore delle bozze dei decreti da inviare alla firma dei superiori), poi come segretario della dogana e del dazio di consumo, addetto alla compilazione di leggi e regolamenti in materia doganale.
Della produzione letteraria e drammatica di Sterbini ci restano solo sette libretti, da lui firmati (i primi tre) o a lui attribuiti (i rimanenti); frutto dunque di un’attività limitata (alla sola città di Roma, peraltro) ed episodica, non paragonabile a quella di Ferretti, che di libretti ne scrisse circa settanta.
Sterbini esordì con Paolo e Virginia, una cantata tratta dal romanzo di Bernardin de Saint-Pierre, musica di Vincenzo Migliorucci; fu composta in occasione di una beneficiata delle sorelle Ester e Anna Mombelli (teatro Valle, 4 luglio 1812).
L’episodio saliente nella biografia di Sterbini fu la collaborazione con Gioachino Rossini nella stagione di Carnevale 1815-16: firmò Torvaldo e Dorliska (teatro Valle, 26 dicembre 1815) e Almaviva, o sia l’inutile precauzione (teatro Argentina, 20 febbraio 1816): dalla prima ripresa (Bologna, agosto 1816) alle innumerevoli successive il titolo, poi definitivo, mutò in Il barbiere di Siviglia.
Nella Biblioteca teatrale (XI, Roma 1815) si legge: «Se, come dicesi, il Sig. Cesare Sterbini comincerà nel futuro Carnevale a dar saggio de’ suoi talenti drammatici scrivendo il primo libro pel Teatro Valle, ciò porrà in curiose speranze tutti gli amatori del vero bello comico-musicale conoscendo il suo distinto ingegno, amore per la buona commedia, e non potendosi dubitare che conoscer possa il gusto de’ suoi concittadini» (p. 5). Da un lato, viene attestata la sua fama, almeno in Roma, di drammaturgo esperto; dall’altro, si fa riferimento al genere comico, il che conferma quanto si legge in due lettere di Rossini al librettista Angelo Anelli (16 maggio e 8 giugno 1815). Se ne deduce che tanto il genere dell’opera – Torvaldo e Dorliska non è un’opera buffa bensì un «dramma semiserio» – quanto la scelta del poeta furono l’esito di un ripensamento (non sappiamo di chi né perché): in origine, infatti, il librettista sarebbe dovuto essere appunto Anelli, autore della fortunata Italiana in Algeri. Un moto di delusione per il mutato genere trapela dalle recensioni apparse nella Biblioteca teatrale (cit., XII, p. 7: «Il poeta nuovo Cesare Sterbini pensò a verseggiare bene, e non a far ridere, ed eravamo di Carnevale») e nelle Notizie del giorno del 18 gennaio 1816, che trovò il soggetto «molto tetro» (Russo, 2013, p. XXXIII).
Il barbiere di Siviglia divenne invece l’opera buffa più popolare di sempre. Nella stampa romana c’è anche una rapida menzione dei meriti specifici del librettista: «Il Barbiere di Siviglia [...] dette campo dell’egregio poeta C.S. di tutta a bell’agio intrecciare e sviluppare la favola; da cui se una parola togli, togli una gemma» (Gazzetta teatrale n. VII, in Nuova Biblioteca drammatica, II, vol. VII, p. 2, cit. in Romani, 1992, p. 130). È verosimile che Sterbini sia stato l’estensore materiale (il ‘minutante’) dell’«Avvertimento al pubblico», premesso al testo dell’Almaviva, concepito probabilmente d’intesa con Rossini. Tra l’altro, vi si precisa che «il signor maestro Gioachino Rossini [...] ha espressamente richiesto che Il barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato, e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di pezzi musicali, che eran d’altronde reclamate dal moderno gusto teatrale [...]. Qualche altra differenza fra la tessitura del presente dramma e quella della commedia francese sopraccitata», ossia Le barbier de Séville di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, «fu prodotta dalla necessità d’introdurre nel soggetto medesimo i cori, sì perché voluti dal moderno uso, sì perché indispensabili all’effetto musicale in un teatro di una ragguardevole ampiezza».
Specificazioni, queste ultime, che trovano puntuale riscontro nella rinnovata conformazione del dramma, orientato, d’altro canto, verso l’esaltazione del nuovo personaggio eponimo, interpretato dalla star di quella stagione, il tenore e compositore Manuel García. Fu probabilmente García a suggerire alcune «nuove situazioni di pezzi musicali»: il finale primo è ricalcato su quello da lui stesso composto per Il califfo di Bagdad, libretto di Andrea Leone Tottola, andato in scena a Napoli due anni e mezzo prima. Altri numeri musicali non ispirati al Barbier de Séville (ad esempio la celeberrima cavatina di Figaro, Largo al factotum), Sterbini li trasse da libretti altrui di poco antecedenti.
Come in occasione del Torvaldo, il librettista fu scelto in seconda battuta: lo prova una lettera del 26 febbraio 1816, nella quale Sterbini s’impuntò per non essere pagato meno di quanto l’impresario – il duca Francesco Sforza Cesarini, deceduto nel frattempo – aveva in precedenza pattuito con Ferretti per tutt’altro libretto buffo, essendo stato costretto, per di più, a «occuparsene a tutta furia giorno e notte per darlo in termine di 12 giorni come io ho puntualmente eseguito» (Lamacchia, 2008, p. 24). Una conferma, con qualche informazione aggiuntiva, la diede qualche anno più avanti la prima interprete della parte di Rosina, la bolognese Geltrude Righetti Giorgi: «Lasciato Ferretti si andò in traccia dell’altro Poeta Sig. Sterbini [...]. Si concertò con Rossini l’argomento del nuovo Libro, e fu scelto di comune accordo il Barbier di Siviglia» (Cenni..., 1823, p. 31). Nell’Archivio di Stato di Roma si conserva anche l’attestato di pagamento di Sterbini, che – particolare significativo – non sta tra i documenti sugli artisti del teatro Argentina, ma piuttosto tra quelli sulle maestranze, come i falegnami (Lamacchia, 2008, p. 24). Esso attesta che Sterbini fu pagato 45 scudi, in data 22 marzo 1816. Che la stesura del libretto, e poi della partitura, sia avvenuta davvero in pochi giorni è provato anche dalla dichiarazione di Sterbini del 17 gennaio 1816, nella quale egli abbozza la sceneggiatura preliminare di Almaviva (che non si discosta gran che da quella poi realizzata) e s’impegna a consegnare il libretto entro dodici giorni. Sterbini peraltro s’impegna, come tutti i librettisti dell’epoca, ad «assistere il Maestro ed alle prove per mettere in scena, ed occorrendo fare qualche cambiamento e di renderlo teatrale al maggior segno» (p. 181).
A onta di questa esperienza, invero straordinaria dal punto di vista dei posteri, Sterbini non decollò nella carriera di librettista. Secondo Ferretti (Alcune pagine..., 1996, p. 185), scrisse e portò in scena altre quattro opere, sempre a Roma. Il contraccambio ossia L’amore, alla prova, «dramma giocoso», musica di Giacomo Cordella (teatro Valle, 26 dicembre 1818), fu il più fortunato: «nuova ed ingegnosa e brillante è la maniera con la quale è stato dal poeta offerto all’adornamento della musica» (Notizie del giorno, n. 52, 31 dicembre 1818, in Romani, 1992, p. 126); circolò negli anni successivi, anche all’estero, con il titolo La rappresaglia, nelle intonazioni di diversi autori.
Tra l’altro, esso mostra che Sterbini non temeva certo di ripetersi: nella stretta del finale primo si legge «la mia / lor testa fugge via / e stordita sbalordita / si riduce ad impazzar», che richiama, quasi alla lettera, la celebre stretta nel finale primo del Barbiere («E il cervello poverello / già stordito, sbalordito / non ragiona, si confonde, / si riduce ad impazzar»). Lo stesso si osserva nel «dramma giocoso» Il gabbamondo, musica di Pietro Generali (teatro Valle, 26 dicembre 1819): all’inizio dell’opera il conte Don Fernando, accompagnato da «suonatori che accordano i loro strumenti», canta sotto un balcone una serenata rivolta all’innamorata, che però non si fa vedere; al che il conte, deluso, ordina al suo confidente di pagare i suonatori: situazione del tutto analoga all’introduzione del Barbiere (scena aggiunta rispetto a Beaumarchais). Come molti altri librettisti coevi, Sterbini non parafrasava soltanto sé stesso, ma anche Pietro Metastasio: nell’atto II, 4 il barone Don Eraclio canta l’aria buffa «Superba di sé stessa / andrà la cara figlia / portando in fronte impressa / scolpita fra le ciglia / la serie impareggiabile / de’ quarti nobilissimi / che a doppio in lei trasfondono / lo sposo ed il papà», evidente ricalco parodistico dell’aria di sortita di Megacle nell’Olimpiade, I, 2 («Superbo di me stesso / andrò portando in fronte / quel caro nome impresso / come mi sta nel cor»).
Il gabbamondo non ebbe fortuna, al pari del Finto molinaro ossia Il credulo deluso, «dramma giocoso», musica di Giovanni Tadolini (teatro Valle, 8 gennaio 1820), e di Isaura e Ricciardo, «dramma per musica» di Francesco Basili (teatro Argentina, 29 gennaio 1820).
Morì, celibe, il 19 gennaio 1831; fu sepolto in S. Maria in Vallicella (la chiesa Nuova).
Fonti e Bibl.: Cenni di una donna già cantante sopra il maestro Rossin, Bologna 1823; J. Ferretti, Sulla storia della poesia melodrammatica romana (1834), in La cronaca musicale, I (1896), pp. 234-236; G. Marocco, Monumenti dello Stato pontificio e relazione topografica di ogni paese, V, Lazio e sue memorie, Roma 1834, pp. 77 s.; F. Onorati, C. S., il librettista del ‘Barbiere di Siviglia’, in Lunario romano, XVIII, Eruditi e letterati del Lazio, a cura di R. Lefevre, Roma 1989, pp. 165-185 (alla p. 181 il facsimile di una biografia manoscritta anonima posseduta dagli eredi); G. Romani, I librettisti, in Il teatro di Rossini a Roma 1812-1821: debutti musiche artisti librettisti teatri, Gaeta 1992, pp. 119-130; G. Rossini, Lettere e documenti, I, a cura di B. Cagli - S. Ragni, Pesaro 1992, pp. 91-94; J. Ferretti, Alcune pagine della mia vita. Delle vicende della poesia melodrammatica in Roma. Memoria seconda, a cura di F.P. Russo, in Recercare, VIII (1996), pp. 157-194; A. Bini, «Insomma, mio signore, chi è lei si può sapere?». Note biografiche su C. S., poeta romano, in Bollettino del Centro rossiniano di studi, XXXVIII (1998), pp. 5-15; S. Franchi, Il nonno di Sterbini. Appunti per una biografia di Benedetto Micheli, musicista e librettista romano, in Bollettino del Centro rossiniano di studi, XLIII (2003), pp. 89-100; F. Rossi, «Quel ch’è padre, non è padre...». Lingua e stile dei libretti rossiniani, Roma 2005, ad ind.; S. Lamacchia, Il vero Figaro o sia il falso factotum. Riesame del ‘Barbiere’ di Rossini, Torino 2008, ad ind.; F.P. Russo, Una le paga tutte, in Torvaldo e Dorliska, Pesaro 2013, pp. XXX-XXXVIII.