Cesare Vivante
La figura di Cesare Vivante è emblematica testimonianza della dialettica fra società civile, società politica ed esperienza giuridica propria dell’Italia tra Otto e Novecento e destinata a crescere nella contrapposizione fra modelli individualistici e modelli collettivistici di sviluppo istituzionale. Essa, infatti, appare carica tanto di «un effettivo liberalismo», quanto di «un solidarismo sociale che guardava con simpatia all’ascesa delle classi proletarie» (Ascarelli 1960, p. 5). Sicché, nella filigrana dell’esperienza del giurista veneto è possibile vedere riflesse le molte stagioni attraversate dall’Italia dalla nascita delle istituzioni unitarie al tramonto dello Stato totalitario.
Cesare Vivante, nato a Venezia il 6 gennaio del 1855 da famiglia di origine ebrea e dedita al commercio, si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Padova. A ventisette anni vince il concorso per la cattedra di diritto commerciale all’Università di Parma con la monografia sulla Polizza di carico. Poi passa a Bologna, grazie agli studi dai quali scaturisce il Trattato sulle assicurazioni, che gli giova il premio dell’Accademia dei Lincei. L’insegnamento alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma gli è affidato, per chiara fama, nel 1898 e lo mantiene fino al raggiungimento dei limiti di età.
Notevole la sua partecipazione ad attività di carattere istituzionale. La più celebre è quella di presidente della Commissione per la riforma del Codice di commercio del 1882 istituita dal ministro Lodovico Mortara nel 1919, ma già precedentemente, nel 1910, era stato delegato dell’Italia alla Conferenza internazionale per l’unificazione del diritto cambiario; quattro anni dopo, membro della Commissione reale per la riforma del diritto cambiario e, nel 1916, aveva partecipato al Comitato italiano per un'alleanza legislativa fra le nazioni amiche.
Sul terreno del contributo allo sviluppo della scienza giuridica deve essere infine collocato l’impegno dedicato alla «Rivista del diritto commerciale», da lui fondata nel 1903 con Angelo Sraffa (che ne è condirettore) e della quale mantiene la direzione fino al febbraio del 1938 (Sraffa si era intanto spento un anno prima), quando è costretto a lasciare l’incarico in seguito all’entrata in vigore delle leggi razziali; nel Congedo, scritto per l’occasione e pubblicato sul volume 36 della rivista, indica in una «revisione necessaria della […] disciplina» le ragioni che lo inducono «a lasciare il compito di direttore a un gruppo di colleghi più giovani» (p. 2) che portano i nomi di Alberto Asquini, Giuseppe Valeri e Lorenzo Mossa; costoro, nel presentare La [loro] consegna ai lettori della rivista, dichiarano che l’assunzione dell’incarico avviene per volontà della casa editrice e manifestano la consapevolezza di quanto restino «legati alla Rivista il nome e l’insegnamento dei suoi Fondatori» (p. 3).
In effetti, ben si può dire che la «Rivista del diritto commerciale» debba essere annoverata fra le opere più importanti di Vivante, insieme al Trattato di diritto commerciale, il cui primo volume risale al 1893 ed ebbe cinque edizioni, e alle Istituzioni di diritto commerciale che ricevettero ben cinquantotto edizioni e numerose traduzioni. Accanto all’attività di insegnamento, che «fu la sua più spiccata vocazione», e a quella scientifica, Vivante svolge anche la professione forense, che rappresenta «il naturale completamento della sua missione di insegnante» (Asquini 1944, p. 112). La morte lo coglie a Siena il 5 maggio 1944.
Inevitabilmente celebrativa in considerazione della particolare sede editoriale in cui è inserita, eppure non meno significativa della stima elevatissima e generale sempre riscossa da Vivante è la presentazione de L’opera scientifica di Cesare Vivante, con la quale Alfredo Rocco apre gli Studi in onore del maestro, pubblicati a Roma nel 1931. Della parte conclusiva dell’intervento di Rocco un passaggio merita di essere qui riportato, a testimonianza della profonda coerenza fra l’esperienza dell’uomo e quella del giurista: «Quale è l’opera di Cesare Vivante: tutta nervi, solida, ma agile, fresca, profondamente onesta, tale è l’uomo» (Rocco 1931, p. XIX).
Gli anni Ottanta dell’Ottocento si aprono all’insegna di una spinta fortissima e quasi dirompente al rinnovamento degli studi di diritto, proveniente da una nuova generazione di giuristi, attratta da «quell’invadente positivismo filosofico che dalle scienze mediche e naturali era penetrato con facile conquista nelle scienze sociali» (Grossi 2000, p. 14). È la pretesa dello «sfrenato scientismo», allora dominante, di voler costruire una nuova visione dell’uomo e del mondo con il contributo di una «Scienza (con la maiuscola) […] chiamata a dare risposte a domande che fino a quel momento erano state dominio della filosofia» a essere al centro di una rivoluzione gnoseologica epocale. Non bisogna però dimenticare che, pur tuttavia, sul piano dell'esperienza pratica e quotidiana, appare
sempre più fruttuoso l'impiego delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie industriali nei processi di produzione e nell'estensione dei rapporti capitalistici dalla farbbrica 'a tutta intera l'organizzazione della società' (F. Migliorino, Ragione, probità, benevolenza. I miti borghesi di Angelo Majorana, in Il “giureconsulto della politica” Angelo Majorana e l’indirizzo sociologico del Diritto pubblico, a cura di G. Pace Gravina, 2011, p. 69).
Nel 1880 Vivante ha soltanto venticinque anni, ma forse è proprio la sensibilità tipica di quella giovanissima età unita a una formazione scientifica e professionale non comune ed eccezionalmente precoce (già l’anno prima l’«Archivio giuridico» ha pubblicato due suoi contributi dedicati al tema della polizza di carico e ai raccomandatari nella navigazione a vapore) che lo rende attento ai nuovi orientamenti scientifici. Sicché, quando, nel gennaio del 1888, egli legge la celebre prolusione bolognese Per un codice unico delle obbligazioni, le sue doti di commercialista sensibile al rinnovamento del metodo hanno già avuto modo di esercitarsi su materie, quali i trasporti marittimi, le assicurazioni e gli usi commerciali, che gli hanno consentito di approfondire acutamente le novità contenute nel nuovo Codice di commercio. La sua proposta di unificazione delle obbligazioni civili e di quelle commerciali è come un sasso gettato nelle acque sino ad allora chete delle tralatizie sicurezze del metodo esegetico; essa divide subito gli esponenti della nostra scienza giuridica in favorevoli e contrari alla proposta vivantiana, che ai secondi appariva come il voler mettere insieme il diavolo e l'acqua santa, tanto consolidata era la separazione tra Codice civile e Codice di commercio: la provocazione del giovane docente bolognese, infatti, «minacciava la purezza formale del primo confondendolo e inquinandolo con le materialità economiche del secondo» (Grossi 1988, p. 53).
Nella riflessione del 1888 compaiono già molti dei temi cari a Vivante. Una concezione rigorosa della dogmatica giuridica quale scienza destinata a fornire gli strumenti per la corretta valutazione della solidità del concetto di diritto impiegato dal legislatore o dall’interprete; il riconoscimento dell’inattualità di una visione del consorzio civile contrassegnata da superate barriere di classe e, viceversa, la necessità di operare per sviluppare un’unità di intenti capace di costruire la società moderna secondo criteri di profonda omogeneità e integrazione fra le sue diverse componenti; la spinta propulsiva che le forze del lavoro, organizzate solidaristicamente, sono in grado di fornire alla crescita della società nel suo complesso; e ancora soprattutto, ben salde, l’attenzione all’esperienza concreta del mondo economico e sociale e la sensibilità verso l’influenza innovativa che la pratica commerciale è in grado di esercitare sulla disciplina giuridica dei rapporti economici. Last but not least l’attenzione alla storia quale componente fondamentale per la valutazione dell’appropriatezza di un’architettura giuridica determinata.
Nella riflessione vivantiana quindi storia ed esperienza economica e sociale costituiscono strumenti basilari per una corretta ricostruzione dogmatica dei concetti giuridici, in quanto elementi in grado di fornire indicazioni essenziali per lo svolgimento dell’analisi critica degli istituti. Si tratta di un connotato che, già presente nella prolusione del 1888, sarà destinato a svilupparsi e a divenire elemento sistematico della riflessione matura del giurista veneziano.
È l’impostazione colta da Paolo Grossi (2000) nell’architettura del Trattato di diritto commerciale (il cui primo volume, è bene ricordarlo, appare nel 1893 per i tipi dell'editore Bocca ed è, dunque, di un Vivante non ancora quarantenne): «il giurista non deve mai dimenticare che il diritto è ordinamento del sociale e non può mai inaridirsi in un corpus iuris prestabilito. La metodologia vivantiana guarda alla vita; e proprio in forza di questo vitalismo guarda alla storia del passato che è vita interamente vissuta e che è in grado di esprimere un messaggio perfettamente compiuto, alla storia in atto, all’esperienza quotidiana che vive il presente ma che sta già presagendo il futuro e disegnando il futuro» (p. 53). Certamente, il Trattato rappresenta una testimonianza lucidissima e del tutto chiara del metodo che ispira l’attività scientifica di Vivante anche nella progressione delle diverse edizioni successive. L’insufficienza di un metodo di indagine che si limiti «a discutere la bontà delle dottrine e delle norme », o che impieghi in modo quasi esclusivo la giurisprudenza («Chi si contenta di quella fonte si espone a due guai: risolve questioni già dibattute in cui l'avvocato e il giudice trovano la strada già fatta, e non porge dell'istituto che un'esposizione frammentaria e asimmetrica») è sottolineata a chiare lettere nella Prefazione alla prima edizione (1893). In forma altrettanto esplicita vi compare il richiamo ai caratteri destinati a costituire le head lines dell’esposizione sistematica: «seguire il filo storico del[lo] svolgimento [dei vari istituti], spiegando poi ampiamente qual è la loro figura nel diritto del presente» e «studiare la pratica mercantile dominata com’è da grandi leggi economiche, facendo dello studio del diritto una scienza di osservazione» (pp. XI e segg.). La triangolazione esperienza, storia, disciplina giuridica trova, tuttavia, una sua ancora più lineare rappresentazione nella Prefazione alla quarta edizione (1911). L'indicazione del metodo assunto dall'autore si traduce in un preciso invito a un suo impiego quale generale criterio di investigazione giuridica:
È una slealtà scientifica, è un difetto di probità parlare di un istituto per fissarne la disciplina giuridica senza conoscerlo a fondo nella sua realtà. Se il diritto ha per iscopo di regolare gli effetti di un istituto, è evidente che lo studio pratico della sua natura deve precedere quello del diritto. Compiute queste indagini rei veritate, si segua per quanto è possibile la linea storica dell’istituto, sceverandolo dagli istituti affini, e si metta a profitto quella conoscenza pratica e storica per sottoporre ad una critica le fonti giuridiche, come le leggi, la giurisprudenza, le consuetudini (1° vol., 19114, p. VIII).
Esperienza e storia sono destinate, dunque, a fornire chiavi di lettura essenziali dell’articolazione giuridica di un istituto. Certamente la visione sistematica e organicista di Vivante la fa da padrona nella definizione del metodo di indagine scientifica, proposto ora, all’ingresso del secondo decennio del Novecento, come dinamismo strutturale dell’azione del giurista. Anche in questo caso, la Prolusione del 1888 presenta profili destinati a germogliare proficuamente nel tempo, là dove l’autore, a proposito della questione controversa dell’unificazione del diritto delle obbligazioni, sottolinea come non si tratti di «una semplice questione di simmetria e di eleganza legislativa: essa ha un’importanza essenziale pel valore scientifico del nostro diritto privato» (Per un codice unico delle obbligazioni, «Archivio giuridico», 1887, 39, p. 508). Ne scaturisce un’efficacissima ricostruzione della dialettica fra diritto civile e diritto commerciale, fra la forza sistematica del primo e il dinamismo vitale del secondo, che travalica il tema dell’unificazione per testimoniare la notevole capacità ricostruttiva dell’intima natura di entrambi, propria di Vivante.
Del richiamo metodologico alla storia e all’esperienza vale la pena di sottolineare la connotazione non empirica con cui il giurista veneziano impiega il termine esperienza, contributo personalissimo a una costruzione del discorso giuridico anomala rispetto ai modelli allora dominanti. Il punto di partenza è certamente l’osservazione dei fatti, il cui esame da parte del giurista richiede però una profondità di percezione scientifica essenziale per consentirne la valutazione non soltanto quale fenomeno che racchiude tutto il conoscibile limitando l’azione dell’interprete, ma anche quale dato in cui è circoscrivibile la natura, il significato di cui è portatore. Certifica efficacemente la distanza (quasi l’opposizione) fra metodo empirico e metodo esperienziale la presentazione del programma della «Rivista del diritto commerciale» (intitolata, appunto, Il nostro programma) firmata da Vivante e Sraffa all'atto del suo apparire, nel 1903, in cui si individuano le ragioni dell’impresa editoriale nel «fare una Rivista che pur studiando le benefiche influenze della storia e della tradizione, tenga il nostro sistema giuridico in continua comunicazione colle fresche correnti della vita, e in pari tempo lo semplifichi colla conquista di regole più generali e col loro logico coordinamento». Tale strategia (il passaggio è significativo) costituisce «Compito arduo, ma urgente in questo nostro tempo [che] va sostituendo l’empirismo più scettico allo sforzo di una costruzione sistematica fondata sull’esperienza». Nel confronto fra i due temperamenti, la formula appare forse più vicina alla sensibilità di Vivante che a quella di Sraffa. Il richiamo a un uso del termine esperienza senza la chiave di lettura empirista, allora generalmente impiegata, rappresentava un atto di coraggio intellettuale estremo. Né si tratta di un isolato colpo di mano metodologico: se ne può infatti trovare conferma nella coerenza della sottolineatura apparsa nella presentazione della «Rivista» con l’impostazione data da Vivante al sistema delle fonti commercialistiche, che consente al giurista di «scoprire la voce del diritto che viene su dalle cose» (Trattato di diritto commerciale, 1° vol., 19114, p. XII) e di attingere alla ‘natura dei fatti’ come a una fonte del diritto vigente.
Si tratta forse, per Vivante, dell’impiego di una chiave di lettura della realtà delle cose rigorosa e coerente con l’impostazione ‘socialista’ del suo pensiero, che pervade gli scritti della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento (Sbriccoli 1974-1975), in particolare il discorso inaugurale tenuto l'8 novembre 1902 all’Università di Roma dal titolo Le nuove influenze sociali nel diritto privato, pubblicato nello stesso anno in forma più sintetica su «Critica sociale» con il titolo La penetrazione del socialismo nel diritto privato, preceduto tre anni prima dalla prolusione su I difetti sociali del Codice di commercio. Nella riflessione condotta nel 1902, campeggia la solida convinzione che l’apparente dualismo tra individuo e società «si rivela sempre più come un monismo reale; […] l’individuo non esiste e non prospera se non esiste e non prospera la società». La solidarietà fra gli uomini appare perciò la nuova energia diffusa in ogni individuo e in ogni gruppo, destinata a riprodursi «in mille forme» all’interno delle diverse classi che compongono la società, sino a estendersi «nei paesi più progrediti anche fra le classi che si credevano condannate a un dissidio invincibile» (La penetrazione del socialismo nel diritto privato, p. 346).
Insomma, in Vivante è chiara la percezione di una società civile in grande movimento, desiderosa di dare concretezza storica all’insoddisfazione verso il carattere individualistico del modello costituzionale liberale, dominatore delle istituzioni europee sino a quel momento. Alle soglie del 20° sec., le nuove organizzazioni sociali (in questo, l'Italia non è da meno degli altri Paesi dell'Europa continentale) premono sulle istituzioni politiche per ottenere un adeguato riconoscimento del loro contributo all'edificazione di una convivenza civile che abbandoni il vecchio modello individualistico e ristabilisca la persona quale centro di un nuovo ordine giuridico, specchio della riconquistata dignità politica delle formazioni sociali.
Vivante è sensibilissimo a simili sollecitazioni; è partecipe con altri giuristi (si pensi al Santi Romano de Lo Stato moderno e la sua crisi, del 1909) della lettura positiva dei nuovi fenomeni di aggregazione sociale. Tuttavia, come per Romano, anche in Vivante il fiorire delle diverse forme di organizzazione sociale non induce a una ricostruzione in senso pluralistico dell’ordine costituzionale (benché il ruolo semantico ch egli attribuisce alla categoria dell'esperienza bene potrebbe indirizzarlo verso tale sviluppo del pensiero), ma lo sospinge piuttosto verso un semplice aggiornamento del modello costituzionale tradizionale. È la metamorfosi del liberismo che ancora una volta si afferma nella riflessione dei nostri giuristi per garantire il perpetuarsi di quel modello di convivenza civile. Infatti, «la energia di questi gruppi diviene talora così esorbitante che l’autorità suprema dello Stato deve infrenarla affinché col pretesto di difendersi non divenga soverchiatrice, dimenticando che al di sopra della solidarietà di classe sta la solidarietà di tutte le classi» (p. 346).
Come per Romano, anche per Vivante, dunque, vi è il timore se non di uno sgretolamento quanto meno di un indebolimento dello Stato, che deve invece assumere il ruolo di organizzazione superiore destinata ad armonizzare e coordinare quelle inferiori. Sul terreno del rilievo costituzionale delle organizzazione sociali, dunque, la riflessione vivantiana, anche quella della sua stagione socialista, non si distacca dall’orientamento organicista che ne aveva caratterizzato lo sviluppo. Ciò spiega perché l’influenza delle idee socialiste nel diritto privato finisca con il risolversi essenzialmente nel far sì che «la parola imperativa del legislatore [limiti] più sensibilmente la libertà dei contratti, per impedire gli abusi che il contraente più forte esercita sul contraente più debole» e per contrastare la pressione che la concentrazione del capitale esercita sui consumatori (p. 347).
È nella superiore e sintetica funzione regolatoria del diritto dello Stato che la generazione dei giuristi alla quale appartiene Vivante continua a fare affidamento, con il chiedere a essa di interloquire non più con l’individuo isolato, ma con le formazioni sociali che scaturiscono dall’iniziativa di costui. «Più tardi si comprenderà che questa visione organicista era il contrario del pluralismo» (Cassese 1987, p. 507) ed è, forse, all’interno di una maturata consapevolezza del limite insito nel carattere organicistico delle tesi da lui sviluppate con coerenza dal 1888 in avanti che può essere collocato il revirement sul disegno di unificazione del diritto delle obbligazioni, avvenuto in Vivante nel 1925. Entro simile prospettiva, è del tutto condivisibile il giudizio formulato da Tullio Ascarelli (1960), secondo il quale «Il limite della posizione vivantiana era forse quello stesso dell’Italia giolittiana» (p. 8). Quanto funesto sia stato per l’Italia il restare racchiusi in quel limite si sarebbe reso evidentissimo con il tragico epilogo totalitarista dell’esperienza politica liberale.
La polizza di carico, Milano 1881.
Gli usi mercantili, «Archivio giuridico», 1882, 29, pp. 234- 78.
Il contratto di assicurazione, Milano 1885-1890.
Per un codice unico delle obbligazioni (Prolusione al Corso di diritto commerciale letta nell'Università di Bologna), «Archivio giuridico», 1887, 39, pp. 497- 516.
Per un codice unico delle obbligazioni, «Monitore dei Tribunali», 1888, pp. 169- 76.
Istituzioni di diritto commerciale, Milano 1891.
L'agitazione per la riforma del codice di commercio, «Monitore dei Tribunali», 1891, pp. 829- 30.
Ancora per un codice unico delle obbligazioni, «Monitore dei Tribunali», 1892, pp. 749- 60.
L'emissione di obbligazioni, «Monitore dei Tribunali», 1893, pp. 421- 25.
Le società anonime, «Monitore dei Tribunali», 1893, pp. 601-03.
Trattato di diritto commerciale, Torino 1893-1901.
Le nuove influenze sociali nello studio del diritto commerciale, «Monitore dei Tribunali», 1894, pp. 729-31.
La riforma delle società commerciali, «Monitore dei Tribunali», 1895, pp. 321-22.
La riforma delle società commerciali, «Riforma sociale», 1895, 3, pp. 811-14.
Ancora intorno alla riforma delle società per azioni, «Monitore dei Tribunali», 1895, pp. 361-62.
I difetti sociali del codice di commercio, «Monitore dei Tribunali», s. II, 1899, 2, pp. 341-45.
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I così detti «atti accessori di commercio», «Rivista del diritto commerciale», 1906, 1, pp. 1-8.
Questioni controverse sulle società anonime, «Monitore dei Tribunali», s. II, 1912, 15, pp. 921-26.
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La difesa nazionale delle società per azioni, «Rivista del diritto commerciale», 1916, 1, pp. 637-47.
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Sul risanamento delle società anonime, «Rivista del diritto commerciale», 1917, 1, pp. 59-70.
La partecipazione dei lavoratori agli utili delle società per azioni, «Rivista del diritto commerciale», 1918, 1, pp. 258-68.
La riforma del codice di commercio e le sue ragioni, «Monitore dei Tribunali», s. II, 1923, 26, pp. 3-4;
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L'autonomia del diritto commerciale e i progetti di riforma, «Rivista del diritto commerciale», 1925, I, pp. 572-76.
L'autonomia del diritto commerciale e i progetti di riforma, «Monitore dei Tribunali», s. III, 1926, 3, pp. 281-83.
La proprietà commerciale della clientela, «Rivista del diritto commerciale», 1928, I, pp. 493-506.
Ancora della clientela, «Rivista del diritto commerciale», 1930, I, pp. 1-5.
Di alcune novità in materia di consuetudini commerciali sotto l'influenza del grande commercio, «Monitore dei Tribunali», s. III, 1931, 8, pp. 561-63.
Per la riforma delle anonime, «Rivista del diritto commerciale», 1935, 1, pp. 497-501.
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