ZAVATTINI, Cesare
– Nacque a Luzzara (Reggio nell’Emilia) il 20 settembre 1902, figlio di Arturo, pasticciere, e di Ida Giovanardi, che proveniva da una famiglia di fornai.
Primo di cinque figli, il padre e la madre, che gestivano a Luzzara dapprima un elegante caffè e poi, in seguito a un dissesto economico, un’osteria, lo mandarono a frequentare le scuole elementari a Bergamo, dove rimase fino al completamento degli studi ginnasiali presso la scuola Paolo Sarpi. Nel 1917 si trasferì a Roma per frequentare il liceo classico Umberto I, mentre i genitori gestivano a Segni la mensa dell’industria chimica e bellica Bomprini Parodi Delfino. A Roma Zavattini frequentò teatri di varietà, di lirica e di prosa, collezionando tante assenze scolastiche da venire bocciato. Venne dunque iscritto al liceo Conti Gentili di Alatri, dove rimase per tre anni piuttosto turbolenti. Nel 1921, una volta tornato a Luzzara dopo la licenza liceale, si innamorò di Olga Berni, giovane del paese, che sposò nel 1931 e da cui ebbe tre figli: Mario (n. 1925), Arturo (n. 1930), Marco (n. 1934) e Milli (n. 1940).
A causa delle difficili condizioni economiche, la famiglia vendette il locale di Luzzara e Zavattini divenne istitutore al collegio Maria Luigia di Parma, dove si iscrisse alla facoltà di legge dando quattordici esami senza tuttavia completare gli studi. Con alcuni allievi del collegio – tra cui Attilio Bertolucci, Giovanni Guareschi, Ugo Betti, Pietro Bianchi – Zavattini strinse una forte amicizia, fondando il suo primo giornale umoristico clandestino. Con Bianchi e Bertolucci poté assistere alla proiezione del film La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, uscendone entusiasta. In questi anni dette inizio all’attività di scrittore e giornalista, collaborando con la Gazzetta di Parma, di cui divenne redattore della pagina culturale lasciando il lavoro al collegio, e poi con il quotidiano Tevere, il settimanale Il caffè e La Fiera letteraria. Quando, nel 1928, la Gazzetta confluì nel Corriere emiliano per volontà del regimefascista, Zavattini partì per il servizio militare raggiungendo Firenze, dove si legò al gruppo della rivista Solaria (tra i cui animatori vi era anche Eugenio Montale), in cui pubblicò vari racconti.
Nel 1930 – anno della morte del padre, affetto da cirrosi epatica –, grazie a Valentino Bompiani Zavattini pubblicò il primo libro, Parliamo tanto di me, che si rivelò un grandissimo successo sia di pubblico sia di critica: Massimo Bontempelli, Luigi Pirandello, Benedetto Croce scrissero all’autore complimentandosi.
Si trasferì dunque con la sua compagna e il figlio a Milano, lavorando presso Rizzoli come correttore di bozze; tuttavia, nonostante il successo del libro, continuò a versare in una situazione economica disagiata per diversi anni, finché Rizzoli non gli affidò alcuni giornali che ottennero buoni risultati. Nel 1936, dopo un contrasto con Rizzoli a causa della sua iscrizione al Sindacato dei giornalisti, Zavattini passò a lavorare presso Mondadori, dove portò a un clamoroso successo il settimanale Le grandi firme (di cui, però, Benito Mussolini nel 1938 decretò la chiusura giacché non sufficientemente schierato); nel 1933, per convenienza e non per convinzione, Zavattini si era comunque iscritto al Partito nazionale fascista (PNF).
Furono anni di intensa attività, in cui si evidenziarono brillante eclettismo e generosa versatilità: Zavattini scriveva articoli, rubriche sui giornali, critiche teatrali e cinematografiche, storie per fumetti e, sempre per Bompiani, pubblicò il suo secondo romanzo, I poveri sono matti (Milano 1937), recensito molto positivamente da Giovanni Papini. Durante un soggiorno di riposo in montagna, iniziò inoltre a dipingere, raggiungendo presto una certa notorietà anche come pittore.
In questo stesso periodo cominciò la sua attività di soggettista cinematografico, con Buoni per un giorno, diretto da Mario Camerini e interpretato da Vittorio De Sica, al tempo giovane attore di prosa che nel 1939 comprò a Zavattini il soggetto del film Diamo a tutti un cavallo a dondolo, primo atto di una lunga collaborazione. Sul finire dello stesso anno Zavattini si dimise dalla carica di direttore editoriale e si trasferì a Roma, dapprima da solo in una camera in affitto e poi, dall’anno successivo, con la famiglia in via di Sant’Angela Merici n. 40, nella casa dove risiedette per tutta la vita e che vide passare molte personalità tra le più importanti della cultura italiana di quegli anni.
All’inizio del decennio uscì la raccolta di racconti Io sono il diavolo (Milano 1941), cui fece seguito il romanzo Totò il buono (Milano 1943), cofirmato con Antonio de Curtis, da cui Zavattini avrebbe voluto trarre un film da dirigere in prima persona interpretato appunto da Totò, e che gli valse l’accusa di ‘socialistoide’.
Pur continuando la sua intensa attività di scrittore di narrativa, gli anni Quaranta a Roma furono caratterizzati soprattutto dall’impegno cinematografico: nel 1940 Zavattini creò infatti l’organizzazione Autori associati al fine di produrre soggetti e sceneggiature liberi, in grado di elevare la qualità del cinema italiano.
Nel 1941, insieme con Piero Tellini e Aldo De Benedetti (che non poté comparire nei titoli di testa a causa delle leggi razziali), scrisse il soggetto di Quattro passi tra le nuvole di Alessandro Blasetti, film nel quale molti storici del cinema individuano in embrione gli stilemi del neorealismo. La collaborazione con Blasetti, che in più occasioni manifestò pubblicamente la sua stima e il suo affetto per Zavattini, continuò poi con altre opere, tra le quali Prima comunione (1951), film premiato in Italia e all’estero e molto apprezzato dalla critica, rispetto al quale invece Zavattini si dichiarò non pienamente soddisfatto.
Fu nell’ambito del sodalizio con De Sica che nacquero, tuttavia, i capolavori che cambiarono la storia del cinema. Dopo la partecipazione ‘clandestina’ alla sceneggiatura di Teresa Venerdì (1942), con I bambini ci guardano (1944, trasposizione del romanzo Pricò di Giulio Cesare Viola), la collaborazione con il regista divenne sistematica. Era stato proprio De Sica, nel 1943 a richiamarlo a Roma da Boville, dove Zavattini si era rifugiato con la famiglia durante la guerra, per lavorare a La porta del cielo (1944), condotto a termine a Roma in piena occupazione tedesca, in mezzo a enormi difficoltà. Furono queste esperienze a convincere Zavattini che il cinema dovesse svolgere un ruolo utile per la società e l’essere umano. Nel 1944, nel corso di un’animata assemblea dei protagonisti della cinematografia italiana, Zavattini invitò i colleghi ad andare oltre le forme tradizionali di racconto, verso un cinema diretto, in contatto con la vita nel suo svolgersi, configurando il nucleo teorico del neorealismo, ma anche il paradosso di un autore per cui il cinema rimase soprattutto scrittura e che tuttavia della letterarietà, voleva liberarsi.
A partire dal secondo dopoguerra uscirono dunque una serie di film con soggetto e sceneggiatura di Zavattini (in collaborazione o da solo) e diretti da De Sica, che crearono un canone e uno stile, furono discussi dai critici e pluripremiati, mentre il loro autore provava un’avversione sempre più forte verso l’ambiente cinematografico. La frustrazione era anche dovuta al fatto di non riuscire nel frattempo a concretizzare le sue idee da scrittore. Nel 1946 uscì Sciuscià, di cui Zavattini scrisse da solo il soggetto e la sceneggiatura, e che racconta senza pietismi l’Italia del dopoguerra attraverso le vicende tragiche di due ragazzi lustrascarpe. Il film ricevette un Oscar speciale, in onore dello spirito creativo di un Paese come l’Italia che usciva devastato dalla guerra. Ancora la Roma del dopoguerra è al centro di Ladri di biciclette (1948, trasposizione libera dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini), della cui sceneggiatura il critico francese André Bazin scrisse che era di una «abilità diabolica», insieme «aneddotica e rigorosa» (A. Bazin, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione, in Id., Che cosa è il cinema?, presentazione, scelta dei testi e traduzione di A. Aprà, Milano 1999, p. 307). Il film, che racconta la storia di un operaio cui viene rubata la bicicletta che gli è indispensabile per lavorare e che viene costretto a rubarla a sua volta, vinse l’Oscar come miglior film straniero e numerosi altri premi, tra cui il Nastro d’argento per soggetto e sceneggiatura, rimanendo una sorta di modello ideale del neorealismo sul quale sono stati scritti, come è stato detto, «chili di letteratura» (J. Aumont - M. Marie, L’analisi dei film, Roma 1996, p. 89).
Nei primi anni Cinquanta la collaborazione con De Sica continuò con Miracolo a Milano (1951), tratto dal romanzo di Zavattini Totò il buono, film che sorprese e non accontentò molti fautori del neorealismo a causa del suo taglio fantastico, ma che fu insignito comunque di vari premi tra cui la Palma d’oro al festival di Cannes. Nel 1952 uscì Umberto D., storia di un anziano pensionato ridotto in miseria, unico film la cui sceneggiatura fu pubblicata con l’approvazione di Zavattini e che rappresenta forse la più chiara espressione delle sue idee sul cinema. Ancora per De Sica, nel corso del decennio Zavattini scrisse Stazione Termini (1952), L’oro di Napoli (1954, trasposizione dal romanzo omonimo di Giuseppe Marotta) e Il tetto (1956).
In questi stessi anni Zavattini continuò tuttavia a interrogarsi sulla possibilità paradossale di un’attività letteraria e cinematografica che potesse eliminare ogni confine tra arte ed esistenza: su Epoca, la rivista edita da Mondadori, aprì un dialogo diretto con i lettori nella rubrica «Italia domanda»; nel 1953 venne pubblicato il progetto mai realizzato Italia mia, film che avrebbe dovuto cogliere i fatti nel momento del loro accadere durante un viaggio in Italia di tre mesi. La stessa insofferenza nei confronti del cinema come fabbrica di illusioni è al centro del soggetto zavattiniano di Bellissima (1951), diretto da Luchino Visconti, storia di una madre (interpretata da Anna Magnani) che spinge la figlia a entrare nel mondo dello spettacolo, per poi pentirsene di fronte al cinismo imperante.
Si possono annoverare tra le aspirazioni zavattiniane a promuovere un cinema diverso, che vuole comprendere il reale nella sua quotidianità, i film inchiesta e i documentari di questi anni da lui promossi: Roma ore 11 (1952), diretto da Giuseppe De Santis, prende spunto da un fatto di cronaca per raccontare la vita delle giovani donne negli anni Cinquanta; Siamo donne (1953), film collettivo diretto da Gianni Franciolini, Roberto Rossellini, Luigi Zampa e Visconti, propone un’indagine sul quotidiano di quattro dive che interpretano se stesse come Alida Valli, Ingrid Bergman, Isa Miranda e Magnani; Amore in città (1953) realizza il ‘pedinamento’ della realtà auspicato da Zavattini in sei capitoli, incentrati sulle vicende di persone comuni, che vennero affidati a Carlo Lizzani, Dino Risi, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Francesco Maselli e Alberto Lattuada.
Gli anni Cinquanta sono anche anni di impegno civile e di grandi riconoscimenti: nel 1953 Zavattini venne eletto presidente della Federazione italiana circoli del cinema (FICC); nel 1955 gli fu conferito il Premio mondiale per la pace, i cui proventi furono devoluti al Ricovero dei vecchi di Luzzara; nel 1957 promosse la Conferenza economica del cinema italiano, per riflettere sulla necessità di nuove leggi; nel 1959 fu insignito, insieme a René Clair, con la medaglia d’oro per i benemeriti del cinema.
Parallelamente Zavattini sviluppava e divulgava la sua elaborazione teorica sul cinema, che influenzò gli autori – non soltanto italiani – delle generazioni successive. Tali idee furono presentate nel 1953 al Convegno sul neorealismo di Parma nella relazione Il neorealismo secondo me, ma traspaiono anche dalle pagine del suo quarto libro, Ipocrita 1943 (Milano 1953 e 1955), uno «spogliarello dell’anima» (G. Vicari, Zavattini non crede più ai buoni, in La Settimana Incom illustrata, 14 gennaio 1956) in cui Zavattini confessa le sue stesse contraddizioni di autore. Il decennio si chiuse con il suo viaggio a Cuba, invitato dall’Istituto cubano d’arte e industria cinematografica, dove scrisse alcuni soggetti e sceneggiature collaborando con giovani registi del posto.
Nonostante avesse lavorato con la maggior parte dei più rinomati cineasti italiani (oltre a quelli già citati, si ricordino Luciano Emmer, Pietro Germi, Mario Monicelli, Raffaello Matarazzo, Mario Mattoli, Carlo Ludovico Bragaglia, Mario Bonnard, Vittorio Cottafavi), anche negli anni Sessanta furono soprattutto i film scritti per De Sica quelli destinati a rimanere nell’immaginario collettivo.
Zavattini lavorò infatti alla sceneggiatura del film La ciociara (1960; tratto dal romanzo di Alberto Moravia) e firmò il terzo episodio di Ieri, oggi, domani (1963), passato alla storia per la scena dello spogliarello di Sophia Loren, bellissima prostituta che riceve i clienti nella sua casa nel centro di Roma. Scrisse inoltre la sceneggiatura di Il giudizio universale (1961), film a episodi girato a Napoli che, nonostante un cast straordinario, ebbe un’accoglienza tiepida di cui Zavattini si rammaricò molto, così come dello scarso successo di quello che considerava un buon film, Il boom (1968), con Alberto Sordi. Nel 1962 aveva firmato l’episodio girato da De Sica del film Boccaccio ’70, dal titolo La riffa. Tra le ultime collaborazioni da ricordare, con De Sica, la commedia dai toni amari Lo chiameremo Andrea (1972), con Mariangela Melato e Nino Manfredi.
Accanto al cinema di fiction e ad alcune esperienze di scrittura teatrale (il suo «monologo in due tempi» Come nasce un soggetto cinematografico, pubblicato per Bompiani nel 1959, andò in scena nel 1966 anche in Germania, Francia e Svizzera), Zavattini continuò inoltre ad approfondire il cinema di inchiesta, progettando nel 1962 un interessante film dedicato alla tematica femminile, Le italiane e l’amore, mentre nell’innovativo I misteri di Roma (1963) seguì la vita degli abitanti della capitale – pendolari, braccianti, casalinghe – nell’arco di una giornata. Nel frattempo, continuava il suo impegno pratico a favore del settore cinematografico e dei suoi professionisti: nel 1968 a Venezia, insieme con Pier Paolo Pasolini, Marco Ferreri e altri, occupò la sala Volpi per esigere una maggiore partecipazione degli autori nella gestione della Mostra internazionale del cinema.
Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, Zavattini produsse numerosi scritti di vario tipo, ulteriore testimonianza della sua straordinaria ecletticità. Per All’insegna del pesce d’oro di Giovanni Scheiwiller pubblicò il poemetto Toni Ligabue (Milano 1967; nuova ed., Milano 1974), una biografia in versi del pittore Antonio Ligabue (da cui poi ricavò il soggetto di un film per la televisione in tre puntate, andato in onda su Rai Uno nel 1973); seguì, per Bompiani, Non libro più disco (Milano 1970), scritto fuori formato, un po’ saggio, un po’ romanzo, un po’ invettiva contro il bello stile. Nel 1973 si cimentò con la poesia in dialetto, mentre, oltre ai testi del volume fotografico di Gianni Berengo Gardin su Luzzara (Un paese vent’anni dopo, Torino 1976), scrisse il saggio narrativo La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini (Milano 1976). Nel 1979 uscì, inoltre, la raccolta dei suoi scritti cinematografici Neorealismo ecc. (Milano), curata da Mino Argentieri, e l’anno successivo la lunga conversazione, a cura di Silvana Cirillo, Zavattini parla di Zavattini (introduzione di W. Pedullà, Cosenza 1980).
Continuò a ricevere incarichi e premi: nel 1969 fu eletto presidente dell’Associazione nazionale autori cinematografici (ANAC), nel 1971 successe a John Grierson nella carica di presidente onorario dell’Associazione internazionale documentaristi (AID), nel 1977 venne premiato dall’associazione Scrittori di cinema americani, mentre nel 1979 fu insignito del premio Flaiano. I riconoscimenti proseguirono per tutti gli anni Ottanta: da ricordare lo speciale Leone d’oro per i cinquant’anni della Biennale di Venezia (1982), il premio Alcide De Gasperi per il cinema, consegnato alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini (1984) e il premio Rossellini della Biennale di Venezia (1988).
Morì, nella sua casa di Roma, il 13 ottobre 1989.
Il 5 gennaio del 1982 era intanto andato in onda su Rai Due La veritaaaà, film scritto, diretto e interpretato da Zavattini, qui nei panni di Antonio il pazzo che, fuggendo dal manicomio per le strade di Roma, pronuncia un apologo – solo apparentemente insensato – in cui esprime il pensiero e la poetica di tutta una vita. In una delle note al film, suo unico esperimento di regia, Zavattini ironizzava sulla sua età e parlava di sé come di un «crocevia senza vigile, dove le idee vanno e vengono», dando conto ancora una volta della sua originalità e vivacità intellettuale e del suo tenace interrogarsi sull’attività di scrittore e sul suo pubblico: «Scrivo da oggi il ‘diario di un arteriosclerotico’. Chissà, con i suoi salti, i suoi vuoti, i suoi disordini, le sue sconnessioni, potrà suggerirmi quella pagina, quella scena che non ho saputo fare, non soltanto per la mia personale impotenza, ma anche per la vostra» (cit. in Gargiulo, 2010, p. 200).
Opere. Data l’impossibilità di dare conto della vasta opera di Zavattini, si rimanda alla bibliografia redatta da Carmen B. Gentili nel primo volume di Cesare Zavattini: una vita in mostra, I-II, Bologna 1998 [ma 1997] (catal., Reggio nell’Emilia); e al lavoro di Michela Carpi in C. Zavattini, Opere, a cura di V. Fortichiari - S. Cirillo, introduzione di V. Cerami, Milano 2005, che raccoglie una filmografia in ordine cronologico e una bibliografia.
Fonti e Bibl.: L’Archivio di Zavattini, comprendente epistolari, manoscritti, dattiloscritti, fotografie, registrazioni sonore e video, è stato acquisito dall’Amministrazione comunale di Reggio nell’Emilia e per essa dalla Biblioteca Panizzi. Se ne può consultare il catalogo sul sito www.cesarezavattini.it.
Data la vastità della letteratura su Zavattini, si propone qui solo una bibliografia essenziale dei testi più recenti: M. Carpi, C. Z. direttore editoriale, Reggio Emilia 2002; C. Jandelli, La scena pensante: Z. fra teatro e cinema, Roma 2002; C. Z. tra letteratura, cinema, pittura (catal., Latina), a cura di L. Palumbo Scalzi, Marigliano 2005; S. Parigi, Fisiologia dell’immagine. Il pensiero di C. Z., Milano 2006; I giovani di Za. Il mondo ed il cinema di C. Z. Conversazioni e pensieri, a cura di C. Coppetelli - G. Giraud, Genova 2006; Un archivio dell’arte: C. Z. e la pittura, a cura di G. Boccolari - O. Piraccini, Bologna 2009; G. Gambetti, Z. mago e tecnico, Roma 2009; G. De Santi, Z. e la radio, Roma 2009; M.L. Gargiulo, C. Z., Roma 2010; A.C. Maccari, Z. ha le antenne: pensieri sulla televisione, Roma 2010; S. Cirillo, Za, l’immortale: centodieci anni di C. Z., Roma 2013; G. De Santi, Ritratto di Z. scrittore, Reggio Emilia 2014.