Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per la sua visione del mondo Baudelaire viene considerato il “Dante di un’epoca decaduta”, mentre la sua concezione della poesia pura e consapevole ne fa il maestro di Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Valéry. Con la sua arte della dissonanza Baudelaire diviene il fondatore della poesia moderna e Les fleurs du mal rappresenta il capolavoro che ha suscitato, in Francia e nel mondo, una trasformazione radicale del fare poetico.
Le origini e la vocazione poetica
Charles Baudelaire nasce a Parigi il 9 aprile 1821. Il padre, François, appartiene alla piccola borghesia terriera: prete sotto la Rivoluzione francese, frequenta i philosophes, rinuncia all’abito sacerdotale e diviene funzionario e pittore dilettante; a sessant’anni sposa in seconde nozze Caroline Dufaÿs, un’orfana ventiseienne. Meno di un anno dopo la morte del marito (1827) Caroline sposa un militare di carriera, Jacques Aupick, con il quale Charles – che vede nelle seconde nozze della madre un tradimento – avrà da subito rapporti difficili.
Dopo gli studi secondari, nel corso dei quali già si affermano il suo spirito ribelle e la passione per le arti e la poesia, Baudelaire si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma trascura gli studi per vivere a suo capriccio stringendo le prime relazioni artistiche e amorose.
La vita del giovane Baudelaire appare pericolosamente dissipata agli occhi della madre e del patrigno, ora generale, e per riportarlo sulla retta via, la famiglia, riunita in consiglio, decide di allontanarlo da Parigi: nel giugno del 1841 Baudelaire si imbarca su una nave diretta a Calcutta, sulla rotta che tocca le isole Mauritius e Bourbon. Il viaggio tuttavia non produce gli effetti desiderati: il comandante cui il giovane è stato affidato osserva che è “troppo tardi per sperare di indurre il signor Baudelaire a rinunciare alla sua passione esclusiva per la letteratura”. Giunto alle Mauritius, in preda a una profonda crisi di nostalgia, Baudelaire rifiuta di proseguire il viaggio e rientra a Parigi nel febbraio dell’anno successivo.
Da quel viaggio maledetto e umiliante, il poeta riporterà alcuni ricordi luminosi e il sogno di un paradiso lontano che, per alimentare la sua immaginazione, dovrà rimanere appunto tale. Poco dopo il rientro, Baudelaire incontra Jeanne Duval, la mulatta che ispirerà la sua poesia, e una volta raggiunta la maggiore età entra in possesso dell’eredità paterna. Deciso a vivere una vita fuori da ogni tutela, dichiara alla famiglia la sua volontà di "farsi autore".
Nei due anni successivi, tra il 1842 e il 1844, Baudelaire fa il suo ingresso in letteratura e nel contempo dilapida metà del suo patrimonio. Frequenta Sainte-Beuve, Banville, Nerval, Gautier, compone poesie che figureranno nei Fleurs du mal, mantiene Jeanne, si atteggia a dandy, compra quadri, oggetti d’arte, libri preziosi e finisce per subire l’umiliazione di un nuovo consiglio di famiglia (settembre 1844), che gli toglie la gestione autonoma dei suoi beni: per tutta la vita dovrà rivolgersi al notaio Ancelle per ottenere qualsiasi somma, anche minima.
Già a quell’epoca il destino di Baudelaire è segnato: non smetterà più di lottare contro l’indignazione della famiglia, l’incomprensione della madre, la miseria cronica e la malattia; i primi sintomi di una sifilide contratta tra il 1841 e il 1842 cominciano già a tormentarlo. Di questi tempi la malattia viene curata con il mercurio, i cui effetti devastanti si leniscono con l’oppio: questo "trattamento", unito all’uso di alcool e altre droghe, mina irrimediabilmente la salute del poeta.
Il maledetto
Il contesto esistenziale nel quale Baudelaire elabora la sua opera è profondamente segnato dalla sofferenza: una sofferenza inflitta dalla stupidità di una società puritana e avida, dall’incommensurabile distanza che separa il poeta da una madre adorata, ma devota a un altro uomo e ai valori conservatori che egli rappresenta; una sofferenza causata infine dalla malattia che incide pesantemente sulle sue difficoltà di scrittore, sulla sua tendenza al rinviare (lascia molti progetti incompiuti o appena abbozzati), sull’angoscia del nulla e della perdita di sé, cui lo stesso Baudelaire dà il nome di spleen, e che trova il suo esito ultimo in un desiderio di annientamento che arriverà sino al tentativo di suicidio del 1845. Si può dire che, lungi dall’essere la fonte della sua creazione, questa sofferenza ne costituisce lo sfondo, e Baudelaire, come testimonia la corrispondenza, dovrà lottare contro di essa per costruire la sua opera nei 22 anni che gli restano da vivere.
Charles Baudelaire
Spleen III
Sono come il re d’un paese piovoso, ricco ma impotente, giovane e vecchissimo, che disprezzando gli inchini dei maestri s’annoia coi suoi cani come con ogni altro animale. Nulla può allietarlo, né la caccia, né il falcone, né il popolo agonizzante sotto il suo balcone. Neppure la grottesca ballata del buffone favorito riesce più a distrarre la fronte di questo malato crudele. Il suo letto a fiordalisi si trasforma in sepolcro, e le dame del seguito, per le quali ogni principe è bello, non sanno più inventare quali impudichi abbigliamenti capaci di cavare un sorriso a quel giovane scheletro. Il sapiente che gli fabbrica l’oro non ha mai saputo estirpare la corruzione dal suo essere; e in quei bagni di sangue che abbiamo ereditato dai romani e a cui i potenti, invecchiati, sono soliti ricorrere, egli non ha saputo riscaldare il cadavere ebete in cui non sangue scorre, ma verde acqua di Lete.
Testo originale:
Je suis comme le roi d’un pays pluvieux,
Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très-vieux,
Qui, de ses précepteurs méprisant les courbettes,
S’ennuie avec ses chiens comme avec d’autres bêtes.
Rien ne peut l’égayer, ni gibier, ni faucon,
Ni son peuple mourant en face du balcon.
Du bouffon favori la grotesque ballade
Ne distrait plus le front de ce cruel malade;
Son lit fleurdelisé se transforme en tombeau,
Et les dames d’atour, pour qui tout prince est beau,
Ne savent plus trouver d’impudique toilette
Pour tirer un souris de ce jeune squelette.
Le savant qui lui fait de l’or n’a jamais pu
De son être extirper l’élément corrompu,
Et dans ces bains de sang qui des Romains nous viennent,
Et dont sur leurs vieux jours les puissants se souviennent,
Il n’a su réchauffer ce cadavre hébété
Où coule au lieu de sang l’eau verte du Léthé.
Charles Baudelaire, I fiori del male, intr. di G. Macchia, versione in prosa di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1995
A partire dal 1844 Baudelaire pubblica regolarmente poesie su varie riviste, saggi sull’arte (sui Salons degli anni 1845, 1846 e 1859), un racconto (La Fanfarlo, 1847) e alcune traduzioni da Poe. Intorno al 1847 aderisce alle idee socialiste, partecipando con entusiasmo ai moti del 1848, ma il colpo di stato del 1851 gli toglie ogni interesse per la politica. Non è un rivoluzionario, ma un individualista in rivolta permanente contro le “belve feroci della proprietà”, il moralismo, il progresso, tutti i valori di “un mondo in cui l’azione non è sorella al sogno”, bensì il braccio armato di interessi utilitaristi.
Da quel momento, Edgar Allan Poe e Joseph de Maistre – una scoperta di quegli anni – saranno i suoi soli "maestri di pensiero".
Nel 1852, anno in cui pubblica il suo famoso studio sull’opera di Edgar Allan Poe, Baudelaire tenta di sedurre Madame Sabatiero, che ispirerà alcune delle poesie più belle dei Fleurs du mal e rappresenterà nell’immaginario del poeta il polo dell’amore sublime e mistico, corrispondente alla ricerca del Bello ideale. Jeanne occupa invece il polo dell’amore carnale, che può essere affascinante e diabolico, ma anche nettamente sadico e mortifero e, in quanto tale, corrisponde al richiamo del baratro e dell’autodistruzione.
Les fleurs du mal
Il 1857 è un anno fondamentale per Baudelaire: muore il generale Aupick e, pochi mesi dopo, appare la raccolta più volte annunciata con titoli diversi: Les fleurs du mal. Ma non è la via della gloria che si apre per Baudelaire, bensì un nuovo calvario: il processo ai Fleurs rivela a Baudelaire quanto atroce sia la "stupidità" che lo circonda, tanto da indurlo a rinunciare a ogni difesa personale di fronte alla “spaventosa inutilità di spiegare alcunché a chicchessia”.
Nel 1860 appaiono I paradisi artificiali e, nel 1861, insieme al celebre articolo su Wagner, la seconda edizione dei Fleurs du mal, che non comprende i sei componimenti condannati (pubblicati nelle Epaves, del 1866), ma è arricchita da nuove poesie, tra cui Le voyage, che chiude la raccolta nel segno della morte e del suo richiamo.
In quello stesso anno Baudelaire progetta di scrivere un libro di confessioni, Il mio cuore messo a nudo, che, per quanto rimasto allo stato di frammento (1887), rivela la complessità dell’anima del poeta, l’abisso di sofferenza in cui precipita, l’angoscia di morte che pesa su di lui dal primo lieve attacco del 1860 a quello, assai più grave, del 1862: quel “singolare avvertimento” in cui egli dice di aver sentito frusciare su di sé “l’ala dell’imbecillità”.
Dopo la pubblicazione nel 1863 di due saggi magistrali e decisivi per la definizione della modernità – La vie et l’oeuvre d’Eugène Delacroix e Le peintre de la vie moderne – Baudelaire, esasperato dall’ottusità reazionaria del Secondo Impero e più che mai perseguitato dai creditori, parte per Bruxelles (aprile 1864), dove spera di trovare una buona accoglienza, anche in termini finanziari. La delusione è amara già all’arrivo, e ben presto il Belgio diviene ai suoi occhi l’emblema della decadenza morale e intellettuale dei contemporanei. Quando fustiga il Belgio con le sue selvagge invettive ( Pauvre Belgique, 1865-1866), è soprattutto alla Francia e a Parigi che Baudelaire pensa.
Durante tutto il 1865, il poeta soffre di disturbi sempre più gravi, sino alla caduta di cui è vittima a metà marzo del 1866, in una chiesa di Namur. Il 23 è colto da emiplegia e il 31, giorno in cui "Le Parnasse contemporain" pubblica le Nouvelles Fleurs du mal, Baudelaire è afasico e ormai solo un’ombra.Ricondotto a Parigi dalla madre, entra in una casa di cura, dove morirà dopo un anno di agonia il 31 agosto 1867, senza aver recuperato la parola.
Baudelaire eredita dai romantici la visione super-naturalista di un mondo "doppio", ma per lui il cielo è chiuso, inaccessibile. L’ascesi verso la rivelazione, la voyance, non può più aver luogo e soltanto il reale si dà alla conoscenza: un universo decaduto, finito, "atroce" che il tempo – “nero assassino della Vita e dell’Arte” – pone sotto il segno della malattia e della morte. Il Bello e il Bene sono desiderati in quanto assenti da questo mondo, l’unico luogo assegnato al poeta che sa di collocarsi in esso come straniero, maledetto, infermo come l’albatro sul ponte della nave.
Charles Baudelaire
L’albatros
Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri,
grandi uccelli marini che seguono, indolenti compagni di
viaggio, il bastimento scivolante sopra gli abissi amari.
Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell’azzurro,
goffi e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi
le grandi, candide ali, quasi fossero remi.
Com’è intrigato, incapace, questo viaggiatore alato! Lui,
poco addietro così bello, com’è brutto e ridicolo. Qualcuno
irrita il suo becco con una pipa mentre un altro,
zoppicando, mima l’infermo che prima volava.
E il Poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere,
assomiglia in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra,
fra gli scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare
di un passo.
Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.
A peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!
Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante le tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.
Charles Baudelaire, I fiori del male, introduz. di G. Macchia, versione in prosa di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1995
È innanzitutto assumendo questa condizione pascaliana che una poesia di Baudelaire acquista la sua portata universale: il titolo della raccolta, Les fleurs du mal, e l’accenno della dedica ai fleurs maladives enunciano quella “fecondità del negativo” che egli è il primo a "trarre" dal fango del reale, per gettarla in faccia al “lettore ipocrita”. Contrariamente alla poesia di Hugo o di Gautier, tutta forza e splendore, trascendente per le sue forme o per l’afflato lirico che la anima, la poesia di Baudelaire interiorizza la mancanza consustanziale all’essere umano. Cogliere l’assenza, il vuoto, l’improvvisa epifania del nulla, la crudeltà del divenire, insomma fare entrare nella parola poetica il “fuggitivo e il contingente” costituiscono il moderno e primo versante della concezione baudelairiana dell’arte.
Ma questo mondo del reale è ancora il ricettacolo sensibile di un altro mondo, di un altrove, di un al di là – “Inferno o Cielo, che importa?” – che lo attraversa e lo anima con la sua eco.
La poetica delle corrispondenze, che ha la sua origine nella cosmogonia di Swedenborg, fonda allora in Baudelaire un rinnovamento in profondità della scrittura poetica. Poiché l’altro mondo non può più essere raggiunto né svelato al di là del reale, il poeta cercherà di coglierne le tracce (simboli) anche nella loro forma impura e finita, nel reale, attraverso le percezioni. Le corrispondenze orizzontali, i profumi, i colori, i suoni saranno strettamente mescolati alle corrispondenze verticali, analogie occulte la cui scoperta restituirà il senso della “tenebrosa e profonda unità” tra il mondo dei sensi e quello dello spirito e dell’eterno, l’altra metà dell’arte. Alla dualità dell’uomo, diviso tra anima e corpo, e a quella del mondo, diviso in un qui e in un al di là, corrisponde la dualità dell’arte, divisa tra contingente ed eterno.
Charles Baudelaire
Corrispondenze
La Natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole; l’uomo vi attraversa foreste di simboli, che l’osservano con sguardi familiari.
Come lunghi echi che da lungi si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e il chiarore del giorno, profumi, colori e suoni si rispondono.
Vi sono profumi freschi come carni di bimbo, dolci come òboi, verdi come prati - altri, corrotti, ricchi e trionfanti,
che posseggono il respiro delle cose infinite: come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso; e cantano i moti dell’anima e dei sensi.
Testo originale:
La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.
Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
- Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,
Ayant l’expansion des choses infinies,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.
Charles Baudelaire, I fiori del male, introduzione di G. Macchia, versione in prosa di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1995
La creazione poetica è quindi connaturata alla facoltà di stupirsi, a una sorta di ebbrezza che affina le percezioni (“l’infanzia ritrovata a volontà”) e può essere procurata dai "paradisi artificiali", ma è anche contemporaneamente un sapiente lavoro di estrazione alchemica, volta a “trarre l’eterno dal transitorio ” ( Le peintre de la vie moderne). Si afferma così la necessità della coscienza critica che, per Baudelaire, è la conditio sine qua non di ogni creazione e che trova in Poe il suo modello. Baudelaire, in questo modo, sconvolge radicalmente la concezione della poesia, non più ispirazione divina, disvelamento epifanico, lezione di filosofia o di morale (Hugo), ma esperienza intima e dolorosa del vissuto, percezione acuta e "ingenua" del sensibile, rincorsa senza fine di un Ideale che si sottrae, luogo in cui il Bello si compie nella suggestione delle forme, infine poesia pura che respinge l’eresia dell’insegnamento per non darsi “altro fine che se stessa”.
E se è lavoro, fatica, ricerca della perfezione formale, come nei parnassiani, la poesia non mira con questo a risolversi nel gioiello impeccabile e incorruttibile, ma tende a operare la trasmutazione del "contingente" deperibile nell’imperitura "memoria" estetica. Baudelaire realizza così nella scrittura stessa l’improbabile fusione tra la crudele mobilità del divenire e la felice immutabilità dell’eterno, ed è lo shock di questo incontro, quest’arte sottile della dissonanza, che fa di ogni poesia baudelairiana un evento sempre sconvolgente per il lettore.
Charles Baudelaire
Armonia della sera
Ecco venire il tempo che vibrando sullo stelo ogni fiore svapora come un incensiere; i suoni e i profumi volteggiano nell’aria della sera; valzer malinconico e languida vertigine.
Ogni fiore svapora come un incensiere; il violino freme come un cuore straziato; valzer malinconico, languida vertigine! Il cielo è triste e bello come un grande altare.
Il violino freme come un cuore straziato, un cuore tenero che odia il nulla vasto e nero! Il cielo è triste e bello come un grande altare; il sole annega nel suo sangue che si raggruma.
Un cuore tenero che odia il nulla vasto e nero raccoglie ogni vestigio del luminoso passato! Il sole s’è annegato nel suo sangue che si raggruma, il tuo ricordo in me riluce come un ostensorio.
Testo originale:
Voici venir les temps où vibrant sur sa tige
Chaque fleur s’évapore ainsi qu’un encensoir;
Les sons et les parfums tournent dans l’air du soir;
Valse mélancolique et langoureux vertige!
Chaque fleur s’évapore ainsi qu’un encensoir;
Le violon frémit comme un coeur qu’on afflige;
Valse mélancolique et langoreux vertige!
Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir.
Le violon frémit comme un coeur qu’on afflige,
Un coeur tendre, qui hait le néant vaste et noir!
Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir;
Le soleil s’est noyé dans son sang qui se fige.
Un coeur tendre, qui hait le néant vaste et noir,
Du passé lumineux recuille tout vestige!
Le soleil s’est noyé dans son sang qui se fige...
Ton souvenir en moi luit comme un ostensoir!
Charles Baudelaire, I fiori del male, introduzione di G. Macchia, versione in prosa di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1995