Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per la vastità della sua opera e la varietà dei campi indagati, Charles Sanders Peirce può essere considerato il più importante esponente della filosofia americana per vastità di interessi e apertura di prospettive. Oltre alla filosofia, i suoi apporti si situano anche in logica, matematica e astronomia. A Peirce va riconosciuto il primato nella formulazione della dottrina filosofica del pragmatismo e nella fondazione di una semiotica logica e cognitiva.
Peirce e la cultura del New England
Charles Santiago Sanders Peirce nasce nel 1839 a Cambridge, Massachusetts, e cresce nell’ambiente sociale della Harvard University. Il padre, Benjamin Peirce – docente di matematica – gli infonde la passione per la conoscenza, stimolando in lui le facoltà logiche e la mentalità sperimentale. La sua vita coincide con il declino del primato culturale ed economico del New England e la prepotente espansione degli Stati Uniti verso ovest, successiva alla guerra di secessione. Amico fin dalla giovinezza di William James, Peirce è un prodotto originale di quel Massachusetts profondamente europeo – raffinato e aristocratico – rappresentato nei romanzi del fratello di William, Henry James. Storicamente, la generazione di Peirce e dei James segue quella di Ralph Waldo Emerson e Henry W. Longfellow, figure associate al periodo spesso definito “Rinascimento del New England”.
La principale attività professionale di Peirce è il servizio per la Coast and Geodetic Survey, organismo federale preposto ai rilievi cartografici e al sistema di pesi e misure. La carriera accademica che il padre aveva preparato per lui a Harvard si rivela infatti impraticabile, e – salvo una breve parentesi alla Johns Hopkins di Baltimora – non riesce mai ad avere una docenza universitaria. A Baltimora Peirce insegna come lecturer dal 1879 al 1883, ma nel 1884 il contratto non gli viene rinnovato. Le cause più verosimili di questo fallimento sono il suo orientamento evoluzionista e il comportamento anticonformista, espresso dalla convivenza con la donna che poi sposa in seconde nozze, inaccettabile per la morale dell’epoca. Non trascurabile è anche il suo atteggiamento intellettualmente altezzoso e la difficoltà a limitare le proprie spese personali e di ricerca.
Restando fuori dall’università, in vita Peirce riesce a pubblicare solo articoli e brevi saggi, ma produce un grande numero di scritti inediti che delineano un ambizioso sistema filosofico, solo in parte realizzato. Ritiratosi nel 1891 da ogni attività, si trova in vecchiaia in seri disagi economici, che solo l’aiuto dei parenti e di William James riescono in parte ad alleviare. Ancora oggi l’incompletezza dei testi, la grande erudizione, lo stile spesso arduo e digressivo ne fanno un autore di difficile accesso. Muore nel 1914.
L’anti-intuizionismo e i segni
L’autore che più attrae il giovane Peirce è Kant, e proprio le problematiche kantiane fanno da sfondo al suo primo importante scritto filosofico, On a New List of Categories, del 1867. In questo saggio breve e serrato Peirce fonda le categorie sulle relazioni interne alla proposizione, intesa come la forma logica del giudizio percettivo. Le categorie di Peirce, a differenza di quelle kantiane, compaiono in ogni giudizio e sono perciò universali.
Charles Sanders Peirce
Una nuova lista di categorie
Supponiamo di voler comparare le lettere p e b. Possiamo immaginare che una di esse venga capovolta sulla linea di scrittura come attorno a un asse, poi sovrapposta all’altra, e che infine divenga così trasparente che la seconda possa essere vista attraverso la prima. In questo modo formeremo una nuova immagine che media fra le immagini delle due lettere in quanto rappresenta una di esse (rovesciata) come la copia dell’altra. Altro esempio: supponiamo di pensare un assassino in rapporto a una persona assassinata; in tal modo veniamo a concepire l’azione dell’assassinio; e in questo concetto viene rappresentato che in corrispondenza di ogni assassino (come di ogni assassinio) c’è una persona assassinata; e anche qui ricorriamo dunque a una rappresentazione mediatrice che rappresenta il relato come rinviante a un correlato con il quale la rappresentazione mediatrice è essa stessa in rapporto. Ancora un altro esempio: supponiamo di cercare la parola homme in un dizionario francese; troveremo a fianco di essa la parola uomo, che, in quella posizione, rappresenta homme come rappresentante la stessa creatura a due gambe che anche uomo rappresenta. Seguitando con gli esempi, si troverebbe che ogni comparazione richiede, oltre al termine di riferimento, o base, e oltre al correlato, anche una rappresentazione mediatrice che rappresenta il relato come una rappresentazione dello stesso correlato che questa stessa rappresentazione mediatrice rappresenta. Una tale rappresentazione mediatrice può essere detta interpretante, perché svolge la funzione di un interprete, il quale dice che uno straniero dice la stessa cosa che egli stesso dice. Il termine rappresentazione deve essere qui inteso in un senso molto ampio, che può essere chiarito dagli esempi meglio che da una definizione. In questo senso, una parola rappresenta una cosa per il concetto che si forma nella mente dell’ascoltatore, un ritratto rappresenta la persona ritratta per il concetto del riconoscimento, una banderuola rappresenta la direzione del vento per il concetto di chi la intende, un avvocato rappresenta il suo cliente per il giudice e per la giuria che egli influenza.
C.S. Peirce, Opere, a cura di M.A. Bonfantini, Milano, Bompiani, 2003
Esse sono la Qualità (definita in seguito Primità), la Relazione (Secondità) e la Rappresentazione (Terzità). Quest’ultima può essere identificata con il Segno. Il Segno assume così un ruolo fondamentale nella conoscenza, in quanto appare quale categoria presente in ogni atto cognitivo: la conoscenza avviene tutta per segni. In Peirce la posizione del segno è dunque di mediazione tra la realtà e il soggetto, e determina una concezione logicista e rappresentazionale della conoscenza.
Nel 1868 Peirce pubblica tre saggi noti come “anti-intuizionisti” o “anti-cartesiani”. In essi propone la prima sintesi di una teoria della conoscenza fondata sull’inferenza, che è un tipo di segno. La conoscenza inferenziale si contrappone alla teoria intuizionista, che ha la sua formulazione più matura in Cartesio. Con la confutazione dell’intuizionismo Peirce critica la possibilità di conoscenza diretta dell’oggetto esterno e non basata su cognizioni precedenti. Al contrario, secondo Peirce ogni conoscenza – così come la conclusione di un argomento deriva dalle premesse – deriva per un atto inferenziale sintetico da conoscenza precedente, a sua volta ottenuta allo stesso modo. Ogni conoscenza è quindi la conclusione di un’inferenza, tratta da un insieme di fatti e circostanze. Si avvia così un infinito regresso verso l’oggetto esterno che non può essere colto immediatamente nella sua totalità e verità.
Charles Sanders Peirce
La scienza moderna richiede un nuovio approccio
Pensiero-Segno-Uomo (Some Consequences of Four Incapacities)
5.265. Sotto alcuni di questi rispetti, o addirittura sotto tutti, la maggior parte dei filosofi moderni sono stati in effetti cartesiani. Ora, senza volere tornare alla Scolastica, mi sembra che la scienza moderna e la logica moderna richiedano principî molto diversi da quelli del cartesianesimo:
1. Noi non possiamo cominciare con il dubbio totale. Dobbiamo cominciare con tutti i pregiudizi che agiscono in noi nel momento in cui intraprendiamo lo studio della filosofia. Questi pregiudizi non li possiamo eliminare con una massima, poiché sono tali che non ci è mai venuto in mente di poterli mettere in discussione. Quindi questo scetticismo iniziale sarebbe mero autoinganno, e non dubbio reale; e nessuno che segua il metodo cartesiano sarà mai soddisfatto finché non abbia formalmente ritrovato tutte quelle credenze a cui ha formalmente rinunziato. Si tratta dunque di un preliminare altrettanto inutile quanto andare prima al Polo Nord per raggiungere lungo un meridiano Costantinopoli, invece che seguire la via diretta. È vero che nel corso dei suoi studi una persona può trovare ragione di dubitare di cose a cui in principio credeva; ma in questo caso dubita perché ha una ragione positiva per farlo, e non certo in considerazione della massima cartesiana. Non si pretenda dunque di dubitare in filosofia di ciò di cui non dubitiamo dentro di noi.
2. Lo stesso formalismo appare nel criterio cartesiano di verità che si riduce a questa regola: “Tutto ciò di cui sono chiaramente convinto è vero”. Se io fossi realmente convinto, tale mia convinzione sarebbe frutto di ragionamento e non avrei bisogno di nessuna ulteriore prova di certezza. Ma rendere così i singoli individui giudici assoluti di verità è molto dannoso. Un atteggiamento cartesiano comporterà che i metafisici saranno tutti d’accordo che la metafisica abbia raggiunto un grado di certezza di gran lunga superiore a quello delle scienze fisiche. Ma essi potranno andare d’accordo soltanto su questo punto e su nient’altro. In quelle scienze in cui accade che gli uomini finiscono per concordare, quando una teoria è stata varata, essa è considerata provvisoria e in prova finché non si raggiunge un accordo; ma dopo che tale accordo è stato raggiunto, la questione della certezza diviene oziosa, perché non c’è più nessuno che ne dubita. Noi, come singoli individui, non possiamo ragionevolmente sperare di raggiungere la filosofia definitiva che perseguiamo; possiamo soltanto cercarla, dunque, attraverso la comunità dei filosofi. Quindi, se menti disciplinate e in buona fede esaminano scrupolosamente una teoria e rifiutano di accettarla, questo dovrebbe creare dubbi nella mente dell’autore stesso della teoria.
3. La filosofia dovrebbe imitare nei suoi metodi le scienze che hanno ottenuto buoni risultati, procedendo soltanto da premesse tangibili che possano essere sottoposte a un attento esame e affidandosi alla molteplicità e alla varietà dei suoi argomenti piuttosto che alla conclusività di uno solo di essi, qualunque esso sia. Il ragionamento filosofico non dovrebbe formare una catena, che non è mai più forte del suo anello più debole, ma una fune le cui fibre possono anche essere molto sottili, purché siano abbastanza numerose e intimamente connesse.
4. Ogni filosofia non idealista presuppone un dato finale assolutamente inesplicabile, non analizzabile: insomma, qualcosa che risulta da mediazione, ma in se stesso non è suscettibile di mediazione ulteriore. Ora, che alcunché sia così inesplicabile si potrebbe scoprire soltanto per via di ragionamento tramite i segni. Ma l’unico scopo proprio di un’inferenza, o ragionamento tramite i segni, è di giungere a una conclusione che spiega il fatto; mentre, supporre il fatto assolutamente inesplicabile, non è spiegarlo, e quindi questa supposizione non è mai ammissibile.
C.S. Peirce, Opere, a cura di M.A. Bonfantini, Milano, Bompiani, 2003
Tuttavia Peirce ritiene troppo nominalista la posizione di Kant, secondo la quale l’oggetto in sé, il noumeno, non può mai essere conosciuto, e assume un punto di vista che egli stesso definisce “realista scolastico” o “idealista oggettivo”: i concetti o idee sono reali, e poiché i concetti sono segni e i segni costituiscono l’unico mezzo di conoscenza, la conoscenza, pur essendo sempre incompleta, può darci conto della realtà. Secondo Peirce l’oggetto verso il quale i segni continuamente convergono è effettivamente conosciuto attraverso di essi, sia pure in modo dinamico e non esauriente. Ma la realtà stessa è dinamica ed evolutiva, e quindi si dà conoscenza della realtà.
Il Metaphysical Club
A partire dal 1872 Peirce partecipa alle attività del Metaphysical Club (l’aggettivo metafisico è usato in tono ironico), un gruppo di giovani intellettuali di Boston che si riunisce per discutere di filosofia. Del Metaphysical Club fanno parte studiosi di diversa formazione – scienziati, teologi e giuristi – tra cui Chauncey Wrigh e William James, uomini di scienza; Francis Ellingwood Abbot e Francis Greenwood Peabody, teologi; Oliver Wendell Holmes Jr., Nicholas St. John Green, John Fiske, Henry Ware Putnam, William Pepperel Montague e Joseph Bangs Warner, avvocati e giuristi. Vi sarà infatti una scuola pragmatica anche nel campo del diritto.
Uno degli argomenti di dibattito più frequenti del Club riguarda le conseguenze filosofiche della teoria di Darwin. La pubblicazione dell’Origine delle specie nel 1859 desta enorme scalpore negli Stati Uniti, dove quasi tutte le università sono legate a confessioni religiose, e il dibattito sull’evoluzionismo è spesso lacerante. Il pragmatismo nasce proprio dalla riflessione filosofica sulla teoria dell’evoluzione. La posizione di alcuni membri del Club vedeva nella teoria di Darwin il prevalere del nominalismo. Essi argomentano infatti che, se le specie si evolvono e mutano, ciò significa che i concetti (poiché la specie è certo un concetto) derivano dall’esperienza e non hanno realtà al di fuori di essa. Peirce ribatte che l’evoluzionismo dimostra proprio il contrario, poiché il mutare della specie implica la realtà del concetto di specie. A patto – e qui ritroviamo l’idea di forme dinamiche – che il concetto sia visto esso stesso come un ente che si sviluppa.
All’interno di questo gruppo nasce il pragmatismo, la prima e la più nota delle filosofie americane. Tutti i membri contribuiscono in diversa misura a dare vita al pragmatismo, ma la teoria è concepita da Peirce e viene da lui esposta per la prima volta in una serie di sei articoli, pubblicati sul “Popular Science Monthly” nel 1877-1878, intitolata Illustrations of the Logic of Science, senza tuttavia che il termine venga usato. Il pragmatismo viene così enunciato ufficialmente per la prima volta da William James nel 1898 in una storica conferenza all’università di Berkeley in California.
Il nucleo teorico del pragmatismo è l’idea che il significato di un concetto è dato dalla concezione degli effetti pratici del concetto stesso. Tuttavia il pragmatismo di James e di coloro che a lui si sono ispirati ignora l’aspetto concettuale del significato, identificando tout court il significato con gli effetti pratici di un concetto. Il comportamentismo, che costituisce un approccio fondamentale nelle teorie della conoscenza sociologiche e psicologiche del Novecento, deriva dunque in un certo senso da un’incomprensione della teoria di Peirce da parte di James. Per questo il pragmatismo americano è stato dipinto come filosofia del successo, della contingente riuscita pratica di un’idea senza alcuna analisi dei suoi contenuti. Anche se verrà divulgato in questa versione più semplice, diversa è la filosofia di Peirce, tanto che questi cambierà nome alla sua teoria, definendola “pragmaticismo”.
Legato a Peirce, di cui è allievo a Baltimora, è John Dewey, filosofo e psicologo. George Mead, psicologo e sociologo, formulerà una teoria della comunicazione che riprende alcuni tratti della semiotica di Peirce. Nei primi anni del Novecento Peirce avrà contatti con alcuni pragmatisti italiani, riuniti attorno alla rivista “Leonardo”: Mario Calderoni, Giovanni Vailati, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini.
Logica e matematica
In logica Peirce si colloca nell’ambito della corrente di George Boole, fondatore dell’algebra logica, e prosegue il filone di ricerca di Augustus De Morgan, pubblicando diversi saggi sulla logica dei relativi, che vede il sillogismo classico come un caso particolare della teoria della composizione delle relazioni. In particolare Peirce individua tre tipi primitivi di relazioni, necessarie e sufficienti a descrivere qualsiasi relazione complessa. Si tratta delle relazioni a uno, due o tre termini, che sono alla base delle sua teoria delle categorie, definite fenomenologiche o faneroscopiche. Secondo Peirce esistono relazioni triadiche irriducibili, vale a dire non scomponibili in relazioni più semplici, e la relazione triadica fondamentale è quella della rappresentazione o segno.
Indipendentemente da Frege, Peirce è il primo a introdurre in logica i quantificatori, o indici, cioè dei puntatori (ad esempio i pronomi) che servono a indicare appunto entità individuali, mentre la logica precedente si occupava solamente di simboli.
La parte più innovativa della logica di Peirce è tuttavia la sua teoria dell’inferenza abduttiva. L’inferenza, secondo Peirce, opera in ogni passo della conoscenza, dalla percezione alle teorie scientifiche. Oltre alla deduzione, la forma di inferenza classica, egli riconosce l’induzione, strumento logico per la formazione di leggi generali, e l’abduzione o ipotesi, con la quale tenta di formalizzare il ragionamento incerto. Questo tentativo rappresenta uno dei contributi più importanti di Peirce; oggi si riconosce infatti che la maggior parte dei ragionamenti euristici, per esempio quelli diagnostici, è proprio di tipo incerto, cioè basato su dati insicuri o incompleti. L’inferenza abduttiva è anche riconosciuta come operante nel pensiero progettuale, in quanto l’obiettivo del progetto si pone come ipotesi dalla quale derivare le azioni per raggiungerlo.
Peirce conduce studi approfonditi sulla teoria degli insiemi infiniti e in topologia, legati alla sua dottrina filosofica del sinechismo, ovvero della natura continua della realtà. In particolare Peirce rivendica due primati. Il primo è il calcolo matriciale, tradizionalmente attribuito a Arthur Cayley per le memorie del 1858 e del 1866, che Peirce applica alla logica dei relativi e per il quale si può parlare di scoperta indipendente. Il secondo riguarda invece la definizione di collezione infinita, attribuita inizialmente a Dedekind che la espone nel 1888 nella sua opera Che cosa sono e cosa dovrebbero essere i numeri. Peirce sostiene invece di aver definito la nozione di collezione infinita prima del tedesco, nel saggio del 1881 dal titolo On the Logic of Number e in questo caso il primato di Peirce viene riconosciuto, benché la sua formulazione sia meno chiara. Del resto Peirce è in corrispondenza con Dedekind, così come segue con attenzione gli studi di Georg Cantor.
La semiotica
Probabilmente Peirce incontra per la prima volta il termine “semiotica” nel quarto libro del Saggio sull’intelletto umano di John Locke. Tuttavia il suo approccio si distacca dal concettualismo di Locke ed estende l’indagine sulla scienza dei segni in diverse direzioni: durante la breve parentesi come docente universitario alla Johns Hopkins di Baltimora, il suo allievo Alan Marquand riscopre su sua indicazione il trattato dell’epicureo Filodemo, De signis.
La teoria del segno di Peirce si basa su uno schema a tre elementi spesso chiamato “triangolo del segno”, che peraltro non viene mai usato dall’autore come figura grafica. Tale schema raffigura la “rappresentazione” e comprende tre elementi (Segno, Oggetto e Interpretante) e tre relazioni, due di tipo diadico (Segno-Oggetto, Segno-Interpretante) e una di tipo triadico (Segno-Oggetto-Interpretante). Il primo elemento è il Segno o Representamen, vale a dire: “qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità”. Ciò per cui il Segno sta è il secondo elemento, l’Oggetto, e il qualcuno per il quale sta è il terzo, l’Interpretante.
La caratteristica fondamentale del Segno è che rinvia verso due direzioni, instaurando due relazioni diadiche (Segno-Oggetto e Segno-Interpretante). La relazione Segno-Oggetto può essere di tre tipi: 1) il Segno rimanda al suo Oggetto perché è simile ad esso (e si parla di Icona); 2) perché è connesso fattualmente a esso (Indice) o 3) perché è legato a esso da convenzione (Simbolo). Non rimanda in modo totale, ma “sotto qualche aspetto o capacità”: il Segno non offre la conoscenza totale del suo Oggetto, ma una conoscenza sempre parziale. Dall’altra parte il Segno è in relazione con un Interpretante, cioè un atto di comprensione che non è un “interprete”, vale a dire una persona fisica, ma una funzione cognitiva. Con questo rinvio il Segno fa sì che l’Interpretante si ponga in relazione con l’Oggetto stesso: questa è la terza relazione (Segno-Oggetto-Interpretante) e si tratta di una relazione triadica perché richiede le prime due; con essa si compie la rappresentazione. L’Oggetto è costituito dal complesso di conoscenza che sta all’origine del processo di interpretazione. Di questo Oggetto completo, che Peirce chiama Oggetto Dinamico, il Segno coglie solo un aspetto, l’Oggetto Immediato, che è il contenuto o significato.
La semiotica di Peirce si basa sull’assunzione che non sia possibile porre in relazione un segno con un significato senza che un atto interpretativo stabilisca questa relazione: il Segno fornisce al soggetto che opera l’interpretazione il dato per attivare una porzione di conoscenza già nota (l’Oggetto Immediato); questa attivazione costituisce l’effetto cognitivo del Segno stesso come evento del tutto nuovo, e questo effetto è l’Interpretante. La teoria di Peirce si contrappone (o in un’altra visione si integra) alla semiotica diadica, o biplanare, che origina da Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev.
Peirce sottolinea inoltre come l’interpretazione sia un processo dinamico: l’Interpretante di un segno diviene infatti a sua volta segno per un Interpretante successivo, dando vita a un flusso definito “semiosi illimitata” o “fuga degli interpretanti”. Questo processo non ha un termine dal punto di vista logico, ma si arresta con la costruzione di un abito, cioè di una propensione ad agire secondo un certo modello (ma non un’azione pratica, senza che ovviamente essa sia esclusa). È questa la teoria pragmatista del significato in termini semiotici. Nei primi anni del Novecento Peirce formula una complessa teoria semiotica, con articolate classificazioni dei segni, in parte ancora inedita.
La fortuna
L’influenza dell’opera di Charles Peirce in vita si può limitare in generale al debito che William James gli riconosce per la scoperta del pragmatismo e al suo influsso sugli allievi durante gli anni di docenza alla Johns Hopkins. La conoscenza di Peirce inizia negli anni Venti con la prima antologia a cura di Morris R. Cohen, (Chance, Love and Logic, [ Caso, amore e logica], 1923), ma la notorietà è dovuta alla corrispondenza con Lady Victoria Welby, filosofa del linguaggio inglese, che diffonde la teoria di Peirce in ambito britannico. Ogden e Richards, riportando un saggio di Welby che cita Peirce nel loro libro The Meaning of Meaning, del 1923, che ha ampia diffusione, lo introducono in Europa.
Charles Sanders Peirce
Segno, concetto, logica
L’interpretante logico finale (A Survey of Pragmaticism)
5.491. In tutti i casi, dopo alcuni preliminari, l’attività di ricerca prende la forma di sperimentazione nel mondo interno; e la conclusione (se, pure, la ricerca giunge a una conclusione definita) è che, in date condizioni, l’interprete si sarà formato l’abito di agire in un dato modo ogni volta che desideri un dato tipo di risultato. La vera e vivente conclusione logica è quest’abito; la formulazione verbale non è nient’altro che la sua espressione. Non nego che un concetto, o una proposizione, o un argomento possano costituire un interpretante logico. Insisto soltanto sul fatto che nessuno di essi può essere un interpretante logico finale, perché ognuno di essi è per sua natura un segno che ha a sua volta un interpretante logico. Soltanto l’abito, pur potendo essere un segno in qualche altro modo, non lo è nello stesso modo in cui è segno quel segno di cui esso è l’interpretante logico. È vero che l’abito congiunto al motivo e alle condizioni ha come suo interpretante energetico l’azione; ma l’azione non può essere un interpretante logico perché manca di generalità. Il concetto, pur essendo un interpretante logico, lo è solo imperfettamente: partecipando in certa misura della natura di definizione verbale, è inferiore all’abito esattamente come una definizione verbale è inferiore alla definizione reale. L’abito deliberatamente formato, autoanalizzantesi - autoanalizzantesi perché formato con l’aiuto dell’analisi degli esercizi che lo hanno nutrito - è la definizione vivente, il vero e finale interpretante logico. Di conseguenza, il più perfetto resoconto di un concetto che si possa esprimere in parole consisterà in una descrizione dell’abito che si calcola che quel concetto produca. Ma in quale altro modo un abito può essere descritto, se non attraverso una descrizione del tipo di azione a cui esso dà luogo, con la specificazione delle condizioni e del motivo?
C.S. Peirce, Opere, a cura di M.A. Bonfantini, Milano, Bompiani, 2003
L’edizione Harvard University Press
La prima raccolta di scritti editi e inediti di Peirce che cerca di testimoniare la completezza del suo lavoro appare con i sei volumi pubblicati dalla Harvard University Press dal 1931 al 1935, a cura di Charles Hartshorne e Paul Weiss, seguiti da altri due a cura di Arhur W. Burks. Da quel momento la fortuna di Peirce è soprattutto legata alla sua semiotica, ripresa negli USA da Roman Jakobson e Thomas Sebeok e, in Italia, Umberto Eco e Massimo Bonfantini. Ispirazione più ampiamente filosofica trae da Peirce Carlo Sini e sulla sua morale riflette Salvatore Veca. In Germania, Karl Otto Apel e Jürgen Habermas riconoscono esplicitamente il valore della teoria di Peirce. In Gran Bretagna, Karl Popper presenta tracce del pensiero peirceano in diversi punti del suo lavoro, in particolare negli studi su mente e cervello condotti con John Eccles. Bertrand Russell ne riconosce l’importanza pur da un approccio decisamente diverso. Oggi, il neo-pragmatismo di autori come Richard Sennett riporta in auge la visione di Peirce sulla stretta connessione tra azione e pensiero. Un’edizione completa delle opere di Peirce è in corso presso il Peirce Edition Project dell’Indiana University.