Chenu e il Vaticano II come ‘fine dell’era costantiniana’
Categoria della storia e imperativo pastorale
Fin de l’ère constantinienne è il titolo di un saggio breve del domenicano Marie-Dominique Chenu comparso nel 1961 all’interno di Un concile pour notre temps, volume che dava alle stampe il resoconto di una giornata di studio organizzata, il 13 e 14 maggio dello stesso anno, dalla rivista Informations catholiques internationales nei locali dell’Unesco, a Parigi. Come quelle giornate, così anche il libro voleva rappresentare, nella discussione precedente il concilio Vaticano II, un tentativo di situare l’evento ormai imminente nella storia dei suoi giorni, vale a dire in rapporto diretto con le donne e gli uomini del proprio tempo, sulla base del principio che «non c’è la chiesa da una parte e il mondo dall’altra: c’è la Chiesa nel mondo»1. In quella occasione, che coincideva significativamente con la preparazione del concilio, lo stesso Chenu riattivava il concetto di fine dell’era costantiniana, intendendo in tal modo riconoscere «alla congiuntura dimensioni di grande fatto storico»2.
Tuttavia, per comprendere più in profondità il significato di questa formula, nonché della sua riattivazione in quel momento, ossia il perché egli abbia proposto alla discussione il tema della fine dell’era costantiniana proprio alla vigilia del concilio ecumenico, occorrerà anzitutto vedere la provenienza (e il senso) di questo tema negli scritti precedenti del domenicano di Soisy-sur-Seine, e – sia pur solo indirettamente – nel dibattito parigino, francese e internazionale che lo originano. Si ripercorrerà dapprima dunque il libro Le Saulchoir: Una scuola di teologia3: è il punto di partenza obbligato, anzitutto per comprendere l’unità profonda e la coerenza interna di pensiero fra lo Chenu storico della filosofia tomista, del secondo quarto del secolo passato, e lo Chenu osservatore della Chiesa nel mondo contemporaneo. Sarà poi possibile vedere l’origine della sua elaborazione di questo tema attraverso diversi brevi contributi successivi, e mostrare, in definitiva, quale fosse la concezione di Chiesa che ne derivava. A questo punto si potrà rileggere il saggio Fin de l’ère constantinienne, vagliandone il significato e l’importanza alla luce della discussione conciliare, e in conclusione vedere l’utilizzo di questo tema nelle opere successive di Marie-Dominique Chenu4.
Nel 1937, il padre Chenu scriveva un piccolo libro intitolato Une école de théologie: Le Saulchoir, che faceva il punto sul rinnovamento teologico più recente e ancora in corso5. Il saggio, tanto controverso (verrà condannato dal Sant’Uffizio nel 1942) quanto centrale e celebre, si apre con una ricostruzione storica del percorso che ha condotto i domenicani francesi dal convento di Saint-Jacques nel 1229 fino al Saulchoir nel 1904. Questa sezione del libro è comunque ben più di un apparato, di una premessa d’informazione erudita: qui infatti Chenu situa i due ordini mendicanti, predicatori e minori, nel preciso contesto d’origine e di formazione, in quanto essi stessi assumono la propria più primitiva esperienza non solo quale modello, ma come luogo rivelatore del proprio destino6. E questo contesto, ossia quello in cui la scolastica si è formata ed è cresciuta, è lo stesso del risveglio socio-economico e culturale del Duecento, dei Comuni e delle università. Chenu osserva esplicitamente la continuità dei due ordini con l’ambiente sociale e storico: «senza difficoltà e per così dire per una naturale connivenza, Predicatori e Minori, ciascuno a suo modo, entrarono nel movimento universitario»7.
La novità istituzionale e sociale rappresentata dall’università nascente avrebbe presto dato luogo a una novità nell’ordine stesso della conoscenza (dopotutto – come chiosa il testo – «non si è pronti ad accogliere verità nuove sul piano intellettuale se si è chiusi a livello sociale e istituzionale»), di cui i grandi maestri dell’ordine domenicano sarebbero stati i protagonisti assoluti (si pensi, a mero titolo d’esempio, oltre ad Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, a Guglielmo di Moerbeke): la ricezione in Occidente del corpus aristotelico. A partire dalla metà del XIII secolo, il Philosophus reso in latino sarebbe diventato il «maestro di color che sanno» della Divina commedia, influenzando e trasformando profondamente l’insegnamento universitario, ivi compreso quello teologico. Si tratta di una vera rivoluzione, poiché, come scrive il domenicano, «non fu allora in gioco soltanto l’ingresso di Aristotele, per la curiosità di alcuni speculativi, ma più profondamente, e ben oltre Aristotele, lo statuto della ragione umana nella cristianità»8.
Ciò ha rappresentato, del resto, l’occasione provvidenziale per una nuova apertura della teologia alla modernità; continua, infatti, Chenu: «Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, che erano appunto i maestri del collegio di Parigi, avevano operato con audacia e lucidità, fra i più gravi pericoli spirituali, questa ‘purificazione’ del Peripatetico, che la fede imponeva a un pensiero chiuso sul mondo»9. Con quello sguardo, prerogativa dello storico di vaglia, che è in grado di comprendere le grandi trasformazioni in atto nel breve periodo, il domenicano vede con la nuova filosofia già due intere civiltà, due culture diverse entrare in profondo contatto con la teologia cristiana: egli vede costituirsi «così un luogo spirituale dove si potrà compiere – nelle difficili svolte di una civiltà in pieno sviluppo – l’incarnazione del pensiero cristiano nella ragione greca e nella scienza araba a cui, già per tre volte in vent’anni, alcuni decreti avevano tentato invano di chiudere la porta»10.
Quando tuttavia più avanti Chenu ritorna su questo tema, facendo la storia dello Studium parigino, l’arricchimento nel rapporto appare del tutto reciproco: si era trattato, in quello snodo storico, d’un «luogo spirituale», poiché all’ingresso dell’aristotelismo si era operata una «purificazione del pensiero», e ciò mostrava di questo primo momento dell’esperienza tomista il reale spessore teologico: «per la legge stessa dell’economia della rivelazione, Dio si manifesta attraverso e nella storia, l’eterno si incarna nel tempo in cui soltanto lo può raggiungere lo spirito dell’uomo»11. Legge dell’incarnazione che valeva, si badi bene, anche in negativo, poiché rifiutare alla storia la sua consistenza umana, non comprendendo che è essa stessa il materiale della rivelazione, avrebbe significato per il teologo fraintendere i modi stessi con cui Dio ha scelto di rivelarsi12.
In questo senso, la conservazione dell’eredità tomista in una scuola di teologia, lungi dal significare per Chenu una ripetizione passiva dei sillogismi della Summa theologica, è assicurata solo dalla riscoperta dello spirito originario del maestro, ossia da un’analoga apertura (ancorché critica) alla novità, nel desiderio di dare risposta ai problemi e alle sfide del presente, e non da un’opposizione dottrinale agli altri sistemi filosofici o teologici: «Ritornare a San Tommaso significava innanzitutto ritrovare questo stato di invenzione con cui lo spirito ritorna, proprio come alla sorgente sempre feconda, alla posizione dei problemi al di là di conclusioni da sempre acquisite»13. Era pertanto la teologia stessa del Dottore angelico, con il suo avere studiato a fondo e avere saputo integrare il pensiero e il nuovo metodo aristotelico nella vita cristiana, a costituire per Chenu il vero modello dell’apertura della Chiesa al mondo e alle civiltà.
In questo modo si comprende anche come lo studio e la salvaguardia dell’eredità tomista portasse (e assai coerentemente) con sé anche l’invito a un’analisi profondamente teologica della modernità: qui i ‘due’ Chenu – lo storico della teologia scolastica e l’analista del mondo contemporaneo – si tenevano assieme, perché, come egli ha scritto, «il ‘luogo’ immediato e immediatamente fecondo da cui [la teologia] attinge il proprio dato è la vita presente della chiesa, e l’esperienza attuale della cristianità»14. I luoghi teologici in atto, appunto, nella vita presente della Chiesa sono elencati più avanti nel testo, in una diagnosi del travaglio della cristianità. Essi sono individuati nell’espansione missionaria nel contesto della decolonizzazione e nel pluralismo delle civiltà cristiane, nelle grandezze originali dell’Oriente e nel desiderio di unione ecumenica, nell’accesso delle masse popolari alla vita pubblica e nel ruolo del laicato. Tutti aspetti, questi, che già ponevano in chiaro la questione di una nouvelle chrétienté15.
È tuttavia solo a partire dal secondo dopoguerra, più esattamente dal 1948, che Chenu viene a trattare del tema di un’età costantiniana lunga fino al XX secolo e della sua incontrovertibile conclusione. In quell’anno, nell’articolo intitolato Corps de l’Église et structures sociales, egli ritornava, analizzando le riforme necessarie alla pastorale cattolica di fronte alle più recenti rivoluzioni nelle strutture sociali, su questo nodo teorico – assolutamente centrale – della storia della Chiesa come storia dell’incarnazione16. Se, com’egli scrive, «il ‘progresso’ dell’umanità non è che la materia sempre drammatica e sempre nuova di un’incarnazione continua, […] nella quale l’uomo compie il suo destino di creatura, entra materialmente nello sviluppo mistico della divina impresa»17, deve essere riaffermata la necessità di respingere tutti i platonismi triviali, definiti come «falsa purezza dell’evasione» o ancora come «falsi aristocratismi del pensiero» che gravano sulla capacità di concepire un rapporto della Chiesa con donne e uomini viventi; per dirla con Jacques Maritain, la paura di sporcarsi entrando in rapporto con la storia è una paura farisaica. Questo comporta, tuttavia, anche l’eventualità, la possibilità che la comunità cristiana, nel suo dipanarsi nella storia, abbia spesso ceduto al compromesso, offuscando la propria mistica in affari terreni dai quali la sua libertà spirituale sia risultata compromessa.
Così, seguendo l’evoluzione storica della cristianità, dopo avere descritto una fase fondativa, contrassegnata dalla mancanza di un assetto politico, anzi definita al contrario proprio dalla distinzione – inusuale per l’epoca imperiale – della religione della Chiesa dal potere temporale, Chenu si riferisce all’era di Costantino nondimeno come a un’età in cui quella prima distinzione era decaduta e al contrario era venuto a crearsi tra i due poteri un principio di unione tanto solido da fare da filo conduttore a un millennio di storia occidentale, e questo nonostante le «più scabrose peripezie di quest’incontro»18. Quella simbiosi fra impero e Chiesa viene descritta con queste parole nel saggio del 1948: «spesso lo Stato (Sacro Impero o regni) utilizzerà i valori religiosi per i propri fini politici; quale minaccia d’alienazione per il cristiano! Talvolta perfino la chiesa utilizzerà dei mezzi politici per far riuscire il vangelo sulla terra; quale minaccia di perversione del lievito primitivo in questa teocrazia!»19.
In questa prima occorrenza del tema costantiniano, Chenu non trascura altresì di riconoscere, seguendo in tal senso ancora Maritain, «la grandezza e i benefici di queste cristianità ‘sacrali’», ma solo per ribadire alla fine quanto siano state alcune figure profetiche quelle che nelle ore più buie e nelle fasi più negative di questa storia hanno saputo mettere in salvo la libertà spirituale fra i successi di quelle compromettenti collusioni20. Con la crescita dell’umanità, infine, egli non può mancare di registrare il fallimento di questo assetto politico: «la cristianità, poiché vi è cristianità dall’incarnazione della chiesa, sarà una cristianità profana. Abbiamo registrato il fallimento degli ‘Stati cristiani’»21.
Quando, alcuni anni più tardi, nel saggio del 1954 Conscience de l’histoire et théologie, Chenu esamina la sensibilità per la storia nella scolastica, viene nuovamente a trattare del tema ripercorrendo le vere e proprie teologie della storia protocristiane, tardoantiche e medievali22. Il ruolo provvidenziale allora attribuito all’Impero romano è ritenuto qui un fattore decisivo nella formazione di una «idéologie de chrétienté»; il problema delle invasioni barbariche era risolto, per i medievali, dalla translatio imperii fino al Sacro romano impero: «l’incoronazione di Carlo Magno mantenne lo splendore del mito di Roma. […] Federico Barbarossa farà canonizzare Carlo Magno (1168). L’impero rimane l’organo della Cristianità. La storia profana entra nella storia santa»23. L’allegoria dirompente di Gioacchino (fino al XIII secolo), poi il Duecento dei Comuni italiani e delle università avrebbero posto fine a questo modello monista che subordinava a sé le cause seconde – cioè la vita associata e il suo pluralismo – e avrebbe portato con sé anche a un nuovo interesse per la storia, disciplina per eccellenza delle cause seconde.
In un ulteriore contributo di questi stessi anni alla storia della filosofia medievale, il capitolo Le réveil évangelique di La théologie au douzième siècle, la fine del mito di Costantino costituisce una delle conseguenze della riscoperta dell’Evangelo nel basso Medioevo:
un papato erede dell’Impero romano, un impero incaricato e consacrato di una missione religiosa: dell’intreccio ideologico, mistico, politico, di questi due dati, Costantino era il simbolo, dopo esserne stato l’autore; questo simbolo, era riconosciuto dalla liturgia – il papa riceveva nel giorno della sua elezione, in segno d’investitura, la clamide di porpora offerta da Costantino a Silvestro –, e la teologia ufficiale dell’impero lo elaborava fino all’allegoria. Tutti i riformatori, san Bernardo compreso («in his succedisti non Petro sed Constantino», rimprovera a Eugenio III), denunceranno questo equivoco; gli apostolici lo tratteranno con disprezzo, e Gioacchino da Fiore volgerà in profezia il suo anatema contro il primo corruttore della chiesa spirituale24.
In coincidenza con la preparazione del concilio Vaticano II, Chenu ritorna a utilizzare questa categoria storiografica in funzione sistematica. Il primo numero dell’annata 1960 delle Informations catholiques internationales è dedicato alla questione: «ce monde, est-il athée?», domanda alla quale danno risposta, in una doppia intervista, il domenicano e lo storico dell’Europa e caporedattore del settimanale cattolico viennese Die Furche Friedrich Heer. In quest’intervista, alla domanda sulla desacralizzazione del mondo contemporaneo, è il religioso francese il primo ad abbordare il tema nei termini di un’età postcostantiniana. Nell’analisi dedicatale dal padre domenicano, la radicale mutazione d’ordine sociologico-politico degli ultimi anni era sopraggiunta a seguito di tre principali movimenti del pensiero: l’avvento di una filosofia della storia, l’acquisita padronanza dell’uomo sulla materia e la progressiva socializzazione delle realtà umane. In seguito ai progressi della conoscenza, una grande quantità di valori e di facoltà umane, che erano state un tempo nell’orbita del sacro – o meglio, nell’ambito della cristianità – ricadevano ormai nel dominio delle cose profane, e venivano assunte dalle comunità umane divenute adulte e sottratte al ruolo di supplenza che vi aveva svolto la Chiesa25.
Chenu individua in questo complesso movimento di desacralizzazione tanto dei rischi quanto delle possibilità: tra i primi, menziona il prometeismo, ossia che l’uomo delle grandi scoperte si illuda e si accontenti della propria autosufficienza, perdendo il riferimento alla causa suprema, addirittura volendo innalzarsi come un dio contro Dio stesso. Tuttavia, appunta il domenicano, nel contempo sono venute aprendosi nuove possibilità:
che noi eliminiamo una concezione assai falsa della divinità, tappabuchi delle nostre insufficienze, sia sul piano del nostro destino, sia sul piano del nostro governo del mondo, sia sul piano dell’organizzazione della società. Una società sacrale tendeva a far intervenire Dio là dove l’uomo era impotente. Era un tipo di religione inferiore che, al limite, finiva per essere superstizione26.
Per quanto essa non fosse qui ancora esplicitamente menzionata, attraverso questa concezione di un dio-tappabuchi esistenziale e politico si mette già in luce la portata ecclesiologico-politica del concetto di fine dell’era costantiniana.
Più avanti, nella stessa intervista, sempre Chenu mostra il rapporto di analogia fra il XX e il XIII secolo, quello della scolastica e delle Summae, constatando come il pensiero cristiano del presente non sia ancora in grado di assimilare il mondo nuovo tanto quanto Tommaso aveva invece saputo fare con Aristotele. Interpretando in tal modo il proprio saggio del 1927 per il tempo presente, Chenu mette qui in guardia da ogni mentalità cristiana che rifiuti di assumere dei valori razionali, mentre auspica al contrario che un corretto evangelismo costruisca al proprio interno una visione del mondo profana, nella quale cioè possano e debbano avere il loro ruolo anche opzioni molto diverse da quella cristiana.
Più esplicitamente, però, il tema costantiniano viene trattato a seguito di una domanda sulla preparazione dei credenti in Cristo a un dialogo che sappia essere aperto e franco con il mondo dei non cristiani. Anche sotto questo aspetto la Chiesa, per quanto divina, risponde il domenicano francese, non può che determinarsi in rapporto al mondo in cui essa è inviata, e i cristiani sono di qui portati a uscire da un certo tipo di cristianità che chiamerei la cristianità costantiniana, legata a tutt’un ciclo di civiltà la cui superficie geografica era composta dai paesi mediterranei, e il cui prototipo era l’imperatore Costantino, a coprire della sua autorità, nell’impero, la religione cristiana27.
Questa parte dell’intervista, che porta per titolo La fin de l’ère constantinienne, continua, ripercorrendo l’argomentazione storiografica, a chiarire che i rapporti del cristianesimo con un universo che ormai non ha più nulla di costantiniano devono essere profondamente ripensati, non da ultimo per motivi sociologici e geopolitici. Chenu riconosce in questo modo che le dimensioni della rivoluzione più recente sono superiori a quelle del Rinascimento e della Riforma, poiché maggiore è l’ampiezza della sua trasformazione: il passaggio da una dimensione continentale europea a una dimensione planetaria, con una demografia in rapida crescita, con civiltà differenti che entrano in contatto profondo tra loro e comportamenti umani differenti e imprevisti, non può non portare con sé anche una modificazione, sul piano geografico e su quello culturale, dell’assetto stesso del cristianesimo.
È precisamente nel rapporto che istituisce con un mondo mutato che il cristiano «di tipo evangelico» si distingue da quello «di spirito costantiniano»: laddove quest’ultimo è portato a enfatizzare la dimensione del conflitto fra Chiesa e modernità, vedendo di quest’ultima soprattutto i difetti, per giungere fino al rifiuto delle «grandi aspirazioni del secolo», al contrario il cristiano di tipo evangelico viene descritto come più curioso, legato a un atteggiamento d’attenzione vigile, naturalmente incline al dialogo con la nuova umanità, per piacere oltre che per fedeltà al Vangelo; «per fedeltà […] precisamente a una mistica dell’incarnazione che egli applica all’umanità del XX secolo»28.
Utilizzando infine la terminologia di Karl Rahner, le possibilità di successo della Chiesa sono rappresentate, a giudizio di Chenu, proprio dalla nuova situazione mondiale, e specificamente dal fatto che quest’ultima incalza la Chiesa a uscire da quelle relatività – storiche e geografiche – costantiniane, per divenire infine una Chiesa cattolica de facto:
Resta vero che la chiesa non può né vuole essere ‘romana’ a danno del proprio universalismo: Roma non è più a Roma, e l’antica unità imperiale si è dissolta nella mistica della città di Pietro. Ora, per rivolgersi a questo mondo nuovo dell’estremo Oriente, dell’India, dei paesi arabi, dell’Africa nera, la chiesa di Cristo e della Pentecoste deve, senza nulla perdere del capitale della sua prima esperienza umana, superare questa esperienza29.
Alcuni mesi più tardi, nell’ottobre del 1961, il domenicano riutilizza la formula – dando con essa titolo a un proprio saggio – per rimarcare nuovamente e più decisamente, nella congiuntura del concilio, la caduta di un mito storiografico vecchio di secoli30. Il mestiere che Chenu in queste pagine dichiara esplicitamente di voler fare è quello dello storico; egli porta infatti la propria attenzione non tanto sulla formula in sé stessa (peraltro definendola irrécusable), ma su dei fatti, «punti di riferimento – scrive – più precisi dei testi, irregolari e astratti». Tutto lo scritto è finalizzato a comprendere questa formula e a vagliarne la verità, l’esattezza e la precisione. In questo saggio, Chenu precisa che l’era di Costantino designa un’età della Chiesa, in cui è in questione non tanto la persona storica dell’imperatore o la sua conversione o la fine delle persecuzioni, quanto «la situazione permanente che le sue iniziative hanno determinato […] un complesso mentale e istituzionale nelle strutture, nei comportamenti e perfino nella spiritualità della Chiesa, e questo non solo di fatto, ma come ideale»31.
Quella che egli definisce ère constantinienne è per questa ragione una durée lunga ben al di là del Tardoantico, che dal 313 ha attraversato il feudalesimo, il Rinascimento, la Riforma, la Controriforma e la Rivoluzione francese, tanto che è possibile riconoscere, in Occidente, un certo denominatore comune di queste forme di civiltà nonostante le peculiarità di ognuna di esse e i numerosi, anche radicali, rivolgimenti. Si tratta dunque di una periodizzazione sociologica, caratterizzata da un complesso di pensiero, da una struttura certo concettuale, ma anche gravida di ricadute pratiche, istituzionali e politiche, un temps che, tuttavia, è sul punto di chiudersi, precisamente con il concilio Vaticano II. Accanto all’elencazione delle componenti di questa struttura, infatti, l’analisi teorico-critica del domenicano ne esamina i fattori di deperimento.
Il primo degli elementi costitutivi dell’era costantiniana era l’alleanza – e Chenu enfatizza tutta l’ambiguità semantica di questo termine – dei due poteri, temporale e spirituale. Una vera e propria simbiosi fra loro ha garantito all’uno il fondamento delle proprie prerogative imperiali su basi teologico-politiche, fino all’idealizzazione di un regime fatta col Vangelo alla mano; alla Chiesa, assieme alla «potenza di un credito pubblico», ne è venuta la possibilità della persecuzione politica degli eretici, considerata l’illegalità dell’eterodossia: una repressione praticata da uno Stato ridottosi in tal modo a essere sovente solo il braccio secolare della Chiesa. La stessa consacrazione dei sovrani non ha rappresentato solo il ‘segno efficace’, ossia il sacramento della loro potenza, ma è venuta a costituire fino a Napoleone il loro vero e proprio principio di legittimità, quello attraverso il quale l’assolutismo ha trovato una sua formula teologica. Si verifica dunque, in sintesi, la sacralizzazione delle strutture temporali, e come effetto di ritorno necessariamente la profanazione del sacro, in un «miscuglio di verità e di equivoco, dove i valori più alti sono prigionieri di mediocri compromessi»32.
Le ricadute immediate di questa alleanza vengono individuate nella penetrazione dei principi cristiani all’interno delle istituzioni romane, ad esempio in un codice civile per il quale ora anche la virtù diventava obbligatoria per legge33; nella ricopertura, dal V secolo in avanti, dei quadri istituzionali dell’Impero da parte della Chiesa stessa34, e ancor più dal momento che quest’ultima si era fatta carico di quei ruoli nei quali lo Stato era assente: la sicurezza sociale, gli ospedali e le cure mediche, la scuola35. Chenu, fra i propri esempi storici di una tale simbiosi fra sacro e profano elenca, accanto alla vera e propria cristianità étatisée del tardo Impero romano, anche gli Stati cristiani dell’Ancien régime – anzitutto la Francia all’indomani della revoca dell’editto di Nantes – ma non rinuncia a giungere fino ai tempi più recenti, denunciando «con un po’ di esagerazione, ma anche con qualche verosimiglianza, in una certa mistica ‘europea’, l’odore di muffa del sacro romano impero, per l’unificazione mistico-economica dell’Europa di domani»36.
La seconda componente fondamentale dell’era costantiniana è identificata nella sua base culturale: con la progressiva depurazione dagli elementi più propriamente politici costantiniani, le implicazioni spirituali della cultura avrebbero agito più interiormente, più sottilmente, ma anche in maniera più efficace, ora non tanto secondo il registro della potenza della Chiesa quanto secondo quello della sua influenza37. L’assetto costantiniano si era costituito sull’assimilazione, da parte della Chiesa, del diritto romano, che ciò fosse avvenuto per la salvezza e la diffusione del cattolicesimo o a motivo di un assorbimento – talora fino alla compromissione – delle prospettive evangeliche all’interno di un apparato non cristiano38. Così dalla posizione di primato assunto dalla ragione (il logos greco) derivava direttamente una formulazione dogmatica della fede – espressa anche attraverso la conservazione fino al presente del latino come lingua liturgica, e questo nonostante l’incapacità di questa lingua morta di compiere appieno le funzioni necessarie in una comunicazione simbolica come quella dei misteri, dei sacramenti39.
Qui il concilio Vaticano II entra più direttamente nella discussione:
Senza dubbio, grazie alla coscienza di un concilio sbloccato dall’Occidente, avremo l’occasione di uscire da questo classicismo – rafforzato presso di noi, Francesi, dagli ultimi residui del cartesianesimo – per dare stima ed efficacia alle risorse psicologiche e spirituali dell’India o dell’Africa, per ridare valore al carattere di ‘iniziazione’ che comporta la catechesi, per ritrovare una certa forza di invenzione e di immaginazione (che ci manca in modo da far pietà, perfino nei vocabolari)40.
La terza di queste componenti, vera e propria anima dell’era costantiniana, è costituita dall’umanesimo cristiano, caratteristico della stessa civiltà occidentale. Per Chenu, la natura umana in quanto tale rappresenta un’astrazione rispetto agli individui concreti, alla geografia, all’educazione; questo umanesimo «un po’ facile» si dimostra insensibile dinanzi alle condizioni reali, ai contesti, alla storicità; eppure – riconosce nondimeno il domenicano – «quale appoggio per la fraternità divina degli esseri umani!»41. Questo concetto di natura è andato di pari passo con quello di persona42 – ma anche su questo punto a giuristi e filosofi cristiani si sono venuti sostituendo i politici – e con un dualismo fra materia e spirito frutto della speculazione greca, non accordabile con la concezione biblica, poiché portatore di una scissione fra spirito e inconscio spesso in pieno contrasto con la materialità del piano della creazione stessa, prim’ancora che con i progressi della meccanica. Qui Chenu cita direttamente le parole di Friedrich Heer: «Questa visione dualistica della creazione ha condotto i cristiani europei a una scissione della loro persona, divisa tra un mondo dello spirito che deve dominare e un mondo delle cose inferiori, della sessualità, dell’inconscio, che deve essere asservito (invece di essere sublimato)»43.
L’ultimo elemento a far da corredo all’era costantiniana è costituito da un regime economico-sociale giunto a organizzare la vita individuale e collettiva fino alla costituzione di una filosofia cristiana che però non ha rispecchiato altro che un cristianesimo, occidentale, tardoantico e medievale, una filosofia sulla quale si sono concentrati gli antagonismi con i fautori di un risveglio del Vangelo. In tal modo, attraverso queste quattro componenti, una civiltà particolare (con le sue luci e le sue ombre) ha finito per essere identificata con la civiltà cristiana tout court, e questo per quanto «una cristianità non è la Chiesa».
Lo studio della storia e del pensiero aveva convinto Chenu di quanto decisamente si fosse ormai al di là della cristianizzazione operata da Costantino. Come scrive: «non si tratta per la Chiesa di costruire un mondo cristiano a fianco del ‘mondo’, ma di rendere cristiano il mondo così come si costruisce, come sta costruendosi in questo straordinario XX secolo»44. Sebbene i capisaldi teologici di queste considerazioni provengano ovviamente da ben più lontano, Chenu le ha riprese da ultimo dal fascicolo monografico della rivista Esprit del 1946 dedicata alla questione Monde chrétien, monde moderne (enquête), e segnatamente dall’intervento, al suo interno, di Étienne Gilson, successivamente rimeditato dalla già citata lettera pastorale del 1947 del cardinale arcivescovo di Parigi Emmanuel Suhard45.
In vista del concilio, i fattori di deperimento di quest’epoca mostravano all’analista un drammatico problema ma al contempo anche una magnifica speranza, poiché la fine di una cristianità sacrale e il modello di una nouvelle chrétienté rappresentavano di quell’evento imminente i presupposti più generali. Il saggio tiene volutamente in secondo piano le condizioni esterne (la secolarizzazione, le conquiste tecniche e scientifiche, il processo di decolonizzazione) che avevano messo in scacco il pensiero e il modo di vita cristiano; predilige, al contrario, l’esame delle cause endogene della critica e della crisi. In primo luogo, il primato della parola di Dio: vi sono stati momenti nella storia – ricorda Chenu – in cui la speranza nel Vangelo era stata come rinnovata, in cui si era riscoperta la sua prima ispirazione, il suo primo fermento; è stato questo il caso di Francesco d’Assisi (e infatti i suoi primi discepoli furono tra i primi a condurre una critica severa contro la donazione di Costantino); si era ripetuto con Lutero, e si vedeva nuovamente nel clima di preparazione del Vaticano II, nel suo movimento biblico, nel dialogo con le Chiese della Riforma. Si ritornava, cioè, con il concilio, alla centralità del Vangelo rispetto alle apparecchiature liturgiche e istituzionali46.
Questo primato della Scrittura porta con sé una concezione di Chiesa missionaria, che è tuttavia da intendere in maniera affatto nuova rispetto ai modelli dell’Età moderna. Missione significa ora letteralmente un’uscita dal regime di cristianità, in un’apertura all’altro che è il non-credente, il lontano: una caratteristica essenziale, addirittura costitutiva della Chiesa: «la missione è l’operazione attraverso la quale la Chiesa esce da se stessa – dalla ‘cristianità’ – per rivolgersi al non-credente, per incontrare ‘quelli che sono lontani’ […] nella coscienza che questa è la sua essenza costitutiva. Ecco la fine dell’era costantiniana!»47. È in questo senso che la Chiesa non può e non deve più preoccuparsi di costruire per sé un mondo a parte e di installarsi al suo interno come in un fortino, dovendo invece contribuire a rendere più cristiano il mondo per come esso è realmente in costruzione, proprio perché attraverso il processo di secolarizzazione intere zone della vita umana sono uscite da quella cristianità sacrale che era stata inaugurata da Costantino48.
L’ultima causa endogena della patologia che, nell’analisi di Chenu, fa esplodere il cristianesimo costantiniano è costituita dall’ascolto della parola di Dio da parte dei poveri, segnale, questo, di un ritorno allo spirito evangelico, e per quanto – naturalmente – «questi poveri non hanno né procurano credito e ancor meno potenza»49. Al contrario, proprio perché i poveri vivono vittime dell’ingiustizia economica, culturale, spirituale, essi mettono radicalmente in questione l’ordine stabilito. L’ordine romano – concede il domenicano francese – non ha torto a controllare questa forma di profetismo, che si trova sul crinale sottile fra la speranza del Regno di Dio e le speranze terrene in un mondo fraterno; al tempo stesso restando fedele alla propria essenza «la Chiesa non può non lasciarsi prendere dal fremito del vangelo»50.
Qui si individua la più autentica origine fondativa e il vero modello ideale del cristianesimo, nuovamente in analogia con la riforma del Duecento: «il mito di Costantino lascia il posto, come nel XIII secolo presso gli ordini mendicanti, al mito della comunità primitiva di Gerusalemme. E questo non è falso archeologismo, se è vero che il ritorno al vangelo è la garanzia di una presenza al proprio tempo»51.
Il giorno successivo all’apertura del concilio, il 12 ottobre 1962, appare su Témoignage chrétien l’articolo di Chenu Un concile à la dimension du monde52. In questo contributo alla discussione ritornano i temi del saggio La fin de l’ère constantinienne: la novità rappresentata dalle sfide del mondo postbellico era affrontata con coraggio e con speranza da Giovanni XXIII e dall’assise conciliare; nelle parole dell’allora arcivescovo di Reims François Marty si trattava di un concilio a misura del mondo. L’ottimismo era mosso dalla consapevolezza che la Chiesa ancora una volta doveva saper incarnare il Vangelo nell’umanità presente e nei suoi valori, e ciò era testimoniato da una volontà pastorale (piuttosto che da una di condanna degli errori), come aveva ribadito il giorno prima il pontefice stesso nel discorso Gaudet Mater Ecclesia.
Conseguentemente a queste intuizioni e per assumere la dimensione universale che le è propria, la Chiesa dunque doveva abbandonare l’illusione di poter continuare nella propria missione seguendo un modello divenuto oramai insufficiente. In altro momento essa era stata solidale, nel meglio e nel peggio, con una società, una civiltà, una cultura, con l’umanità nella quale si era impiantata. Il caso maggiore fu e rimane quello della cristianità occidentale nella quale la chiesa si è costruita da undici secoli, da quando Costantino ha volto in suo favore le potenze politiche, culturali, amministrative dell’Impero romano, fino ad allora persecutore.
Nella mutata scala di grandezza, ora planetaria, sono l’Occidente e la sua civiltà a essere oggetto di questione (e ancor di più lo saranno «fra alcuni decenni» precisa Chenu) e una Chiesa cattolica che voglia rispondere alla sua missione universale non può, all’irrompere di grandi popolazioni e culture millenarie sulla scena mondiale, restare schiacciata sulla tradizionale mentalità giuridica della cristianità latina: «C’est la fin de l’ère constantinienne»53. Ancora una volta il religioso francese ribadisce la necessità di un’apertura missionaria al mondo, sull’esempio dei maestri domenicani operanti a Parigi nel XIII secolo.
Solo alcuni mesi più tardi, nella primavera del 1963, si pubblica sul bollettino del Centro di documentazione olandese I-DOC un breve documento intitolato La chiesa e il mondo, in vista della discussione su quello Schema XVII che diverrà in seguito Gaudium et spes54. Con questo testo, Chenu sviluppa alcune riflessioni in merito agli importanti mutamenti apportati dal processo di desacralizzazione, attraverso un sintetico excursus delle tappe essenziali della storia della Chiesa in questa prospettiva. Dopo avere trattato del cristianesimo nel mondo pagano e, successivamente, della sua istituzione all’interno di una civiltà convertita, eventi come il Rinascimento, la Riforma, la Rivoluzione francese hanno il significato di una progressiva «negazione di questa Cristianità», fino all’esito di porre il teologo dinanzi al problema di immaginare «un nuovo rapporto tra la Chiesa e il mondo»55.
Quello che Chenu chiama «mondo profano» è il risultato della desacralizzazione, la quale, come scrive, «è nel giusto ordine della rivelazione cristiana»56. Si tratta di un processo più precisamente caratterizzato dall’assunzione di un numero sempre crescente di responsabilità verso gli esseri umani da parte delle comunità politiche. Istituti che sono stati ispirati e direttamente governati dalla Chiesa in Età moderna, da quelli che si occupavano della cura di anziani e malati alle strutture economiche, dalle reti di solidarietà fra gli uomini agli organismi di produzione culturale, in breve tutti i «fondamenti di ogni società umana»57 sono ormai divenuti patrimonio comune dell’umanità in quanto tale.
Il compito di supplenza, che per secoli e anche meritoriamente la Chiesa ha dovuto assumere per insufficienza delle istituzioni politiche, incapaci di far fronte ai bisogni delle proprie comunità, si mostra dunque ormai al termine di una parabola, alla fine cioè di un processo di secolarizzazione, con la conseguenza che «oggi, in un mondo in cosciente formazione, usciamo da una ‘Cristianità’, cioè da una Chiesa dotata di poteri propriamente terreni, in uno con i suoi speciali poteri ricevuti dal Cristo, e temporaneamente impegnati nella diffusione del vangelo»58.
Il modello della Chrétienté, nella ricostruzione di Chenu, si è articolato in istituzioni politiche e amministrative di grandissima, grande, media e modesta entità, di cui tanto il Sacro romano impero quanto il titolo di ‘re cristianissimo’, tanto il sistema dei benefici monastici quanto il regime ospedaliero sono solo alcuni degli esempi più lampanti. Il graduale ritiro da tutte queste sfere di influenza ha però portato con sé una contropartita per la Chiesa: non potendo più consistere nella guida della civilizzazione e dell’elevazione dei popoli, il suo compito è tornato a essere – più semplicemente, e anche più autenticamente – quello di «gettare il fermento evangelico in questa civilizzazione, in queste strutture dell’umanità»59. Il riscatto del processo di secolarizzazione ha significato, per la Chiesa, provvidenzialmente un ritorno all’Evangelo.
La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo è ancora una volta «non costruire, a sue spese e secondo sue iniziative, un ‘mondo cristiano’, ma cristianizzare il mondo quale si costruisce»60. In un mondo desacralizzato, la Chiesa sarebbe infatti migliore immagine del Cristo, attraverso la presenza e la partecipazione attiva nel mondo, e non al fine di controllarlo o dirigerlo, di praticare assistenza o esercitare influenza, ma nella propria qualità di testimone del Vangelo; un modello, questo, che si situa esattamente agli antipodi rispetto a quella «‘Chiesa di potenza’ (Machtkirche), che si serve del suo prestigio, in concorrenza con le forze politiche e le società temporali, e che si aggrappa alle funzioni di supplenza che una volta le procuravano un grande credito sociale»61. Anche in questo caso Chenu mostra di avere, pur in un breve testo, piena e precisa consapevolezza della congiuntura decisiva nella quale si è venuto a trovare il concilio sul cammino dell’umanità, e cioè esattamente alla fine di un’era: «siamo giunti ad un’ora solenne di questa storia»62.
In questo breve testo, che venne inviato all’attenzione del cardinale Leo Suenens, il domenicano opera una sintetica rielaborazione del saggio Fin de l’ère constantinienne di tre anni precedente. Egli intende definire la discontinuità storica davanti alla quale si trova il concilio:
usciamo dalla preistoria: il mondo esiste. Tale, rispetto al Vaticano I, è la grande originalità del Concilio. Il problema non è più soltanto quello dei rapporti tra la scienza e la fede, o dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa; ma il problema più radicale dei rapporti tra la civilizzazione (edificazione del mondo) e della evangelizzazione63.
Era una consapevolezza, questa, che avrebbe reso tuttavia del tutto peculiare, per necessaria conseguenza, lo stesso Vaticano II rispetto al magistero precedente.
Chenu lascia un ulteriore riferimento al tema costantiniano nel suo commiato a papa Giovanni, Un pontificat entré dans l’histoire64. Molti interpreti autorevoli, scrive, «hanno proposto di riconoscere, nella gestione del Concilio da parte di Giovanni XXIII, gli indizi di un comportamento nuovo della chiesa, che rifugge dalla benevolenza tutelare e compromettente di Costantino e dei suoi simili»65. Anche in questo caso una parte del testo è una sintesi del saggio dell’ottobre 1961, in analogia con il quale si ricordano anche le componenti dell’era costantiniana nell’alleanza dei poteri spirituale e temporale, nell’assetto culturale, nella concezione dell’uomo e nella visione del mondo, in un regime economico-sociale.
Di questa era secolare Chenu riconosce qui, ancor più esplicitamente e più chiaramente che in precedenza, i benefici e gli esiti, ma solo per constatarne en historien, non meno nettamente, la contingenza. Nonostante questo, egli reputa «davvero preoccupante osservare che solo la civiltà greco-romana ha potuto finora servire da terreno permanente ed esteso per il vangelo e per la chiesa»66. Il risveglio dell’Evangelo è qui nuovamente il primo elemento di crisi endogena del regime costantiniano, accanto a una concezione missionaria non coloniale e ‘non eurocentrica’:
posto in questi termini – e la congiuntura mondiale esige che lo poniamo senza indugio in questi termini – il problema implica almeno una rottura con la buona coscienza di una ‘civiltà occidentale’. La presenza in Concilio, per la prima volta nella storia medievale e moderna, d’un gran numero di vescovi non europei, è un fatto, di cui non hanno finito di farsi avvertire le conseguenze67.
In questo modo, sebbene la bontà e la sensibilità della fisionomia di papa Roncalli sarebbe scomparsa con la sua persona, le sue intuizioni e il suo progetto d’aggiornamento non avrebbero mancato di portare, sulla fattualità di un piano istituzionale, ciò che non era fino ad allora che una preoccupazione, un problema, un’esigenza pastorale.
C’è un’ulteriore occasione per valutare l’attitudine profonda di Chenu verso l’era costantiniana: la Prefazione che ha offerto al libro di Louis Augros, De l’Église d’hier à l’Église de demain68. Qui il padre domenicano scrive della costituzione sulla chiesa del Vaticano II Lumen gentium: con essa, scrive nel 1980, siamo in presenza di una vera rivoluzione copernicana, poiché – stando al dettato del concilio – la Chiesa «trova il suo soggetto portatore non in un’articolazione dei poteri, ma in una comunione di grazia in atto di testimonianza nel mondo».
Evidentemente questo testo è anzitutto una prefazione, ossia un omaggio reso al padre Augros della Mission de France, alla sua testimonianza in un’epoca precisa, quella degli anni 1940-1955. Per descrivere quella congiuntura, Chenu fa appello a una parola che dice addirittura essere stata creata in quegli anni, quella di ‘missione’. Creata, poiché «improvvisamente caricata di un significato quasi esplosivo, al di là del suo banale impiego anteriore»69. L’evento che ha costituito il centro nevralgico della seconda metà del XX secolo, il Vaticano II, parlando di missione, ha avuto conseguentemente l’effetto di sciogliere il blocco inconsapevole che implicava, a danno della purezza della testimonianza della Buona Novella, la concezione di una ‘cristianità’ con le sue collusioni socioculturali, alla quale si aggiungono delle antenne, delle ‘missioni straniere’, delle imprese di conquista in un mondo rimasto straniero, ‘pagano’70.
Il concilio, pertanto, non ha solo constatato la fine di un’era, ma ha fornito anche un’alternativa a questa concezione di missione che dipendeva da un rapporto di forze ben preciso: «per essere nel mondo come nel proprio luogo, costituzionalmente, e non per mero proselitismo, la chiesa deve uscire da se stessa, dalle proprie apparecchiature: essa è missionaria». Quando ancora poche linee più sotto Chenu torna su questo punto, egli scrive di una formazione sacerdotale che si trasforma passando dalla concezione tridentina a quella di una Chiesa che si lascia scuotere dalla sua apertura su un mondo imprevisto.
Per concludere, pur non disconoscendo i benefici di un’età in cui il cristianesimo avrebbe permeato di sé molti aspetti della vita civile e politica per adempiere prerogative che sarebbero state solo in seguito prese in carico dalla cosa pubblica, Chenu anzitutto come storico del pensiero medievale constata nel XII secolo la fine di quell’epoca. Lo stesso modello costantiniano che si ripercuote ancora nel XX secolo non ha tanto il difetto di essere erroneo, quanto quello di essere superato, inesorabilmente oltrepassato dagli eventi occorsi. Chenu arriva a questa constatazione non con l’ambizione saccente di chi si pone per così dire al di sopra della storia, presumendo cioè di conoscerne (o peggio deciderne) l’esito con una filosofia o una teologia della storia. Viceversa, è proprio stando all’interno delle dinamiche della creazione, quale analista critico dei suoi movimenti più materiali e concreti, che il domenicano libera la Chiesa dalla presunzione triste di avere già vissuto in altro momento la propria epoca d’oro.
Come aveva infatti detto papa Giovanni, nel «presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza». Altrettanto nettamente la fine dell’era costantiniana è dunque un mandato per la Chiesa, perché possa relazionarsi positivamente con un mondo radicalmente trasformato dalla scienza, dalla tecnica, dall’esplosione demografica, dalla fine dell’età coloniale in una comunità planetaria. La categoria storiografica di fine dell’era costantiniana, elaborata a partire da una rigorosa ricerca storico-critica e in piena fedeltà verso il suo ordine domenicano, diviene anche il fondamento a partire dal quale Marie-Dominique Chenu può dare pieno spessore all’imperativo pastorale di apertura della Chiesa alla missione e al mondo.
1 J.-P. Dubois-Dumée, Presentazione, in Un concilio per il nostro tempo, a cura di Id., Brescia 1962, p. 7. Il saggio La fine dell’era costantiniana era in questo volume, alle pp. 46-68.
2 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, in Un concilio per il nostro tempo, cit., pp. 46-68, in partic. 46.
3 M.-D. Chenu, Le Saulchoir: Una scuola di teologia, Casale Monferrato 1982.
4 Della bibliografia di M.-D. Chenu si ricordino almeno: La théologie comme science au XIIIe siècle, Paris 19573; Une école de théologie: le Saulchoir (1937), Paris 1985; Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1950; Pour une théologie du travail, Paris 1955; La théologie au douzième siècle, Paris 1957; la vasta antologia di saggi brevi La Parole de Dieu, 2 voll., Paris 1964; Peuple de Dieu dans le monde, Paris 1966; Théologie de la matière. Civilisation technique et spiritualité chrétienne, Paris 1967; Saint Thomas d’Aquin et la théologie, Paris 1970. Sulla vita e l’opera del domenicano si vedano: Jacques Duquesne interroge le père Chenu. Un théologien en liberté, éd. par J. Duquesne, Paris 1975; L’hommage différé au Père Chenu, éd. par C. Geffré, Paris 1990, Marie-Dominique Chenu. Moyen-Âge et modernité, éd. par J. Doré, J. Fantino, Paris 1997; C.F. Potworowski, Contemplation and Incarnation. The Theology of Marie-Dominique Chenu, Montreal-Kingston-London-Ithaca 2001; A. Franco, Marie-Dominique Chenu, Brescia 2003; E. Vangu Vangu, La théologie de Marie-Dominique Chenu. Réflexion sur une méthodologie théologique de l’intégration communautaire, Paris 2007; A. Cortesi, Marie-Dominique Chenu. Un percorso teologico, Firenze 2007; C. Bauer, Ortwechsel der Theologie. M.-D. Chenu im Kontext seiner Programmschrift “Une école de théologie: Le Saulchoir”, Münster 2010.
5 G. Alberigo, M.-D. Chenu, É. Fouilloux et al., Une école de théologie: le Saulchoir, Paris 1985, in versione italiana il volume è stato edito a Casale Monferrato 1982 (da cui normalmente si cita).
6 Si rilegga a tale riguardo l’incipit dell’opera: «Les Frères Prêcheurs ont toujours considéré comme révélateurs de leur destinée, de leur constitution et de leur esprit deux traits de leur plus primitive histoire: c’est dans les villes universitaires que les premiers Frères établissent leur couvent – et saint Dominique, en les y envoyant, leur donne la consigne de suivre régulièrement les cours des universités naissantes, où bientôt d’ailleurs, ils seront officiellement agrégés parmi les maîtres».
7 M.-D. Chenu, Le Saulchoir, cit., p. 4; in un saggio di qualche anno successivo, Chenu ritornerà su questo punto, glossando: «Paradoxe peut-être, qu’un ‘retour à l’Évangile’, a sa pureté rigoureuse, à son intégrisme surnaturel, aboutisse à des pareils compromis avec les civilisations. Mais non. C’est bien là le rythme de la vie de l’Église, d’une Église immaculée qui cependant se trouve chez elle dans cette humanité affairée et pécheresse, d’une Église qui milite et qui souffre à construire ses successives chrétientés, par où l’homme tout entier, en toute civilisation, est assumé dans la grâce, à l’instar du Christ en qui tout l’homme est assumé par la personne divine»; M.-D. Chenu, Reformes de structure en chrétienté [1946], in Id., La Parole de Dieu, II, L’Évangile dans le temps, Paris 1964, pp. 37-53, in partic. 53.
8 M.-D. Chenu, Le Saulchoir, cit., p. 14. Si veda, però, anche Id., La théologie comme science au XIIIe siècle, Paris 1943 – rielaborazione del saggio omonimo apparso sugli Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Âge, 2 (1927), pp. 31-71 – per esempio a p. 119: «l’effusion de l’Esprit est éclatante en ces contemplatifs dont la théologie donne à la raison droit de cité en pleine vie religieuse. La théologie est une ‘science’. Cette raison elle-même, sur son propre domaine, est assurée de son autonomie de principes et de méthode: la science et les sciences sont honorées en Chrétienté, et la curiosité de l’esprit, après Albert le Grand, peut cohabiter avec la plus exquise des sensibilités religieuses».
9 M.-D. Chenu, Le Saulchoir, cit., p. 6; si confronti tuttavia la Premessa di G. Alberigo (Cristianesimo come storia e teologia confessante, pp. VII-XXX, in partic. XIII-XIV): «nel XIII secolo [i Predicatori] fecero fronte alle istanze poste dal metodo razionale aristotelico. Allora, mantenendo lo studio della Scrittura a base della teologia, la scuola domenicana seppe assimilare tali istanze nella conoscenza della rivelazione cristiana e seppe anche difendere pubblicamente i suoi e lo stesso Tommaso d’Aquino, accusati di cedimenti razionalisti».
10 M.-D. Chenu, Le Saulchoir, cit., p. 12 (il corsivo è mio), che continua: «Una teologia che fosse stata ridotta alle ‘edizioni purgate’ della filosofia e della scienza – come cercarono allora di fare alcuni (1231) – sarebbe stata sconfitta in partenza nella sua pusillanimità consentita; la giovane équipe di Saint-Jacques portava già in sé la magnanimità intellettuale e religiosa di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino»; ma si confronti anche con Id., L’équilibre de la scolastique médiévale, in La Parole de Dieu, I, cit., pp. 229-239.
11 M.-D. Chenu, Le Saulchoir, cit., p. 26.
12 Ivi, p. 30.
13 Ivi, p. 33, in corsivo nel testo. Più oltre, Chenu cita in questo senso anche un brano di Étienne Gilson, La tradition française et la chrétienté, in Vigile, 4 (1931), p. 74 nota: «On peut dire que l’école thomiste du XVIe siècle a complètement failli à sa mission dans la mesure où elle s’est opposée à la Renaissance au lieu de l’assimiler et d’en prendre la direction spirituelle, comme saint Thomas avait pris celle du mouvement philosophique du XIIIe siècle. Non seulement le thomisme avait dans ses principes de quoi le faire, mais c’était sa destination propre que de le faire».
14 M.-D. Chenu, Le Saulchoir, cit., p. 34.
15 Sullo sfondo è chiaro l’eco di J. Maritain, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté, Paris 1936.
16 M.-D. Chenu, Corps de l’Église et structures sociales, in Jeunesse de l’Église, 8 (1948), pp. 145-153, ora in La Parole de Dieu, II, cit., pp. 159-169; questo studio aveva per punti di riferimento gli studi recenti di Henri Godin, Fernand Boulard, Georges Michonneau e Jacques Lœw, ma ancor più andrebbe compreso tenendo come sfondo la lettera apostolica del cardinale parigino Emmanuel Suhard, Essor ou déclin de l’Église. Lettre pastorale carême de l’an de grâce 1947, Paris 1947.
17 M.-D. Chenu, Corps de l’Église et structures sociales, cit., p. 161.
18 Ivi, p. 164.
19 Ibidem.
20 J. Maritain, Humanisme intégral, cit., in partic. pp. 261-269.
21 M.-D. Chenu, Corps de l’Église et structures sociales, cit., p. 165; in questo caso Chenu si appoggiava con una lunga citazione a un testo più recente dello stesso J. Maritain, De Bergson à Thomas d’Aquin. Essais de métaphysique et de morale, Paris 1947.
22 M.-D. Chenu, Conscience de l’histoire et théologie au XIIe siècle, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du moyen âge, 29 (1954), pp. 107-133, da cui si cita (successivamente – riveduto – in Id., La théologie au douzième siècle, cit., pp. 62-89).
23 M.-D. Chenu, Conscience de l’histoire et théologie, cit., p. 128.
24 M.-D. Chenu, La théologie au douzième siècle, cit., pp. 271 segg.
25 M.-D. Chenu, F. Heer, La pensée contemporaine: pour ou contre Dieu?, in Informations catholiques internationales, 111, 1 gennaio 1960, pp. 14-26, in partic. 20. L’intervista è stata successivamente (ma parzialmente) riprodotta in M.-D. Chenu, La Parole de Dieu, cit., II, pp. 171-187. Di Friedrich Heer, erano a questa data in lingua francese già comparsi i saggi: L’amour des ennemis, in La vie intellectuelle, 5 (1950), pp. 515-535; Les tâches du chrétien à l’aube de l’ère atomique, in La fin du ghetto, éd. par R. Grosche, F. Heer, W. Becker, Paris 1957, pp. 39-91 e il contributo La conscience chrétienne et les nationalismes, Paris 1959, pp. 254-266.
26 M.-D. Chenu, F. Heer, La pensée contemporaine, cit., p. 20.
27 Ivi, p. 22.
28 Ivi, p. 23.
29 Ivi, p. 24; il riferimento è qui a K. Rahner, L’Église a-t-elle encore sa chance?, Paris 1953, versione francese di Die Chancen des Christentums heute, Köln 1952.
30 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 46 nota 1. Per la discussione del tempo su questo concetto, specie in area italiana e tedesca, si vedano M. Gozzini, Fine dell’età costantiniana, in Leggere. Mensile bibliografico e di cultura, 7 (1961), pp. 7-8; L. Jaeger, Das “Konstantinische Zeitalter” geht zu Ende, in Orientierung, 24 (1960), pp. 13-15; e soprattutto il volume del già menzionato F. Heer, Das Experiment Europa. Tausend Jahre Christenheit, Einsiedeln 1952.
31 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., pp. 47 segg. Il corsivo è mio.
32 Ivi, p. 53.
33 Ivi, p. 51.
34 Ivi, p. 52.
35 Ivi, p. 53.
36 Ivi, p. 52; Chenu osservava quanto vi fosse di costante nella trasformazione di quella antica struttura: «La degradazione moderna di una simile prassi non ha eliminato un’impronta abbastanza miserabile, che non è più quella della fede sul mondo politico, ma quella di un apparato clericale posto sul medesimo piano della burocrazia dello Stato. Povero sottoprodotto della conversione di Costantino!» (p. 54).
37 Ivi, p. 55; si confronti però anche con P. Giloth, L’Église au seuil de l’avenir, in Irenikon, 34 (1961), pp. 89-96, p. 95: «la dévise ne s’appellerait plus puissance, mais influence».
38 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 56.
39 Ivi, p. 57.
40 Ivi, p. 56.
41 Ivi, p. 58.
42 Ivi, pp. 58-59: «le incarnazioni della libertà – dalla rivolta degli schiavi e l’emancipazione dei servi fino alla liberazione dei salariati – hanno fatto maturare una dialettica della persona e della comunità, nella quale l’Occidente liberale non ha la coscienza pulita, in questo momento storico in cui stanno sviluppandosi degli umanesimi collettivi».
43 Ivi, p. 58, cfr. F. Heer, Les tâches du chrétien, cit., p. 72.
44 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 65.
45 Cfr. E. Gilson, Pas d’illusions rétrospectives, in Esprit, 14 (1946), pp. 192-196, in partic. 196, il compito della Chiesa «non è di conservare il mondo com’è, anch’esso fosse divenuto cristiano, ma di conservarlo cristiano per come esso non smette mai di diventare altro»; E. Suhard, Agonia della chiesa?, in Cronache sociali (1948), poi riedita come volume autonomo, sempre nella traduzione a cura di C. De Piaz, per i tipi di Corsia dei Servi, Milano 19612; oggi si può leggere in Cronache sociali. 1947-1951. Edizione anastatica integrale, a cura di A. Melloni, Bologna 2007, II, pp. 1799-1888, in partic. 1880, n. 54: «Il compito della chiesa non è di conservare il mondo com’è, neanche nel caso in cui sia diventato cristiano, bensì di conservarlo cristiano in modo che non cessi mai dal diventare altro (dal progredire); […] la chiesa non ha per compito di impedire al mondo di camminare, ma di santificare un mondo in cammino».
46 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 64: «Mentre nella cristianità stabilita la fede diventa una eredità sociologica, in cui tutto è previsto e amministrato, nella sicurezza dei catechismi e nella sclerosi delle pratiche, la Parola di Dio, davanti al mondo nuovo, eccita la curiosità della fede».
47 Ivi, p. 65.
48 Ivi, p. 66.
49 Ivi, p. 67.
50 Ivi, p. 68.
51 Ibidem.
52 M.-D. Chenu, Un concile à la dimension du monde, in Témoignage chrétien, (12 ottobre 1962), ora in Id., La Parole de Dieu, II, cit., pp. 633-637.
53 Ivi, p. 636.
54 [M.-D. Chenu], La chiesa e il mondo, in DO-C, 52 (1964), senza paginazione [ma pp. 1-5].
55 Ivi, [p. 1], in corsivo nel testo.
56 Ivi, [p. 2].
57 Ibidem.
58 Ibidem.
59 Ibidem, che continua: «Non spetta alla Chiesa nutrire gli uomini, predisporre piani economici, assicurare i servizi di sicurezza, intraprendere riforme agrarie, istituire i quadri culturali dei paesi sottosviluppati. Ma essa deve impegnare insieme la sua fede, la sua speranza, la sua carità, al servizio di questa edificazione di una umanità fraterna».
60 Ivi, [pp. 2-3].
61 Ivi, [p. 3], in corsivo nel testo.
62 Ivi, [p. 5].
63 Ivi, [pp. 1-2].
64 M.-D. Chenu, Un pontificat entré dans l’histoire, in Témoignage chrétien, 7 giugno 1963, ora in Id., La Parole de Dieu, cit., II, pp. 189-198.
65 Ivi, p. 196.
66 Ibidem.
67 Ivi, p. 197.
68 M.-D. Chenu, L’Église en état de mission, prefazione a L. Augros, De l’Église d’hier à l’Église de demain. L’aventure de la Mission de France, Paris 1980, pp. 7-13.
69 Ivi, p. 10.
70 M.-D. Chenu, L’Église en état de mission, cit., p. 11.