Chi sono gli dei e le dee: una carta d'identita
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con gli dèi si può entrare in contatto in molti modi. La preghiera è caratterizzata da rigore e formalità: la conoscenza del teonimo è condizione essenziale. La rappresentazione della divinità o l’offerta che le si rivolge seguono anch’esse regole precise, declinate sulla funzione della divinità.
La religione romana è caratterizzata da un forte formalismo rintracciabile innanzi tutto nel rapporto che l’uomo instaura con la divinità. Di questa bisogna in primo luogo conoscere il nome: la preghiera deve essere correttamente indirizzata se si vuole ottenere risposta dal dio. Servio spiega che la struttura di una preghiera per essere efficace deve rispettare un certo formalismo: dopo l’invocazione speciale, rivolta agli dèi chiamati in causa per la specifica richiesta, segue un’invocazione generale, dove si ricordano anche tutti gli altri dèi (Servio, Ad Georgica, 1, 21).
Per non sbagliare bisogna dunque conoscere accuratamente i teonimi. Per questo si può ricorrere all’autorità dei pontefici che, consultate le liste degli indigitamenta, dove sono contenuti i nomi divini e le loro rationes, cioè le motivazioni di tali nomi, offrono una consulenza specialistica. La verità di un nome è legata all’officium del dio, cioè all’area di competenza alla quale è preposto. (Servio, Ad Georgica, 1, 21). Il modello è piuttosto semplice in alcuni casi: per il processo “x” si invoca il dio “X”; il rapporto tra il teonimo e l’azione richiesta esprime una clausola etimologica e può essere pensato come un rapporto causale: per proteggere la cuna si prega Cunina; per sovrintendere al levare da terra, gesto di riconoscimento del neonato da parte del padre, ci si rivolge a Levana; a tutela del limen, cioè la soglia della casa, si invoca Limentino, e così via. Questo aspetto che caratterizza la preghiera esprime implicitamente l’importanza della correttezza del nome nell’invocazione: la trasparenza di un teonimo permette di stabilire un rapporto diretto tra l’uomo e il dio e autenticare dunque la preghiera.
Nelle invocazioni appartenenti alla religiosità privata gli dèi minuti sono maggiormente presenti, così come, va detto, nella dimensione pubblica sono gli dèi maggiori a rivestire il ruolo principale. A questo proposito ricordiamo che divinità importanti come Giunone o Giove offrono possibilità molteplici d’intervento: i loro molti epiteti, puntualmente funzionali, permettono di formulare richieste correttamente indirizzate. Ricordiamo ad esempio alcuni tra i molteplici aspetti del padre degli dèi: egli è pregato come Stator “Colui che stabilisce”, Fulgur “il Fulmine”, Elicius “Colui che attira”, Lucetius “la Luce”, Pistor “Colui che pesta (il grano)”, Sospes “il Salvatore”; o la sua divina sposa, invocata come Moneta “Colei che avverte”, Lucina “Colei che porta alla luce”, Pronuba “Protettrice del matrimonio”. Anche quando la poliedricità degli dèi maggiori non necessariamente è marcata da un epiteto specifico, i Romani hanno presente le ampie potenzialità delle loro divinità: Minerva è dea della saggezza, protettrice della guerra, ma anche degli artigiani; Marte conserva il suo legame con la fertilità della terra e il mondo agricolo, ma nell’incontro con il greco Ares assume su di sé la responsabilità della guerra.
Quando non si è certi o non si conosce con sicurezza il nome del dio da invocare, si ricorre a formule generiche come si deus si dea est, cioè “se è un dio o una dea” o vos quo alio nomine fas est nominare cioè “voi con qualsiasi altro nome è lecito chiamarvi” (Catone, De agricultura, 139 e Macrobio, Saturnalia, III, 9, 7 e 10). Nella preghiera nulla deve essere ambiguo: conoscere la precisa identità del dio di cui si desidera ottenere l’aiuto equivale a conoscerne il nome. Lo studioso Robert Ogilvie in The Romans and their Gods ironicamente puntualizza: “Gli dèi (gods) come i cani (dogs) rispondono solo se chiamati con il loro nome” (1969, p. 24), è evidente che le regole per ottenere l’attenzione degli dèi sono dettate dall’esperienza umana, codificate nella lingua giuridica e in quella sacra.
I Romani entrano in contatto immediato con gli dèi oralmente attraverso la preghiera o visivamente per mezzo dell’immagine cultuale. Secondo una concezione filosofica abbastanza diffusa, in origine non esisteva nessun simulacro degli dèi, né dipinto, né scolpito, e non esistevano neppure templi e cappelle, ma solamente semplici altari. Fu Numa a vietare di erigere immagini divine traendo spunto da animali o uomini (Plutarco, Vita di Numa, 8, 13-14). Varrone nelle Antiquitates rerum divinarum afferma che antica e più nobile usanza fu quella di adorare gli dèi senza ricorrere a nessuna immagine (Agostino, De civitate Dei, 4, 31); poi gli dèi trovarono una forma, ognuno la propria, affinché potessero essere riconosciuti e adorati sotto sembianze umane; si pervenne ad commenticios et fictos deos, cioè a dèi immaginati e plasmati secondo la fantasia degli uomini: così furono noti l’aspetto, l’età, l’abbigliamento, gli attributi, la genealogia, i matrimoni e la parentela degli dèi e tutto fu trasformato a somiglianza della fragilità umana (Cicerone, De natura deorum, 2, 70).
Innanzitutto l’immagine cultuale è strettamente legata all’aedes, l’edificio del tempio: la divinità posta all’interno è la legittima proprietaria di quel luogo. Anche la sua collocazione rappresenta un messaggio chiaro ed è indice di un’originale modo di pensare il dio: le statue sono addossate alla parete posteriore del tempio, accessibili solo lungo una scalinata ed erette frontalmente su un podio elevato. “Qui, fra i Romani, è il rapporto di proprietà ad essere maggiormente in primo piano: il dio non abita primariamente ma guarda il suo tempio. E fu appunto del guardare, ovvero della componente ottica che si tenne particolarmente conto nell’architettura sacra romana” (Jörg Rüpke, La religione dei Romani, 2004, p. 83). L’immagine deve essere imponente: un esempio è la statua di Fortuna huiusce diei che protegge la sorte del giorno odierno, alta 8 metri, e bella.
La bellezza è valorizzata attraverso materiali preziosi, quali oro e avorio. Varrone nel De re rustica (1, 1, 4) descrive le 12 statue degli Dèi Consenti posizionate nel Foro come fatte d’oro. Inoltre la caratterizzazione divina è accentuata anche attraverso specifici attributi per evitare equivoci e rappresentare opportunamente il dio o la dea: a Giove non manca lo scettro a indicare la posizione sovrana; a Minerva l’elmo e la civetta, ereditata dalla greca Atena, simbolo di saggezza; Esculapio ha come animale domestico il serpente mentre Giunone si trova spesso rappresentata insieme a un pavone, sebbene ogni suo epiteto funzionale sia accompagnato anche iconograficamente da attributi diversi: ad esempio, Giunone Sospita, preposta alla difesa della città, è identificabile dall’asta e dallo scudo. La statua di Angerona, divinità preposta a proteggere dall’angoscia e dall’angina, una mortale affezione della gola, è ricordata per la particolarità della raffigurazione: con la bocca bendata o con un dito posto verticalmente sulle labbra ad indicare il silenzio. La dea Libertà è riconoscibile perché porta il pileus, un copricapo maschile che in età repubblicana è simbolo di uscita dalla schiavitù per i servi; il caduceus, cioè uno scettro con arrotolati due serpenti a formare una doppia ellissi, appartiene a Mercurio o alla dea Felicità. Nei limiti del possibile le immagini cultuali caratterizzano esplicitamente la divinità per permettere ai fedeli di riconoscerla immediatamente.
I criteri con i quali il dio è invocato o rappresentato trovano riscontro anche nel rito o nel mito. Si onora la divinità, si può entrare in contatto con essa, attraverso un mezzo che ne rappresenti qualità, identità, gusti. Varrone precisa che divinità come Rumino e Rumina, preposti all’allattamento di bambini e bambine, gradiscono un’offerta a base di latte come Cunina, altra dea protettrice dell’infanzia (Varrone, De re rustica, 2, 11, 5 e Nonio Marcello, De compendiosa doctrina, 167); ai Lari si offre un boccone di cibo tutti i giorni nel focolare di casa ma a loro si addicono anche cose semplici come fiori e piccoli grani d’incenso. Sembra che anche ritualmente ogni divinità abbia le sue preferenze.
E quando uomini e dèi si incontrano quali messaggi invia la divinità per essere riconosciuta? A volte il dio si manifesta facendo udire la propria voce: così accade a due divinità strettamente legate al suono: Vaticano, dio preposto al manifestarsi del vagito del neonato o Aio Locutio, dio che presiede al parlare articolato del bambino ed entrambi divengono poi proprietari dei luoghi in cui si sono manifestati (Aulo Gellio, Noctes Atticae, 16, 17). La maggior parte delle volte la divinità si riconosce dal profumo: sono numerosi i racconti di epifanie che lasciano la loro scia nell’aria.
La letteratura lo testimonia. Nel primo libro dell’Eneide Virgilio descrive l’incontro tra Enea e la madre Venere, nascosta sotto le sembianze di una fanciulla. Il giovane rivela la propria identità e la dolorosa condizione di esule; la madre, rattristata, per consolarlo gli annuncia il ritorno dei compagni dispersi, poi si manifesta nella sua essenza divina: dai capelli emana odore divino d’ambrosia (402-405). L’essenza profumata nell’esperienza dell’uomo antico è strettamente legata al sacrificio, momento per eccellenza di relazione con il divino: aromi, essenze profumate, fiori sono frequentemente impiegati per onorare il dio. Inoltre il profumo è l’elemento che meglio si addice a immaginare un’epifania divina: è invisibile, si percepisce come per magia all’improvviso, una volta che si è diffuso non si può più imprigionare, inebria la mente e i sensi, tutte qualità che possono appropriatamente descrivere l’incontro con gli dèi.