CHIARAMONTE, Giovanni, il Giovane, conte di Modica
Figlio primogenito di Manfredi (I), conte di Modica, e di Isabella Musca, nacque verso la fine del secolo XIII. Alla morte del padre, avvenuta pare non molto tempo dopo il 1314, ereditò l'immenso patrimonio raccolto da Manfredi negli anni della sua fortunata camera politica: la contea di Modica con Ragusa e Scicli, Caccamo, Pittirano, e vari feudi minori nell'Agrigentino. La sua ancora giovane età gli impedì di succedere al padre anche nell'ufficio di siniscalco regio che passò invece allo zio Giovanni, il nuovo capo della famiglia.
Educato probabilmente alla corte del re di cui il padre, nella sua qualità di siniscalco, curava l'amministrazione, sposò una figlia naturale di Federico III d'Aragona, Eleonora. Da questo matrimonio nacque una sola figlia di nome Margherita.
Sul corso della vita del C. incise profondamente un avvenimento familiare il quale, in concomitanza con l'indebolimento del potere monarchico, ebbe gravissime ripercussioni sul precario equilibrio politico della Sicilia e dette l'avvio alle grandi lotte tra fazioni baronali che funestarono la vita dell'isola nel secolo XIV.
Verso il 1315 la sorella del C., Costanza, era stata concessa in sposa a Francesco Ventimiglia conte di Geraci. Il matrimonio risultò sterile e il Ventimiglia, che ormai conviveva pubblicamente con una sua concubina, ripudiò la moglie, ottenendo in seguito anche la sanzione del pontefice che gli accordò l'annullamento del matrimonio. Il C. non avrebbe mai più perdonato questo affronto fatto alla sua famiglia e da allora il desiderio della vendetta guidò tutte le sue azioni. Questi fatti esposti diffusamente dal cronista Niccolò Speciale (lib. VIII, cap. 6) non sono databili con esattezza.
Nel 1325 il giovane conte di Modica fu presente alla difesa di Palermo, assediata dalle truppe angioine, agli ordini dello zio Giovanni cui era affidato il comando delle operazioni. Ma già allora doveva aver stabilito contatti con il re dei Romani Ludovico il Bavaro, che nel 1322 aveva sconfitto sul campo di battaglia il suo rivale Federico d'Austria, e si accingeva a scendere in Italia. Suo padre aveva ottenuto in feudo da Enrico VII due rendite annue, ereditarie, e il C. si poteva considerare, a buon diritto, vassallo imperiale, anche se non pare che abbia mai incassato le somme che gli spettavano in base a questa concessione. Quando nel 1325Ludovico mandò in Sicilia Alberto di Schwarzburg, priore dell'Ordine di S. Giovanni, per trattare la conclusione di un'alleanza, il 6 settembre scrisse infatti anche al C. "suoet imperii devoto", per raccomandargli il suo nunzio. La lega "contro i ribelli dell'Impero", cioè contro Roberto d'Angiò e i guelfi, fu conclusa il 17 marzo 1326 a Messina, certamente con il concorso del C., che in quel momento doveva avere notevole influenza sul re, suo suocero. Il 23 febbraio 1327, da Trento, dove si era incontrato con i capi ghibellini dell'Italia settentrionale, Ludovico gli indirizzò una nuova lettera per annunciargli la sua discesa in Italia e l'imminente incoronazione imperiale, pregandolo anche di intervenire presso Federico III per indurlo ad accordare il suo appoggio all'impresa. Dell'ambasceria si guidata da Berardo di Passaneto inviata presso il Bavaro nell'estate successiva, faceva parte anche il C., con funzioni in verità non molto chiare: quando infatti il 25 luglio 1327 i nunzi rinnovarono a Milano la lega tra Federico III e re Ludovico, nel testo del trattato il C., pur qualificato come ambasciatore, figura assente in quel momento. Non sappiamo dove si fosse trattenuto nel frattempo. Nell'ottobre fu alla corte di Ludovico a Pisa, dove il giorno 23 il re gli concesse, in premio dei suoi servigi e di quelli del padre, tutti i beni del defunto conte Tommaso di Sanseverino considerato ribelle all'Impero per non aver prestato il giuramento di fedeltà a Enrico VII; beni che comprendevano le contee di Marsico e di Tricarico e la signoria di Sanseverino e facevano parte, senza alcun dubbio, del regno di Roberto d'Angiò. Era dunque una concessione alquanto ipotetica ma che forse, visti i primi successi dell'aspirante imperatore e il progetto di un attacco congiunto di forze imperiali e siciliane contro il Regno, poteva sembrare non del tutto irrealizzabile. Da quel momento il C. non si scostò più dal re tedesco. Fu testimone del solenne atto con cui Ludovico il 17 nov. 1327 costituì il ducato di Lucca a favore di Castruccio Castracane e lo seguì a Roma, dove il 17 genn. 1328 il Bavaro fu incoronato imperatore per mano del capitano del popolo romano Sciarra Colonna.
Il 18 marzo 1328 l'imperatore gli concesse il privilegio di poter nominare nelle terre sottoposte alla sua giurisdizione e nella sua contea di Modica pubblici notai e giudici ordinari. Il C. approfittò di questa facoltà durante un suo breve soggiorno in Sicilia, nominando il 13 apr. Filippino de Marco da Palermo. Il documento, indizio eloquente della nuova posizione assunta dal C., è datato secondo gli anni del regno di Ludovico.
Dalla Sicilia ritornò alla corte dell'imperatore insieme con il cancelliere regio Pietro d'Antiochia, per portare a Ludovico il "pecuniale subsidium" promesso da Federico III nel trattato di alleanza. I due inviati precedevano la flotta siciliana comandata da re Pietro primogenito di Federico III, che ai primi di agosto salpò per soccorrere, come pattuito, l'imperatore ed iniziare finalmente la conquista del Regno. Ma quando la flotta giunse all'altezza di Roma, Ludovico aveva già dovuto abbandonare la città, cacciato da una sollevazione popolare e guelfa, e si era ritirato a Corneto. Alla notizia che le navi siciliane avevano gettato l'ancora a Porto Ercole, l'imperatore vi mandò il duca di Brunswick, il C. e l'Antiochia per convincere i titubanti comandanti siciliani, già pronti a ritornare in Sicilia, a non abbandonare l'impresa. Grazie alle loro insistenze re Pietro acconsentì ad incontrarsi con l'imperatore e a partecipare alle operazioni militari, che però non presero di mira il Regno ma, più modestamente, la costa toscana che venne messa a sacco. Giunto a Pisa alla fine di settembre Pietro decise il ritorno, dopo essersi convinto che le premesse per ulteriori e più fruttuose campagne erano piuttosto incerte.
Non lo accompagnò però il C. che evidentemente non aveva ancora perso la speranza nella conquista del Regno e dei grandi feudi che ivi gli erano stati concessi. E mentre Ludovico iniziò la sua lenta marcia di ritorno in Germania, deluso e colpito da severissime pene pontificie, il C. tentò ancora una volta la sua fortuna.
Per avvicinarsi di più ai suoi obiettivi, decise di spostare il centro della sua attività nella Marca d'Ancona, facendosi conferire da Ludovico (così almeno affermano le accuse pontificie) il titolo di vicario imperiale e dall'antipapa Niccolò V, fatto eleggere da Ludovico il 12 maggio 1328, quello di rettore pontificio nella stessa provincia. Pare invece che il C. sia stato mandato nelle Marche (certamente per sua espressa volontà, e iniziativa) non tanto con funzioni ufficiali ma soprattutto con l'incarico di riorganizzarvi il partito ghibellino: come "capitano di guerra in parte ghebellina" oppure come capo di tutti i ghibellini è ricordato infatti nelle cronache coeve. Comunque sia, già nei primi mesi del 1329 il C. operava con successo nelle Marche, occupando vari castelli e soprattutto Iesi, dove l'8 marzo fece tagliare la testa al signore Tano degli Ubaldini accusato di tradimento nei confronti dell'Impero. L'avanzata del C. e soprattutto i fatti di Iesi dovettero inquietare seriamente anche Roberto d'Angiò, che il 29 marzo ordinò la mobilitazione dell'esercito, ingiungendo ai vassalli tenuti al servizio militare di raccogliersi il 1º maggio 1329 a San Germano e ad Adria. Ma anche i guelfi locali si riorganizzarono e già nel luglio un loro esercito comandato dal rettore pontificio Giovanni d'Amelio inflisse ai ghibellini una dura sconfitta presso Matelica, dove il C. si era rinserrato.
Da allora non pare che abbia più controllato la situazione. I ghibellini trattavano la pace e il C. cercò inutilmente di farsi aprire le porte di Fermo. Il 24 nov. 1329 l'imperatore, preoccupato, scrisse da Parma una lettera a Mercenario da Monteverde della famiglia ghibellina dei Brunforte (lo stesso che nel 1331 si sarebbe impadronito della signoria di Fermo), esortandolo alla fedeltà e pregandolo di far pagare al C. lo stipendio dalle casse del Comune di Fermo. Non sono note le ulteriori vicende marchigiane del C., il quale, abbandonato a se stesso dall'imperatore, che ai primi del 1330 aveva fatto ritorno in Germania, non doveva più disporre di molti appoggi. Ad aggravare la sua situazione si aggiunse la scomunica pontificia lanciata contro di lui per aver invaso lo Stato della Chiesa e per aver aderito all'eretico imperatore e al suo papa scismatico. Il 27 gennaio 1330 Giovanni XXII lo citò davanti al suo tribunale per giustificarsi delle accuse entro la Pentecoste prossima. Cosa che egli si guardò bene di fare, sperando forse in un ritorno del Bavaro, che gliel'aveva annunciato con una lettera da Spira del 7 giugno 1330 (l'unica che gli attribuisce il titolo di "Anchonitanae Marchiae marchio"). Il 4 genn. 1331 il papa ripeté la citazione contro il C. che nel frattempo aveva trovato rifugio a Venezia, città abbastanza sicura per i seguaci dell'"eretica pravità", visto che quel governo non vi tollerava interferenze ecclesiastiche. Alla richiesta del vescovo di Castello e degli inquisitori di cacciare il C. dalle terre della Repubblica, il doge rispose infatti il 18 febbr. 1331 con un netto rifiuto, motivandolo con il pregiudizio che ne sarebbe derivato per il commercio e i mercanti veneziani in Germania e in Sicilia. Giovanni XXII, evidentemente non ancora al corrente, il 20 febbr. 1331 rimproverò aspramente il vescovo e gli inquisitori di non aver proceduto contro il Chiaramonte.
Nella sua risposta al vescovo di Castello il doge aveva già accennato alle intenzioni del C. di tornare "ad propria in Sicilia", dei quali lo aveva privato, almeno formalmente, la condanna pontificia. Ma doveva passare quasi un altro anno, durante il quale si recò probabilmente anche in Germania, prima che il C. mettesse, di nuovo piede in Sicilia alla testa di un folto gruppo di mercenari tedeschi, più che mai deciso a lavare l'offesa che era stata recata alla sua famiglia. Al suo ritorno le due fazioni dei Chiaramonte e dei Palizzi da un lato, e dei Ventimiglia dall'altro, si ricostituirono subito, e presto, sotto la spinta del C., Palermo divenne teatro di continue scorrerie e di violenti scontri tra i due partiti. Preoccupato, Federico III convocò i capi delle fazioni avverse, Giovanni Chiaramonte, lo zio omonimo del C., e Francesco Ventimiglia, per indurli a concludere una pace formale. La quale fu violata subito: alla fine di aprile del 1332 i mercenari tedeschi del C. ferirono gravemente il Ventimiglia che salvò la vita solo per un miracolo.
Dopo l'attentato il C. fuggì da Palermo, ma il re, adiratissimo, lo colpì immediatamente di bando, senza neanche osservare le procedure processuali abituali. Come tutta risposta il C. si rinserrò nei suoi castelli pronto a scatenare la guerra. All'ultimo momento, mentre il re si stava già preparando a muovere contro di lui, fu raggiunto un accordo, grazie anche all'intervento della regina Eleonora, sua protettrice a corte: il C. acconsentì ad abbandonare l'isola e a mettere i suoi beni a disposizione del re, evitando così la condanna a morte per sedizione.
Egli tuttavia non si rassegnò a questa sorte e si diresse ancora una volta, alla corte dell'imperatore per chiedere giustizia. Ludovico il Bavaro infatti, secondo lo Speciale (lib. VIII, cap. 6), intervenne varie volte in suo favore presso Federico III, invitandolo a revocare la sentenza di bando, in quanto il C. come vassallo imperiale era sottoposto alla giurisdizione dell'imperatore e non del re siciliano. Ma a Palermo, dove ormai trionfava la fazione dei Ventimiglia, Federico III non era minimamente disposto ad accettare argomentazioni del genere. Per favorire la causa del suo vassallo, Ludovico avrebbe escogitato lo stratagemma di mandare il C. alla corte siciliana come suo procuratore per concludere il matrimonio, concordato già in precedenza, tra un figlio dell'imperatore e una figlia del re. Non ebbe successo neanche questo sotterfugio: Federico III, con un editto diffuso in tutta l'isola, vietò al C. l'accesso al suo regno.
Questo ennesimo scacco indusse il C. ad una iniziativa di estrema gravità: nel 1335 passò al soldo di Roberto d'Angiò, il tradizionale antagonista di Federico d'Aragona. Il 18 giugno il re angioino lo nominò suo capitano generale per la progettata spedizione contro la Sicilia, con la promessa di restituirgli i suoi feudi e di concedergli una parte delle prime conquiste del valore di mille once annue; si impegnò inoltre a disporre dei beni del conte Francesco Ventimiglia soltanto con il suo consenso. Alla fine del mese la flotta napoletana composta di sessanta galere e affidata al comando del C. e del conte di Corigliano Roberto Sanseverino prese il mare. Dopo aver tentato invano di espugnare Brucato e poi Licata, quest'ultima eroicamente difesa da Pietro di Antiochia, gli Angioini si dettero al saccheggio della fascia costiera tra Agrigento e Marsala, puntando poi su Palermo, dove la presenza, del resto casuale, di una flottiglia siculo-aragonese, impedì loro ogni azione ostile. Dopo due mesi di scorrerie senza risultati apprezzabili, fu deciso il ritorno a Napoli, dove l'accoglienza riservata da re Roberto ai due sfortunati capitani fu piuttosto tempestosa.
Al C. non restò dunque altro che ritornare in Germania per attendere alla corte imperiale tempi migliori. La svolta tanto attesa fu la morte di Federico III avvenuta il 25 giugno 1337. Con l'ascesa al trono di Pietro II dominato dalla madre Eleonora, l'antica fautrice del C., la fazione chiaramontana riprese il sopravvento e ottenne dal nuovo sovrano il perdono per il congiunto. Mentre i Ventimiglia passarono all'aperta rivolta, il maestro giustiziere del Regno, Blasco d'Alagona, annullò il 30 dic. 1337 nel Parlamento di Nicosia la sentenza di bando e tutti i processi istruiti contro il C., dichiarato innocente e reintegrato di conseguenza in tutti i suoi feudi ad eccezione di Caccamo e di Pittirano.
Informato di questi eventi, il C. si apprestò a fare ritorno in patria. L'8 febbr. 1338 Ludovico il Bavaro, qualificandolo suo "amato maresciallo", lo accreditò presso il signore di Mantova Luigi Gonzaga per discutere con lui questioni riguardanti con tutta probabilità il progetto di una nuova discesa in Italia. Il 9 luglio sbarcò a Trapani, giusto in tempo per partecipare alla difesa dell'isola contro gli Angioini sbarcati nuovamente in Sicilia nella speranza di poter trarre profitto della rivolta dei Ventimiglia. In quest'occasione diresse le operazioni per la riconquista di Brucato che nell'ottobre ritornò in possesso dei Siciliani.
Ben presto il C. riacquistò un posto di grande rilievo alla corte siciliana, tanto da essere nominato nel 1339 ammiraglio della flotta mandata a difendere Lipari contro gli Angioini. Ma nella battaglia navale combattuta il 17 nov. 1339 intorno all'isola la flotta siciliana subì una gravissima sconfitta e il C. stesso cadde prigioniero insieme con molti altri nobili siciliani. Nell'annunciare la sciagura ai suoi sudditi, re Pietro non mancò di sottolineare il coraggio e la bravura del C., "uomo abituato a tutte le fatiche della guerra". Per riscattarsi dalla prigionia il C. si vide costretto a impegnare i suoi beni e feudi, per la somma di diecimila fiorini, al cugino Enrico, figlio dello zio Giovanni e maestro razionale del Regno, il quale in un secondo momento cedette i suoi crediti al fratello Manfredi.
Non sopravvisse molto a questa sciagura. Morì nel 1342, senza lasciare figli maschi legittimi; i suoi beni passarono, come stabilito dal testamento paterno per questa eventualità, anche legalmente al cugino Manfredi.
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