ARMENA, CHIESA
. Prima della loro conversione al cristianesimo, gli Armeni adoravano parecchi dei, gli uni di origine iranica, gli altri di origine assira, e finalmente alcuni antichi eroi armeni deificati. Una tradizione troppo facilmente accettata da alcuni storici nazionali vorrebbe far risalire l'evangelizzazione dell'Armenia all'età apostolica, ma la prima notizia di questa tradizione non è anteriore alla seconda metà del sesto secolo. È più probabile che il cristianesimo si sia introdotto in Armenia attraverso contatti con la Cappadocia, con Nisibi e con l'Osroene. Può darsi che già dalla metà del sec. III vi sia stato un vescovo di razza armena nella regione del lago di Van.
L'apostolo nazionale dell'Armenia è S. Gregorio l'Illuminatore (Lusavuorič), con molta probabilità, checché ne abbiano detto alcuni critici, figlio di Anak, uno dei principali satrapi del regno partico, di cui si servì il primo dei Sāsānidi della Persia, Artašīr, per far uccidere il re di Armenia Cosroe I allo scopo d'impadronirsi del suo paese. Anak pagò con la vita la sua fellonia, e uno dei suoi figli, il futuro Gregorio, venne condotto a Cesarea di Cappadocia, ove ricevette un'educazione del tutto greca. Quando poi il figlio del re di Armenia, Tiridate, rifugiatosi presso l'imperatore romano, poté ricuperare il proprio trono verso il 278-287 mercé l'aiuto dei Romani, Gregorio, già cristiano, venne alla sua corte e riuscì a guadagnare Tiridate alla fede cristiana. Dal sovrano, la nuova fede passò ai sudditi, e Gregorio venne ordinato vescovo dall'esarca di Cesarea, Leonzio, forse verso il 294. È un fatto certissimo che in origine la cristianità armena dipendeva gerarchicamente da Cesarea, e Gregorio, col titolo di katholikos (gr. καϑολικός) cioè delegato universale dell'esarca, non era altro che un suffraganeo di Leonzio. Quindi la tradizione che vorrebbe appoggiarsi a un trattato fra Costantino I e il re Tiridate da una parte, e tra il papa Silvestro e Gregorio dall'altra (raffigurata in modo poco felice anche dal lato archeologico in un affresco moderno della chiesa degli Armeni in Roma a S. Nicola di Tolentino) non è che una leggenda escogitata posteriormente per giustificare l'indipendenza della chiesa armena. Né, come vorrebbero gli storici nazionali, Gregorio esplicò la sua principale attività attorno a Vałaršapat, ossia Eǧmiadzin, bensì nella metropoli stessa del paganesimo armeno, Aštišat, all'ovest dell'odierna Muš. La conversione del popolo venne operata con la forza: il clero cristiano fu provveduto di rendite tolte ai sacerdoti pagani, ed i figli stessi dei sacerdoti pagani diventarono sacerdoti cristiani; dimodoché ben presto le famiglie sacerdotali pagane furono interessate alla diffusione del cristianesimo. Così anche si spiega come il figlio succedesse al padre nel sacerdozio, anche quando si trattava dei vescovi e degli stessi katholikos. Il celibato non era in uso nemmeno nell'alto clero, come presso i cristiani della Persia, e ben presto furono rimessi in vigore i canoni apostolici che proibivano l'uso delle carni soffocate e del sangue: più tardi, i Greci ne presero occasione per far rimprovero agli Armeni di mostrarsi troppo proclivi alle osservanze giudaiche.
La lingua armena non aveva ancora un alfabeto: i chierici erano istruiti nelle lingue greca e siriaca, e Gregorio si faceva aiutare da missionarî greci o siri. Il greco e il siriaco erano le due lingue della preghiera pubblica, e così a mano a mano si elaborò ad uso degli Armeni un rito liturgico largamente ispirato ad elementi presi dai due riti antiocheno e bizantino, quest'ultimo ancora in via di elaborazione: fisionomia che il rito armeno ha conservata fino ad oggi.
Il figlio di Gregorio, Aṙistakēs, gli succedette nella carica di katholikos e prese parte al concilio ecumenico di Nicea (325), ma il simbolo niceno non fu adottato dalla chiesa armena: la formula armena deriva del simbolo pseudo-atanasiano. accettato nel sec. VI. Seguì un periodo di persecuzioni, e il katholikos Husik (Yusik), nipote di Gregorio, fu vittima del proprio zelo (347). Il pronipote di Gregorio, Nersete (364) ricevette l'ordinazione episcopale a Cesarea, come i suoi predecessori, radunò un sinodo ad Aštišat verso il 365, e organizzò la propria chiesa sul modello di quella di Cesarea. Censurato dal katholikos a motivo dei suoi costumi dissoluti, il re Aršak cacciò Nersete e mise al suo posto un certo Čunak, con l'obbligo di non più ricevere l'ordinazione da Cesarea, ma da vescovi armeni: conseguenza della rottura fra Aršak e l'imperatore romano Valente (369). Richiamato dal re Pab, Nersete ristabilì la comunione ecclesiastica con Cesarea, ma, avvelenato in seguito dal re, il suo successore Husik rese definitiva la rottura con Cesarea (374).
In mezzo a diversi sconvolgimenti politici, che ebbero per conclusione la soppressione della sovranità armena e l'insediamento di ostikan o governatori da parte del re di Persia (428), il sāsānida Sapor III nominò katholikos Sahak, detto il Grande, figlio di Nersete. Molto istruito, Sahak chiamò presso di sé Mesrop, già segretario alla corte, poi monaco e missionario nel distretto di Urmia direttamente sottomesso alla Persia. Avendo esperimentato la poca praticità del sistema ivi adoperato per trascrivere la lingua armena per mezzo dei caratteri siriaci, Mesrop prese per base un antico alfabeto armeno caduto in disuso, e, dopo molti tentennamenti, immaginò l'odierno alfabeto armeno di 36 lettere, perfettamente appropriato alla fonetica della lingua. Si poté allora dar principio a tutta una serie di versioni dal siriaco, e in seguito dal greco, cominciando dalla Sacra Scrittura. Così venne formata una lingua letteraria detta armeno classico, rimasta la lingua liturgica della chiesa armena, e per molti secoli l'unica lingua letteraria. Vogliono gli Armeni che il loro alfabeto sia stato adattato anche alla lingua georgiana: questo è aspramente contestato dagli stessi Georgiani; è certo, nondimeno, che i due alfabeti hanno una grande somiglianza.
Sotto il patriarca di Costantinopoli Attico (406-425), essendo stata ristabilita la pace tra l'imperatore d'Oriente e il re di Persia, il katholikos ricevette il diritto di esercitare sopra gli Armeni dell'Impero romano d'Oriente una giurisdizione personale, a danno dei diritti non ancora prescritti del metropolita di Cesarea, ormai sottomesso al patriarca della capitale. Continuò l'attività letteraria e la fondazione di scuole; ma, a motivo delle relazioni sempre tese fra le due grandi monarchie dell'Oriente, la romana e la persiana, i vescovi armeni non poterono prender parte al concilio ecumenico di Efeso (431) in cui fu condannato Nestorio: un lungo esposto dogmatico del patriarca di Costantinopoli Proclo (434-446), fu accettato nel sinodo di Aštišat (435); ma la lingua armena era ancora poco adatta ad esprimere le sottigliezze della controversia cristologica, e da versioni poco esatte nacquero più tardi le divergenze che condussero la chiesa armena ad abbracciare, senza troppo accorgersene, il monofisismo. All'epoca del pontificato di S. Sahak (388-439) risale l'obbligo per i vescovi armeni di essere sempre celibi, e nel sinodo di Šahapivan (444) quello per i sacerdoti vedovi di non prendere altra moglie. Gli anni seguenti sono occupati da lotte religiose contro la pretesa del re di Persia di convertire forzatamente gli Armeni al culto del fuoco: nel 506, ristabilita ancora una volta la pace tra il re sāsānida Qawād e l'imperatore bizantino Anastasio I, cessò la persecuzione.
Sennonché questa circostanza influì molto sul fatto della separazione della chiesa armena dalla comunione cattolica universale. Al pari di molte altre chiese orientali oggi separate da Roma, gli Armeni furono in quell'occasione piuttosto vittime che colpevoli. Quando fu radunato il concilio ecumenico di Calcedonia (451) contro il monofisismo, l'Armenia non vi fu rappresentata a motivo della guerra tra i due imperi: versioni inesatte e mancanza di termini teologici adeguati contribuirono a far sospettare una contraddizione fra i decreti dommatici di Calcedonia e quelli di Efeso. Al momento della promulgazione dell'enotico di Zenone (482), gli Armeni erano gli alleati di quest'ultimo nella lotta contro i Persiani, e la pace del 506, procurata da Anastasio, proveniva da un imperatore che parteggiava per il monofisismo. Come più tardi i Maroniti, gli Armeni furono le vittime della politica religiosa degl'imperatori di Bisanzio. Nel primo sinodo di Dvin (Duin) (506-507) furono accettati, mercé l'intervento di monofisiti, sia l'enotico di Zenone sia la condanna del concilio di Calcedonia tacciato di nestorianismo: tale sentenza fu confermata nel secondo sinodo di Dvin (554) con maggiore insistenza, sempre con lo scopo di tener fede alla confessione professata dall'imperatore di Bisanzio, considerato come veramente ortodosso. Vi furono, come poteva aspettarsi, dissensi tra i vescovi armeni: il katholikos Hovhannēs II Gabełean accettn̄ il concilio di Calcedonia nel 572, allorchḫ dovette rifugiarsi a Costantinopoli dopo una ribellione contro i Persiani; ma il suo successore Movsēs II di Ełivard (574-604) lo rigettn̄, perchḫ era sotto l'autoritމ del re di Persia. L'imperatore Maurizio (582-602) nominn̄ un nuovo katholikos, Hovhannēs III, per la parte dell'Armenia a lui ceduta dal re sāsānida Cosroe Parwēz. Così, secondo i cambiamenti politici, il concilio di Calcedonia fu di nuovo condannato nel sinodo armeno-siro tenutosi nel 614-616 a Ctesifonte, sotto l'autorità del re persiano Cosroe Parwēz, e accettato in quello di Karin (odierna Erẓerūm) nel 632, dopo la vittoria di Eraclio sopra i Persiani. Nel 649, il terzo sinodo di Dvin accettò il monofisismo, che poi venne condannato nel 653. Dai canoni del concilio Trullano (692) si rileva che il dissidio tra Armeni e Bizantini si era accentuato: agli Armeni vien rimproverato l'uso certamente pagano dei sacrifizî di animali offerti per i morti (matał), ancora in uso oggi almeno presso i dissidenti, e quello di non mescolare un po' di acqua nel vino della consacrazione eucaristica. Dopo la conquista della Siria da parte degli Arabi (636) e la rapida estensione del potere dei musulmani, gli Armeni dipendenti dai califfi avevano il massimo interesse a professare il monofisismo, per non apparire partigiani dei Bizantini. Così, nel sinodo di Manazkert (726), sotto il katholikos Hovhannēs III Imastasēr (il Filosofo) fu nuovamente condannato il concilio di Calcedonia.
Gli ultimi califfi omayyadi si erano dimostrati meno tolleranti dei primi, che avevano preso per linea di condotta nelle loro relazioni con i sudditi rimasti cristiani (i quali erano ancora numerosissimi) di conservare ogni cosa nello stato in cui l'avevano trovata nel momento della conquista. Peggio ancora fu sotto gli ‛Abbāsidi. Sono rimaste tristamente celebri le persecuzioni dell'anno 850 e seguenti, promosse dall'emiro turco Bughā, padrone effettivo del califfato, che suscitarono numerose apostasie e numerosi martiri. L'intervento continuo del potere civile negli affari religiosi suscitò le competizioni ed avvilì il katholikosato, che diventò quasi ereditario nel seno di tre o quattro grandi famiglie.
Ma, nella Grande Armenia, la potente dinastia dei Bagratidi, che parteggiava per il califfo, ne ricevette varî privilegi e una specie di vicereame. Dopo le concessioni di Maurizio, esisteva una gerarchia armena anche nell'Impero bizantino: il celebre patriarca Fozio ne approfittò per inviare, pel tramite del metropolita armeno di Nicea Vahan, due lettere dogmatiche al viceré Ašot e al katholikos Zaccaria (855-877). Nell'862 circa fu riunito il sinodo di Širakavan, in cui fu discussa la questione dell'unione religiosa con la chiesa bizantina, e si venne a un compromesso col quale il concilio di Calcedonia non veniva né condannato né accettato: una mezza misura, che lasciò le cose nello stato di prima. Alcuni, tra principi e prelati, parteggiavano però per il concilio di Calcedonia: così, verso il 968, il katholikos Vahan rese di pubblica ragione la sua adesione alla dottrina delle due nature in Cristo ed ebbe discepoli, tra i quali il celebre Gregorio Narekac̣i, poeta, teologo e liturgista. Ma la polemica riprese nuovo vigore sotto il katholikos Xačik Aršaruni (971-992), forse perchè i Bizantini cercavano di estendere troppo la loro gerarchia nelle provincie armene ancora sottomesse a Costantinopoli. La dinastia pressoché indipendente dei Bagratidi fu a poco a poco spossessata dagl'imperatori bizantini, a partire dall'epoca di Costantino IX Monomaco (1042-1054): come sempre, cercarono questi di ricondurre gli Armeni alla dottrina ortodossa con la forza, e queste vessazioni, unite con gli sforzi degli Armeni per riconquistare la loro indipendenza, cagionarono una recrudescenza nell'eresia.
Nel regno dell'Armenia Minore, più a contatto con l'Occidente specialmente dopo l'iniziarsi delle crociate, cominciarono le relazioni dirette degli Armeni coi papi. Già il katholikos Gregorio II Vkayasēr (il Filomartire, dalla sua cura di compilare le Passioni dei martiri) cercò di unirsi con le altre chiese cristiane, e ricevette a tal effetto una lettera del papa S. Gregorio VII. Era naturale che, sia per opposizione ai Greci, sia per liberarsi dal pericolo musulmano, gli Armeni della Cilicia cercassero di mantenere buone relazioni con i principi franchi. Sotto Nersete IV Šnorhali (1166-1173), il sinodo di Hṙomklay, al quale presero parte il teologo greco Teoriano e rappresentanti del patriarca giacobita di Antiochia Michele il Grande, esaminò di nuovo la questione dell'unione, e Nersete stesso espose, come professata dagli Armeni, la dottrina cattolica sull'incarnazione. Un secondo sinodo di Hṙomklay, nel 1179, arrivò all'unione con i Greci; ma, alla morte dell'imperatore Manuele I Comneno (1180), le relazioni furono di nuovo rotte. Nel 1184 però, il katholikos Gregorio VI Tłay ottenne dal papa Lucio III il pallio e la mitra. Nel 1196, Gregorio VI Apirat tentn̄, in occasione del sinodo di Tarso, di concludere l'unione coi Greci, senza potervi riuscire, ma mantenne relazioni cordialissime con Roma, e l'unione fu assicurata quando il re Leone ricevette nel 1198 la corona reale dalle mani di un legato pontificio. Vi furono pern̄ delle opposizioni, e gli avversarî dell'unione trovavano nel combattere le pretese del patriarca latino di Antiochia un facile pretesto per sottomettere alla propria giurisdizione anche il katholikos armeno. L'idea di una doppia giurisdizione non si era ancora fatta strada, e i papi stessi, Innocenzo III e Innocenzo IV, incoraggiavano le mire dei patriarchi latini di Antiochia. Non si può negare che i papi di quell'epoca, compreso Giovanni XXII che pure si dimostrò molto conciliante, mirassero troppo ad una unificazione liturgica, riconosciuta oggi inutile e pericolosa. La fondazione dei domenicani armeni, detti unitarî e in Italia bartolomiti, e l'attività da loro esplicata, ebbero un doppio e contraddittorio risultato: da una parte propagavano la dottrina cattolica, ma dall'altra, con la loro pretesa di voler abolire la liturgia armena per mettere al suo posto quella dell'ordine domenicano tradotta in armeno, suscitarono opposizioni violente. I sinodi di Sīs (1307) e di Adana (1316) furono cattolici nella dottrina e cercarono di riformare i costumi corrotti del clero armeno, tanto alto quanto basso, ma il deplorevole sistema della latinizzazione produsse i suoi frutti: crebbero le polemiche, ingiuste tanto da una parte quanto dall'altra, e quando nel 1375 il regno dei Lusignani soccombette in modo definitivo in seguito alle guerre col sultano di Egitto, il partito antiunionista ebbe il sopravvento. Dal 1045 il reame di Ani era stato conquistato dai Bizantini; nel 1064 il selgiuchida Alp Arslān aveva conquistato la Grande Armenia: tutti gli Armeni erano ormai sottomessi a principi stranieri, talvolta musulmani, e questo stato di cose durò finché nel 1828 una piccola parte del paese fu incorporata all'Impero russo. Le invasioni mongoliche accentuarono ancora la rovina del popolo e della chiesa. Numerosi furono gli apostati, numerosi anche i martiri. Eppure, sotto il katholikos Costantino VI, la chiesa armena accettò volentieri l'unione di Firenze (1439). Ma gli antichi pregiudizî duravano. Eugenio IV dovette intervenire per far restituire al vescovo armeno di Caffa, nella Crimea, alcuni privilegi giurisdizionali che gli venivano contrastati dal vescovo latino. Il celebre decreto per gli Armeni, opera del concilio di Firenze, non è altro che un'esposizione della dottrina e delle principali pratiche liturgiche della chiesa romana: da quell'epoca si è sempre cercato, non soltanto di farne accettare la parte dogmatica, ma anche di trasformare in legge quella liturgica, prettamente disciplinare e come tale suscettibile di grandi concessioni, che soltanto l'epoca nostra doveva ammettere e riconoscere come legittime.
La presa di Costantinopoli per parte dei Turchi (1453) trovò la chiesa armena in un profondo stato di scompiglio. Già nel 1113 il vescovo di Ałthamar, in una delle due isole del lago di Vān, si era dichiarato indipendente e aveva trasformato la sua sede in sede katholikosale. Nel 1441, la sede del katholikos supremo, fissata a Sīs in Cilicia dopo molti cambiamenti a seconda degli avvenimenti politici, fu trapiantata definitivamente a Eğmiadzin nell'antica Armenia, e la sede di Sīs diventò quella di un katholikos secondario. Nel 1461, il conquistatore di Costantinopoli, Maometto II, chiamò nella capitale Gioacchino vescovo di Brussa, e l'investì di un'autorità civile uguale a quella del patriarca greco per tutti gli Armeni del suo impero. Era un tentativo di usurpazione del potere religioso; essa presto fu quasi raggiunta, ma non mai interamente compiuta, essendo sempre rimasti alcuni privilegi al katholikos di Eǧmiadzin. Già dal 1311, in opposizione alle decisioni del sinodo di Sīs del 1307, il monastero di S. Giacomo di Gerusalemme aveva dato il titolo di patriarca al vescovo armeno della città santa. Così gli Armeni hanno conservato, fino alle ultime stragi consecutive alla guerra mondiale, un katholikos supremo, quello di Eǧmiadzin, universalmente riconosciuto come tale e l'unico in possesso di tutti i privilegi della dignità di capo della chiesa; due katholikos di minor rango, quelli di Sīs e di Ałthamar; e due patriarchi non rivestiti del titolo di katholikos e con privilegi religiosi ristretti, quelli di Costantinopoli e di Gerusalemme. Sotto i Turchi, la giurisdizione civile era goduta dal solo patriarca di Costantinopoli. Queste spiegazioni sono necessarie per far capire lo svolgimento di una gerarchia che, a prima vista, sembra complicatissima e anarchica, ma che in realtމ aveva finito col sistemarsi perfettamente.
Dal sec. XVI in poi non ę pił possibile esporre la storia religiosa dell'Armenia senza trattare separatamente di quella parte della nazione, molto pił numerosa, che si mantenne o ricadde nella confessione monofisita, e di quell'altra parte che, dal pontificato di Gregorio XIII (1572-1585), si raggruppn̄ a mano a mano sotto la giurisdizione di un successore degli antichi katholikos di Sīs, per formare il patriarcato armeno cattolico. Se ne tratterà quindi separatamente.
Già sotto le dinastie armene indipendenti, il potere spirituale era grandemente soggetto a quello civile, in ispecial modo per quanto riguarda la scelta dei katholikos e d'altri capi spirituali; fu peggio ancora sotto i Turchi. Se dal 1454 al 1918, cioè dalla presa di Costantinopoli alla definitiva sconfitta dell'Impero ottomano si contano per il patriarcato greco di Costantinopoli 102 patriarchi con 161 patriarcati, se cioè si ha una durata media di tre anni circa per ogni patriarcato greco, gli Armeni hanno avuto durante il medesimo periodo di tempo 78 patriarchi a Costantinopoli con 108 patriarcati, con una durata media di quattro anni per ognuno. È da osservarsi che, negli stessi limiti cronologici, la sede romana ha contato soltanto 50 papi, e, ben s'intende, con altrettanti pontificati, della durata media di nove anni. La sede di Eǧmiadzin, sottratta all'influenza turca, ha avuto dal 1441 al 1918 soltanto 69 titolari, e nessuno ha pontificato più di una sola volta. Il regime turco è stato disastroso per il popolo armeno e per la la sua chiesa. Nonostante lo stato quasi continuo di guerra tra la Turchia e la Persia, la sede di Eǧmiadzin seppe conservare meglio la propria indipendenza. Le altre sedi di Sīs, Ałthamar, Gerusalemme ebbero un'esistenza anche pił tranquilla.
Non cessarono mai del tutto le relazioni della sede di Eğmiadzin con Roma. Nel 1548-1550 il katholikos Stefano V fece la sua sottomissione a Roma; nel 1562 il suo coadiutore Michele di Sebaste mandò a Pio IV una professione di fede abbastanza esplicita per spingere Gregorio XIII a prescrivere al vescovo titolare di Sidone, Leonardo Abele, suo legato in Oriente, di allacciare relazioni più intime con la sede dell'Armenia Maggiore. Non poté Leonardo arrivare fino ad Eǧmiadzin, tuttavia il pontefice incoraggiò l'apertura di una tipografia armena a Roma ed eresse anche un collegio armeno, che ebbe effimera esistenza. Esso fu soppresso da Sisto V, poco favorevole in via di massima agli orientali, e in generale avverso a tutto il sistema di politica religiosa del suo predecessore: l'abnegazione e il disinteressamento del cardinale Santoro, protettore di tutte le nazioni oltramarine, non riuscirono a salvare il collegio. Nel frattempo il katholikos David IV (1587-1629) credette bene, per sfuggire alle prepotenze dei Turchi, di concludere una specie di alleanza con la Persia: lo scià ‛Abbās I ne approfittò per trapiantare con mezzi violenti una considerevole popolazione armena in Persia, principalmente a Giulfā. A quelli che non avevano potuto sistemarsi nel nuovo abitato venne concesso in anticipazione del danaro senza interessi; ma alla scadenza essi dovevano o rimborsare il capitale o farsi musulmani. A salvare i cristiani si adoperarono gli agostiniani portoghesi; e, riconoscente, David fece professione di cattolicesimo nel 1607, ma, per le opposizioni di una parte del clero e del popolo, rese condizionata questa dichiarazione. Era egli contrastato dal proprio coadiutore, Melchisedec di Gaṙni: denunziato allo scià, imprigionato e sottopoito alla tortura, si rivolse nuovamente al papa Paolo V (1610), promettendo tutto per salvarsi dai suoi creditori. Certamente quest'adesione all'unione non era sincera: Melchisedec fuggì a Costantinopoli, poi in Polonia (1635), e, mosso dall'interesse più che da altro, patrocinò e raggiunse l'unione dell'arcivescovado di Leopoli, eretto dal sec. XIV, con la sede apostolica. A Eǧmiadzin, il katholikos Sahak IV (1624-1628) tentò inutilmente di stabilire un katholikosato indipendente per le provincie armene della Turchia; ma il suo successore, Movsēs III, capì che la via più sicura per liberarsi delle vessazioni sia dei Turchi sia dei Persiani era di unirsi all'Occidente, e mandò a Roma il domenicano Paolo Piromalli, da Bisignano in Calabria. Urbano VIII rispose favorevolmente nel 1640, e, verso il 1647, il katholikos Filippo di Ałbak fece pervenire a Roma una lettera sinodale di sottomissione. Chiamato a Costantinopoli per ovviare ai disordini del patriarcato armeno, trovn̄ un terreno ben preparato dal teatino Clemente Galano da Sorrento: alcuni arcivescovi ed anche patriarchi avevano fatto professione di fede cattolica. Ma tanto gli avversarî dell'unione quanto i cattolici adoperavano gli stessi mezzi per impadronirsi del patriarcato: ingenti somme di danaro promesse ai Turchi, e che poi era necessario pagare; di qui una situazione inestricabile. Così un certo Tommaso, insolvibile, era dovuto fuggire a Roma. Il katholikos Filippo - passato dapprima per Aleppo, ove i gesuiti, installati fin dal 1625, avevano già ben coltivato il terreno e così preparato il rifiorimento del cattolicismo nel katholikosato di Sīs in Cilicia - depose l'ambizioso patriarca di Costantinopoli Ełiazar di ‛Ainṭāb, e, per mezzo di questue bene organizzate, estinse i debiti del patriarcato. Il successore di Filippo nella sede di Eǧmiadzin, Hakob IV, rimase fedele al cattolicesimo, e per ben due volte venne chiamato anch'egli a Costantinopoli, ove l'ambizione sfrenata dei candidati alla sede patriarcale, compreso il monaco Tommaso tornato da Roma e finito poi in modo deplorevole, avevano rovinato tutta l'opera di Filippo. In tutte queste competizioni, che si verificano anche nella storia del patriarcato greco e hanno la loro origine nella cupidigia dei Turchi e nell'avvilimento del carattere, conseguenza dell'ignoranza e della schiavitù, la questione dell'unione con Roma era piuttosto un pretesto. Tutte le testimonianze sono d'accordo nel riferire la vita veramente edificante del katholikos Hakob: morto a Costantinopoli nel 1680, fu sepolto nel cimitero di Pera e venerato come santo. Nahapet I di Edessa (1691-1705) succedette ad Ełiazar, che era riuscito finalmente a entrare in possesso della sede katholikosale, e si dimostrn̄ anch'egli buon cattolico, seppure per motivi di prudenza non credette opportuno dichiararsi troppo apertamente, giacchḫ le competizioni e i ricorsi allo sciމ di Persia erano continui. Nel frattempo varî ordini cattolici, cappuccini, carmelitani, si erano stabiliti in Persia: Innocenzo XII (1691-1700) approfittò del loro lavoro per mandare allo scià Ḥusain I un suo legato, Pietro Paolo de Bapaume, francese, arcivescovo titolare di Ancira. Altri principi cristiani intervennero presso lo scià, e gli editti contrarî alla libertà religiosa degli Armeni di Persia furono revocati. Tutto era ben disposto per la conclusione dell'unione religiosa, e il hatholikos Nahapet favorevole: si ebbero conferenze, ma senza buon successo; il legato non seppe forse destreggiarsi sì da rispettare determinati interessi temporali
A Costantinopoli continuavano i disordini e le competizioni tra i candidati alla sede patriarcale, e la questione dell'unione era sempre in campo, ma unicamente come pretesto, benché alcune anime più nobili la desiderassero veramente. Il periodo 1694-1715 è caratterizzato dalle lotte tra due ambiziosi, Efrem ed Awetikh, e i loro sostenitori. Dopo la rivolta dell'isola di Chio contro la Porta e la sua temporanea occupazione da parte dei Veneziani (1694), Efrem denunziò i cattolici a meni come parteggianti per i principi cristiani; poi finì col pregare l'ambasciatore di Francia di appoggiarlo contro tutti, promettendo di farsi cattolico. Awetikh, anche più ambizioso e soprattutto più violento, suscitò persecuzioni a mano armata, protetto com'era dal grande muftī Faiẓ Ullāh effendi, cioè dal rappresentante supremo della religione musulmana presso il sultano; arrivò anzi al punto che l'ambasciatore di Francia de Ferriol ricorse anch'egli alla forza, s'impadronì di Awetikh (1706) e lo fece trasportare in Francia. Chiuso nella Bastiglia di Parigi, abbracciò finalmente il cattolicismo, con dubbia convinzione, e morì a Parigi nel 1711: alcuni hanno visto in lui, a torto, la famosa "Maschera di ferro" su cui tanto si è sbizzarrita la fantasia. L'atto del de Ferriol fu un errore: ne seguì una grave recrudescenza della persecuzione, e tutti gli Armeni cattolici, allora quasi diecimila a Costantinopoli sopra una popolazione totale di quarantamila, vennero denunziati come amici della Francia. Un parroco, ammogliato, Tēr Komitas Khēōmurgean, fu martirizzato (1707): Pio XI l'ha proclamato beato nel giugno 1929. Apostatare e maledire papa S. Leone I e il concilio di Calcedonia furono gli unici mezzi di scampare al carcere e ai lavori forzati nel bagno di Costantinopoli: i cattolici provarono, ma inutilmente, di organizzarsi in separata comunità, mirando a far perdere ai vescovi eretici la quarta parte delle loro rendite: cinque vescovi dichiaratisi cattolici furono imprigionati: due apostatarono, la sorte di un terzo è incerta, ma i due ultimi, Melchiorre Thasbas (Melkūn Tazbaz), già alunno di Propaganda, e Astvadzatur (Astuacatur "Teodato") furono condannati a remare sulle galere del sultano e morirono confessori della fede.
I cattolici ebbero un po' di riposo quando venne eletto patriarca di Costantinopoli Hovhannēs IX, di Bitlis, soprannominato Koloth, nel 1715. Ottimo amministratore, era riuscito a salvare dalla rovina il patriarcato armeno di Gerusalemme e diede un buon impulso a quello di Costantinopoli. I missionarî occidentali, specialmente i gesuiti, avevano ricominciato il loro apostolato, e dopo una breve persecuzione, il sinodo del 1726, che ebbe ad occuparsi degli affari di Gerusalemme e dell'elezione del katholikos Karapet II (1726-1729), si dimostrò piuttosto favorevole ai cattolici. Tanto il katholikos Astvadzatur (Astuacatur) di Hamadan (1715-1729) quanto lo stesso Karapet mandarono lettere ad Innocenzo XIII e a Benedetto XIII; Koloth era esitante Vennero tuttavia soppressi gli anatemi contro S. Leone e il concilio di Calcedonia, e di nuovo fu ventilata l'idea di dare agli Armeni cattolici un'organizzazione separata, ma in modo di non danneggiare gl'interessi temporali dei vescovi "gregoriani", ossia dissidenti. Dopo diverse difficoltà, l'accordo fu raggiunto, e Koloth era in procinto di mandare a Roma la sua professione di fede, quando morì nel 1741. Durante i due patriarcati di Hakob II Nalean a Costantinopoli (1741-1749 e 1752-1764), i cattolici, ogni giorno più numerosi, cercarono d'impadronirsi di alcune chiese: ne seguirono varie vessazioni, e finalmente un nuovo accordo. Nalean cercò invano di rendersi indipendente dal katholikos Łazar (Lazzaro) II di Giahuk (1737-1751), vero tiranno, che non cessn̄ di eccitare i sovrani musulmani contro i cattolici. Gli Armeni di Costantinopoli erano allora preponderanti nella scelta del katholikos supremo di Eǧmiadzin: soltanto nel 1763 venne eletto in modo indipendente Samuele di Erivan (1763-1780), il cui nome è legato alla promulgazione, nel 1774, di un'appendice al Tōnac̣oyc̣ o calendario liturgico, per sistemare finalmente le straordinarie complicazioni di quello: i cattolici non lo vollero accettare, perché contava tra i santi armeni alcuni monofisiti accertati. Il katholikos Łukas (Luca) di Karin (1780-1799) si dimostrn̄ ben disposto per i cattolici, mentre il patriarca di Costantinopoli Zaccaria II (1773-1781 e 1782-1799) cercn̄ dapprima di ricondurre con vessazioni di ogni sorta i cattolici nel grembo della chiesa nazionale, poi, durante il suo secondo patriarcato, volle arrivare a un accordo. Una delle sei condizioni da lui proposte costringeva i cattolici a far celebrare dal clero gregoriano battesimi e funerali, e a comunicarsi nelle chiese gregoriane. Ne seguị una lunga polemica tra gli avversarî e i fautori di questa concessione, polemica nella quale il marchese di Serpos si fece un nome.
Dal 1758, il collegio di Propaganda aveva costituito a Costantinopoli, sotto la giurisdizione del vicario patriarcale latino, un vescovato rituale armeno cattolico, che fungeva da vicariato generale per gli affari armeni prettamente ecclesiastici, mentre tutti gli affari di carattere civile si dovevano trattare per il tramite del clero gregoriano, l'unico riconosciuto dalla Porta. Pōłos (Paolo) I Grigorean (1815-1823) aveva convocato un sinodo e invitato il vescovo cattolico armeno monsignor Antonio Mserlean a prendervi parte, ma questi rifiutn̄. Irritato, il patriarca non intervenne quando i due fratelli Gregorio e Sergio Dūzzoglū, direttori della zecca del sultano Maḥmūd II, furono costretti, sotto la falsa imputazione di malversazioni, a presentare immediatamente i loro conti. Ambedue erano cattolici, e si trattava di una somma enorme. Mercé l'aiuto di altri banchieri armeni della capitale, i due fratelli avrebbero potuto salvarsi: nessuno volle soccorrerli, e i due infelici furono vittime del loro accusatore, il turco Khāled effendi. Le vertenze religiose furono di molto peso in questo rifiuto. I fratelli Dūzzoglū furono impiccati, i loro beni confiscati, e mons. Mserlean mandato in esilio con alcuni sacerdoti (1820).
Non si deve dimenticare che le famose vertenze intorno ai riti pagani cinesi e malabarici, cominciate verso la metà del sec. XVII e terminate al principio del XVIII, ebbero un contraccolpo doloroso anche nel vicino Oriente, e che, senza sacrificare nulla della fede cattolica, si sarebbe potuto forse arrivare a un accomodamento con le autorità dissidenti. A mano a mano si arrivò a una radicale separazione, che si fece anche più profonda quando nel 1831 i cattolici dell'Impero ottomano ottennero finalmente l'emancipazione civile. Cessarono le adesioni al cattolicismo, che sembravano così facili ad ottenersi nel sec. XVII, e il numero dei cattolici non ebbe più a crescere se non per l'effetto naturale delle nascite, tranne poche eccezioni. Oggi che le controversie dogmatiche sono in gran parte sopite, che la situazione civile è del tutto cambiata, il ristabilimento dell'unità sembra più difficile che mai. Le due comunioni vivono a fianco l'una dell'altra, non hanno relazioni e s'ignorano vicendevolmente. Molti pensano che una revisione di alcuni severissimi decreti, promulgati durante la prima metà del sec. XVIII e applicati ogni giorno con maggior rigore, sarebbe sommamente opportuna.
Checché ne sia, Pōłos Grigorean riallaccin̄ le trattative, cercando di arrivare a un compromesso dogmatico, ma senza buon successo. L'ultima grande persecuzione ebbe luogo sotto il katholikos di Eǧmiadzin, Ephrem (Efrem) I di Dzorałeł (1809-1831): lo zar Alessandro I faceva ogni sforzo per attirare gli Armeni nei suoi stati, e vi riusciva. I cattolici ne vollero trar profitto per far risaltare agli occhi del sultano la loro fedeltމ, e chiesero in ricompensa il riconoscimento civile della loro comunitމ. Lo seppe il patriarca di Costantinopoli Karapet III di Palat (1823-1831), e con l'appoggio del suo predecessore Pōłos Grigorean ottenne nel 1827 un decreto di esilio per tutti i cattolici. Si era nel momento pił rigido dell'inverno; molti perirono. Ma il sultano Maḥmūd, vinto dai Russi, implorò la mediazione della Francia e dell'Austria: ne approfittò il papa Leone XII per far inserire nel trattato di Adrianopoli l'emancipazione civile dei cattolici armeni (1829). Il 3 gennaio 1831 fu promulgato un khaṭṭ-i sherīf di Maḥmūd, con il quale tutti i cattolici dell'Impero, sudditi ottomani, erano emancipati dall'autorità civile dei patriarchi, metropoliti e vescovi di altra confessione. Da schiavi ed oppressi, gli Armeni cattolici divennero i rappresentanti civili di tutte le comunita cattoliche presso la Porta, meno i Latini, finché, nel corso della prima metà del sec. XIX ognuna di esse non si fece concedere un particolare rappresentante. Il 6 luglio 1830 Pio VIII aveva eretto a Costantinopoli un arcivescovato primaziale armeno, al cui titolare spettava la giurisdizione spirituale, mentre un sacerdote rivestito del titolo di patrik, ossia patriarca civile, s'occupava degli affari civili. Il patriarca civile era l'unico riconosciuto dalla Porta. Riprenderemo più oltre la storia degli Armeni cattolici, ormai separati dai dissidenti o gregoriani.
Nel medesimo tempo, una buona parte della nazione armena passava sotto il dominio russo. Nicola I era molto favorevole all'indipendenza greca: il trattato di Turkman-Čāi con la Persia (1828) gli dava la sede storica dei supremi katholikos, Eǧmiadzin. Già da molto tempo gli Armeni si erano segnalati al servizio dei Russi: il celebre istituto Lazarev per le lingue orientali a Mosca, inaugurato nel 1814, è una fondazione armena. Ma lo zarismo non avrebbe potuto tollerare una chiesa del tutto indipendente dal suo controllo, specialmente una chiesa così nazionale com'è stata sempre la chiesa armena. NeI 1836 un regolamento conosciuto sotto il nome russo di Položenie diede alla chiesa armena di Russia una costituzione modellata su quella della chiesa ortodossa di stato: la confessione armena gregoriana era solennemente riconosciuta, ma l'elezione del capo supremo, fino allora libera, si limitava alla presentazione per la scelta imperiale di due candidati da parte di una assemblea di ecclesiastici e di laici. Praticamente, il governo ebbe l'accortezza di scegliere sempre quello che aveva ottenuto la maggioranza nei voti, ma, nel 1882, alla morte del katholikos Gēorg (Ghevorg) IV Khērēstegean, scoppiò un dissidio: l'eletto, Nersete Varzapetean, proclamato soltanto nel 1884, non venne mai consacrato, e, nel 1885, lo zar Alessandro III nominò Makar Tēr Petrosean, senza badare alla votazione. Al fianco del katholikos era installato un sinodo analogo a quello della chiesa ortodossa, composto di quattro vescovi e di quattro vardapet, ossia dottori. Come per il santo sinodo russo, quello armeno aveva un procuratore imperiale, e presentava all'imperatore due candidati per le eparchie vacanti, e tutte le attribuzioni dei diversi ceti ecclesiastici erano minutamente determinate. La politica progressiva di russificazione forzata irritò gli Armeni, e, nel 1887, alcuni più esaltati fondarono a Tiflis e ad Erivan una società segreta con scopi rivoluzionarî, Hnčak (campana), rivolta principalmente contro il sultano di Turchia, ma anche contro il governo zarista, che la perseguitò e ne esiliò i principali membri. Nelle discussioni preliminari al trattato di Berlino, un vescovo patriota, Mkertič (Mkrtič "Battista") Xrimean, aveva tentato di far inserire nel testo un articolo che garantiva la fondazione di un focolare armeno: ne fu punito con l'esilio, ma l'assemblea nazionale lo elesse katholikos nel 1892 e questa volta Alessandro III ratificò la scelta. Ma nel 1903 un ukaz di Nicola II, strappato al debole sovrano dai russificatori ad oltranza, privò la chiesa armena del possesso dei suoi beni, lasciandole il nudo diritto di proprietà. Ne seguì una grande agitazione: l'infelicissimo provvedimento fu abrogato dopo la guerra russo-giapponese del 1904-1905.
In Turchia il fatto più saliente fu l'inizio di un'attiva propaganda protestante tra gli Armeni, intrapresa nel 1834 da ministri evangelici americani. Il patriarca di Costantinopoli Hakobos Serobean (1839-1840 e 1848-1858) lanciò la scomunica contro gli aderenti alla nuova dottrina, ma senza gran successo. Gli Armeni protestanti si organizzarono sul modello della chiesa anglicana, e, mercé questa concessione, ottennero la protezione del governo inglese allo scopo di rivendicare la loro emancipazione civile (1847-1850). Nel 1847 fu istituito il consiglio civico composto di venti membri, tutti laici, e nel 1859 fu compilato il regolamento generale del patriarcato armeno, per istigazione del governo turco, che diede ad esso la propria approvazione nel 1863. L'influenza dei secolari era ormai predominante nella chiesa gregoriana di Turchia, e il medesimo movimento democratico doveva farsi sentire anche tra le file dei cattolici. D'altra parte, le riforme amministrative, sempre promesse e non mai mandate ad effetto, erano ogni giorno più urgenti nelle provincie dell'Asia Minore: stanchi, molti Armeni diedero il loro nome alla società segreta Hnčak, che credette opportuno procedere con attentati terroristici. Già il sultano ‛Abd ul-Ḥamīd aveva cercato di dividere le forze nazionali con l'offerta, del resto respinta, fatta al katholikos di Sīs di una speciale giurisdizione civile sulla Cilicia e su una parte dell'Anatolia, e col riservare tutti i favori agli Armeni cattolici per poi privarne quelli gregoriani. Dopo un attentato rivoluzionario contro la Banca ottomana, il sultano ricorse a mezzi estremi e lasciò organizzare la strage degli Armeni non soltanto in Costantinopoli, ma anche nelle provincie (1894-1895): i cattolici però venivano risparmiati per quanto era possibile. Il patriarca di Costantinopoli Matheos III Izmirlean dovette rassegnare le dimissioni nel 1896, e al suo posto fu eletto un ex-cattolico, Malachia Ormanean (1896-1908), ambizioso che seppe conservare il favore del sultano senza troppo indisporre la propria comunità, ma che venne rovesciato quando (1908) la rivoluzione della Giovane Turchia ebbe costretto il vecchio sultano a ristabilire la costituzione del 1876. Nel 1909 si ebbe una nuova strage ad Adana, questa volta senza distinzione tra cattolici e gregoriani. Sul principio della guerra mondiale, i Giovani Turchi, irritati per le trattative avviate da un comitato presso le potenze alleate per ottenere finalmente le riforme necessarie, organizzarono su larga scala la deportazione in massa di tutti gli Armeni, con ordini segreti di procedere al massacro di quanti, uomini e donne, n0n avessero aderito all'islamismo. Questa situazione durò ben cinque anni, dal 1915 al 1920. Si è calcolato con qualche verosimiglianza che circa 600.000 Armeni siano stati massacrati; altrettanti sembra siano potuti scampare, o nascondendosi, o rinnegando la fede cristiana, o fuggendo all'estero. Benché tutti i popoli cristiani del passato impero ottomano abbiano avuto più o meno la stessa sorte, nessuno ha sofferto quanto gli Armeni. Ultimamente tutto è stato messo in opera per costringere gli Armeni rimasti a Costantinopoli ad emigrare: essi hanno dovuto rinunziare, per effetto del trattato di Losanna, a tutti i loro privilegi civili. Ben pochi sono rimasti nelle provincie dell'Asia Minore e della Cilicia, in cui formavano prima di tutti questi sconvolgimenti una parte importante della popolazione.
Quanto agli Armeni cattolici, mentre in Costantinopoli essi non giungevano se non molto tardi a ottenere la libertà religiosa, la situazione più favorevole del Libano, pressoché indipendente sotto la dinastia indigena degli Šihāb, permetteva di costituirvi il centro di una gerarchia. Abraham Ardzivean, nato in ‛Ain-ṭāb nel 1679, si era messo da giovane sotto la guida di un ex-alunno del collegio di Propaganda, Melkün Tazbaz, ardente e convinto cattolico, e per la sua influenza si era convertito. Ordinato sacerdote dal katholikos di Sīs Petros II nel 1706, venne dallo stesso ordinato vescovo nel 1710, e in questa circostanza fu dispensato dal sottoscrivere la formula di anatema contro il papa S. Leone I e il concilio di Calcedonia, allora in uso. Petros pagò questa concessione con l'esilio in Persia, ed Abraham, condotto a viva forza a Costantinopoli, poté ottenere di ritirarsi a Trebisonda, occupandosi per quattro anni (1714-1717) a predicare nelle chiese armene la fede cattolica. Imprigionato col suo antico maestro Melkūn Tazbaz, fu liberato mercé l'intervento di un potente ebreo, fuggì in Orfa (Edessa), vi lasciò duecento famiglie cattoliche, e, passato in Aleppo, contribuì con le sue prediche ad aumentare il numero dei cattolici della sua nazione. Di nuovo esiliato nell'isola di Rū'ād, sulla costa di Siria, fuggì nel Libano e contribuì alla fondazione degli antoniani armeni. Verso il 1734, il tentativo di alcuni cattolici di Aleppo di separarsi dai gregoriani fallì; ma nel 1740 Abraham conferì il carattere episcopale a tre sacerdoti cattolici, essendo stato eletto dal 26 marzo katholikos di Sīs da un'assemblea di sacerdoti e di laici. Per legittimare tanto l'elezione quanto tutte queste consacrazioni di vescovi, occorreva la sanzione di un'autorità superiore: Abraham si recò a Roma nel 1741, e fu confermato da Benedetto XIV il 26 novembre 1742. Tentò di stabilire la sua sede sia a Costantinopoli, sia in Egitto, ma dovette rinunziarvi, e rimase a Kraīm nel Libano. Nell'impossibilità di uscirne senza farsi imprigionare di nuovo, consacrò alcuni buoni vescovi; e così poté prendere sviluppo tutta una gerarchia. Morì nel 1749: il suo successore, Hakob Hovsepean (1750-1753), trasferì la sede del patriarcato a Zmār ossia Bzommār, a poca distanza di Kraīm. Nella cronologia, tutti i successori di Abraham Ardzivean portano, accanto al loro nome, quello di Pietro, per devozione alla Sede romana, al pari dei Siri, che assumono quello di Ignazio, e dei Nestoriani che ritengono quello di Simeone. Una simile pratica genera confusioni, e perciò non ne terremo conto.
La storia di questi katholikos di Sīs, detti impropriamente patriarchi di Cilicia, non presenta fatti degni d'essere rilievati in una breve notizia. Nel 1851 fu tenuto a Bzommār un sinodo che risentiva del poco sviluppo della cultura degli ecclesiastici armeni di quel tempo, e perciò non fu approvato a Roma.
Si è veduto come il 6 luglio 1830 Pio VII erigesse in Costantinopoli un arcivescovato primaziale per gli Armeni cattolici, del tutto indipendente dal katholikos residente nel Libano. A fianco dell'arcivescovo-primate era il capo civile rappresentante della nazione presso la Porta, decorato del titolo di patrik, ossia patriarca. Tentarono gli Armeni cattolici di far riconoscere al loro primo arcivescovo, Antonio Nurigean, anche il titolo ecclesiastico di patriarca, ma invano, ché ciò avrebbe significato sacrificare il patriarca del Libano. Nel 1845, il coadiutore dell'arcivescovo-primate, Antonio Hassun, fu eletto anche capo civile, e nel 1846, alla morte del primate, le due autorità furono così riunite nella medesima persona; ma per poco tempo: i laici erano sotto l'influenza del movimento democratico che agitava allora tutta la nazione armena, e, come succede spesse volte in Oriente, pretendevano immischiarsi più del conveniente negli affari della chiesa: conseguenza inevitabile delle ampie prerogative civili di cui erano rivestiti i capi religiosi sotto il regime turco. Nel 1848 Hassun rassegnò le dimissioni da capo civile. Ma ben presto il sultano concedette anche al capo spirituale tutti i poteri civili del patrik (1857), e l'ultimo prete-patriarca, Nicola Gagonean, morto nel 1860, non ebbe successore.
Con molta prudenza, date le circostanze, Roma si era riservata la nomina dei vescovi suffraganei dell'arcivescovo-primate. In questo modo si sperava di chiudere la porta a tutti gl'intrighi dei laici. L'unico torto della curia romana fu di non aver tenuto conto di un principio necessarissimo di governo quando si tratta della chiesa orientale di qualsiasi rito o nazione: abituata dall'origine all'autonomia, una chiesa orientale non poteva essere piegata a un sistema di concentrazione assoluta, né per le elezioni episcopali, né per altro. Un provvedimento temporaneo, anche se avesse dovuto durare molto, avrebbe finito con essere accettato, ma, presentato in modo definitivo ed irrevocabile, servì di pretesto agli agitatori per far credere a tutti che Roma non mirasse soltanto alla soppressione graduale di tutti i privilegi secolari della chiesa orientale: occorre confessare che le apparenze, che molti avrebbero di certo voluto trasformare in fatti compiuti, confermavano tale credenza. Nel 1866, i vescovi del katholikosato di Cilicia appagarono tutti i desiderî della nazione eleggendo a katholikos il primate di Costantinopoli Antonio Hassun, e tale scelta fu ratificata da Pio IX l'anno seguente con la bolla Reversurus: soppresso l'arcivescovado primaziale, la sede del patriarcato era trasferita a Costantinopoli e la gerarchia unificata. Pur contenendo disposizioni eccellenti per assicurare la libertà delle elezioni episcopali, la costituzione Reversurus estendeva a tutto il patriarcato le disposizioni restrittive applicate fino allora nell'ambito della sede primaziale di Costantinopoli, cioè il semplice diritto di presentare tre candidati alla scelta di Roma, e ciò per sempre, perpetuis futuris temporibus. Hassun non nascose a Roma che una simile disposizione era inattuabile in modo definitivo e che avrebbe suscitato torbidi: non fu ascoltato. Da buon cattolico si sottomise, ma tutto il rimanente della sua vita fu amareggiato dall'accusa di aver sacrificato i privilegi della chiesa armena. Era l'epoca del concilio vaticano: il governo francese appoggiava la minoranza del concilio, sia in Occidente sia in Oriente. Già nel 1869 un sinodo nazionale aveva dovuto esser sospeso, Hassun, partito per Roma per partecipare al concilio vaticano, aveva lasciato a Costantinopoli un vicario patriarcale, Basilio Gasparean, arcivescovo di Cipro, il quale, messosi a capo degli avversarî della costituzione Reversurus, dovette esser destituito. Da ciò ebbero inizio lunghe e complicate vertenze, appoggiate sottomano dalla diplomazia di Napoleone III. Il delegato apostolico, mons. Giuseppe Pluym, olandese, escogitò diversi mezzi per pacificare gli spiriti: ma questi erano troppo eccitati, e siccome in ultima analisi l'autorità doveva venire rispettata, si giunse ad una sentenza di scomunica contro quattro vescovi, diciotto monaci antoniani, dodici monaci mechitaristi di Venezia, due ex-alunni di Propaganda, otto sacerdoti secolari e cinque missionarî della congregazione di Bzommār. Il provvedimento era forse troppo radicale: i dissidenti si ribellarono del tutto, fecero ricorso al governo turco, pronunziarono illegalmente la deposizione di mons. Hassun ed elessero a katholikos-patriarca uno di loro, Hakob Bahtiarean, vescovo di Diyār Bekir. La S. Sede mandò allora a Costantinopoli il nunzio di Spagna, mons. Alessandro Franchi, per trattare diplomaticamente con il gran visir ‛Alī pascià. Ma morto all'improvviso il ministro ottomano, tutto fu da ricominciare. Mons. Hassun, bandito dall'Impero, venne a Roma; e dovunque cominciò una lotta accanita per il possesso delle chiese. Intanto, caduto l'impero napoleonico in Francia, la diplomazia di quella nazione aveva preso un'altra piega, e si era rimessa a proteggere i cattolici contro i neo-scismatici. Qualche concessione doveva venire anche da Roma: finché visse Pio IX, non se ne parlò; ma Leone XIII, abbandonando il disegno del suo predecessore di sopprimere ovunque ogni autonomia nella scelta dei vescovi di tutte le chiese orientali, prima di fare nell'enciclica Praeclara (1894) la solenne promessa, anche a nome dei suoi successori, di conservare non soltanto la liturgia, ma anche il diritto canonico degli Orientali, ricondusse la costituzione Reversurus a tali termini che, pur lasciandole tutto ciò che aveva di provvido per la debita libertà delle elezioni sempre minacciate da intrighi laicali, riconosceva al sinodo dei vescovi l'antico diritto di procedere direttamente all'elezione, limitandosi all'obbligo ragionevolissimo di far verificare a Roma la canonicità dell'elezione. A mano a mano i principali fautori del neo-scisma si sottomisero: il successore di Bahtiarean, Hovhannēs Kiupelean, dichiarò che non intendeva far ciò se non al sommo pontefice in persona. Acconsentì Leone XIII a questo desiderio di un infelice, preoccupato anzitutto di salvaguardare il suo amor proprio. Il 18 aprile 1879, in una solenne udienza pubblica, con l'intervento di tutti i cardinali presenti in curia, il penitente, che di certo non si era aspettato un'accoglienza così solenne, venne riaccettato dal pontefice nel seno della chiesa cattolica, e poco dopo nominato prelato ordinante per il rito armeno in Roma. Per pacificare vieppiù gli spiriti e nel medesimo tempo per ricompensare già su questa terra colui che si era piegati a un provvedimento che la storia non può del tutto approvare, Leone XIII chiamò a Roma mons. Hassun e lo creò cardinale nel 1880: egli morì a Roma nel 1884. Il successore di lui, mons. Stefano Azarean (1881-1899), vide la fine del neo-scisma nel 1887, col ritorno ai cattolici dell'ultima chiesa che gli scismatici avevano ancora conservata. Molto prudente e stimatissimo dal sultano ‛Abd ul-Ḥamīd, seppe impedire ai proprî correligionarî di partecipare ai movimenti insurrezionali delle società segrete armene, e così salvò in gran parte il suo popolo dalla strage nel 1896. L'unico suo torto fu di essersi dimostrato troppo conciliante quando venne elaborato un nuovo regolamento generale del patriarcato, che dava ai laici nell'elezione patriarcale una parte condannata dalla costituzione Reversurus, punto sul quale la S. sede a buon diritto non giudicava opportuna alcuna concessione. Con l'intento di dare finalmente alla Chiesa armena cattolica il codice legislativo di cui difettava, radunò nel 1890 a Qāḍī-Köi (Calcedonia) un sinodo, che fu preso in esame a Roma, ma non approvato. Il regolamento sottoscritto da mons. Azarean fu messo in vigore per l'elezione dei due primi successori di quel patriarca, Boghos (Pōłos) Emanuelean (1899) e Boghos Sabbaghean (Sappałean) (1904), e Roma non protestn̄, perchḫ le scelte erano state buone. Ma, quando venne proclamata la costituzione ottomana nel 1908, ricomincin̄ l'agitazione tra i laici influenti, ed allora si vide tutta l'imprudenza della concessione fatta da mons. Azarean. Non contenti del privilegio di cui godevano per l'elezione patriarcale, la vollero estesa anche alle elezioni episcopali: il debole katholikos Boghos Sabbaghean protestn̄, finị con l'acconsentire, poi rassegnn̄ le dimissioni. I laici aspettavano molto dal nuovo eletto, monsignor Boghos Terzean, vescovo di Adana; ma quando un nuovo regolamento, di cui si era ventilata l'elaborazione prima dell'elezione, gli venne presentato, accorgendosi che i laici vi ricevevano l'ambita soddisfazione di tutte le loro pretese, rifiutn̄ di firmarlo. Ricomincin̄ l'agitazione come ai tempi di mons. Hassun: monsignor Terzean partị alla volta di Roma, e d'accordo con Pio X indisse un sinodo plenario di tutto l'episcopato armeno, da tenersi a Roma stessa, lontano da tutti gl'intrighi dei laici (1911). Alcune sedi erano vacanti: furono provviste queste, e in pił tre sedi titolari, senza che si richiedesse il consenso dei laici, e cin̄ prima dell'apertura del concilio. In quel momento si svolgeva la guerra italo-turca per la Tripolitania: gli agitatori trassero profitto da tutte queste circostanze, e nel 1912 provocarono la destituzione di mons. Terzean da parte del sultano. Ma questa volta due soli sacerdoti si lasciarono trascinare in un nuovo scisma, che non potḫ effettuarsi per mancanza di capi spirituali. Monsignor Terzean visse da allora in poi ritirato a Roma, e in sua vece fu costituito visitatore apostolico del patriarcato il vescovo di Trebisonda mons. Nazlean. Sopravvenne la guerra mondiale e la grande strage degli Armeni: l'agitazione non si calmn̄ per questo, e il visitatore ebhe molto a soffrire da tutte queste opposizioni, di cui hanno saputo approfittare i kemālisti giunti al potere. II rimedio sembrava doversi trovare in un trasferimento della sede katholikosale in un'altra città, lontana dal centro degl'intrighi. In occasione della conferenza plenaria dell'episcopato armeno (1928), ridotto dal martirio di parecchi dei suoi membri a soli nove vescovi, invece dei diciannove che si erano radunati a Roma nel 1911, è stata tolta la visita apostolica, e il katholikos restituito nella pienezza della sua giurisdizione. Negli ultimi avvenimenti, cinque vescovi sono stati martirizzati, uno è morto in esilio, un altro è caduto vittima dei cattivi trattamenti ricevuti, un ultimo è scomparso senza che si sia mai saputo che cosa sia successo di lui. Di 250 sacerdoti che contava tutto il katholikosato, 126 sono stati massacrati: così pure 175 monache. Di sedici eparchie o diocesi, tre soltanto esistono ancora: Costantinopoli, Aleppo e Alessandria d'Egitto. Di circa centomila fedeli un buon numero si è rifugiato, insieme con moltissimi gregoriani, in Siria, principalmente in Aleppo, attorno a Beirūt e nei dintorni di Damasco, da dove sono stati in gran parte cacciati dalla rivolta dei Drusi e dagli avvenimenti successivi.
La chiesa cattolica conta due congregazioni monastiche di mechitaristi; quella degli antoniani è morente. Fiorente era prima della guerra la congregazione delle monache dell'Immacolata Concezione fondata da mons. Hassun. Manca però un seminario per il clero secolare: non esiste altro che il collegio armeno di Roma, ristabilito da Leone XIII nel 1883, ma affatto insufficiente ai bisogni. Si era stabilito di affidare la direzione di un seminario patriarcale agli assunzionisti francesi, e già si erano radunati alcuni alunni: le circostanze non hanno permesso l'attuazione dell'idea.
Dogmi e disciplina. - La dottrina monofisita, almeno in un senso mitigato, forma il fondo della dottrina della chiesa armena dissidente: abbiamo visto come vi s'introdusse. Oggi, le questioni dogmatiche hanno perduto molto della loro vivezza, tuttavia sussistono ancora. Gli altri errori degli Armeni sono piuttosto dovuti a malintesi: non ammettono l'aggiunta Filioque al Simbolo, che d'altra parte Roma non impone più, ma i loro antichi padri non hanno professato la dottrina erronea dei Greci foziani. Non accettano la visione beatificante delle anime giustificate immediatamente dopo la morte, e nemmeno la parola purgatorio, ma ammettono una necessaria espiazione, dacché fanno preghiere per i defunti. Non intendono la dottrina delle indulgenze come viene messa in pratica nell'odierna chiesa cattolica, ma soprattutto rigettano il primato del romano pontefice e la sua infallibilità dottrinale che, al pari di tutti i dissidenti orientali, interpretano molto male. L'alto clero armeno gregoriano studia volontieri nelle università protestanti d'Inghilterra e di Germania: ne esce istruito, ma spesse volte dopo aver perduto quasi ogni fede positiva.
Dal lato disciplinare, gli Armeni dissidenti hanno conservato l'uso dei sacrifici di animali prescritti dall'antica Legge mosaica (maṭał). Al contrario di tutte le chiese orientali, non mescolano acqua al vino della consacrazione eucaristica. Le altre divergenze disciplinari potrebbero facilmente venire eliminate, soprattutto se i cattolici non avessero; in seguito alla mancanza troppo lunga di chiese proprie e all'educazione impartita al clero soltanto in base a principî di latinizzazione, accettato molte alterazioni nel rito. La liturgia ha subito nel sec. XVII alcune correzioni non sempre giustificabili: è stata soppressa la comunione dei bambini sotto l'unica specie del vino, la comunione sotto le due specie per i laici, introdotte le statue, invece delle immagini dipinte, l'organo e molte devozioni occidentali non prima trasformate e adattate allo spirito del rito orientale, modificato l'abito ecclesiastico in parte sotto la pressione dei dissidenti, ma soprattutto per una infelice tendenza a copiare in ogni cosa i Latini, ecc.: tutte cose che dovrebbero essere cambiate prima di parlare di unione e di ritorno dei dissidenti. Al contrario, il celibato, consigliato ma non obbligatorio, s'introduce sempre più presso i cattolici, mentre i dissidenti non soltanto non lo praticano pel clero inferiore, ma hanno in questi ultimi tempi una tendenza di origine protestante a rigettarlo anche per i vescovi.
Rito. - Il rito armeno trae la sua origine da tre elementi ben diversi: l'origine siriaca e specialmente edessena si fa vedere nella disposizione dell'ufficio propriamente detto, mentre la liturgia eucaristica non è altra che quella detta di S. Giovanni Crisostomo, presso a poco la stessa dell'odierna chiesa bizantina. Il Maštoc o Rituale dei sacramenti offre molte analogie con l'Eucologio bizantino, ma ha ricevuto sviluppi del tutto proprî agli Armeni. Nell'epoca delle crociate e per mezzo del katholikosato di Sīs si introdussero varî usi presi dal rito gallicano o romano: uso della mitra latina, del pastorale latino, dell'anello episcopale, introduzione di una confessione dei peccati al principio della liturgia e del canto del vangelo di S. Giovanni in fine. Questi usi sono ormai penetrati del tutto nel rito, e sono seguiti sia dai dissidenti sia dai cattolici. I libri liturgici sono numerosi come presso i Bizantini, ma anche più complicati. Singolare del tutto è il calendario: quasi tutte le feste sono mobili. I digiuni sono presso a poco quelli dei Bizantini, ma con lo stesso sistema della mobilità. I cattolici hanno cercato più o meno felicemerite d'introdurre un sistema fisso, che non potrebbe dare buoni risultati se non d'intesa con i dissidenti, per non moltiplicare ancora le divergenze già abbastanza numerose.
Statistica. - Prima della guerra mondiale, e anche dopo le stragi del 1896, il numero complessivo degli Armeni sparsi in tutto il mondo, ma specialmente in Russia, Turchia, Persia e nelle Indie, poteva ascendere a tre milioni e mezzo. Si può dire che un milione sia stato massacrato o disperso durante gli ultimi anni. L'Asia Minore è quale l'hanno voluta i Turchi: vuota di Armeni. D'altra parte, numerose colonie sono andate a stabilirsi in Grecia, in Bulgaria, in Romenia, oppure in Francia, in Inghilterra e in America, e a rinforzare quelle che già vi si trovavano.
Dal lato religioso, abbiamo dato più sopra la statistica dei cattolici. Per i gregoriani, occorre riferirsi all'organizzazione dell'anteguerra. Il katholikos supremo di tutti gli Armeni, con residenza a Eğmiadzin, aveva sotto la sua dipendenza religiosa, molto superficiale invero, due altri katholikos di dignità inferiore, quelli di Sīs e di Ałthamar, e due patriarchi, quelli di Costantinopoli e di Gerusalemme. Come si vede, presso gli Armeni la dignitމ di patriarca ę inferiore a quella di katholikos: punto importante che viene dimenticato da quasi tutti gli scrittori. Le eparchie o diocesi non sono organizzate in provincie ecclesiastiche, ma sono tutte di uguale dignitމ, benchḫ i loro titolari, secondo l'uso russo, abbiano nel Caucaso titoli inerenti alla persona e non alla sede, e nelle altre parti del mondo armeno non si faccia pił differenza tra vescovo e arcivescovo. Molte eparchie finalmente non sono amministrate da vescovi, ma da semplici vardapet, cioè dottori, che aspettano anni ed anni prima di ricevere il carattere episcopale, e talvolta non lo ricevono mai. Ciò sembra dovuto al fatto che solo il katholikos supremo può dare l'ordinazione episcopale.
Prima della guerra, le eparchie erano 28 nel katholikosato di Eǧmiadzin, comprese quelle di Pietroburgo, di Mosca, della Persia, di Calcutta nelle Indie, di Batavia nelle Isole della Sonda, e una a Suceava, nell'amica Bucovina austriaca, oggi trasferita, sembra, a ChiŞinău. Il katholikos di Eǧmiadzin aveva inoltre installato un vescovo anche a Parigi. Nel katholikosato di Sīs si contavano 15 eparchie; 2 in quello di Ałthamar; 51 nel patriarcato di Costantinopoli; 4 in quello di Gerusalemme.
I monasteri armeni, sia di uomini, sia di donne, erano numerosissimi, ma, secondo l'uso orientale, con un numero molto variabile di monaci. Non formano un ordine, come si crede spesso in Occidente, ma, secondo la tradizione orientale, sono indipendenti l'uno dall'altro.
Bibl.: Una storia fondamentale è quella di J. de Morgan, Histoire du peuple arménien, Parigi 1919. Per i primi secoli cristiani, importante è l'opera di S. Weber, Die katholische Kirche in Armenien, Friburgo in B. 1903. La voluminosa Histoire politique et religieuse de l'Arménie del p. F. Tournebize, S. J., Parigi (s. d.), che è stata pubblicata a puntate nella Revue de l'Orient chrétien, è fatta con molta scienza, ma l'autore non ha avuto il tempo di darle l'ultima mano e si ferma alla rovina dell'indipendenza armena. Per le relazioni con Roma, sarebbe da esplorarsi il ricco fondo armeno dell'archivio di Propaganda Fide: la sola collezione secondaria delle Scritture riferite nei Congressi contiene una trentina di grossi volumi. L'armeno Alessandro Balgy ha pubblicato in latino, a Vienna, nel 1878, una Historia doctrinae catholicae inter Armenos unionisque eorum in Concilio Florentino che avrebbe bisogno di venire aggiornata. L'opera del patriarca gregoriano di Costantinopoli Malachia Ormanian (Ormanean), L'Église arménienne, son histoire, sa doctrine, son régime, sa discipline, sa liturgie, sa littérature, son présent, Parigi 1910, ha dovuto la sua fama al fatto di essere scritta in lingua francese: l'autore, un ex-cattolico passato ai gregoriani nel tempo dei movimenti anti-hassunisti, non nasconde la propria ostilità contro la Chiesa cattolica ed è molto imbevuto d'idee protestanti e soprattutto modernistiche. Sulla liturgia, buone nozioni in N. Nilles, Kalendarium manuale utriusque Ecclesiae orientalis et occidentalis, 2ª ed., Innsbruck 1896-1897, II; un ottimo studio sul calendario liturgico in C. Tondini de' Quarenghi, Étude sur le calendrier liturgique de la nation arménienne, Roma 1906 (estratto dal Bessarione). Le correzioni uniati sono state esaminate da G. Avedichian (Awetikhean), Sulle correzioni dei libri ecclesiastici armeni, Venezia 1868. I riti dei sacramenti sono strati tradotti in E. Denzinger, Ritus Orientalium Coptorum, Syrorum et Armenorum in administrandis sacramentis, Würzburg 1863. La liturgia eucaristica è stata tradotta da Avedichian in italiano e stampata più volte a Venezia. Il Rituale è stato tradotto in inglese da F. C. Conybeare, Rituale Armenorum, Oxford 1905, e l'ordinario dell'ufficio in latino dai mechitaristi di Venezia, Breviarium armenum sive dispositio communium armeniacae Ecclesiae precum, Venezia 1908. I documenti di storia religiosa contemporanea per i cattolici sono riprodotti nel tomo XL della continuazione del Mansi, coll. 745-1132. Per il diritto canonico dei cattolici, l'unica fonte è costituita dagli Acta et decreta Concilii nationalis Armenorum Romae habiti ad sancti Nicolai Tolentinatis anno Domini MCMXI, Roma 1913. Un'opera italiana notevole su questo argomento di storia ecclesiastica sono le Memorie storico-critiche intorno alla vita e alle opere di monsignore fra Paolo Piromalli, domenicano, arcivescovo di Nassivan, Napoli 1824.