Chiesa e lingua
Per comprendere il nesso tra storia della lingua e storia della Chiesa è sufficiente ricordare i caratteri cruciali delle cosiddette religioni abramitiche, le religioni, cioè, che vedono nelle vicende di Abramo il perno della propria storia. Si tratta delle tre principali confessioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islam, che trovano i fondamenti della fede nelle Scritture rivelate da Dio e assegnano una funzione insostituibile alla parola. Se a ciò si aggiunge che, rispetto alla religione ebraica, le altre due fanno del proselitismo o un dovere morale (islam) o il fulcro su cui ruota l’intera dottrina (cristianesimo), si comprende come le lingue in cui si espongono le verità di fede abbiano assunto una funzione essenziale nella storia linguistica dei popoli islamici e cristiani.
Il cristianesimo, in particolare, nasce come predicazione del Vangelo e si attua nei secoli come diffusione e insegnamento delle parole di Cristo (➔ cristianesimo e lingua). La cura della comunicazione diretta con i fedeli è sempre stata, peraltro, il punto di forza della religione cattolica, che a partire dal XVI secolo, dopo aver ostacolato la lettura diretta della Bibbia in volgare, affidò alla sola parola di predicatori e catechisti la propagazione del proprio credo.
La Chiesa non ha mai avuto come fine ultimo l’affermazione di una lingua o dell’altra, ma il raggiungimento dei suoi obiettivi è sempre stato ottenuto curando l’adeguatezza dei modi espressivi. Ciò ha contribuito a intrecciare a tal punto le vicende della Chiesa cristiano-cattolica alla storia linguistica italiana che, partendo dalle prime e più ampie affermazioni del volgare, potremmo collegare tre momenti essenziali delle vicende linguistiche italiane a tre svolte decisive nella storia della Chiesa.
La nascita degli ordini mendicanti e il loro sviluppo tra i secoli XIII e XV incoraggiarono l’uso e l’intreccio dei volgari, favorendone l’impiego nei testi scritti; le decisioni del Concilio di Trento (1545-63), prese in anni non distanti dalla pubblicazione delle Prose della volgar lingua (1525) di ➔ Pietro Bembo, segnarono un nuovo corso per la comunicazione religiosa e la lingua unitaria; l’affermazione di un italiano parlato e di uso comune negli anni Sessanta del Novecento trovò riscontro nell’introduzione dell’italiano a messa.
Dopo il IV Concilio lateranense del 1215 la cura delle anime fu connessa al nuovo assetto delle parrocchie, entro le quali si dovevano promuovere predicazione e ascolto delle confessioni. Nel tempo furono indicati anche i libri che i chierici delle parrocchie avrebbero dovuto possedere, includendo i manuali per i sermoni, anche se il clero ordinario non andò mai oltre le omelie della domenica, impostate come insegnamento dei principi dottrinali. La loro esposizione si fondava sui modelli (sermo antiquus) dei più antichi predicatori, che davanti ai fedeli volgarizzavano sermoni composti in un latino semplice, tale da essere immediatamente trasposto nella lingua dell’uditorio (➔ predicazione e lingua).
Cambiamenti decisivi nella comunicazione con i laici furono portati dagli ordini mendicanti: i francescani e ancor più i domenicani, divenuti presto l’ordine dei predicatori, diedero carattere sistematico alle modalità e alla frequenza della predicazione, avvalendosi della molteplicità dei propri insediamenti. Privilegiando le sedi urbane, riuscirono a impartire l’insegnamento religioso in modo capillare, come dimostrano i mutamenti della fisionomia di alcune città tramite l’apertura di grandi piazze davanti a chiese e conventi al fine di accogliere gli ascoltatori sempre più numerosi. Fra XIII e XIV secolo i mendicanti svilupparono le tecniche oratorie (sermo modernus) elaborate dall’Università di Parigi e, anche se i testi da cui partivano erano in latino, i rimaneggiamenti in volgare rispondevano a strutture e regole retoriche elaborate a fini pastorali. Il contenuto da trasmettere era articolato in grandi e piccole unità testuali, allo scopo di favorire la memorizzazione e gli intenti didascalici. La presenza di exempla, narrazioni brevi che chiarivano l’argomento, aiutava la comprensione degli ascoltatori, mentre i riferimenti che predicatori come il domenicano Giordano da Pisa facevano ai temi del sapere universitario elevavano l’istruzione dei laici esclusi dal latino.
Le finalità educative alimentarono anche un’ampia produzione di letteratura in volgare: scritture morali, opere agiografiche, testi edificanti, composti per assistere la vita religiosa e spirituale dei fedeli, promossero lo sviluppo del volgare e ne incrementarono il lessico grazie alle numerose traduzioni dal latino. I volgarizzamenti di Domenico Cavalca, dedicati ai «semplici» che conoscevano solo la lingua materna, pur nel rispetto della «sentenza» (Cavalca 1764: 2), riducevano e adattavano le parole della lingua originaria. Solo pochi anni più tardi un altro domenicano, Iacopo Passavanti, mise in guardia dai travisamenti cui potevano indurre le traduzioni e, pur non sottovalutando l’importanza del volgare, sottolineò la necessità di differenziare le letture in base allo stato e all’istruzione dei fedeli (Passavanti 1856: 279, 285-87; Delcorno 1974; Bruni 1990: 21-119; Librandi 1993; Rusconi 20095).
I volgarizzamenti avevano riguardato anche la Bibbia o almeno parti di essa tratte soprattutto dal Nuovo Testamento; il fenomeno s’era accentuato con l’invenzione della stampa (➔ editoria e lingua) e con l’alta richiesta di edizioni di testi biblici. Il contributo dato al volgare dalle prime, parziali traduzioni della Scrittura non fu irrilevante e, come già era avvenuto con le antiche trasposizioni in latino, riguardò soprattutto il lessico. Fin dalla Vulgata, infatti, la cui traduzione era stata rivista da san Girolamo fra il 382 e il 405 d.C., si era teorizzata la necessità di una trasposizione passiva, che rispettasse la sacralità del testo perfino nell’ordine delle parole. L’obbligo della letteralità, tuttavia, non aveva escluso l’apertura a numerosi volgarismi che, per il solo fatto di essere stati inglobati nella lingua della Bibbia, avevano acquistato prestigio: termini come appretiare, fornicatio, susurratio, ecc., erano sopravvissuti nella versione di san Girolamo e si affermarono perdendo traccia della propria origine.
Il percorso si invertì con le traduzioni del basso medioevo, che immisero nel volgare nuovi latinismi, favorendone l’assorbimento tramite il sistema delle glosse esegetiche e lessicali. La prima volta in cui i termini apparivano nel testo, infatti, venivano spiegati con un equivalente di uso comune, come nel caso del diversorio, equiparato alla «capanna» in cui Maria e Giuseppe si erano rifugiati, o della piscina probatica, definita come «pescolla da lavare [...] le carni del sacrificio» (Pollidori 1998: 95-99).
Sebbene Giordano da Pisa sottolineasse la maggiore difficoltà delle donne a comprendere la Scrittura e ne sollecitasse, secondo le parole di san Paolo (1a Cor. 14, 34), il silenzio in chiesa (Giordano da Rivalto 1867: 318), la trasmissione di gran parte delle sue prediche si deve al contributo di ambienti religiosi femminili. Alle donne, del resto, era rivolta un’attenzione particolare e l’esortazione a tacere era quasi sempre bilanciata dall’invito alla lettura di testi devoti. L’istruzione religiosa in volgare fece sì che per secoli la Chiesa rappresentasse l’unico tramite fra le donne e la parola scritta. Interamente al volgare affidò le proprie opere la domenicana Caterina da Siena, un modello di santità femminile che riuscì a oltrepassare anche i confini della Controriforma. I suoi testi sono il frutto della collaborazione con seguaci, confessori e segretari che, pur rispettandone il dettato, hanno lasciato traccia dei propri interventi nella veste linguistica degli scritti. Nonostante ciò, l’unitarietà delle Lettere, al di là della formularità dell’epistolario, è garantita dalle parole di Caterina e soprattutto dalla consapevolezza di un magistero femminile che ha fornito alle epistole ruolo e andamento predicatori. Ciò ne consentì un’ampia diffusione, al punto da indurre Aldo Manuzio ad aprire la collana dei libri in carattere corsivo con la pubblicazione, nel 1500, delle Epistole di Caterina. Solo successivamente egli diede alle stampe le Rime del Petrarca (1501) e la Commedia di Dante (1502), associandoli alle lettere cateriniane per farne un modello (Librandi 2006).
Già da decenni l’avvento della stampa aveva moltiplicato la diffusione di testi in volgare di contenuto religioso: vite di santi, raccolte di miracoli, libri per la pratica dell’orazione, dottrine cristiane furono tra i testi più richiesti. Un impulso decisivo venne dal movimento dell’Osservanza, all’interno del francescanesimo, in ambienti umbro-marchigiani. Il movimento, sorto sul finire del XIV secolo, ebbe la massima espansione nel Quattrocento, grazie all’opera e alla predicazione di Bernardino da Siena. I frati osservanti indirizzarono ai laici devoti, e in particolare alle donne, un’operazione pedagogica meditata: gli effetti si videro sia nelle folle poderose che seguirono le prediche di Bernardino, di Giacomo della Marca e degli altri artefici del risveglio osservante, sia nella circolazione inimmaginabile per l’epoca di opere che curavano la pratica devozionale e il comportamento dei fedeli. Testi come i numerosissimi Monte o Giardino dell’orazione si diffusero da una parte all’altra della penisola, grazie alla mobilità dei frati e alla comunicazione tra i conventi. Ciò favorì, nelle copie manoscritte e nei primi incunaboli, l’intrecciarsi dei volgari e, indirettamente, la riduzione dei tratti locali più marcati (Bruni 2003: 167-250). Non meraviglia pertanto che, ai primi del Cinquecento, quando più sensibile era divenuta l’esigenza di una lingua sovraregionale, si leggesse in un volgarizzamento dai Vangeli, conservato in un manoscritto del convento delle clarisse di Monteluce a Perugia (ms. 1086, Biblioteca Comunale Augusta, Perugia), un’adesione convinta alle possibilità del fiorentino:
In vulgariççando sequitaremo uno comune parlare toscano, però che è il più integro, il più aperto, et il più acto comunamente de tucta la Ytalia, il più piacevole, il più intendevole da ogni lingua (Bruni 2003: 242).
La testimonianza del manoscritto perugino ha origine dalle tante aspirazioni a una lingua comune che di lì a poco avrebbero favorito la buona accoglienza della proposta di Pietro Bembo. La prima unificazione linguistica italiana, infatti, si fa idealmente partire dalla pubblicazione delle Prose della volgar lingua (1525), cui seguì un cammino controverso e difficile, frenato da intralci socio-economici e culturali. Nonostante ciò l’italiano raggiunse strati diversi di popolazione anche prima dell’unità politica e, sebbene la sua espansione abbia assicurato spesso la sola capacità di comprendere o di scrivere poco e male, la strada aperta dalla soluzione del Bembo ebbe una continuità ininterrotta.
Un contributo efficace a questa lenta ma costante espansione venne dalla Chiesa postridentina, che prestò grande cura alle strategie comunicative e alle varietà linguistiche da adoperare. L’obiettivo costante fu quello di mantenere saldi i dettami della fede, ma le vie per raggiungerlo mediarono indirettamente tra il popolo dei fedeli e la lingua unitaria. La cura verso i modi della comunicazione e verso le lingue con cui trasmettere l’insegnamento dottrinale fu ancor più accentuata dalla decisione di escludere dalla traduzione la liturgia e le Sacre Scritture e di consegnare al volgare solo predicazione e catechesi. Ogni trasposizione della Bibbia in volgare implicò conseguenze a lungo dibattute sull’istruzione religiosa dei cristiani cattolici e, a differenza di quanto avvenne nella Germania luterana, il testo biblico non influì sull’unificazione linguistica della penisola. Nonostante ciò, negli anni precedenti il Concilio di Trento, alcuni tentativi di traduzione tennero conto del dibattito sulla lingua e risentirono delle sue principali posizioni (§ 3.1). L’affermazione della dottrina cattolica tuttavia fu assicurata grazie all’azione ramificata di predicatori e catechisti, che differenziarono varietà di lingua e di espressione da luogo a luogo, assicurando in modo capillare l’istruzione dei fedeli.
La prima traduzione integrale della Bibbia in italiano fu eseguita dal monaco camaldolese Nicolò Malerbi e fu stampata a Venezia nel 1471. Ebbe almeno 19 edizioni nel Cinquecento, ma già a pochi decenni dalla sua compilazione apparve inadeguata sul piano filologico e linguistico. La necessità di tradurre le Scritture e di introdurre il volgare nella liturgia per rimediare all’ignoranza del clero era stata sostenuta, nel Libellus ad Leonem X Pontificem Maximum (1513), dai due padri camaldolesi veneziani, Paolo Giustiniani e Pietro Querini, la cui importanza per la storia della lingua ne ha fatto oggetto d’attenzione da parte di molti studiosi (Trovato 1994: 49-55). Essi osservavano che il pensiero divino si era manifestato originariamente in ebraico e in greco, ma che solo la diffusione del cristianesimo nei domini dell’antica Roma aveva reso possibile la sua trasposizione in latino. Ora si rendeva necessaria per la comprensione piena da parte di religiosi e laici una nuova trasposizione. La soluzione dei due camaldolesi non ebbe riscontro nella politica della Chiesa tridentina, in seguito alla quale dal 1567 alla metà del Settecento in Italia non furono più stampate Bibbie in volgare e l’unica eccezione, la traduzione italiana del calvinista Giovanni Diodati, fu pubblicata a Ginevra nel 1607.
Del resto, anche negli ambienti della cultura laica il dibattito sulla lingua era da tempo incentrato sul rapporto tra latino e volgare e, sebbene provocate da cause e intenti diversi, le due questioni e i loro protagonisti avevano trovato molti punti di incontro. Giustiniani e Querini avevano indirizzato il Libellus a Leone X, sostenitore degli studi umanistici e di Pietro Bembo, e lo stesso Giustiniani, studioso attento dei classici e lettore di Petrarca, nel 1514, si era rivolto all’umanista fiorentino Girolamo Benivieni perché approntasse una traduzione della Bibbia degna di entrare in Chiesa. Egli avvertiva probabilmente le debolezze filologiche e stilistiche della Bibbia di Malerbi, e cercava di conciliare gli ideali della pedagogia umanistica con lo spirito del cristianesimo originario.
Le traduzioni che si produssero prima dell’Indice dei libri del 1558 puntarono a un piano linguistico più elevato, pur senza sottomettersi al modello bembiano. Antonio Brucioli, per es., che nel 1532 diede alle stampe un’altra importante traduzione, accolse nel proprio fiorentino sia tratti esclusi dalla norma bembiana sia elementi della più consolidata tradizione letteraria. Nella traduzione aveva conservato lo stesso atteggiamento di aderenza passiva imposto, fin dalle origini, dalla sacralità del testo, con la conseguenza di una riproduzione faticosa della struttura latina e di termini ricalcati sulla lingua originaria anche quando sarebbe stato possibile utilizzare equivalenti più moderni. Diverso fu l’atteggiamento del benedettino Massimo Teofilo, anch’egli fiorentino, che nel tradurre il Nuovo Testamento (1551) si mostrò più aperto alle attualizzazioni lessicali, spesso ricorrendo alla tradizione letteraria del Trecento. Se Brucioli traspone con ladroni il latino latrones, Teofilo ricorre ad assassini (Luca 10, 29) nell’accezione dantesca di «ladro, assalitore» (Inf. XIX, 50); ancora, per descrivere la testa di Lazzaro avvolta nelle bende dopo la resurrezione, Brucioli si attiene all’originale latino descrivendola come legata col sudario, mentre Teofilo, ricorrendo a inviluppata in uno asciugatoio (Giov. 11, 44), ricalca la sequenza boccacciana in uno asciugatoio inviluppata (Dec. IV, 5, 9; D’Aguanno 2006).
L’esclusione dei fedeli dalla lettura personale e consapevole della Bibbia non condusse, come molti studiosi tendono a interpretare, alla cancellazione di un apprendimento consapevole né alla separazione dalla lingua unitaria. La scelta di affidare al volgare soltanto la predicazione e la catechesi, infatti, si associò a un’azione capillare e a un imponente dispiegamento di forze, che fece sentire i suoi effetti anche dopo l’affievolirsi del pericolo protestante. Le strategie comunicative si raffinarono, adeguandosi al pubblico e ai diversi contesti.
I predicatori, in particolare, si mossero tra i due estremi dei sermoni rispettosi della lingua letteraria e di quelli pronunciati dai missionari nelle campagne, aperti a regionalismi ed espressioni colloquiali. L’azione più importante fu esercitata verso le classi povere e le popolazioni rurali, che all’indomani del Concilio di Trento versavano in tali condizioni di ignoranza da indurre i missionari gesuiti a parlarne come le «Indie di quaggiù» (Prosperi 1996: 551-568). Sebbene l’insegnamento di lettura e scrittura fosse spesso considerato superfluo rispetto a quello della dottrina, nel totale vuoto di interesse da parte di governi e cultura laica, la Chiesa fu per secoli l’unica a trasmettere alle classi subalterne un’istruzione che, molto più spesso di quanto non si pensi, fu in lingua italiana. La predicazione divenne sempre più frequente, fino a conquistare uno spazio stabile del vissuto quotidiano. Allo stesso tempo le missioni raggiunsero con cadenza regolare le aree più sperdute, contribuendo a esporre ogni fedele alla parola predicata.
Lo sforzo compiuto dalla Chiesa per differenziare lingue e strategie comunicative in base all’uditorio è testimoniato dalla quantità di opere che per più di due secoli furono stampate per fornire ai predicatori modelli e regole da seguire. I parametri dell’oratoria sacra furono ridefiniti grazie alle Instructiones praedicationis Verbi Dei emanate nel 1573 da Carlo Borromeo, alla cui condanna dello stile ampolloso e ricercato fece da riscontro la trattatistica sulla lingua da adottare. Opere come Il predicatore (1609) di Francesco Panigarola, l’Arte di predicar bene di Paolo Aresi (1611) o, molto più tardi, L’uomo apostolico istruito (1729) del cappuccino Gaetano Maria da Bergamo presero posizione sull’uso della lingua letteraria, del fiorentino vivo o dell’italiano comune, e si spinsero a fornire liste lessicali entro cui scegliere le forme più appropriate. La terminologia doveva essere al tempo stesso chiara ed elegante, per cui tramontana, secondo i consigli di Francesco Panigarola, era migliore di rovaio, mentre bollore era un arcaismo da fuggire, e svagare era ormai troppo difficile da comprendere (Panigarola 1609: 21).
Non è facile dedurre né dalla trattatistica né dalle innumerevoli raccolte di prediche stampate anche oltre il XVIII secolo quanta corrispondenza vi fosse tra i modelli scritti e la loro recitazione; è evidente, tuttavia, che tra gli estremi della lingua letteraria e del dialetto molto più frequente doveva essere il ricorso alle varietà intermedie. È riduttivo osservare da un solo punto di vista le strategie molteplici della Chiesa postridentina: se è vero, per es., che soprattutto la predica barocca coincise con un genere letterario, è anche innegabile che le disposizioni ecclesiastiche condannarono a più riprese l’eccesso di artifici oratori. Sul fronte del dialetto, le poche testimonianze pervenute tra Sei e Settecento da alcune regioni non consentono di enfatizzare il ricorso dei religiosi alle lingue locali. La predicazione dei grandi cicli di Quaresima e di Avvento, peraltro, o quella delle missioni rurali era itinerante: i predicatori, cioè, si spostavano da una regione all’altra, parlando a uditori di cui non sempre condividevano il dialetto. I missionari ricorrevano all’uso delle immagini o a un’improvvisazione contenuta, ristretta entro temi fissi e sostenuta da gestualità e modulazioni della voce. Più di frequente, quando si muovevano in aree linguistiche non distanti tra loro, si servivano di un italiano colloquiale, ampiamente segnato da regionalismi ad ampia diffusione. Ce ne danno testimonianza le prediche del gesuita Francesco De Geronimo (1642-1716), che teneva missioni nei quartieri più poveri di Napoli, o i modelli predisposti dal grande riformatore della predicazione settecentesca, Alfonso Maria de’ Liguori. Qui leggiamo espressioni marcate sul piano sintattico, come c’ha speso assai (De Geronimo ms: 2r), o su quello lessicale, come non mi fido («non ho la forza di») o scarafoni, posto come glossa traduttiva accanto a scarafaggi (De’ Liguori 1760: 552, 576).
L’altro grande strumento di educazione religiosa che, a partire dal Cinquecento, avrebbe plasmato per secoli la mentalità collettiva dell’Occidente cattolico e protestante fu la catechesi. In Italia, in particolare, l’obbligo imposto ai parroci, dopo il Concilio di Trento, di costituire scuole di dottrina in ogni parrocchia e l’istituzione, nel 1607, dell’Arciconfraternita della dottrina cristiana, che doveva favorire l’uniformità dell’insegnamento, assicurarono un’azione profonda e duratura. La catechizzazione dei bambini non sempre si associò all’insegnamento di lettura e scrittura, ma impose sempre l’apprendimento mnemonico delle formule della dottrina, facendo sì che almeno una buona quota di lessico e di forme dell’italiano si fissassero anche nella competenza dei dialettofoni. Il testo adottato uniformemente per molto più di un secolo fu il catechismo di Roberto Bellarmino (1597), che si prodigò con minuta attenzione nella ricerca di un’esposizione lineare e comprensibile. L’insegnamento della dottrina, d’altro canto, fu anche compito dei missionari, per i quali si produssero catechismi adeguati al popolo meno colto. Un grande impegno fu profuso, in particolare, dalla Compagnia di Gesù e dai suoi catechismi per immagini, come quello di Giovan Battista Eliano (1530-1589), che nell’introduzione informava di aver spiegato ogni figura con l’aggiunta di «alcune parole» da leggere agli incolti perché «meglio la capischino» (Eliano 1591: 6). Agli stessi gesuiti si deve la diffusione di dottrine ridotte in canzoncine e versi rimati, che ripetuti più volte in presenza del catechista favorivano la fissazione più o meno consapevole di lessico e forme dell’italiano nella competenza di molti dialettofoni (Librandi 20092: 172-78).
Lo stesso lessico, d’altro canto, si trova nei catechismi che dalla fine del Seicento e ancor più nel secolo successivo furono talvolta prodotti negli idiomi regionali. Nel XVIII secolo, infatti, la nuova situazione politico-culturale influì sull’educazione religiosa e il catechismo di Bellarmino apparve troppo rigido per le esigenze delle singole diocesi. Si consentì ai vescovi di adottare testi differenti per ogni territorio, favorendo in qualche caso la comparsa di catechismi aperti alle espressioni regionali o interamente in dialetto. Questi ultimi, tuttavia, non sarebbero intervenuti sui tecnicismi religiosi e dottrinali: simbulu o cunsagrazioni (femminile singolare) si leggono, per es., in un catechismo prodotto in Sicilia nel Settecento (Ventimiglia 1981: 84, 96) che ritoccava solo la veste fonetica degli italianismi. Un tale procedimento non assicurava la comprensione di una terminologia complessa, per la quale era spesso indispensabile una spiegazione connessa all’esperienza quotidiana. È ciò che avviene nel catechismo del vescovo calabrese Cesare Rossi, che nel 1754 fa predisporre un testo mescolato di regionalismi, ma prevalentemente in italiano, dove i richiami alla vita materiale sono numerosissimi. Per spiegare, per es., il legame tra Cristo e i fedeli ricorre alla similitudine della vite e paragona i cristiani ai fàini, parola che nel calabrese meridionale ha il significato di «germogli» (Compendio 1755: 212).
Un’istruzione sempre più diffusa e la progressiva laicizzazione dell’Italia postunitaria, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, ridusse l’incidenza della Chiesa sulle vicende della nostra lingua. È tuttavia importante rilevare che, negli stessi anni in cui le condizioni sociali dell’Italia postbellica mutano ed estendono gli usi della lingua nazionale, la Chiesa del Concilio Vaticano II (1962-1965) ammise l’italiano nella liturgia.
Nel 1970 Paolo VI promulgò il nuovo Messale, cioè l’insieme delle norme e delle orazioni per la messa, a cui è come sempre annesso il Lezionario, ovvero il complesso dei brani biblici da leggersi durante le celebrazioni liturgiche. Il lavoro di traduzione di entrambi i testi, che comportò ovviamente moderne trasposizioni della Bibbia, fu lungo e laborioso e ancor oggi continua a essere oggetto di discussione negli ambienti ecclesiastici. L’obiettivo era, fin dall’inizio, quello di evitare ogni travisamento del testo originario, puntando a una proficua semplificazione della sintassi e a un ammodernamento del lessico (Di Gregorio 2003). I risultati furono raggiunti per gradi, fino all’ultima traduzione delle Scritture che, pubblicata nel 2008 e adottata per i Lezionari, tentò di conciliare la semplificazione con la fedeltà alle lingue tradotte e la solennità del contesto liturgico. Sono stati opportunamente conservati molti tecnicismi religiosi, che del resto quasi mai appaiono tali alla percezione dei parlanti: la continuità nel tempo, infatti, di una specifica terminologia cristiana, la sua inalterabilità e la coincidenza per un’ampia parte con il lessico più noto hanno consentito un amalgama pieno con l’italiano di uso comune.
Se ne ha conferma da un’indagine del 2008 (Librandi 2008) condotta su un campione di 36 parlanti, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, equamente distribuiti per livello di istruzione, sesso e aree urbane (Torino, Roma, Napoli); tra loro solo 10 si dichiarano fedeli praticanti, 4 dicono di esserlo in maniera saltuaria e 22 di non esserlo da un minimo di 5 a un massimo di 17 anni. Tra le parole di cui si è chiesto il significato, per es., il termine grazia, la cui accezione teologica è «l’insieme dei doni e degli aiuti concessi da Dio agli uomini per guidarli verso virtù e salvezza», per il 60% degli intervistati indica «ciò che Dio dà per salvarci», per il 15% la «preghiera esaudita» e solo per il 25% la «bellezza» o il «fascino». Ciò contraddice quanto registrato dal GRADIT (3.317), che pone come principale e di altissima frequenza quest’ultima accezione, marca la seconda come colloquiale e comune, e distingue la prima come tecnicismo senza valutarne la frequenza. Anche il parlante medio nato a partire dagli anni Settanta del Novecento, da quando cioè più profonda è stata la laicizzazione dei costumi, non avverte la natura tecnica di un termine di cui, per frequentazione diretta delle funzioni religiose o per contatti con la vita dei fedeli, riconosce il senso esatto con buona approssimazione.
Ancora un esempio dell’influenza esercitata dall’italiano della messa viene dall’espressione salire in cielo, che solo il 16% degli intervistati riferisce a qualsiasi defunto, attribuendole il senso generico di «andare in paradiso». L’84%, al contrario, dà come definizione «l’andare in cielo di Gesù e della Madonna», cogliendo così il significato specifico dell’ascensione di Cristo o della Vergine. La corretta interpretazione si giustifica con la presenza della locuzione («è salito al cielo») nel Credo appreso nei corsi di catechismo e soprattutto recitato durante la messa. La stabilità raggiunta nella conoscenza dei fedeli o nella lingua comune da altre formule analoghe o da altri termini specifici ha indotto i revisori dei testi liturgici a conservarli nonostante eventuali improprietà o lontananze dall’uso. La sostituzione, infatti, potrebbe comprometterne la riconoscibilità. La traduzione, per es., di un passo ancora molto discusso del vangelo di Luca (2, 14) appare, nella versione biblica del 2008, come «sulla terra pace agli uomini, che egli ama»; nell’inno di gloria recitato all’inizio della messa, al contrario, si è lasciata la vecchia versione, «pace in terra agli uomini di buona volontà». La distanza tra una variante e l’altra implica importanti questioni interpretative, ma l’espressione è a tal punto sedimentata nella lingua da evocare un universo culturale altrimenti irriconoscibile.
La decisione di Benedetto XVI di riammettere il latino nella celebrazione della messa a partire dal settembre 2007 sembrò contrastare questo cammino. Si trattava in realtà di una scelta possibile, peraltro mai veramente abolita, cui facevano da contraltare la nuova traduzione della Bibbia, più moderna e accessibile, o lo straordinario successo editoriale del Catechismo della Chiesa cattolica. Compendio di Benedetto XVI che nel 2005 godette di inattesa popolarità.
Per quanto si sia ridotta l’influenza della Chiesa sul divenire della lingua italiana, non vanno sottovalutate azioni rilevanti come l’espansione dell’italiano all’estero tra i religiosi e tra tutti coloro che hanno diretti contatti con la vita ecclesiale, o la diffusione tra un ampio pubblico di lettori di testi dottrinali, o ancora la conseguente capacità di conservare e trasmettere un importante patrimonio lessicale.
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