Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento la chimica è stata spesso considerata una disciplina nociva e pericolosa, responsabile dell’avvelenamento degli ecosistemi e della biosfera. La chimica si è resa responsabile di invenzioni a uso militare, che hanno causato danni ambientali. Ha inoltre contribuito, attraverso le produzioni industriali, a riversare nell’ambiente sostanze non biodegradabili, composti tossici, insetticidi e gas capaci di distruggere lo strato di ozono nell’atmosfera o responsabili dell’aumento dell’effetto serra. La chimica, tuttavia, mette a disposizione anche i mezzi necessari, teorici e pratici, per risolvere numerose e delicate questioni ambientali.
La sintesi di sostanze sintetiche: i coloranti
All’inizio del Novecento la chimica si presenta come una disciplina responsabile di innumerevoli cambiamenti materiali, culturali e sociali, grazie alla sua capacità di realizzare, per via di sintesi, nuove sostanze e nuovi prodotti. Gli elementi di valutazione positiva dello sviluppo della chimica e delle sue applicazioni non mancano e sono sotto gli occhi di tutti. La ricerca chimica, tra l’altro, già a questi anni è pervenuta a risultati straordinariamente vantaggiosi seguendo direzioni non determinabili a priori. Intorno alla metà del XIX secolo, ad esempio, ha preso l’avvio la creazione di sostanze organiche sintetiche, a partire dai coloranti. Il primo impulso allo sviluppo di questi nuovi prodotti viene dalla sintesi, realizzata per via empirica, della malveina. Ottenuta nel 1856 da William Henry Perkin (1838-1907), mentre sta cercando di sintetizzare il chinino, la malveina (dal color malva che la contraddistingue) diventa un colorante di enorme successo, in Francia ed Inghilterra, soprattutto per la tintura del cotone. Da questo momento la produzione di coloranti assume una crescente importanza, particolarmente nell’industria tessile, mettendo a disposizione una gamma sempre più ampia di sostanze da impiegare su fibre naturali e chimiche. Tale sviluppo, tuttavia, imprevedibilmente, porta sensibili benefici anche all’istologia e alle pratiche terapeutiche. Gli istologi notarono che alcuni coloranti possiedono una affinità per certi tessuti o formazioni cellulari. A seguito di queste indagini, Paul Ehrlich matura la convinzione che certe sostanze chimiche possano concentrare la loro azione unicamente contro cellule cancerogene o affette da altre patologie, e verso la fine del secolo inizia a lavorare intorno agli effetti positivi della chemioterapia nel trattamento di alcune forme di sifilide fino a questo momento considerate incurabili. Nel 1908 Ehrlich riceve il premio Nobel per la medicina per le sue scoperte nel trattamento del cancro e nella spiegazione dei fenomeni immunologici, scoperte che pongono anche le premesse per la futura applicazione dei sulfamidici e degli antibiotici.
Il problema energetico e la questione ambientale
All’inizio del Novecento alcuni chimici ritengono che la propria disciplina sia la scienza in grado di consentire all’umanità di affrancarsi da quello che, già allora, è ritenuto un problema di assoluta importanza: l’esaurimento delle fonti di energia non rinnovabili. La questione, in larga misura legata alle possibilità di sfruttamento dei giacimenti carboniferi, vede l’intervento di scienziati di livello internazionale. Giacomo Ciamician, docente di chimica all’Università di Bologna dal 1899 al 1922, unanimemente considerato il padre della fotochimica – la scienza che studia i processi chimici indotti dalla luce – sostiene la necessità di produrre le basi scientifiche per giungere a un cambiamento della fonte di approvvigionamento dell’energia. “L’energia dei combustibili fossili”, si domanda Ciamician nel corso dell’VIII Congresso di Chimica Applicata tenutosi a New York nel settembre del 1912, “è davvero l’unica che può soddisfare i bisogni della nostra vita moderna e della nostra civiltà ?” La risposta è negativa: “Il problema fondamentale è riuscire a fissare energia solare attraverso opportuni processi chimici”. I vantaggi per la società sarebbero stati, agli occhi di Ciamician, del tutto evidenti: “Se la nostra civiltà nera e nervosa, basata sul carbone, sarà seguita da una civiltà più tranquilla, basata sull’utilizzo dell’energia solare, non ne verrà certo un danno al progresso e alla felicità umana”.
Una decina d’anni dopo Vladimir Ivanovic Vernadskij porta in primo piano una disciplina scientifica di recente formazione, l’ecologia (il termine era stato coniato da Haeckel nel 1866), fino ad allora concepita come appendice della biologia e dedita quasi esclusivamente a studi di biogeografia e geobotanica. Attribuendo al termine biosfera il suo significato moderno (il termine era stato coniato dal geologo austriaco Eduard Suess nel 1875), Vernadskij dimostra che l’ecologia deve entrare a far parte a pieno titolo della scienza chimica e geologica, avendo come oggetto lo studio dell’interazione tra il suolo, i mari, i laghi, i fiumi e la vita in essi contenuta, e considerando gli organismi viventi come partecipanti attivi a tali interazioni, dunque artefici, nel bene e nel male, dei fenomeni evolutivi del pianeta.
Nonostante ciò, l’immagine della chimica diffusasi nel Novecento è stata soprattutto quella di una disciplina nociva e dannosa, principale responsabile dell’inquinamento ambientale e dell’avvelenamento degli ecosistemi e della biosfera. Ciò ha finito per mettere in secondo piano gli evidenti vantaggi per l’uomo e la società collegati al suo sviluppo, su tutti quelli in campo medico e alimentare (basti pensare, ed è solo un caso, alla sintesi delle vitamine).
Già nel 1874, un anno dopo aver pubblicato Il giro del mondo in ottanta giorni, Jules Verne, certamente non un detrattore del progresso tecnologico, dà alle stampe un breve racconto dal titolo Le docteur Ox, in cui mette in guardia il lettore dai rischi e dalla pericolosità dello sconsiderato uso delle sostanze chimiche. Protagonista della storia è uno scienziato, il dottor Ox (abbreviazione di oxygène) il quale, incaricato dagli abitanti di una piccola cittadina delle Fiandre di costruire un impianto per l’illuminazione pubblica a gas, realizza a loro insaputa un esperimento per verificarne le reazioni sotto l’effetto di una dose eccessiva di ossigeno immessa nell’atmosfera.
La nascita di una vera e propria “questione ambientale” relativa alla chimica deve comunque essere fatta risalire alla pubblicazione del libro di Rachel Carson, edito nel 1962, intitolato Silent Spring. L’autrice, una biologa marina che ha lavorato a lungo nel Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti, attraverso un minuzioso e puntuale esame denuncia gli effetti dei pesticidi sulla catena alimentare e i danni che ne derivano per molte specie di pesci e di uccelli.
Negli anni successivi l’opinione pubblica americana, e successivamente mondiale, deve confrontarsi con molte delle questioni sollevate da Rachel Carson, inizialmente sottovalutate. Le contaminazioni provocate dal riversamento nell’ambiente di sostanze chimiche presenti nei prodotti industriali riscontrate con sempre maggiore frequenza: materie non biodegradabili, come i detersivi; composti come i difenili polibromurati (PBB), altamente tossici, trovati in un composto ignifugo accidentalmente ingerito dal bestiame nel 1973 e, in seguito, individuati in quasi tutti gli abitanti del Michigan come il DDT.
Il DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), preparato per la prima volta nel 1874, è entrato in commercio a partire dal 1939, nel momento in cui il chimico svizzero Paul Hermann Müller ne scopre le proprietà insetticide, fornendo un grande contributo non solo alla lotta contro i parassiti agricoli e domestici, ma anche nei confronti di alcune malattie infettive, come la malaria e il tifo diffuso dai pidocchi. Per questo motivo Müller riceve il premio Nobel per la medicina nel 1948. Tuttavia, a lungo andare, il DDT, come molti altri pesticidi di sintesi prodotti in seguito, si rivela assai dannoso per l’ambiente. Infatti viene dimostrato che numerose specie di insetti sviluppano una resistenza specifica al DDT, che perde ogni efficacia nei loro confronti. Inoltre, proprio una delle sue migliori qualità, la stabilità chimica, si rivela uno dei maggiori inconvenienti a livello ambientale. Mentre il DDT conferisce a ogni applicazione un’efficacia durevole, contemporaneamente favorisce nelle comunità biotiche una serie di effetti permanenti a lungo termine, anche in zone non sottoposte alla sua azione. La presenza del DDT viene riscontrata in molti organismi, vegetali e animali, che assorbendo la sostanza nei loro tessuti danno luogo a un fenomeno di progressivo accumulo lungo la catena alimentare.
La chimica al servizio della guerra
L’uso commerciale del DDT viene proibito a partire dal 1972. Quasi contemporaneamente, tuttavia, i defolianti cominciano a essere impiegati in maniera massiccia in guerra; il loro utilizzo prende l’avvio proprio dai lavori realizzati in ambito ecologico che trattano degli effetti nocivi degli erbicidi e dei pesticidi sull’equilibrio degli ecosistemi. Durante il conflitto nel Vietnam, le forze armate americane riversano sulle foreste della regione asiatica circa 80.000 tonnellate di un defoliante, l’agent orange (agente arancio), costituito da una miscela in parti eguali di acido dicloro e tricolorofenossiacetico, la quale a sua volta contiene come impurità di produzione la tetraclorodibenzodiossina. Diventa di dominio pubblico: migliaia di reduci fanno causa al governo per essere risarciti dai danni delle intossicazioni, mentre l’uso del defoliante verrà sospeso in seguito ai rapporti medici che segnalano un incremento degli aborti nelle zone interessate dall’agent orange, la vicenda finisce per occupare le pagine, fra il 1969 ed il 1970, della prestigiosa rivista “Science” in un acceso dibattito sugli effetti delle operazioni militari di defoliazione. Alcuni scienziati dichiararono apertamente che gli equilibri degli ecosistemi di vaste zone del Vietnam sono stati irrimediabilmente compromessi.
Il legame fra guerra e ricerca chimica, del resto, non rappresenta una novità. Negli anni che precedono lo scoppio della prima guerra mondiale i chimici, infatti, sono in prima linea. Nel 1913 Carl Bosch riesce a trasferire su scala industriale il procedimento, messo a punto da Fritz Haber, di sintesi dell’ammoniaca – da cui si poteva ottenere polvere da sparo – dall’azoto dell’aria e dall’idrogeno dell’acqua, garantendo così all’esercito tedesco il rifornimento continuo e costante di esplosivi. Lo stesso Haber, premio Nobel per la chimica, nel 1918, “per la sintesi dell’ammoniaca dai suoi elementi”, avvia anche la produzione di gas tossici. In seguito anche Bosch, che aveva applicato gli stessi principi per trattare con idrogeno il carbone e l’olio combustibile pesante per ottenere benzina, vince, insieme al collega Friedrich Bergius, il premio Nobel per la chimica nel 1931, per il suo lavoro sui procedimenti ad alta pressione.
Durante la guerra vengono impiegati sistematicamente fosgene (cloruro di carbonile, altamente tossico), gas al cloro e varie altre sostanze: gli attacchi riguardano circa 1.200.000 uomini, dei quali 100 mila morirono. Il 22 aprile 1915 i tedeschi riversano una nube letale di gas al cloro sulle linee francesi presso Ypres, che porta all’uccisione di 5.000 soldati, mentre altri 10 mila rimangono feriti per le conseguenze, dirette o indirette, dell’attacco. Nel 1925 il Protocollo di Ginevra bandisce l’uso delle armi chimiche e biologiche, non arrivando però a proibire né il possesso di queste armi né la ricerca scientifica e tecnologica nell’ambito di questo settore. È così che nel 1936 si arriva alla scoperta dei gas nervini.
Non molti anni dopo la diossina, già componente dell’agente arancio, diventa tristemente nota anche in Italia a causa del grave incidente avvenuto il 10 luglio 1976, durante la produzione di triclorofenolo nello stabilimento ICMESA a Seveso, in Lombardia. Una nube tossica contenente alcuni chilogrammi di diossina si disperde nella zona circostante a causa dell’esplosione del reattore di sintesi in pressione, che, non dotato degli idonei strumenti di controllo e di sicurezza, provoca la morte di molti animali e una pesantissima contaminazione ambientale. Negli abitanti della zona si diffondono sintomatologie simili a quelle che si erano verificate tra la popolazione vietnamita e i militari americani che erano venuti a contatto con il defoliante.
Le attuali conseguenze ambientali
Nel libro di Rachel Carson viene toccato anche il problema del rilascio degli idrocarburi e di molti altri prodotti nell’atmosfera, che successivamente sarebbero stati indicati come i responsabili dell’aumento dell’effetto serra (noto fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento), dell’apertura del buco nell’ozono e di possibili cambiamenti climatici a livello globale. Oggi i principali gas serra sono: il biossido di carbonio e il metano, causati da un sempre maggiore uso di carbone e petrolio; il protossido d’azoto, dovuto all’impiego massiccio dei fertilizzanti chimici in agricoltura; e i clorofluorocarburi (CFC), gas realizzati per la prima volta negli anni Trenta per attività quali la refrigerazione e la climatizzazione, e utilizzati come schiumogeni e spray di varia natura. Il loro uso e riversamento nell’atmosfera aumenta enormemente a partire dal 1953, quando l’inventore statunitense Robert H. Abplanalp (1922-2003) progetta un meccanismo a valvola di plastica, che consente di produrre, a un costo assai limitato, il prototipo delle bombolette spray di alluminio. Nel 1974 due scienziati statunitensi, F. Sherwood Rowland e Mario Molina, sostengono che i CFC, anche se presenti nell’atmosfera in quantità relativamente piccole, possono distruggere lo strato di ozono che preserva la Terra dai raggi ultravioletti provenienti dal Sole. Nel 1985, un gruppo di ricerca britannico attivo in Antartide, scopre effettivamente l’esistenza di un buco nello strato di ozono al di sopra del continente antartico. Nel 1995 Rowland e Molina ricevono il premio Nobel per la chimica “per il loro lavoro in chimica atmosferica, in particolare sulla formazione e sulla decomposizione dell’ozono”.
Negli ultimi anni altre catastrofi o scandali hanno segnato in profondità l’opinione pubblica, contribuendo a diffondere un senso di diffidenza nei confronti della chimica e delle sue applicazioni. Il 3 dicembre del 1984, presso Bhopal, capitale dello Stato indiano del Madhya Pradesh, una nube di circa 40 tonnellate di isocianato di metile, gas altamente tossico, fuoriesce dagli stabilimenti chimici per la produzione di pesticidi della multinazionale statunitense Union Carbide. La nube, propagatasi per un’area di oltre 60 km2, causa la morte di almeno 20 mila persone, mentre oltre 200 mila vengono contaminate e riportano gravi danni, tra cui la perdita della vista.
Anche l’enorme sviluppo di materie plastiche legato alla ricerca chimica ha provocato gravi danni ambientali. Infatti, nonostante le materie plastiche siano relativamente inerti, è stato dimostrato che alcuni monomeri usati nella fabbricazione di materie plastiche sono cancerogeni, come il benzene, materia di fondamentale importanza nella sintesi del nylon. Inoltre, dal momento che la maggior parte delle materie plastiche sintetiche non è biodegradabile, si è determinata una vera e propria emergenza legata alla loro eliminazione. Da qui l’idea di utilizzare il riciclaggio come metodo più efficace per combattere questo problema: grazie a questi procedimenti il processo di recupero delle bottiglie di polietilentereftalato (PET) risulta molto più semplice rispetto ad altri materiali.
La consapevolezza dell’esistenza di una questione ambientale, sulla quale la comunità scientifica si sta esprimendo in maniera pressoché concorde, ha comunque indotto negli ultimi decenni un numero sempre maggiore di industrie a trovare delle soluzioni al problema, sia sotto il profilo etico e comportamentale, sia per ciò che concerne le realizzazioni pratiche. D’altra parte, è la stessa ricerca chimica che può fornire le soluzioni alle numerose questioni relative alla contaminazione ambientale dovuta all’uso non controllato di sostanze nocive.