Chimica e società: la mediazione politica
Il rapporto fra scienza e società ha molte articolazioni, alcune delle quali sono meno visibili anche se non meno importanti. In generale si privilegia l’apporto che la scienza e la tecnologia danno allo sviluppo economico; tuttavia, è facile dimostrare che l’impatto della scienza sulla società può realizzarsi secondo modalità che non corrispondono affatto all’usuale modello unidirezionale che parte dalla scoperta scientifica, passa attraverso l’innovazione tecnologica e sfocia nello sviluppo economico. La fornitura di acqua effettivamente potabile alle grandi città europee a metà dell’Ottocento debellò le ricorrenti epidemie di tifo e di colera, e ciò non dipese affatto dalle scoperte batteriologiche di Louis Pasteur e Robert Koch. La disponibilità di esplosivi da lancio di grande potenza portò alla messa a punto delle armi automatiche che sterminarono milioni di giovani nella Prima guerra mondiale. Qui ci furono scoperta scientifica, innovazione tecnologica e impatto sulla società, ma non si può asserire che gli esplosivi da lancio siano serviti allo sviluppo economico.
I problemi della pace e della guerra, della salute e della malattia sarebbero già di per sé sufficienti a sottolineare la ‘sensibilità’ della chimica rispetto alla politica e, d’altra parte, il modello a cui abbiamo accennato è assolutamente valido quando ci si riferisce a fertilizzanti, nuovi materiali, carburanti e così via. Nelle prossime pagine vedremo che nella storia recente del nostro Paese i chimici non solo hanno utilizzato la mediazione politica per realizzare le finalità proprie di una comunità disciplinare e di una disciplina scientifica, ma in casi importanti hanno semplicemente ‘fatto politica’ in ruoli di grande rilievo.
I chimici e il Risorgimento
Se il Risorgimento non è interpretato come un mero succedersi di episodi insurrezionali e di campagne militari, ma si considerano anche le componenti economiche e di classe, si comprende meglio l’intensa partecipazione dei chimici al processo storico che portò alla fondazione dello Stato unitario. Va subito chiarito che, quando si parla di ‘chimici’ nella prima metà dell’Ottocento, ci si riferisce a un numero veramente esiguo di ricercatori, che per di più erano dispersi fra varie professioni.
In Italia non mancavano le università, in particolare nel Centro-Nord e in Sicilia, tuttavia la trentina di istituzioni che si fregiavano di questo titolo erano spesso prive di cattedre di chimica, e dove queste esistevano erano quasi sempre aggregate alle facoltà di Medicina. La componente accademica era quindi piuttosto debole, e gli studi di chimica venivano molte volte condotti nei laboratori privati di medici e di farmacisti.
Alla dispersione si aggiungeva la separazione, dal momento che il nostro Paese era diviso in sette Stati, con l’intero Sud sottomesso al governo borbonico, un grande Stato della Chiesa che tagliava la penisola italiana a metà, e il Lombardo-Veneto ridotto a parte integrante dell’impero austriaco. Questa situazione infelice riguardava in vario grado anche le altre discipline scientifiche, di qui la massiccia partecipazione ai congressi degli scienziati italiani che si tennero in varie città tra il 1839 (Pisa) e il 1847 (Venezia). Il numero massimo di partecipanti fu di 1613, al congresso di Napoli del 1845.
Nei primi cinque incontri, una sessantina di persone presentarono circa 120 comunicazioni riguardanti in vario modo la chimica. Se si tolgono i contributi meramente occasionali, si giunge alla cifra ‘seminale’ di trenta studiosi che si interessavano di chimica in Italia all’inizio degli anni Quaranta dell’Ottocento. Si era piuttosto lontani dalla ‘massa critica’ necessaria per costituire una comunità di ricercatori, anche se molti studiosi condividevano non solo gli interessi disciplinari, ma anche il desiderio di un superamento della frammentazione statuale della penisola. Questo ‘desiderio’ non giungeva a esprimersi in un nitido progetto politico, e certo non poteva anelare a quell’unificazione dinastica che si sarebbe realizzata nel marzo 1861. Il cammino personale e politico di questi studiosi sarebbe stato ancora lungo, e per molti di loro sarebbe passato attraverso le dure prove del 1848-49 e del 1859-60. Vediamo ora da vicino quale fu l’effettiva, diretta partecipazione dei chimici ai moti del Risorgimento.
Data la (futura) statura del personaggio, non possiamo non iniziare da Stanislao Cannizzaro (1826-1910). Nativo di Palermo, Cannizzaro aveva ‘scoperto’ la propria vocazione di chimico nel 1845, in seguito a un felice incontro con il grande fisico Macedonio Melloni (1798-1854) durante il già citato congresso degli scienziati di Napoli. Melloni aveva reindirizzato il giovane siciliano dalla fisiologia alla chimica, e lo aveva ‘spedito’ a Pisa nel laboratorio di Raffaele Piria (1814-1865), uno scienziato che si era ‘fatto le ossa’ nel laboratorio parigino del celebre Jean-Baptiste-André Dumas. Cannizzaro visse intensamente l’intera avventura della rivoluzione siciliana del 1848-49, sia come deputato al Parlamento palermitano, sia come ufficiale di artiglieria. Dopo la sconfitta condivise la condanna all’esilio con personaggi come Francesco Crispi e Michele Amari, e riparò in Francia. Compagno d’armi di Cannizzaro in Sicilia fu Luigi Pellegrino (1819-1883) che nel 1849 si rifugiò a Malta e che ritroveremo più avanti.
Il calabrese Sebastiano De Luca (1820-1880) era stato allievo nella scuola privata di chimica gestita a Napoli da Piria; nel 1848 partecipò attivamente ai moti rivoluzionari di quella città, venendo poi condannato in contumacia a 25 anni di reclusione. Fu esule in Francia, e a Parigi ebbe rapporti in particolare con Marcellin Berthelot, svolgendo, fra il 1854 e il 1858, lavori di un certo interesse.
A Roma, Francesco Ratti (1810-1890), cattedratico di chimica allo Studium Urbium Sapientiae dal 1844, visse da vicino il dramma della Repubblica romana. Ovviamente dopo la caduta della Repubblica (1849) perse la cattedra, ma fu reintegrato dal governo pontificio nel 1852.
Nel 1848 l’emiliano Francesco Selmi (1817-1881) era professore al liceo di Reggio Emilia; aveva già dato buona prova di sé come chimico, tra l’altro collaborando a Torino con Ascanio Sobrero (1812-1888). Dopo un’intensa attività rivoluzionaria, fuggì in esilio a Torino nei giorni drammatici della sconfitta dell’esercito piemontese da parte di quello austriaco (battaglia di Custoza, 23-25 luglio 1848). Con un decreto del novembre 1848, fu nominato professore di fisica, chimica e meccanica al Collegio nazionale di Torino, e nel 1854 diventò professore all’Istituto di commercio e di industria, sempre a Torino.
Nel corpo volontari dell’esercito piemontese combatté nel 1848-49 il milanese Agostino Frapolli (1824-1903) che, già laureato in legge, al momento dello scoppio delle ostilità era impiegato nell’amministrazione austriaca della sua città. Al termine del conflitto si impegnò in lunghi studi di chimica, prima alla Scuola di chimica della milanese Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, poi in Germania, a Heidelberg, dove rimase due anni come allievo di Robert Wilhelm von Bunsen, e infine a Parigi, nel laboratorio di Charles-Adolphe Wurtz. Nel 1859 tornò a Milano, dove fu nominato direttore della Scuola di chimica, incarico che tenne fino al 1881.
Il pavese Tullio Brugnatelli (1825-1906) apparteneva a una famiglia di lunga tradizione accademica; ancora studente, partecipò attivamente nel 1848 alle Cinque giornate di Milano e nel 1849 all’eroica difesa del forte di Marghera, nei pressi di Venezia.
Una vicenda del tutto particolare fu vissuta dai professori e dagli studenti delle Università di Pisa e Siena. Nel novembre 1847 il granduca di Toscana, Leopoldo II di Asburgo-Lorena, aveva istituito il battaglione della Guardia universitaria, avente compiti disciplinari piuttosto che militari. Tuttavia, il battaglione, in vista di un possibile coinvolgimento del Granducato in fatti d’arme contro gli austriaci, intensificò l’addestramento, sotto il comando del fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti (1791-1863). Il 23 marzo 1848 il re di Sardegna Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria, e il 3 aprile il governo toscano ordinò di sciogliere il battaglione universitario, minacciando, in caso contrario, gravi sanzioni per i docenti e gli studenti. Ma, dopo molte insistenze dei suoi membri, il battaglione – di cui facevano parte Piria, con il grado di capitano, e uno dei suoi allievi, Cesare Bertagnini (1827-1857) – partì per il fronte; il granduca, comunque, aveva concesso il via libera solo a patto che tutte le truppe toscane si mantenessero nelle retrovie, con compiti di riserva.
Iniziò così un periodo di incertezza, colmo di dissidi interni al battaglione, tanto che Piria lo abbandonò, prima per aggregarsi alle truppe napoletane (con le quali ebbe il battesimo del fuoco, il 13 maggio) e poi per tornare a Pisa. Così, come ha dimostrato Roberto Zingales (Raffaele Piria e Stanislao Cannizzaro, dal 1848 al 1860 e oltre: due chimici meridionali nell’Italia risorgimentale e post-unitaria, «Quaderni di ricerca in didattica», 2012, 3, pp. 67-83), Piria non prese parte alla battaglia di Curtatone e Montanara del 29 maggio, quando il battaglione toscano subì un furibondo attacco da parte delle truppe austriache. Gli improvvisati soldati toscani resistettero eroicamente e protessero le spalle dell’esercito piemontese, che il giorno successivo sconfisse gli austriaci a Goito.
È importante ricordare l’episodio di Curtatone e Montanara per diversi motivi. Innanzi tutto per rammentare che le guerre, siano esse rivoluzionarie o dinastiche, sono terribili: il corpo del geologo Leopoldo Pilla (1805-1848), colpito da una palla di cannone a Curtatone, non poté nemmeno essere ricomposto. In secondo luogo, perché l’analisi della provenienza sociale di 350 studenti e 30 professori che parteciparono a questa battaglia dimostra in nuce l’adesione della borghesia agli ideali risorgimentali, mentre le divisioni interne al battaglione universitario toscano indicano che questi stessi ideali erano spesso ‘interpretati’ in maniera politicamente molto differenziata.
Ai fatti del 1848-49 e alle conseguenti repressioni, seguì un fenomeno di migrazione impressionante. Da tutti gli Stati italiani giunsero in Piemonte decine di migliaia di fuoriusciti, esiliati, condannati di ogni colore politico. Alcuni di questi furono immediatamente cooptati nella classe dirigente del Regno di Sardegna, come nel caso del siciliano Filippo Cordova, amico e protettore di Cannizzaro fin dal loro incontro al congresso degli scienziati del 1845 e suo compagno di viaggio sulla nave che li aveva portati verso l’esilio. Altri immigrati si guadagnarono negli anni posizioni di rilievo, come avvenne nel caso, già citato, di Selmi e in quello di Cannizzaro.
Durante l’esilio a Parigi nel 1849, Cannizzaro aveva completato il tirocinio di chimico sperimentale presso il laboratorio di Michel-Eugène Chevreul, e i suoi collegamenti con l’immigrazione in Piemonte gli fecero ottenere, alla fine del 1850, un posto creato ad hoc per lui, quello di insegnante di fisico-chimica e meccanica applicata alle arti in una scuola appena costituita, il Collegio nazionale di Alessandria. Cannizzaro giunse a Torino nel febbraio 1851 e prese servizio nel mese di marzo.
L’appoggio dell’amministrazione locale al giovanissimo professore fu immediato e totale. Cannizzaro ebbe i mezzi finanziari per allestire un buon laboratorio e via libera per il suo uso a scopo di ricerca. L’amministrazione di Alessandria era dominio incontrastato dei seguaci di un importante uomo politico, Urbano Rattazzi – che nel febbraio 1852 sarebbe stato, con Camillo Benso conte di Cavour, l’artefice del ‘connubio’, l’alleanza tra centro-destra e centro-sinistra –, e non c’è dubbio che la costituzione di un laboratorio chimico di livello universitario nella cittadina di provincia fu una scelta politica di questa élite. A tale scelta Cannizzaro corrispose oltre ogni aspettativa, sia sul piano scientifico (scoprì un’importante reazione chimica che porta ancora oggi il suo nome), sia su quello dell’impegno pubblico, che egli realizzò all’interno della Società d’istruzione e d’educazione (fondata nel 1848 da Vincenzo Gioberti e Antonio Rayneri), di cui divenne subito un dirigente popolare e influente. La Società era un frutto dello Statuto albertino, e in nessun altro Stato italiano esisteva una eguale libertà di ricerca e di critica.
Tra la fine del 1855 e l’inizio del 1856, si realizzò in Piemonte un importante ‘movimento accademico’, voluto con forza dal ministro dell’Istruzione pubblica Giovanni Lanza anche contro i desideri del re Vittorio Emanuele II. Furono chiamati in cattedra due sudditi del Regno delle Due Sicilie, il calabrese Piria a Torino e il siciliano Cannizzaro a Genova. L’opposizione del re alla chiamata di Piria si basava sul parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione, favorevole a Sobrero, e Lanza convinse il sovrano dichiarando che così facendo si presentava il Piemonte come un lembo di un’Italia già unita. È qui evidente che la classe dirigente piemontese aveva adottato una strategia culturale in cui politica e scienza erano strettamente intrecciate.
La cultura tecnica e le ‘cattedre risorgimentali’
La cultura tecnica ha sempre avuto un ruolo minoritario nella società italiana, una collocazione riduttiva che assume connotazioni di classe quando ci si riferisce alla scuola secondaria, così cruciale nella formazione dei quadri intermedi. La problematica dell’istruzione tecnica a livello secondario fu il tema prediletto di Cannizzaro durante la sua partecipazione ai lavori della Società d’istruzione e d’educazione.
Nel pieno del tumultuoso biennio 1859-61 che portò alla proclamazione del Regno d’Italia, egli ripresentò con forza le sue tesi in quattro articoli, pubblicati nel gennaio 1860 sul quotidiano genovese «Il corriere mercantile». In questi scritti attaccò la cosiddetta legge Casati sull’istruzione pubblica (l. 13 novembre 1859 nr. 3725), che era stata promulgata senza dibattito parlamentare a causa del vigente stato di guerra, e con una visione schiettamente liberale affermò che un’estesa e valida istruzione tecnica nella scuola aveva una duplice funzione per il Paese: fornire il personale necessario per lo sviluppo industriale e concedere un canale di promozione sociale ai lavoratori, in nome dell’armonia fra le classi. Nel momento in cui scriveva questi articoli, Cannizzaro era già diventato – in seguito alla pubblicazione del suo magistrale saggio Sunto di un corso di filosofia chimica […] («Nuovo Cimento», 1858, 7, pp. 321-66) – un personaggio di primo piano nell’ambito scientifico europeo, un fatto poi confermato in pieno al Primo congresso internazionale dei chimici (Karlsruhe, settembre 1860).
Sul piano politico interno, tra i chimici la figura di maggior spicco rimaneva quella del maestro di Cannizzaro, Piria. Dopo la liberazione della Calabria, Piria tornò a Scilla, sua città natale, con il compito – affidatogli da Cavour – di organizzarvi il plebiscito di adesione all’Italia. Nell’ottobre 1860, a Napoli, fu nominato dal governo dittatoriale di Giuseppe Garibaldi direttore tecnico della Monetazione, e in novembre, a Torino, divenne ministro dell’Istruzione pubblica nel governo capeggiato da Luigi Carlo Farini.
Come Cannizzaro, anche Piria vagheggiava una scuola diversa e, appoggiato da Farini, preparò una riforma che si concretò in parte nella cosiddetta legge Farini-Piria-Pisanelli sull’istruzione elementare (7 gennaio 1861). Ma nello stesso mese fu eletto alla Camera dei deputati nel collegio calabrese di Palmi, e si avviò a partecipare in maniera ancora più diretta alla vita politica del Regno d’Italia. Il 15 maggio 1862 fu nominato senatore. Come ministro dell’Istruzione aveva anche cercato di chiamare Cannizzaro sulla cattedra di chimica dell’Università di Napoli, ma questi optò per l’analoga cattedra a Palermo. Un simile movimento verso il Sud lo compì anche De Luca, passando nel 1862 da Pisa a Napoli.
I trasferimenti di Cannizzaro e di De Luca facevano parte di un complesso ‘movimento accademico’ che si realizzò tra il 1859 e il 1861-62, spesso con connotazioni equivoche, con un assestamento complessivo del neonato ‘sistema nazionale delle cattedre’.
Brugnatelli, dopo aver partecipato nel 1849, come detto, alla difesa di Venezia, si era laureato in ingegneria; nel 1859 fu chiamato all’Università di Pavia come ‘reggente’ della cattedra di chimica generale, che ‘ereditò’ dai precedenti titolari, il nonno Luigi Valentino e il padre Gaspare. Il carattere dinastico della nomina è evidente, ma certamente ebbero un peso anche i meriti patriottici di Brugnatelli. Per ‘fargli posto’, si dovette sdoppiare la precedente cattedra di chimica in due diversi insegnamenti, chimica generale e chimica farmaceutica teorico-pratica; quest’ultimo fu assegnato ad Angelo Pavesi (1830-1896), buon chimico, grande amico di Cannizzaro e già assistente di Josef Redtenbacher a Vienna. Brugnatelli, divenuto ordinario nel 1872, tenne la cattedra fino al 1900, senza dare alcun contributo rilevante alla chimica.
Giuseppe Manzini (1810-1894), nativo di Forlì, dopo i moti del 1848 si era rifugiato in Piemonte, dove nel 1855 era succeduto a Cannizzaro nella cattedra di fisico-chimica del Collegio nazionale di Alessandria; nel 1860 fu nominato professore di chimica farmaceutica all’Università di Modena.
Il farmacista Annibale Vecchi (1819-1880) nel giugno 1859 divenne il responsabile dell’Ufficio di pubblica sicurezza di Perugia per conto del locale governo provvisorio. Per sfuggire alle truppe svizzere inviate da papa Pio IX, riparò in Piemonte, dove fece una breve tappa nel laboratorio di Piria. Nel maggio 1861 tornò a Perugia e assunse la cattedra di farmacia, titolarità cedutagli da Sebastiano Purgotti (1799-1879), che teneva dal 1827 la cattedra di chimica, botanica e farmacia. Purgotti, di valore scientifico pressoché nullo, mantenne la cattedra di chimica fino al 1871, anche dopo aver superato i limiti d’età. Per parte sua, Vecchi non lasciò traccia alcuna di contributi scientifici.
Fra le ‘cattedre risorgimentali’, il caso più scandaloso fu quello di Pellegrino, che abbiamo già incontrato come compagno d’armi di Cannizzaro durante la rivoluzione siciliana del 1848. Nel 1856 egli lasciò Malta, dove si trovava in esilio, e sbarcò in Sicilia per organizzare un’insurrezione. Arrestato nel giugno 1858, fu condannato a morte, ma ebbe la pena commutata in 28 anni di prigione. Liberato dai garibaldini nel 1860, partecipò alla loro campagna siciliana e, conclusa la liberazione dell’isola, ottenne la cattedra di chimica applicata alle arti dell’Università di Messina. Insoddisfatto, con notevole impudenza chiese ad Amari, allora ministro dell’Istruzione pubblica nel governo dittatoriale di Garibaldi, il trasferimento a Palermo, appoggiato in questo dallo stesso Cannizzaro, uomo piuttosto spregiudicato per quanto riguardava le amicizie e le alleanze accademiche. Di fatto, Pellegrino scientificamente era una nullità, e sul piano militare più di una volta si era comportato da bandito e non da soldato. L’opposizione di Amari e di Piria al trasferimento di Pellegrino fu netta ed ebbe successo; comunque il nostro ‘rivoluzionario’ tenne la cattedra a Messina fino al 1877, quando chiese di essere messo a riposo per motivi di salute.
I dettagli del riassestamento delle cattedre di chimica dopo l’Unità illustrano bene due aspetti ricorrenti, e strettamente interconnessi, del rapporto fra i chimici e il potere centrale: divennero cattedratici uomini di provata e conforme fede politica e (spesso) in relazione diretta con Piria o con Cannizzaro. Il maestro e l’allievo ambivano a fondare una scuola di chimica italiana, intesa (anche) come uno strumento per lo sviluppo civile ed economico della nazione. Gli esiti di queste ambizioni ‘risorgimentali’ furono piuttosto incerti, ma dopo la presa di Roma nel 1870 il contributo di Cannizzaro poté essere ben più solido.
I presidi scientifici dello Stato unitario
La nomina di Piria a senatore nel 1862 aprì la strada a una serie di chimici che ottennero la stessa carica: Cannizzaro nel novembre 1871; il suo allievo Emanuele Paternò (1847-1935) nel dicembre 1890; Giacomo Ciamician (1857-1922), il chimico più famoso della scuola di Cannizzaro, nel gennaio 1910; Raffaello Nasini (1854-1931), un altro allievo di Cannizzaro, nel dicembre 1928. Si può ricordare anche Giuseppe Bruni (1873-1946), allievo di Ciamician, che divenne senatore nel febbraio 1943, ma la sua storia politica era ben diversa da quella dei suoi predecessori liberali.
Durante il periodo liberale, la nomina a senatore era il massimo onore pubblico che poteva essere concesso a uno scienziato, e in generale non ci si aspettava che a questa carica corrispondesse un vero e proprio impegno politico. Tuttavia, Cannizzaro e Paternò furono in vario modo impegnati in politica, e non soltanto per le misure legislative di loro diretta competenza.
Cannizzaro fu un uomo di Stato di lungo corso, avendo partecipato ai lavori del Senato del Regno per tredici legislature, dalla XI alla XXIII, con numerosi interventi e spesso in veste di relatore. Uno dei temi politici ricorrenti dopo l’Unità fu la gestione dei monopoli di Stato, e più in generale fu permanentemente in discussione l’intervento stesso dello Stato sui problemi economici e sociali. Nei dibattiti si scontravano due punti di vista diversi, anche se entrambi orientati in un’ottica liberale. Molti difendevano a oltranza il modello ultraliberista britannico, altri (fra cui Cannizzaro) propugnavano, invece, un intervento più deciso, avendo come riferimento, di volta in volta, la Francia e la Germania.
Nel 1877 Cannizzaro fu incaricato dal Senato di studiare i progressi ottenuti «nella coltura e manifattura dei tabacchi, per mezzo di studi chimici». L’anno successivo, nella sua relazione propose l’istituzione di un laboratorio di controllo e ricerca al servizio del monopolio dei tabacchi. Il progetto andò in porto solo il 25 marzo 1884, quando una legge da lui ispirata, la nr. 2048, stanziò 183.000 lire «per l’impianto del laboratorio chimico dei tabacchi». Cannizzaro ritornò sulla gestione scientifica del monopolio dei tabacchi nel 1890, in occasione di un dibattito sulle tariffe dei prodotti del monopolio. Fra i molti aspetti critici da lui sollevati, vi fu quello di una generale mancanza di preparazione tecnica a tutti i livelli; di conseguenza egli propose l’istituzione di una Scuola centrale per la formazione professionale nel settore. Il clima che accolse la proposta di Cannizzaro è ben riassunto in una ‘battuta’ del grande industriale laniero Alessandro Rossi: «Io non credo affatto indispensabile la scuola dei tabacchi. Per amor di Dio, non facciamo un’università per i tabacchi!». I verbali della seduta chiosano: «(Si ride)» (Senato del Regno, Discussioni, tornata del 10 maggio 1890).
Un problema spinoso, allora come adesso, era l’evasione fiscale. Tra i grandi evasori vi erano gli industriali zuccherieri che importavano zucchero raffinato e lo falsificavano come grezzo per lucrare sui differenti dazi di importazione. Una semplice analisi polarimetrica avrebbe rivelato immediatamente la frode, ma la battaglia per giungere a rendere operativo il controllo fu tutt’altro che facile. Finalmente, Cannizzaro ottenne che fosse istituito il Laboratorio chimico centrale delle gabelle (poi delle dogane e imposte indirette), che entrò in funzione il 1° luglio 1886. Il Laboratorio dei tabacchi assunse questa nuova denominazione, fu affidato alla direzione di Cannizzaro e fu diviso in due sezioni, la prima al servizio dei monopoli di Stato, la seconda alle analisi degli zuccheri grezzi e delle altre merci d’importazione. I chimici addetti al laboratorio per il settore di controllo delle merci furono Nasini e Vittorio Villavecchia (1859-1937), entrambi allievi di Cannizzaro.
L’impegno di Cannizzaro nella sanità pubblica fu costante, e giunse a compimento con la riforma sanitaria introdotta dalla cosiddetta legge Crispi-Pagliani (l. 22 dicembre 1888 nr. 5849). In realtà, fin dai primi anni successivi all’Unità la questione sanitaria era stata posta all’attenzione dei politici dall’attività instancabile di intellettuali democratici come Agostino Bertani, però ben poco era stato fatto, e male. Il giudizio di Cannizzaro, nella relazione al Senato con cui accompagnava la proposta di legge, è inequivocabile e condivide pienamente le critiche di Bertani (che pur essendo all’opposizione fu costantemente consultato durante l’elaborazione della legge). Con l’approvazione della legge sanitaria, Cannizzaro conseguiva comunque due obiettivi: accanto a quello politico-generale, a tutti evidente, ve n’era un secondo, non meno rilevante per la comunità dei chimici (e degli altri tecnici che non erano medici): una fondamentale tematica sociale veniva sottratta all’empiria spicciola degli amministratori e all’incerta cultura del singolo medico, e si faceva intervenire in modo strutturato e continuativo un potere pubblico tecnico e non solo burocratico. Con una responsabilità insolita per il nostro Paese, i chimici venivano chiamati a svolgere un ruolo molto importante di controllo, a livello provinciale e nei grandi comuni.
A questo punto occorre ricordare che la collocazione politica di Cannizzaro era pur sempre quella di un liberale non sempre moderato, come si evince da una serie di suoi interventi. Nel luglio 1879 si oppose all’abolizione dell’infausta tassa sul macinato; nel dicembre 1885 si pronunciò contro l’elevazione del limite di età per il lavoro minorile a dieci anni poiché «l’epoca dell’istruzione obbligatoria cessa a nove anni […]; è buono che il fanciullo, dopo finita l’istruzione elementare, cominci a lavorare» (Le carte di Stanislao Cannizzaro, a cura di G. Paoloni, M. Tosti-Croce, 1989, p. 17); nel luglio 1898, dopo la sanguinosa repressione dei moti di Milano, richiese di licenziare i «maestri antipatriottici» dalle scuole elementari, perché non si deve affidare «una scuola a chi non crede il patriottismo sentimento da coltivare nei giovinetti» (p. 17). Infine, nel marzo 1903 si oppose all’aumento delle indennità da corrispondersi ai lavoratori infortunati, provvedimento che considerava gravoso almeno per quel che riguardava industrie come quella siciliana dello zolfo.
Oltre che nell’amministrazione centrale dello Stato, i chimici, accademici o industriali che fossero, furono spesso coinvolti nelle amministrazioni locali. Così fu per Paternò, sindaco di Palermo dal maggio 1890 al gennaio 1892, e presidente della Giunta provinciale di Palermo dal 1898 al 1914. Si possono aggiungere i nomi di Ciamician a Bologna, di Angelo Menozzi (1854-1947) a Milano e dell’industriale Ettore Candiani sempre a Milano; fra i meno noti si può citare Angelo Agrestini (1859-1945), cattedratico di chimica all’Università di Urbino, impegnato anche nell’amministrazione comunale della città.
Si ha così una conferma del fatto, talvolta trascurato, dell’appartenenza degli intellettuali tecnici alla classe dirigente, con le conseguenti responsabilità rispetto alla gestione della cosa pubblica e all’indirizzo politico generale del Paese. Queste responsabilità emergeranno con ancora maggiore chiarezza nelle pagine successive, dedicate ai tempi tragici della Prima guerra mondiale e del fascismo; qui, riferendoci nuovamente alla costruzione dei presidi scientifici dello Stato, prendiamo in considerazione un diverso aspetto del contributo della comunità scientifica allo sviluppo del Paese: le incertezze e i ritardi dovuti alle tensioni interne alla comunità stessa.
Intesi come singoli e come comunità disciplinare, i chimici sono spesso entrati in competizione con altri protagonisti della scena scientifica, in particolare con fisici, medici e ingegneri. Verso i fisici la competizione è sempre rimasta sul piano accademico-scientifico, con gli ingegneri si giunse abbastanza presto al fruttuoso compromesso della figura di ‘ingegnere chimico’, con i medici le tensioni permanenti ebbero una soluzione più favorevole a una delle due comunità a seconda del prevalere politico dei medici o dei chimici.
Ancor prima della citata legge di riforma sanitaria, nel luglio 1887 furono istituiti a Roma due Laboratori d’ispezione igienica, uno dedicato agli aspetti batteriologici della sanità pubblica e l’altro – prettamente chimico – agli aspetti igienici. I due laboratori iniziarono a funzionare nella seconda metà del 1888, e la direzione del laboratorio chimico fu affidata ad Adolfo Monari, uno dei tanti allievi di Cannizzaro. Egli rimase in carica fino al 1896, quando la posizione politica di Crispi precipitò in seguito alla disastrosa sconfitta italiana nella battaglia di Adua in Etiopia. Fu allora abolita la Direzione generale da cui dipendevano i due laboratori; questi, assunta la nuova denominazione di Laboratori della sanità pubblica, subirono una pesante ristrutturazione, e alla loro testa fu nominato il medico Rocco Santoliquido (1854-1930); contestualmente avvenne un sostanziale azzeramento della posizione dei chimici al loro interno. Ma Paternò era membro del Consiglio superiore di sanità e, dopo pressioni prolungate negli anni, nel 1901 riuscì a riformare i Laboratori della sanità e a ottenere l’istituzione di un importante e autonomo Laboratorio chimico (di cui fu nominato direttore), con personale qualificato in numero maggiore di quello presente in molti istituti universitari. Nel 1911 entrò nel laboratorio Domenico Marotta (1886-1974), un personaggio che assumerà grande rilievo nelle prossime pagine.
La Prima guerra mondiale e la svolta a destra
Nel corso dell’Ottocento, l’orientamento culturale della comunità dei chimici italiani era passato da un ‘modello francese’ a un ‘modello tedesco’, subendo il fascino di un ‘far scienza’ che associava grandi successi economici a eccellenti risultati scientifici. Il cambiamento di modello era stato favorito da un irrobustimento qualitativo e quantitativo della scuola di Cannizzaro, che era diventata in effetti una ‘scuola nazionale’. Nel primo decennio del Novecento, la comunità dei chimici italiani si era guadagnata un prestigio internazionale che in una certa misura la metteva allo stesso livello delle consorelle delle grandi nazioni scientifiche, Germania, Gran Bretagna e Francia. Il prestigio internazionale si rifletteva su quello nazionale. Il 26 aprile 1906, a Roma il re Vittorio Emanuele III partecipò alla seduta inaugurale del VI Congresso internazionale di chimica applicata, un onore dovuto anche al fatto che queste manifestazioni avevano assunto dimensioni cospicue – con partecipazioni massicce e ‘muscolari’ delle singole nazioni: a Roma il totale degli iscritti fu di 2398 – e che le sedi erano le grandi capitali europee: Parigi nel 1900, Berlino nel 1903 e, dopo Roma, Londra nel 1909. A riprova della raggiunta ‘parità’ italiana con le altre comunità dei chimici, proprio nel congresso tenutosi a Roma si decise che fra le lingue ufficiali dei successivi congressi, accanto al francese, all’inglese e al tedesco, ci sarebbe stato anche l’italiano.
Nel primo quindicennio del Novecento, si svolse in Italia un ampio dibattito sullo stato di salute della chimica nazionale e, in particolare, sulle difficoltà di sviluppo della relativa industria. Il 1911 fu l’occasione per un bilancio complessivo del primo cinquantennio dell’Unità, e il tono generale non fu positivo. Le critiche principali furono rivolte alla politica antieconomica dei dazi doganali, alla mancanza di un’imprenditorialità tecnicamente adeguata, alle speculazioni finanziarie che danneggiavano chi produceva e faceva ricerca. Si presentava già uno scenario politico inquietante, che fu in seguito aggravato dalla conduzione della Prima guerra mondiale e dalle conseguenze sociali del conflitto.
Allo scoppio della guerra, nell’estate del 1914, buona parte dei chimici italiani assunse una posizione neutralista, se non addirittura filotedesca. Le motivazioni erano diverse, a seconda dell’orientamento politico o degli interessi in gioco. Ettore Molinari (1867-1926), il nostro più importante chimico industriale del tempo, era un noto militante anarchico, e come tale considerava la guerra un inutile massacro. L’industriale Giovanni Morselli, all’epoca consigliere delegato e direttore generale della grande azienda farmaceutica Carlo Erba, vedeva nella neutralità del Paese una scelta economicamente opportuna. Per una figura di grande rilievo politico come Paternò, la scelta di campo risultava particolarmente difficile: da una parte, egli era spinto verso la Gran Bretagna da un intenso sentimento di riconoscenza per l’aiuto dato da questo Paese all’Italia durante le vicende risorgimentali; dall’altra, pensava che si dovesse rispettare il legame stretto dall’Italia con gli imperi centrali sin dalla fondazione della Triplice alleanza (1882). Ma la sua scelta neutralista non nasceva soltanto dalla reciproca elisione di queste due distinte motivazioni, in quanto egli riteneva che il conflitto fosse un semplice episodio nella lotta economica fra Gran Bretagna e Germania, e non riguardasse quindi l’Italia.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia (maggio 1915), i chimici si comportarono come gli altri scienziati di tutti i Paesi belligeranti, collaborando con ogni mezzo allo sforzo bellico della ‘patria in armi’. Il caso estremo, e in un certo senso paradossale, fu quello di Molinari, che durante tutto il conflitto fu direttore tecnico degli impianti di Cengio della Società italiana prodotti esplodenti, portandone le installazioni ai vertici della produttività.
Durante il conflitto, i chimici italiani dimostrarono che in vari settori industriali si poteva giungere a produzioni d’avanguardia, per qualità e quantità. Questi successi furono resi possibili dallo stato eccezionale di mobilitazione industriale del Paese, e tuttavia la loro stessa realizzazione rendeva credibile la supposizione che quelle energie si sarebbero potute sprigionare anche prima, in tempo di pace, se non fosse stato per l’inerzia dei governi liberali.
Il tumultuoso dopoguerra, con i suoi conflitti di classe e la nascita virulenta del movimento fascista, creò il contesto sociale immediato della svolta a destra degli organismi societari dei chimici italiani. Ma il radicale rifiuto della tradizione liberale da parte dei nuovi dirigenti aveva cause più lontane, nel permanente scontento contro tutti i governi, prima e dopo la guerra, per la loro palese incapacità ad affrontare i temi della scienza, della tecnologia e del loro rapporto con lo sviluppo industriale.
Fra il dicembre del 1920 e l’aprile del 1921, dagli organi dirigenti delle principali associazioni professionali furono rimossi tutti i chimici di orientamento liberale (come Nasini) o di sinistra (come Molinari). Tutte le più importanti associazioni dei chimici cambiarono la maggioranza dei membri dei rispettivi consigli, e fra i ‘nuovi’ nomi comparvero Livio Cambi, Guido Donegani, Piero Ginori Conti, Francesco Giordani, Nicola Parravano, Cesare Serono, ovvero gli industriali e gli scienziati che incarneranno ‘la chimica del regime’ insieme a Bruni, diventato presidente di un’importante organizzazione milanese, la Società di chimica industriale. La svolta a destra della comunità dei chimici italiani non solo fu radicale e avvenne ben prima della marcia su Roma (ottobre 1922), ma nel gruppo dirigente che ne emerse erano presenti anche alcuni degli industriali più importanti del tempo. Questa compartecipazione di industriali e accademici alla vita associativa dei chimici fu una caratteristica tipicamente ‘corporativa’ di tutto il periodo fascista e scomparve rapidamente nel secondo dopoguerra.
Il sostegno al fascismo e alla politica bellicista
In uno Stato autoritario come l’Italia fascista, a nessuno era permesso di rimanere ‘innocente’ rispetto alla politica, ed è ben noto che, salvo una dozzina di docenti, nel 1933 tutti gli universitari giurarono fedeltà al regime. Tutte le comunità scientifiche furono coinvolte nell’adesione al fascismo, ma probabilmente la collocazione dei chimici presenta alcune particolarità, strettamente connesse alla specifica natura di questa disciplina.
Durante la Prima guerra mondiale, in Italia la politica industriale aveva prefigurato i tratti principali dell’autarchia degli anni Trenta, in quanto molte importazioni dall’estero erano state decurtate o bloccate, sia da parte degli alleati, per le loro stesse necessità belliche, sia da parte degli imperi centrali, per lo stato di belligeranza con l’Italia. Si era avuta così una ricerca esasperata di risorse naturali nel territorio nazionale e la messa in moto su grande scala di produzioni in precedenza poco sviluppate a causa di una politica che privilegiava le importazioni (come nell’importante caso dei coloranti). Ovviamente, l’Italia non era stata l’unica nazione a dover affrontare una simile improvvisa e radicale disfunzione del mercato internazionale: tentativi più o meno riusciti di autarchia si erano infatti realizzati in tutti i Paesi coinvolti nel conflitto, e di conseguenza si era concretizzata dappertutto una spinta allo sviluppo dell’industria. La chimica industriale e l’ingegneria chimica avevano fatto miracoli, come nel caso della produzione di acido nitrico in Germania, e lo stesso terribile uso dei gas sui vari fronti aveva alzato il ‘prestigio’ della chimica.
Infine, per completare lo scenario in cui si mossero i chimici negli anni fra le due guerre, si devono menzionare altri due fatti, già particolarmente rilevanti nel contesto economico dell’epoca: l’industria chimica fornisce i materiali richiesti dagli altri comparti produttivi (si pensi, per es., alla gomma per i pneumatici necessari all’industria automobilistica, o agli isolanti per i cavi prodotti dall’industria elettrica); la ricerca e l’industria chimica propongono alle altre industrie (e indirettamente ai consumatori) nuovi materiali, dalla bachelite al rayon. Di fatto, la questione delle innovazioni nei consumi e nei costumi era piuttosto rilevante all’interno dell’ideologia fascista, che cercava di mettere insieme il richiamo ai fasti imperiali dell’antica Roma con l’esaltazione della velocità e della modernità.
‘Modernità’ e ‘modernizzazione’ sono termini sociologici ricchi di equivoci; l’equivoco più rilevante è probabilmente l’assunzione di un qualche modello nazionale, che ‘slitta’ nel tempo e che di volta in volta può essere l’Inghilterra della rivoluzione industriale, la Germania degli ultimi decenni dell’Ottocento, o gli Stati Uniti per il periodo più vicino a noi. Malgrado tutto, il richiamo alla ‘modernizzazione’ può essere utile nella discussione sui complessi rapporti fra la comunità dei chimici e il regime fascista, essenzialmente perché porta a riflettere se eventi e processi di rilievo siano riconducibili alle specificità della dittatura mussoliniana o se si sarebbero realizzati in ogni caso, sotto la spinta delle ‘modernità nazionali’ di volta in volta usate come riferimento.
Possiamo intanto iniziare la nostra analisi da un aspetto assai poco moderno che ha modellato a lungo la comunità accademica. Nel periodo liberale, i concorsi a cattedra erano stati fortemente condizionati dall’appartenenza a scuole affermate e potenti – battezzate, in successione, con i nomi di Cannizzaro, Paternò, Ciamician. Fin dall’ascesa al potere del fascismo, a questo criterio consolidato se ne aggiunse un altro, ancora più decisivo: quello dell’orientamento politico.
Si pensi, a tale proposito, al caso di Michele Giua (1889-1966). Nel 1922 egli disponeva di carte accademiche eccellenti, in quanto era un allievo della scuola di Paternò e un buon chimico organico; inoltre era stato il primo in Italia a introdurre nella chimica organica le teorie elettroniche elaborate oltreoceano. In quell’anno risultò secondo nella terna dei vincitori del concorso per la cattedra di chimica generale dell’Università di Perugia; ma era un attivo militante socialista, e non venne mai chiamato da nessun consiglio di facoltà, fino a che, nel 1935, non venne arrestato durante la retata torinese contro il movimento antifascista Giustizia e Libertà.
Nel corso degli anni, l’atteggiamento discriminatorio ‘spontaneo’ dei cattedratici di chimica si organizzò sempre meglio. Durante l’istruttoria per la nomina delle commissioni concorsuali, il ministero dell’Educazione nazionale riceveva un foglio con l’elenco degli ordinari ‘papabili’, in cui, accanto a ogni nome, con il settore disciplinare di riferimento era indicata la data di iscrizione al Partito nazionale fascista (PNF). Un simile ‘suggerimento’ non aveva bisogno di commenti particolari, e fa comprendere come si siano potute realizzare carriere come quelle di Felice De Carli (1901-1965), allievo del già citato potente professor Nicola Parravano (1883-1938) e iscritto fin dal 1921 all’Associazione nazionalista italiana (ANI) di Enrico Corradini e Luigi Federzoni; come il suo maestro, De Carli passò nel 1923 al PNF, in occasione della fusione tra le due organizzazioni promossa da Federzoni.
Nei successivi vent’anni, la sua carriera accademica si mescolò a quella politica ed entrambe si basarono sul suo impegno sindacale nell’università e, più in generale, nella scuola, data la quasi totale assenza di suoi contributi scientifici. De Carli vinse una cattedra nel 1933, divenne deputato nel 1934 e ordinario nel 1936. Nello stesso 1936 partecipò alla manovra politico-accademica che estromise Leone Maurizio Padoa (di origine ebraica) dall’Università di Bologna, e così andò a ricoprire l’importante cattedra di chimica industriale.
Sia pure con caratteristiche molto ‘locali’, un tratto moderno del periodo che stiamo considerando fu la costituzione di un sistema misto di ricerca, in cui convivevano finanziamenti pubblici e iniziative private. Asse di questo sistema fu il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), un organismo guidato dal grande fisico-matematico Vito Volterra fino al 1927, quando fu riformato da Benito Mussolini che vi mise a capo il fidato Guglielmo Marconi. All’interno del CNR, il Comitato nazionale per la chimica (CNC) venne affidato a Parravano, ricercatore di indubbio valore. La posizione di Parravano divenne dominante dopo le imperiose richieste ai privati di finanziare il CNR, dettate da Mussolini nel febbraio 1929. Morselli, allora presidente dell’Associazione italiana di chimica (AIC), ‘ubbidì’ immediatamente e riuscì a ottenere dagli altri industriali chimici un milione di lire come fondo da mettere a disposizione del CNC. Nel giugno 1929 un cospicuo acconto fu consegnato personalmente da Mussolini a Parravano.
Malgrado la notevole presenza di industriali negli organismi direttivi del CNC, la ricerca fu praticamente assente nella realtà di impresa e di settore fin verso la metà degli anni Trenta. A questa assenza di centri di ricerca specializzati facevano eccezione la Pirelli e la Breda, mentre la Montecatini aveva conseguito grandi successi tecnologici utilizzando principalmente i brevetti di Giacomo Fauser (1892-1971) e di Giulio Natta (1903-1979), fin quando aprì, nel 1934, i grandi laboratori specializzati di Novara e di Cesano Maderno.
Intanto si era andata formando una quantità di nuclei di ricerca disseminati nei molti enti sorti sotto il regime, talvolta con l’intervento di industrie private (come quelle raccolte nel Consorzio nazionale produttori zucchero) o di istituzioni dell’ordinamento statale fascista (come la Corporazione delle bietole e dello zucchero). Però tutto questo ‘fervore’ non aveva portato alla costituzione di un efficace sistema di ricerca e, nel 1938, Marotta pubblicò una critica – severa nella misura del possibile per il clima esaltato dell’epoca e per un fascista militante – a proposito della mancanza di un raccordo sistematico fra ricerca e produzione da una parte, e fra ricerca privata e ricerca pubblica dall’altra (Rapporti fra scienza e industria sul campo delle industrie agricole ed alimentari, «Rendiconti dell’Istituto di sanità pubblica», pp. 901-904).
Negli anni fra le due guerre, la comunità dei chimici inserì diversi suoi membri in posizioni di potere insolite per dei ricercatori ‘cresciuti’ nei laboratori. Abbiamo visto che Marotta era entrato nel Laboratorio chimico della sanità nel 1911; nel 1921 partecipò alla svolta a destra dei chimici prendendo, come De Carli, la tessera dell’ANI. Nel laboratorio mantenne a lungo una posizione modesta, ma negli anni era diventato una figura di grande rilievo nella comunità chimica, come segretario ‘perpetuo’ dell’AIC e come infaticabile organizzatore dei congressi nazionali di chimica pura e applicata, a partire dal primo, tenuto a Roma nel 1923. La sua grande occasione, preparata con estrema abilità tecnica e politica, si realizzò nel 1935.
Il grandioso edificio dell’Istituto di sanità pubblica (ISP), finanziato dalla Rockefeller Foundation, fu inaugurato da Mussolini il 21 aprile 1934, alla presenza dell’ambasciatore statunitense. Marotta divenne capo del Laboratorio chimico della sanità l’8 maggio 1934 (ventitré anni dopo la sua assunzione) e, dopo poco più di un anno, il 25 luglio 1935, divenne direttore anche dell’ISP (che nell’ottobre 1941 sarebbe stato ribattezzato Istituto superiore di sanità, ISS). La collocazione di un chimico alla direzione della massima istituzione di ricerca medica della nazione fu un enorme successo per i chimici e, come vedremo più oltre, Marotta non demeritò affatto la carica prestigiosa.
Sul piano della realizzazione della politica economica del fascismo, seppure con ruoli assai diversi, diedero un contributo rilevante sia Parravano sia Francesco Giordani (1896-1961).
Giordani fece importanti ricerche di elettrochimica, ma entrò nell’arena politica come tecnico impegnato nella rinascita del Mezzogiorno. Nel 1932 costituì presso la Scuola di ingegneria di Napoli la Fondazione politecnica del Mezzogiorno; diresse poi il periodico «Questioni meridionali» (1934-39), che contribuì a dar vita, nel 1938, all’Istituto per lo sviluppo economico dell’Italia meridionale. Fu in questo particolare contesto meridionalista che Giordani iniziò la collaborazione con l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), fondato nel 1933 e avente in quel periodo Alberto Beneduce come presidente e Donato Menichella come direttore generale. Nel 1937 Giordani ne divenne vicepresidente e nel 1939 sostituì Beneduce alla presidenza, rimanendovi fino al 1943, sempre con Menichella quale direttore generale.
Più politicamente esposto fu il ruolo di Parravano che, in seguito a una ‘mossa fulminea’ di Mussolini, nel settembre 1934 divenne presidente della Federazione nazionale fascista degli industriali dei prodotti chimici, in sostituzione di Ginori Conti, già organizzatore delle squadre fasciste contro i riottosi lavoratori di Larderello e presidente ‘storico’ dell’AIC. Si trattò di un vero e proprio commissariamento della Federazione, un provvedimento radicale con il quale si metteva a capo dell’organizzazione un accademico privo di qualsiasi esperienza imprenditoriale, ma che forse proprio per questo avrebbe potuto monitorare politicamente l’impegno effettivo dell’industria chimica, autarchica per eccellenza, nella preparazione bellica della nazione (l’invasione dell’Etiopia avrebbe avuto inizio poco più di un anno dopo, il 3 ottobre 1935).
Nella seconda metà degli anni Trenta, il fascismo godette di un consenso di massa, un risultato politico a cui fin dai primi anni della dittatura avevano partecipato coralmente i principali esponenti della comunità dei chimici. I congressi nazionali di chimica, tenuti con perfetta regolarità triennale, erano organizzati da Marotta in modo da seguire di volta in volta le indicazioni del regime, dalla battaglia del grano alla celebrazione del decennale della marcia su Roma. Dalle cattedre e dalle presidenze di facoltà, scienziati di prima grandezza come Cambi esaltavano il regime, proclamando la sua continuità con gli ideali del Risorgimento. Uomini impegnatissimi come i citati Marotta, Cambi e Morselli trovarono il tempo per partecipare a ‘gite sociali’ degli iscritti al Sindacato fascista dei chimici o dei soci delle sezioni regionali dell’ANC. Le aziende chimiche, e in primo luogo la Montecatini, utilizzarono la Fiera campionaria di Milano celebrando se stesse, il regime e la preparazione bellica della nazione con splendidi padiglioni, affidati ai migliori architetti dell’epoca. Il giornale professionale «La chimica e l’industria» fu diretto per il ventennio e oltre da Angelo Coppadoro (1879-1962), volontario di guerra e fascista della prima ora. Dal punto di vista professionale, Coppadoro fu un giornalista eccellente, in grado di produrre una rivista all’avanguardia per grafica, varietà di contenuti e ricchezza di informazioni – il tutto, comunque, sempre orientato a servire da supporto al regime.
Il culmine di questa perseverante organizzazione del consenso si ebbe nel 1938 a Roma, durante il X Congresso internazionale di chimica. La seduta d’apertura fu tenuta in Campidoglio alla presenza del re, con Parravano, i politici e molti chimici in divisa d’orbace. I delegati internazionali e i congressisti furono portati prima all’Altare della Patria e poi all’Ara dei caduti fascisti. In occasione del congresso fu inaugurata la Città universitaria che ospitò, in uno scenario architettonico inedito, le migliaia di partecipanti.
I dettagli del complesso cerimoniale del congresso furono in effetti una rappresentazione pubblica di quanto era avvenuto sotto il regime fascista: un reciproco corteggiamento fra la comunità dei chimici e il potere politico. Ai chimici andarono seggi in Parlamento, al Senato e nelle corporazioni, fondi di ricerca e nomine all’Accademia d’Italia; a Mussolini venne offerto il sostegno di una comunità scientifica di grande prestigio internazionale e con importanti funzioni nell’industria e nell’insegnamento. Fu proprio in quest’ultimo ruolo, quello di educatori, che i chimici accademici furono complici infami del dittatore con l’esaltazione ex cathedra della sua politica e delle sue guerre.
La ricostruzione e la fine di una tradizione di impegno
Era stato per libera scelta che i chimici avevano partecipato pienamente all’avventura fascista, fino al tragico epilogo delle leggi razziali, dell’alleanza subalterna con il nazismo e della Seconda guerra mondiale. Per tutti i chimici, anche per i più compromessi, i processi di epurazione si risolsero in una farsa, talvolta, come nel caso di De Carli, mentre era ancora in corso la guerra e nel Nord dell’Italia si combatteva contro l’occupazione nazifascista. Ovviamente il ritorno della democrazia impose un comportamento più pacato, ma non mancarono in ogni caso episodi di discriminazione.
La prima riunione del Consiglio centrale della Società chimica italiana (nuovo nome dell’AIC) si tenne nel marzo 1947, due anni dopo la Liberazione, segno questo delle difficoltà di ricomposizione della comunità. Alla riunione fu invitato il democristiano Mario Cingolani, ma non i socialisti Francesco Zanardi e Giua, entrambi membri dell’Assemblea costituente come Cingolani. I mancati inviti non erano semplici sviste, perché nel 1914 Zanardi era stato uno dei fondatori dell’Unione laureati in chimica, alla cui guida si era poi imposto Cambi al momento della svolta a destra nel primo dopoguerra, mentre Giua, reduce da sette anni di carcere e due di clandestinità, era notissimo per la sua imponente opera editoriale in campo chimico ed era ancora in attesa che gli fosse assegnata la cattedra che si era guadagnata per concorso nel lontano 1922.
Giordani e Marotta, due delle figure di maggiore rilievo nel periodo fascista, svolsero un ruolo importante anche durante la ricostruzione postbellica. Nel 1947, Giordani divenne vicedirettore esecutivo della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, e si trasferì a Washington per negoziare gli aiuti all’Italia del piano Marshall. Fu nominato presidente del Comitato nazionale per le ricerche nucleari al momento della sua costituzione nel 1952, e mantenne questa carica fino al 1956. Nel biennio 1956-57 partecipò, con l’ingegnere francese Louis Armand e il politico tedesco Franz Etzel, alla stesura del progetto che diede vita all’Euratom (sigla con cui era nota la Comunità europea dell’energia atomica). Fu anche presidente del CNR nel periodo 1940-43 e ancora dal 1956 al 1960.
Molto più complessa fu la vicenda di Marotta, con cui si concluderà il nostro racconto. Sempre a capo dell’ISS, nel 1947-48 si adoperò, in perfetto accordo con il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, per sviluppare la produzione di penicillina in Italia, con lo scopo di sganciare il mercato italiano dal monopolio angloamericano. Per rendere l’ISS un centro di eccellenza, chiamò Daniel Bovet (1907-1992) a sviluppare le sue ricerche farmacologiche nel Laboratorio di chimica terapeutica dell’Istituto, aperto nel maggio 1948 appositamente per lui; in quel laboratorio Bovet si guadagnò il premio Nobel per la medicina, assegnatoli nel 1957.
Malgrado questi successi in un settore chiave della ricerca pubblica (o forse proprio per questi), a partire dal 1962 si avviò contro Marotta una pesante manovra giuridico-burocratica che, dopo duri attacchi della stampa (di sinistra e di destra), sfociò l’8 aprile 1964 nel suo arresto e in una breve carcerazione (all’età di 78 anni). Un mese prima, il 3 marzo 1964, Felice Ippolito era stato arrestato per presunte irregolarità amministrative nella gestione del Comitato nazionale per l’energia nucleare, ente di cui era segretario generale e che aveva guidato con grande vigore, fino a far diventare l’Italia la terza produttrice mondiale di energia nucleare a scopi pacifici. In questo quadro rientra anche la morte di Enrico Mattei, avvenuta il 27 ottobre 1962 in un ‘incidente’ aereo. Com’è noto, Mattei, in quanto presidente dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), era stato l’artefice di una politica industriale aggressiva, a livello internazionale nel settore dell’energia e a livello nazionale nella petrolchimica.
Gli attacchi forsennati contro Marotta e Ippolito colpivano grandi dirigenti della ricerca pubblica in settori chiave come la chimica e il nucleare, mentre la morte di Mattei cancellava il sogno dell’indipendenza energetica dell’Italia. È evidente l’aspetto politico di questo assalto contro l’intervento dello Stato a favore dello sviluppo del Paese. Più nello specifico, per quanto riguarda il ‘caso Marotta’, si trattò anche di uno scontro fra la cultura tecnocratica di Marotta, pronta a facilitare in ogni modo l’andamento concreto della ricerca, e la cultura burocratica che trovava il suo nutrimento nel sapere giuridico, l’unico largamente condiviso dai ceti dirigenti italiani.
L’ingloriosa fine del lungo regno di Marotta fu per la comunità dei chimici un segnale di ritirata generale dalla politica, intesa come impegno in un progetto proiettato nel futuro del Paese. Di una sostanziale assenza di progetto politico si ebbero molte riprove negli anni successivi e anche in questo i chimici si dimostrarono parte integrante di una classe dirigente divenuta opaca e autoreferenziale.
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