CHIMICA (per l'etimologia, cfr. alchimia, II, pp. 240-241; fr. chimie; sp. química; ted. Chemie; ingl. chemistry)
La chimica come corpo di scienza è relativamente recente, ma è antica come arte. Nell'antichità la chimica si riduceva a una tecnica più o meno rudimentale disseminata in tutte le arti. Fra le antiche civiltà, quella dell'Egitto presenta indubbiamente un maggior numero di osservazioni sperimentali, più o meno coordinate, e di applicazioni che oggidì considereremmo di pertinenza della chimica; e del resto è stato proprio l'Egitto la culla dell'alchimia (v.).
Storia.
Sarebbe difficile precisare in che epoca possa porsi, con la fine del periodo alchimistico, l'inizio delle indagini propriamente chimiche, ma si può fissare, come data approssimativa, il sec. XVIII. Non che reazioni all'indirizzo alchimistico non si possano registrare anche prima: già sulla fine del sec. XV Leonardo da Vinci combatteva gli alchimisti come ciurmatori, e nel sec. XVI e XVII, pur praticandosi su larga scala le ricerche alchimistiche, specie quelle a indirizzo iatrochimico, cominciano ad apparire opere dalle quali l'alchimia è ormai completamente bandita. Fra esse è da ricordare la Pirotechnia del Biringuccio (Venezia 1540), il quale per il largo uso della bilancia nei suoi esperimenti può essere considerato un precursore di Lavoisier. Il Biringuccio attaccò a fondo gli alchimisti e mostrò che la chimica (da lui chiamata pirotechnia) aveva un importante campo di lavoro da svolgere fra le scienze sperimentali, indipendentemente dai fantastici obiettivi degli alchimisti.
Fra i ricercatori che seguirono il sano indirizzo praticato dal Biringuccio sono da ricordare Agricola e Rosetti (seconda metà del sec. XVI) nonché Neri, Sala, G. B. Della Porta (prima metà del sec. XVII). Glauber (1604-1658), quantunque non immune da pregiudizî iatrochimici, fece notevoli osservazioni sull'affinità chimica e nel campo dell'arte farmaceutica.
Roberto Boyle (1627-1691) fu il primo a delimitare esplicitamente e con precisione il compito della chimica come scienza a sé, con obiettivi ben definiti. Secondo Boyle, infatti, oggetto della chimica è lo studio della composizione dei corpi. Boyle fu anche il fondatore della chimica pneumatica, cioè della chimica dei gas che poi ebbe un'importanza fondamentale nello sviluppo della chimica moderna; stabilì anche il concetto di elemento in contrasto con la teoria aristotelica. J. Mayow (1640-1679) contemporaneo di Boyle, con i suoi studî sulla combustione precorse Lavoisier: egli provò che l'aria conteneva un componente che si combinava coi metalli, attivava la respirazione e si trovava nel salnitro. Riassumendo, nel periodo che corre dalla metà del sec. XVI alla metà del sec. XVII, si è precisato l'obiettivo della chimica, e si sono fatte scoperte notevoli in campi svariati, e si sono dissipati i pregiudizi alchimistici.
È seguito poi un periodo non meno importante in cui un gran numero di ricerche intorno al fenomeno della combustione e della calcinazione ha originato una vera teoria scientifica, quella del flogisto. Il vero fondatore di questa teoria fu G. E. Stahl (1660-1734). Secondo la teoria del flogisto si ammetteva che le sostanze combustibili e quei metalli che per riscaldamento all'aria si trasformano in calci (cioè, si direbbe oggi, si ossidano) contenessero tutte un costituente comune, il flogisto, che perdevano nella combustione o calcinazione. Per ottenere di nuovo la sostanza primitiva bisognava restituire il flogisto. La teoria flogistica ebbe il merito di servire di guida nello studio di quegl'importanti fenomeni che oggidì si chiamano di ossidazione e riduzione: i flogisti conseguirono notevoli risultati per avere studiato un vasto campo di fenomeni con unità di vedute e partendo da un'ipotesi che in fondo non è del tutto erronea.
Tra i flogisti si trovano nomi gloriosi come Cavendish, Priestley e Scheele. H. Cavendish (1731-1810) scoperse e isolò l'idrogeno che ottenne dai metalli e acidi diluiti: provò che l'acqua è formata da idrogeno e da un altro gas che si trova nell'aria e che quest'ultima è una miscela di due gas. Ottenne inoltre l'acido nitrico da aria e acqua e intravide l'esistenza d'un gas assolutamente inerte che solo un secolo dopo fu isolato (l'argo). J. Priestley (1733-1804), contemporaneo di Cavendish, è specialmente noto per avere isolato l'ossigeno (1774) che ottenne per riscaldamento dell'ossido di mercurio. Scoprì anche altri gas e isolò l'azoto senza, peraltro, riconoscerne la natura. Lo svedese K. W. Scheele (1742-1786) pare abbia scoperto l'ossigeno due anni prima di Priestley, ma questi fu il primo a rendere pubblica la scoperta. Isolò e studiò anche l'azoto e il cloro. La scoperta dell'azoto fu fatta nel 1770: il vanto di questa s'attribuisce però a Daniel Rutherford, il quale nel 1772 isolò il gas e pubblicò i risultati delle sue esperienze.
In Italia il Fontana (1730-1805), seguace della teoria di Stahl, eseguì importanti ricerche sui gas, talché si può considerare il fondatore della gasometria. Inventò l'eudiometro, scoprì il gas d'acqua, fece ricerche sull'ossido d'azoto; rilevò poi il potere assorbente del carbone e segnalò per primo i fenomeni catalitici. Il grande fisico Volta nel 1776 scoprì il gas delle paludi. Il Fabroni (1752-1822), di idee antiflogistiche, intravide la teoria chimica della pila.
Le teorie flogistiche trovarono fino dal loro sorgere qualche oppositore. L'olandese H. Boerhaave (1668-1738), autore d'un grosso trattato Elementa Chemiae (1732), non accettò integralmente la teoria del flogisto cosicché può riguardarsi, secondo I. Guareschi, come l'anello di congiunzione fra Stahl e Lavoisier. Il primo però che attaccò a fondo la teoria flogistica fu J. Black (1728-1799) il quale ne dimostrò l'inconsistenza con esperienze proprie e con l'interpretazione di esperienze altrui.
Con A.-L. Lavoisier possiamo dire che s'inizia effettivamente la chimica moderna. Nel 1772 il Lavoisier intraprese lo studio della combustione, facendo uso largo e sistematico della bilancia. Poté così dimostrare che bruciando, p. es., lo zolfo e il fosforo non si ha perdita ma aumento di peso dovuto alle combinazioni di queste sostanze con una parte dell'aria e che tale parte dell'aria operante la combustione era precisamente il gas scoperto da Priestley, l'ossigeno. Osservato poi che il mercurio s'univa all'ossigeno dell'aria formando quell'ossido rosso da cui Priestley aveva ottenuto l'ossigeno, effettuò la sua celebre esperienza riportata in tutti i trattati di chimica per determinare la composizione dell'aria. Infine Lavoisier eseguì ricerche (1781-1783) sulla composizione dell'acqua, comprovando in modo sicuro ciò che aveva intravisto Cavendish. Nel complesso Lavoisier seppe mirabilmente interpretare le più importanti esperienze dei flogisti e spiegare ciò che gli stessi Cavendish, Scheele e Priestley, ottenebrati dall'infatuazione flogistica, non erano riusciti a chiarire. Lavoisier precisò meglio ancora di Boyle il concetto di elemento e unitamente a Guyton, Berthollet e Fourcroy stabilì un primo tentativo di nomenclatura sistematica, del quale resta ancora qualche cosa.
In ordine storico si dovrebbe parlare qui dell'opera classica di C.-L. Berthollet intitolata Essai de statique chimique (1803); ma essa era prematura ai tempi e il principio fondamentale che l'informava trionfò, opportunamente modificato, oltre sessant'anni dopo. Detto lavoro apparve allora in contrasto con la legge delle proporzioni definite dimostrata da Proust in una serie di ricerche compiute fra il 1799 e il 1807, ed alla quale nel 1802-03 si aggiungeva, per opera del Dalton, quella delle proporzioni multiple.
Infine dal 1803 al 1808 J. Dalton enunciò e illustrò l'ipotesi atomica, giovandosi, oltre che delle leggi sopraddette, della legge degli equivalenti generalizzazione d'un principio già stabilito dal Richter (fine del secolo XVIII). La legge dei volumi enunciata nel 1805 da Gay-Lussac suggerì al grande chimico svedese J. J. Berzelius (1779-1848) l'idea di sostituire nella determinazione dei pesi atomici, agli equivalenti chimici le densità gasose, ma egli urtò contro una difficoltà che allora parve insormontabile.
E tuttavia ogni difficoltà sarebbe potuta subito essere rimossa con la ipotesi di Avogadro enunciata nel 1811 e con la chiara distinzione da lui fatta fra molecole integranti e molecole elementari, ma solo nel 1858 per opera d'un altro grande italiano, Stanislao Cannizzaro, fu compresa la grande importanza dell'opera di Avogadro, e sorse nella sua forma attuale la teoria atomica-molecolare.
Il periodo che corre fra il 1811 e il 1858, se è fruttuoso per l'immenso materiale accumulato e per le idee agitate, è però alquanto confusionario, specie per l'incertezza sui pesi atomici.
Nonostante che nel 1819 Dulong e Petit avessero stabilito una relazione fra calori specifici e pesi atomici, il Berzelius non seppe o non volle valersi di essa per rettificare i suoi pesi atomici, cosicché solo con i pesi atomici cannizzariani (1858) la legge di Dulong e Petit poté avere la semplicissima enunciazione attuale.
Tuttavia nella prima metà del sec. XIX comparvero lavori di notevole esattezza sui pesi atomici degli elementi (a prescindere dal fatto che alcuni erano multipli dei veri). È da segnalarsi specialmente l'opera di Berzelius che nel 1818 pubblicò una tavola di pesi atomici di 10 elementi e nel 1827 un'altra con varie rettifiche e con l'aggiunta del peso atomico del cloro e dell'azoto.
Berzelius dimostrò che l'ipotesi ammessa da Proust (1815), che i pesi atomici fossero espressi da numeri interi (ciò che portava a sostenere il principio dell'unità della materia) era insostenibile ed ebbe un'aspra polemica col Dumas che sosteneva i principî di Proust. Ma lo Stas, già allievo e collaboratore di Dumas, in una serie di classiche ricerche, eseguite fra il 1840 e il 1856, dimostrò in modo esauriente che in generale i pesi atomici non erano numeri interi e che i dati di Berzelius, all'infuori di quello del carbonio, erano esatti. Nello stesso periodo anche il Marignac eseguì notevoli ricerche sui pesi atomici, sostenendo un'ipotesi che acquista particolare rilievo da ricerche recenti: che cioè il peso atomico d'un elemento può essere non costante.
Frattanto nel periodo che va dal 1830 al 1850 prese grande sviluppo la chimica organica. Lavoisier aveva già affrontato l'analisi chimica dei composti organici con risultati, per quei tempi, assai approssimati. Berzelius perfezionò tali procedimenti e li rese sufficientemente esatti per poter riconoscere che anche per i composti organici valevano le leggi stechiometriche della chimica inorganica: ma si deve specialmente al Liebig, l'avere stabilito metodi che poco differiscono dagli attuali.
Dal Lemery che nel suo trattato del 1675 tenne nettamente distinte le sostanze minerali da quelle animali e vegetali fino al Berzelius e ai chimici del suo tempo, predominò l'opinione che non fosse possibile preparare artificialmente composti organici partendo da prodotti minerali, ma che alla loro formazione presiedesse la cosiddetta vis vitalis. Ma la preparazione in vitro dell'urea compiuta nel 1828 dal Wöhler portò il primo colpo a tale pregiudizio. Nondimeno, solo nella seconda metà del secolo XIX, l'opinione suddetta fu definitivamente abbandonata.
Per spiegare la costituzione dei composti organici sorse la teoria dei radicali (1830-37) sostenuta da Berzelius, Liebig e da principio anche da Dumas, ispirata al dualismo berzeliano, cioè al concetto che qualunque molecola si componesse di due parti di cariche elettriche contrarie. Nel 1839 Dumas, in base alle ricerche sulla clorurazione dei composti organici, contrappose alla teoria dei radicali la sua teoria dei tipi a carattere unitario. Un notevole progresso dal punto di vista della sistematica dei composti organici fu raggiunto con la nuova teora dei tipi di Laurent e Gerhardt, secondo la quale tutti i componenti organici potevano ricondursi ad alcuni tipi fondamentali come H2, HCl, H2O, H3N, a cui nel 1856 il Kekulé aggiunse il tipo H4C. Questa teoria, troppo schematica e superficiale, ebbe il merito d'inquadrare i fatti fino allora noti in una concezione unica. Wurtz, Frankland e Kolbe prepararono le basi sulle quali doveva sorgere la nuova teoria, ma solo nel 1858 Kekulé e Cooper proposero la teoria della struttura e le formule basate sulla tetravalenza del carbonio e sulla concatenazione degli atomi per mezzo della valenza.
Frattanto nel 1858, il Cannizzaro (1826-1910) nella sua memoria Sunto d'un corso di filosofia chimica poneva fine alla confusione che ancora regnava in fatto di pesi atomici e con questo la legge di Dulong e Petit acquistò una forma semplice, si coordinarono le regole di Mitscherlich sull'isomorfismo, si confermò il peso atomico del carbonio, ciò che fornì la solida base all'indirizzo introdotto nella chimica organica da Kekulé e Cooper; infine si rese possibile la classificazione periodica degli elementi di Mendeleev (1869-71). Per ciò la riforma di Cannizzaro segna una nuova era per la chimica. I progressi di questa scienza diventano dopo il 1860 così vertiginosi da richiedere, per esporli anche in modo sommario, la divisione della materia in parti.
Chimica generale, chimica inorganica e chimica fisica. - La stretta connessione fra fisica e chimica fu affermata esplicitamente da Lavoisier e dai chimici della prima metà del sec. XIX. Nel 1840 H. Kopp iniziò lo studio sistematico delle relazioni fra proprietà fisiche e costituzione. Ma, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, la chimica fisica s'afferma e si sviluppa in ciò che concerne lo studio delle condizioni d'esistenza e di trasformazione delle sostanze, sia per azione reciproca, sia per l'intervento di agenti esterni. È così che sorge la meccanica chimica (statica e dinamica), la termochimica, la fotochimica e da ultimo la radiochimica.
Per spiegare il comportamento e le leggi fondamentali dei gas sorse verso la metà del secolo scorso la teoria cinetica dei gas. Intraveduta da Bernouilli fino dal 1740, ebbe inizio e si sviluppò per opera di Krönig (1856), Clausius (1857) e poi di Maxwell (1860) e Boltzmann (1868). Oltre che spiegare le tre leggi fondamentali dei gas questa teoria stabilisce un'importante relazione fra i due calori specifici dei gas, permette di calcolare il raggio delle molecole e il numero di molecole contenute, p. es., in 1 cmc. di gas a 0° e 760 mm. Questo numero dicesi numero di Loschmidt da colui che nel 1865 l'ha calcolato per primo, mentre dicesi numero di Avogadro (N) il numero costante di molecole contenute nella grammi-molecola (cioè il numero precedente moltiplicato per 22.420). Questo numero è stato poi trovato per altre vie con risultati sufficientemente concordanti.
Il 1867 per opera dei chimici norvegesi Guldberg e Waage segna la rinascita della teoria di Berthollet sull'affinità chimica, teoria che verso la metà del secolo si era allargata nelle ricerche di Rose, Malaguti, Whilelmy, Berthelot e Péan de S. Gilles. Guldberg e Waage sostituirono al concetto di massa quello di masse attive o concentrazioni e in base a queste stabilirono l'equazione generale dell'equilibrio chimico. Il principio dell'azione di massa si applica allo studio della velocità di reazione (dinamica chimica) e l'equilibrio si considera dovuto alla compensazione di due reazioni opposte, ciò che aveva già intuito Malaguti. In seguito Van 't Hoff dimostrò per via termodinamica la formula degli equilibrî e trovò anche un'equazione differenziale (isocora) che dà variazioni della costante d'equilibrio con la temperatura, ciò che è un'espressione quantitativa di un principio qualitativo più generale formulato da Le Chatelier (principio dell'equilibrio mobile).
Un'importante regola numerica sull'equilibrio dei sistemi eterogenei ha dato l'americano W. Gibbs (1878 e segg.): la cosiddetta regola delle fasi poi divulgata e approfondita da Otswald, Roozeboom, van 't Hoff, ecc., e applicata con successo anche alla chimica tecnica.
Frutto dell'applicazione della termodinamica allo studio dei fenomeni chimici è la teoria delle soluzioni (1886), capolavoro del grande chimico olandese Van 't Hoff già più volte ricordato. Nelle deviazioni alle leggi di van 't Hoff presentate dagli elettroliti (cioè da sostanze che formano soluzioni che conducono la corrente) trovò valido appoggio la teoria della dissociazione elettrolitica o degli ioni (1887) dovuta allo svedese S.A. Arrhenius, teoria attualmente riveduta per spiegare le deviazioni date dagli elettroliti forti.
La termochimica costituisce un altro importante ramo della chimica fisica. Lavoisier, pur operando con metodi imperfetti, ne segnò i primi lineamenti. Hess nel 1840 scoprì il principio che porta il suo nome. Queste leggi vennero entrambe dedotte sperimentalmente, poiché il principio della conservazione dell'energia da cui potevano essere dedotte fu stabilito solamente nel 1842. In seguito Favre e Silbermann migliorarono la tecnica calorimetrica Thomson dal 1852, Stohmann e allievi dal 1869, Berthelot dal 1873 eseguirono ricerche termochimiche sistematiche ed estesissime.
Nel 1873 Berthelot enunciò il suo famoso principio del lavoro massimo secondo il quale si prendeva come misura dell'affinità la tonalità termica. Van 't Hoff propose di sostituire a questa la misura dell'energia libera (quantità di lavoro massimo fornito quando la trasformazione avviene isotermicamente e reversibilmente). L'energia libera puo determinarsi solo in alcuni casi: perciò si cerca di calcolarla in base a dati termuchimici (tonalità e calori specifici): il risultato di tali studî si compendia nel teorema di Nernst. Questo teorema ha promosso nuove ricerche sui calori specifici a basse temperature che hanno condotto a un esame teorico della legge di Dulong e Petit e delle sue eccezioni, nonché all'applicazione in questo campo della teoria dei quanti già emessa da Planck nel 1900 per spiegare la ripartizione dell'energia nello spettro continuo.
Le azíoni chimiche della luce erano già note dai primi tempi della chímica. Nel 1857 Bunsen e Roscoe fondarono l'attinometria (misura dell'azione chimica delle varie radiazioni) e studiarono il fenomeno dell'estinzione fotochimica. Attualmente le ricerche fotochimiche si vanno sempre più intensificando. Il Perrin (1919) ha cercato di fondare un edificio chimico meccanico basato sulla dottrina della radiazione, ammettendo che tutte le reazioni abbiano in comune il carattere fotochimico.
Accenniamo ora brevemente all'elettrochimica. Al principio del secolo scorso Davy per elettrolisi degli idrati alcalini fusi ottenne il sodio e il potassio; in seguito lo studio dell'azione chimica della corrente sulle soluzioni portò il Berzelius alla sua teoria dualistica (1818) che, dopo lunghe discussioni, fu abbandonata nel 1840. Secondo tale teoria le molecole di tutte le sostanze (comprese le organiche) constano di due parti cariche di elettricità di nome opposto. Le leggi scoperte da Faraday nel 1834, la dimostrazione che gli alogeni erano realmente elementi e molti altri fatti in contrasto con la teoria, ne provocarono l'abbandono.
Le leggi di Faraday si possono considerare come le basi fondamentali dell'elettrochimica: e in seguito ad esse s'ammise la costituzione dualistica per i soli elettroliti (acidi, basi e sali) con parti positive e negative (ioni) diverse da quelle supposte dal Berzelius. Seguirono varie ricerche dirette a studiare intimamente il meccanismo dell'elettrolisi: fra queste sono da ricordare specialmente quelle di Hittorf (185-59)
L'elettrochimica poi progredì grazie alla teoria della dissociazione elettrolitica (1887), alle rierche del Nernst cui si deve la teoria chimica della pila, e a quelle di Le Blanc e altri che studiarono a fondo l'elettrolisi e specialmente i complessi fenomeni che si verificano agli elettrodi; gettando così le basi dell'elettrochimica applicata.
Ma la scoperta più interessmte e, si potrebbe aggiungere, più clamorosa di quest'ultimo trentennio è quella delle sostanze radioattive. I primi fenomeni di radioattività furono scoperti nel 1896 da A. E. Becquerel sui sali d'uranio. I coniugi Curie, con ricerche iniziate al principio di questo secolo, riuscirono a isolare alcuni elementi di gran lunga più radioattivi dell'uranio: il radio e il polonio; quasi contemporaneamente il Debierne scoperse l'attinio. Quali conseguenze questo abbia avuto sullo svolgimento della chimica generale verrà esposto più oltre (Chimica inorganica).
Lo sviluppo della chimica fisica ha influito anche su due importanti capitoli di chimica generale: quello dei colloidi (v.) e della catalisi (v.). Le ricerche di Laue e Bragg sui raggi X hanno portato al mirabile risultato di permettere indagini dirette sulla struttura atomica dei cristalli.
Chimica organica.- Dopo i lavori fondamentali di Gay-Lussac, Liebig, Wöhler, Bunsen, Dumas, ecc., eseguiti dal 1820 al 1840, e quelli di Kolbe, Frankland, Williamson, Gerhardt, Wurtz, Piria, Kekulé, ecc., che vanno dal 1840 al 1860, la chimica organica assunse uno sviluppo tale che è impossibile esporre sommariamente il completo sviluppo cronologico di essa. Ci limitiamo a fissare due date fondamentali, quella del 1858 in cui per opera di Kekulé e di Cooper s'iniziò la strutturistica (v. sopra), e quella del 1874 in cui Van 't Hoff e Le Bel posero le basi della stereo chimica. E ricordiamo che lo studio dei grassi fu iniziato da Chevreul e Gay-Lussac, fu continuato da Berthelot, il quale riuscì a stabilire la costituzione della glicerina; quello degli zuccheri fu iniziato da E. Fischer nel 1887; quello dei glucosidi già studiati da Liebig, Wöhler e Piria fu svolto più recentemente da E. Fischer; e infine quello dell'acido urico e delle basi xantiniche è dovuto specialmente allo stesso E. Fischer. A questo grande chimico e ai suoi allievi si deve anche lo studio delle sostanze proteiche e la sintesi dei polipeptidi. In questo secolo comparvero i lavori del Willstätter sui pigmenti vegetali, specie sulla clorofilla, quelli di Wallach (iniziati nel 1893) sui terpeni e quelli di varî autori sugli alcaloidi, molti dei quali sono stati ottenuti anche sinteticamente. Lo sviluppo della chimica dei composti aromatici data dal 1865, anno in cui il Kekulé propose la sua celebre formula e contribuì a dare grande impulso anche all'industria delle sostanze coloranti. Lo sviluppo concettuale della chimica organica verrà svolto più avanti, alla voce corrispondente.
Chimica analitica. - La chimica analitica qualitativa era già discretamente sviluppata nel periodo flogistico. Nella prima metà del sec. XIX Klaproth, Berzelius e il suo allievo H. Rose, R. Fresenius, autore di un classico trattato di chimica qualitativa (1841) e altri contribuirono talmente ai progressi di questa branca della chimica che si può dire che da allora essa non abbia subito modificazioni sostanziali. Berzelius è stato il principale fondatore dell'analisi per via secca. Bunsen e Kirchhoff hanno fondato nel 1860 l'analisi spettrale.
La chimica analitica quantitativa fu fondata da Lavoisier. I metodi gravimetrici poi sono stati migliorati e ampliati da Berzelius, Rose, Dumas, Stas, ecc. e specialmente da R. Fresenius che nel 1846 pubblicò il suo trattato; naturalmente molti dei metodi proposti sono stati poi semplificati e migliorati.
L'analìsi volumetrica fu fondata da J.-L. Gay-Lussac (dal 1824 al 1828) perfezionata ed estesa da J. Mohr, J. Volhard, durante la seconda metà del secolo scorso.
La gasometria fondata dal Fontana, perfezionata da Bunsen, ha fatto grandi progressi nell'ultimo ventennio del sec. XIX per opera di Winkler, Hempel, Bleier, Bunt, Lunge, ecc.
L'analisi delle sostanze organiche, come già s'è accennato, fu ideata da Liebig e da allora poco è cambiata: semplificazioni recenti basate sull'uso di catalizzatori per facilitare la combustione si devono a Dennstedt (1906). Per la determinazione dell'azoto organico ricordiamo il classico metodo Dumas (1830) e l'azotometro di Schiff e il metodo di Kjeldahl (1881). Varî metodi furono proposti per determinare gli altri elementi meno frequentemente presenti nelle sostanze organiche.
L'analisi elettrolitica quantitativa fondata da Luckow (1860) ha assunto grande importanza a partire dal 1878 per merito di varî autori fra i quali ricordiamo specialmente Classen, Hollard, Fischer, Forster, Smith, ecc. (v. più oltre, Chimica analitica).
Chimica agraria. - Nel campo della chimica agraria è da ricordare l'opera di Liebig che nel 1840 demolì la teoria dell'humus e fondò la teoria della nutrizione minerale. Boussingault e Ville disputarono a lungo sull'assimilazione diretta dell'azoto atmosferico e la questione fu decisa solo dalle ricerche di Hellriegel e Wilfarth (1886) che portarono alla scoperta dei batterî radicicoli delle leguminose. Winogradsky (1890) dimostrò poi che anche la nitrificazione dell'azoto nel terreno è dovuta a fenomeni microbici.
Gli studî sul terreno agrario hanno portato, oltre che all'applicazione di metodi fisici, chimici e meccanici per l'analisi del terreno, a stabilire l'importante proprietà del potere assorbente. Questa proprietà fu scoperta da Gazzeri nel 1818 e studiata sistematicamente nella seconda metà del sec. XIX da Way, Liebig, Stohmann, Mayer, Sestini e altri e recentemente, dal punto di vista delle teorie dei colloidi, anche dal nostro Miolati.
La fitochimica e la zoochimica si sono grandemente avvantaggiate dei progressi della chimica organica e della chimica fisica. La conoscenza della composizione delle sostanze fondamentali degli organismi (grassi, zuccheri, proteine, alcaloidi, ecc.) ha facilitato lo studio dei problemi della nutrizione e del ricambio, già impostati genialmente dal Liebig.
Grande importanza ha assunto lo studio delle azioni catalitiche negli organismi provocate da enzimi e ormonidi. La scoperta degli enzimi ha segnato il ritorno alla teoria antivitalistica di Liebig, abbandonata per la teoria vitalistica delle fermentazioni di Pasteur, specie dopo i lavori di Buchner sulle cause immediate della fermentazione alcoolica (1897).
Con gli studî del Selmi sulla putrefazione e la scoperta delle ptomaine e quelli posteriori di Guareschi e Mosso si collegano le ricerche più recenti sulle tossine e antitossine di Koch, Behring, Ehrlich, ecc.
Chimica bromatologica. - Questo ramo della chimica, che ha per oggetto lo studio delle sostanze alimentari per determinarne i caratteri, il potere nutritivo, lo stato di conservazione e le eventuali sofisticazioni, ha una storia abbastanza remota.
Il primo lavoro si ha nel 1619 ed è dovuto a Fabrizio Bartoletti: è una descrizione dello zucchero di latte. Nel 1745 Iacopo Bartolomeo Beccari pubblicava una memoria De Frumento nella quale comunica di avere identificato nella farina di frumento "una sostanza animale glutinosa ed un'altra vegetale amidacea". Nel sec. XVIII Lazzaro Spallanzani scopriva la composizione chimica del succo gastrico, studiava la sua azione sulle sostanze alimentari e dava preziose notizie sull'alterabilità e digeribilità degli alimenti. Più tardi Agostino Bassi faceva interessantissime pubblicazioni sulle vinificazioni e sull'industria casearia e il Parmentier pubblicava una serie di trattati sul granturco, sul frumento, sulle castagne, perfezionava e modificava i metodi di panificazione, e insieme con il Bassi svolgeva efficace opera per mettere in evidenza l'importanza dell'industria agricola nella chimica alimentare. Nel 1823 lo Chevreul determinava la composizione dei grassi e nel 1830 il Magendie si occupava dei diversi componenti delle sostanze alimentari. Berzelius e Gay-Lussac avevano studiato la composizione chimica dello zucchero, dell'amido, dell'acido lattico e Liebig esponeva nel 1842 la sua teoria sull'alimentazione. Pochi anni dopo (1847), lo stesso Liebig pubblicava una classica memoria sulla carne, insegnando a prepararne gli estratti. Dei grassi si occupò il Berthelot (1854) e gl'importantissimi suoi studî prepararono le più recenti ricerche di Benedikt, Reimer, Geitel e di molti altri. La chimica bromatologica è oggi in grado di assoggettare gli alimenti ad un controllo rapido ed esatto, il che consente di esercitare su essi una pronta vigilanza igienica.
Chimica tecnologica. - Ricordiamo anzitutto in questo campo le conquiste della metallurgia. Sul principio del secolo scorso la sostituzione del coke al carbone di legna nella preparazione del ferro aumentò talmente la produzione di questo metallo che il sec. XX venne chiamato il secolo del ferro. Nel 1855 Bessemer brevettò il suo procedimento per la decarburazione della ghisa: Thomas e Gilchrist vi portarono nel 1878 notevoli miglioramenti. Nel 1865 comparve il processo Martin poi migliorato con l'uso dei forni rigeneratori Siemens. In questo secolo ha assunto grande importanza la preparazione degli acciai speciali a cui tanto deve l'industria automobilistica. Si è trovato anche il modo di utilizzare la cenere di pirite per l'estrazione del ferro.
La metallurgia del nichel è analoga a quella del ferro: peraltro, nel 1889 L. Mond inventò un nuovo processo per estrarre e purificare questo metallo trasformandolo in nichel tetracarbonile.
L'elettro-metallurgia ha fatto nell'ultimo cinquantennio notevoli progressi: con l'elettrolisi si ottiene o si affina il magnesio, il rame, lo zinco, l'oro, l'argento, ecc. Specialmente importante è l'estrazione dell'alluminio con il processo Héroult (1887) che ha reso questo metallo, prima costosissimo, d'uso pratico. In questi ultimi tempi sono state preparate molte leghe leggiere a base di alluminio, che presentano i pregi dell'alluminio senza averne i difetti.
Le leghe metalliche sono state studiate col sussidio della teoria delle soluzioni, della regola delle fasi e della micrografia (esame microscopico per riflessione della superficie metallica). In queste ricerche si sono distinti Forster, Tammann, Le Chatelier, Giolitti e Parravano che ha spinto l'indagine fino alle leghe quaternarie. Fra le leghe divenute oggi di più largo uso, oltre gli acciai speciali e le leghe leggiere sopraddette, ricordiamo i bronzi fosforosi, i metalli bianchi, i diversi similori, ecc.
Nella seconda metà del secolo scorso notevole sviluppo assunse la cosiddetta grande industria chimica, fondamento della quale è la preparazione dell'acido solforico. Questo acido si cominciò a preparare industrialmente fino dal 1740: nel 1746 s' usavano già nella preparazione piccole camere di piombo. Nel 1835 fu aggiunta la torre di Gay-Lussac, nel 1861 quella di Glover. Si ebbe così il processo delle camere di piombo al quale si portarono varî perfezionamenti. Sul principio di questo secolo è entrato nella pratica industriale il metodo di contatto col quale si può ottenere acido solforico concentratissimo e acido solforico fumante.
Altra industria importantissima è quella della soda (carbonato sodico). Fino dal 1791 il Leblanc ideò un metodo per ottenere questo prodotto dal cloruro sodico: a questo processo furono portati poi varî perfezionamenti, fra cui è da ricordare quello del Chance (1888) per l'utilizzazione del solfuro di calcio. Nel 1865 entrò nella pratica industriale il processo all'ammoniaca dovuto a Solvay che attualmente ha quasi soppiantato il metodo di Leblanc.
Con la scomposizione del cloruro sodico in soluzione per via elettrolitica si ottiene la soda caustica, l'ipoclorito o il clorato sodico; prodotti analoghi si ottengono col cloruro potassico.
Col progredire dell'industria dei carbonati e idrati alcalini si sviluppò di pari passo l'industria dei vetri e dei saponi.
Attualmente ha assunto grande importanza l'industria degli azotati sintetici. Di fronte alla minaccia d'un esaurimento dei concimi azotati naturali, s'è cercato di risolvere il problema di preparare concimi azotati partendo dall'azoto dell'aria. Solo nel nostro secolo il problema è stato risolto praticamente. Nel 1903 i norvegesi Birkeland ed Eyde ottennero l'acido nitrico dall'aria (in presenza di acqua) con speciali archi voltaici e prepararono così il nitrato di calcio sintetico, d'azione non inferiore a quella del nitrato sodico. Nel 1904 Frank e Caro ottennero un altro concime azotato, la calciocianamide dal carburo di calcio e azoto sopra 1000°; nel 1913 Haber ideò il suo processo per la sintesi dell'ammoniaca dai componenti: questa poi si può trasformare in acido nitrico con un procedimento trovato fino dal 1903 da Ostwald. Il metodo Haber è stato migliorato in quest'ultimo decennio (1919-1929) da Claude in Francia e Casale e Fauser in Italia.
In tema di concimi chimici ricordiamo la preparazione dei perfosfati, attuata la prima volta a Liverpool nel 1846, poi realizzata su larga scala in tutto il mondo. In Germania si lavorano i sali di Stassfurt in modo da ottenere cloruro e solfato potassico; in Italia si comincia a preparare il cloruro di potassio partendo dalla leucite (metodo Blanc).
Progressi enormi ha fatto anche l'industria degli esplosivi. A parte la vecchia polvere da sparo, l'invenzione della quale è avvolta nella leggenda, ricordiamo che nel 1847 Sobrero scoperse la nitroglicerina che, vent'anni dopo, Nobel rese d'uso pratico con l'aggiunta di farina fossile; il prodotto così ottenuto si chiamò dinamite.
Fino dal 1838 Pelouze aveva preparato il cotone fulminante che entrò nella pratica solo nel 1865 quando Abel trovò il modo di stabilizzarlo. Nel 1886-88 Vieille e Nobel associarono la nitroglicerina e il cotone fulminante ottenendo, secondo le proporzioni, gelatine esplosive, frangenti o polveri senza fumo progressive (cordite, balistite, ecc.). Nel 1858 fu preparata la liddite a base d'acido picrico e nitrobenzolo. Nel 1863 Wilbrand scoperse il tritolo (nitrotoluolo) che solo alla fine del secolo scorso fu utilizzato come esplosivo potente e sicuro.
Nella guerra moderna la chimica è intervenuta anche con la preparazione dei gas asfissianti usati dai Tedeschi fin dal 1915. Con questo nome s'indicano genericamente gas propriamente detti, vapori, nonché liquidi o solidi polverizzati. Queste sostanze a seconda dei loro effetti si classificano in lacrimogene, tossiche, vescicatorie, starnutatorie; fra esse vi sono sostanze inorganiche come cloro, bromo, fosgene, ecc., e organiche (alifatiche o grasse), specie derivati dell'arsenico, del cianogeno, ecc.
Fra le industrie prevalentemente organiche ricordiamo quella dei colori di catrame (v. coloranti, sostanze).
Dai composti aromatici, dal catrame, oltre a esplosivi e sostanze coloranti, si poterono preparare varî prodotti sintetici medicinali (anestetici, ipnotici, antisettici, ecc.), l'azione dei quali è dovuta a determinati gruppi farmacofori, e anche varî profumi. Attualmente sono in gara la chimica e l'agricoltura per la produzione del caucciù.
Pure importanza enorme ha oggidì la questione dei carburanti. La civiltà moderna, minacciata di esaurimento non lontano del petrolio, ha chiesto alla chimica di ripetere il miracolo fatto per gli azotati sintetici. Le pratiche recenti del cracking (passaggio del petrolio in tubi fortemente riscaldati) e della bergizzazione (idrogenazione del petrolio in presenza di catalizzatori e sotto pressione) tendono ad aumentare il rendimento di olî leggieri. Bergius ha proposto anche l'idrogenazione dei carboni fossili per ottenere idrocarburi: questo processo è tuttora in esperimento. Si produce anche alcool metilico da ossido di carbonio e idrogeno in presenza di catalizzatori, e recenti esperimenti semi-industriali di preparazione di alcool etilico per sintesi hanno dato risultati promettenti. D'altra parte si cerca d'intensificare la coltivazione delle piante da alcool.
Grazie ai progressi della chimica sono migliorati anche i procedimenti di estrazione e lavorazione dei prodotti agricoli (industria per l'estrazione dello zucchero, industrie fermentative, industria per la preparazione dei latticinî, ecc.), e i processi fermentativi coi quali ormai oltre all'alcool etilico, si preparano industrialmente dagl'idrati di carbonio parecchi prodotti chimici (solventi, acidi lattico, citrico e gluconico, mannite). Molte importanti industrie fanno capo alla cellulosa, tra cui la preparazione della seta viscosa, che è la più importante industria chimica italiana.
Molto promettenti sono le industrie che hanno come punto di partenza l'acetilene: questa addiziona acqua in presenza di certi catalizzatori e dà aldeide acetica, partendo dalla quale si possono ottenere molte altre importanti sostanze organiche.
Letteratura e insegnamento della chimica. - Nella prima metà del sec. XIX v'erano in tutto il mondo cinque o sei riviste importanti dedicate, se non esclusivamente, almeno prevalentemente alla chimica scientifica. Attualmente le riviste d'importanza internazionale salgono a una cinquantina tra generali e speciali.
I trattati scientifici e di consultazione, le enciclopedie chimiche, le monografie su speciali argomenti riguardanti la chimica pura o applicata si sono pure moltiplicati nell'ultimo cinquantennio.
L'insegnamento della chimica nella prima metà del secolo precedente era spesso abbinato con altri: i pochi laboratorî esistenti erano dovuti più a iniziative private che a interventi statali. L'organizzazione dell'insegnamento della chimica si deve specialmente al Liebig e venne attuata con larghezza in Germania fino dalla prima metà del secolo scorso. In Italia, per ragioni politiche ed economiche, solo nell'ultimo trentennio del secolo scorso cominciarono a sorgere laboratorî se non riccamente almeno sufficientemente forniti. Selmi, Piria e da principio anche Cannizzaro lavorarono in modestissimi laboratorî, ciò che rende anche più ammirevole l'opera loro.
Per lo sviluppo assunto dalla chimica s'è resa necessaria la specializzazione nell'insegnamento di questa scienza e oggidì si tengono nelle università corsi separati di chimica generale e inorganica, elettrochimica, chimica fisica, organica, analitica, tecnologica, farmaceutica, agraria, ecc.
Bibl.: Fra le storie della chimica del sec. XIX ricordiamo quelle di L. Gmelin (1799), T. Thomson (1831), J. C. F. Höfer (1842-44); H. Kopp (1843). Fra le più recenti la storia di E. Meyer (trad. di M. e C. Giua, Milano 1915), quella di H. Bauer (Berlino 1921), e numerose pubblicazioni di Lippmann (1901 e segg.) in varî periodi tedeschi e monografie di H. Kahlbaum. In Italia apprezzatissime le monografie di I. Guareschi (dal 1902 al 1912) nei Suppl. Enciclopedia Selmi e negli Atti della R. Accademia di Torino.
Manipolazioni chimiche.
Col nome di manipolazioni chimiche si designano tutte quelle operazioni anche meccaniche e fisiche che servono d'ausilio e sono indispensabili per realizzare un fine chimico, cioè a preparare e a montare gli apparecchi per effettuare reazioni chimiche e identificare, ricuperare, separare i prodotti della reazione stessa o quelli che più interessano.
Essendo questo argomento vastissimo, ci limiteremo qui a descrivere le operazioni che per la loro grande generalità e frequenza si possono considerare realmente come fondamentali.
Mortai. Suddivisione meccanica. - Gli utensili che s'adoperano nei laboratorî per ridurre le sostanze allo stato di suddivisione meccanica sufficiente per poter reagire o essere più rapidamente solubilizzate, sono i mortai, i quali possono essere di vetro, di porcellana, d'acciaio, o, per sostanze durissime, anche d'agata. Le figure,1,2,3, rappresentano le forme più comuni di mortai d'agata, d'acciaio e di porcellana. Molto adatto per polverizzare sostanze dure e compatte è il mortaio di Abich (fig. 4) costituito da un robusto disco d'acciaio con un foro circolare su cui si pone la sostanza da polverizzare. Il pestello è un cilindro che entra esattamente nell'anello; colpendolo con un martello la sostanza si polverizza senza essere buttata fuori come avviene talora nei mortai comuni.
Una volta ottenuta una sostanza allo stato polverulento, per poterne prelevare delle porzioni, si utilizzano spatole speciali di corno, di nichel, di platino, di porcellana, ecc. Esse hanno di solito le forme rappresentate dalle figure 5 e 6; talora sono anche a forma di cucchiaio.
Sorgenti di calore. Misura della temperatura. - Come sorgente d'energia calorifica nei gabinetti, per solito, si adopera il gas illuminante (o altro gas combustibile) facendo uso di speciali lampade: talora s'usano anche forni elettrici.
I tipi di lampade sono svariati. Nel becco Bunsen (fig. 7) il gas illuminante entra dal tubo orizzontale che è congiunto col rubinetto del gas mediante un tubo di gomma, e si mescola a una certa quantità d'aria che entra dall'orifizio in basso ben visibile nella figura: un anello circolare permette di chiudere interamente o parzialmente il foro proporzionando così la quantità d'aria a quella del gas. La combustione del gas è così abbastanza completa e la fiamma è poco luminosa e molto calorifera. La parte tratteggiata rappresenta un piccolo tronco di cono metallico che protegge la fiamma dalle correnti d'aria.
Un sistema più perfezionato per aspirare l'aria che si mescola col gas si ha nella lampada Teclù (fig. 8). La fessura fra il dischetto in basso e il cono, dalla quale entra l'aria, si può allargare o restringere a volontà, girando il disco in modo da alzarlo o abbassarlo.
Nella lampada per soffierie (fig. 9) vi sono due tubi coassiali, uno più largo che porta il gas mediante uno dei tubi laterali, l'altro che porta l'aria, interno al primo e comunicante con l'altro tubo laterale. Acceso il gas, s'inietta aria nell'interno della fiamma: si ha così una fiamma potente, a forma di dardo. La corrente d'aria può essere prodotta con un mantice azionato da un pedale o con un apparecchio soffiante a caduta d'acqua (v. più sotto).
Per piegare tubi sottili di vetro s'usano alle volte anche fiamme a ventaglio ottenute con un beccuccio a fessura lineare (fig. 10).
Per riscaldare masse più grandi di sostanze s'adoperano forni a muffola (fig. 11) che sono specie di scatole di terra refrattaria riscaldate con varie fiamme a gas, ovvero a carbone o a elettricità.
I forni elettrici, che non è qui il caso di descrivere minutamente, possono essere a resistenza o ad arco: con quest'ultimi si raggiungono temperature elevatissime.
Per controllare se le temperature ottenute sono quelle volute, possono bastare anche metodi grossolani: per es., vedere se si realizza la fusione di sostanze opportunamente scelte, a temperature di fusione note.
Ma per misure di precisione, come per determinare temperature di fusione, di ebollizione, ecc., s'utilizzano i termometri.
Se si tratta di determinare temperature non molto elevate o bassissime s'adoperano i termometri a liquidi: specialmente usati sono i termometri a mercurio. Questi hanno forma cilindrica con bulbo e sezione un po' più piccola (fig. 12), in modo da poter essere introdotti a tenuta in tappi forati; sono senza supporto e i gradi sono incisi nel vetro stesso. Naturalmente i gradi sono riferiti alla scala centigrada: i più precisi contengono anche i decimi di grado, e talora i centesimi, nel qual caso la scala è fra i limiti di temperatura più ristretti. Coi termometri a mercurio non si possono misurare temperature molto basse, poiché il mercurio congela a −39°. Per temperature basse s'adoperano termometri con liquidi che congelano difficilmente, come alcool, toluolo, pentano.
Con i termometri ordinarî a mercurio non si può andare a più di 300°, perché il mercurio al di sopra di questa temperatura si combina con l'ossigeno dell'aria che si trova nella parte libera del capillare, e poi a 360° bolle. Se però entro lo spazio suddetto s'introduce azoto compresso a 30 atmosfere, l'ossidazione viene impedita e la temperatura d'ebollizione è così innalzata che il termometro può misurare temperature fino a 550°. Per la costruzione di questi termometri si usano vetri speciali difficilmente fusibili.
Per termometri a liquidi che non siano costruiti in vetro normale è necessario, prima di usarli, di determinare lo spostamento dello zero.
Temperature bassissime o molto alte si misurano con metodi elettrici (pinze termoelettriche o metodi a resistenza).
Pompe, soffiatori. Misura delle pressioni. - Per fare un vuoto molto spinto, necessario alle volte per eseguire distillazioni di sostanze che si decompongono alla temperatura d'ebollizione, o per l'analisi spettroscopica dei gas, ecc., s'adoperano specialmente due tipi di pompe: quella a vuoto torricelliano (per es., pompa Geissler) e quella a caduta di mercurio (per es., pompa Sprengel).
Dell'uno e dell'altro tipo si conoscono numerosissime pompe più o meno perfezionate: ci limiteremo a mostrare qui schematicamente il principio sul quale si fondano e il modo come funzionano.
La fig. 13 mostra lo schema di una pompa a vuoto torricelliano. Supponendo che M sia il recipiente nel quale si vuol produrre la rarefazione, si procede così: chiuso il rubinetto B si alza il gallone V (congiunto al tubo di vetro T con un tubo di gomma) e si apre A: allora l'aria che si trova nello spazio C esce per A e il pallone si riempie di mercurio. Chiuso allora A, si abbassa V in modo da produrre nel pallone C il vuoto torricelliano. Aprendo quindi B, parte dell'aria di M invade C donde poi si scaccia ripetendo la manovra, e così via. In tal modo si può spingere, sia pure in tempo lungo, la rarefazione sino al termine voluto. Questo apparecchio è montato sopra una tavola verticale; la manovra di alzare ed abbassare V si compie mediante una catena che da una parte regge il palloncino e dall'altra porta un contrappeso: questa catena s'avvolge attorno a una ruota dentata che si gira mediante una manovella.
Il funzionamento delle pompe a caduta di mercurio è rappresentato sommariamente dalla fig. 14. Quando una goccia di mercurio (o anche d'un altro liquido) attraversa con una certa rapidità un tubo sottile, comprime l'aria avanti a sé e rarefà quella aderente alla parte posteriore. Nella pompa c'è un dispositivo che permette al mercurio, collocato in un alto serbatoio, di cadere goccia a goccia attraversando un tubo di circa 2 mm. di diametro. Così ogni goccia trascina una piccola quantità d'aria attinta dal recipiente in cui si fa il vuoto, in comunicazione con D. Il tubo barometrico a destra consente di seguire i progressi dell'operazione. Nelle pompe di questo tipo vi sono naturalmente accessorî per sostenere le parti dell'apparecchio e facilitare l'operazione per riportare nel serbatoio alto il mercurio raccolto nel serbatoio basso.
Le pompe comunicano con tubi ad anidride fosforica per assorbire l'umidità e raggiungere così un vuoto più spinto.
Con le pompe a mercurio si possono raggiungere grandi rarefazioni
esse però agiscono solo lentamente.
Se non occorre grande rarefazione si possono adoperare pompe a caduta d'acqua, fondate sullo stesso principio; l'acqua a una certa pressione uscendo da un rubinetto, produce un soffio continuo se il tubo, che per solito è unito al recipiente in cui si vuole fare il vuoto, comunica invece con l'aria libera. La fig. 15 rappresenta un apparecchio a caduta d'acqua che funziona da macchina sia aspirante sia soffiante.
Lavorazione del vetro. - La lavorazione del vetro è molto importante per il chimico. Per fabbricare apparecchi di vetro per laboratorî si parte di solito da una serie di tubi di vetro assortiti, e poco fusibili. Il tipo di vetro più adoperato è un vetro sodico-potassico di fusibilità intermedia fra i vetri comuni e i potassici.
Per la lavorazione del vetro bisogna seguire certe regole la cui conoscenza è indispensabile per quanto insufficiente a guidare il praticante senza l'insegnamento diretto da parte di persone esperte.
Si dànno anzitutto delle regole per tagliare i tubi. Per quelli più piccoli, a pareti non troppo sottili, può essere sufficiente tracciare un'incisione in senso normale alle generatrici mediante una lima triangolare da vetri: piegando con un colpo secco il tubo si spezza senza produrre schegge o incrinature. Con tubi più larghi si usano varî artifici: p. es., si circonda con due anelli, fatti di carta da filtro bagnata, il tubo lasciando fra l'uno e l'altro una distanza di 2 mm. circa corrispondente al punto dove si vuol tagliare. Dirigendo una fiamma in tale striscia tutt'attorno al tubo, questo si tronca secondo una linea compresa nella sottile striscia. Tubi di vetro di piccolo spessore si tagliano anche facendo una piccola incisione che poi si allarga con speciali carboncini accesi a una estremità i quali si accostano all'incisione stessa soffiandovi poi sopra.
Per lavorare il vetro, questo viene rammollito dal calore di una lampada a gas (specialmente della lampada per soffieria). Due sono le regole fondamentali: la prima è di riscaldare i tubi gradatamente, usando prima la fiamma luminosa e poi alzando via via la temperatura; e la seconda è di girare continuamente i tubi quando si riscaldano alla fiamma. L'apparecchio dev'essere poi raffreddato lentamente.
Le operazioni principali da farsi sono le seguenti:
1. Piegare i tubi ad angolo retto o altrimenti. Bisogna evitare la formazione di un angolo brusco ma occorre fare la curvatura a forma d'un piccolo arco di cerchio. Ciò si ottiene riscaldando una porzione del tuho, il che può farsi bene specialmente con una fiamma a ventaglio.
2. Affilare un tubo a un'estremità.
3. Chiudere un tubo da una parte: bisogna operare in modo che l'estremità chiusa sia semisferica e di giusto spessore.
4. Soffiare una bolla a un'estremità, ovvero in una porzione qualunque del tubo (fig. 16). In questo caso bisogna continuare il riscaldamento anche quando il vetro è rammollito, ciò che ha per effetto di accumular vetro nella parte che va rigonfiata: così la bolla viene più robusta.
5. Saldare due tubi di vetro per il lungo o a T (fig. 17), o a Y (fig. 18), ovvero un tubo di vetro a un pallone in cui si è praticato un foro. Queste operazioni non sono troppo facili e richiedono molta pratica se si vuole evitare che la saldatura diventi un punto di minore resistenza. Ancora più difficili sono le saldature interne (v. p. es. fig. 19).
6. Fare orli ai tubi, slabbrando leggermente per facilitare, per es., l'introduzione di tappi. Ciò si fa, dopo aver rammollito gli orli, girando intorno un cilindro di carbone.
7. Far passare fili di platino attraverso pareti di vetro in modo da non compromettere la tenuta di liquidi; attaccare pezzi con mastice, compiere smerigliature, ecc.
Lavorazione dei tappi. - Nel montare svariati apparecchi occorrono tappi lavorati in modo speciale.
Non sempre è conveniente adoperare tappi di gomma, dei quali in ogni caso occorrerebbe un ricco assortimento: il più delle volte è preferibile, per la facile lavorabilità, l'uso di tappi di sughero, purché questo sia di qualità finissima. I tappi del commercio hanno forma cilindrica e leggermente conica; per adattarli al collo di palloni o di tubi si adoperano lime speciali a grana finissima; all'uopo si fa strisciare la lima nel senso delle generatrici girando al tempo stesso il tappo intorno al suo asse.
Nei tappi occorre spesso scavare uno, due o più fori per i quali devono passare tubi di vetro, termometri, ecc. All'uopo servono i foratappi che sono cilindri cavi con orli taglientissimi, di sezioni diverse (fig. 20). Il foro poi è reso più regolare con speciali lime tonde a coda di topo (fig. 21).
Principali operazioni per separare le sostanze. - a) Filtrazione. - Questa operazione serve per separare un liquido da un solido più o meno polverulento che vi sia sospeso. Nei gabinetti s'adopera di solito, come materiale filtrante, la cosiddetta carta da filtro. Di questa si producono varie qualità, quella a rapida filtrazione a pori larghi, adatta a trattenere polveri o precipitati grossolani, quella a lenta filtrazione, adatta a trattenere polveri fini. Nell'analisi quantitativa si adoperano filtri svedesi fatti con carta da filtro lavata con acido fluoridrico, che hanno la particolarità di bruciare quasi senza lasciar cenere.
I filtri si ottengono ritagliando nella carta un cerchio di grandezza voluta e piegandolo due volte (fig. 22); poi s'apre in modo da formare un cono che s'adatta all'imbuto. Questo poggia sopra un sostegno anulare (fig. 23) e il liquido filtrato si raccoglie in un recipiente sottoposto.
Per filtrare più rapidamente si usano alle volte filtri a pieghe (fig. 24). La filtrazione viene anche accelerata aspirando con una pompa a caduta d'acqua: s'adopera a tale scopo l'apparecchio della fig. 25. Il tubo portante il rubinetto si mette in comunicazione con la pompa aspirante: nell'imbuto si colloca il filtro e per evitare la rottura di questo si mette nel vertice dell'imbuto il piccolo cono di platino bucherellato della fig. 26; ovvero si poggia sull'imbuto un disco bucherellato di porcellana (fig. 27) a cui si adatta un dischetto di carta, o lana, o amianto, ecc. L'imbuto è infilato nel tappo di una delle solite bottiglie ad aspirazione (fig. 28).
Se si vuole filtrare la soluzione bollente d'una sostanza molto solubile a caldo e poco a freddo, si usa un dispositivo come quello della fig. 29. L'imbuto s'appoggia su un cono metallico a doppia parete; fra le due pareti v'è acqua che si mantiene in ebollizione con una lampada
b) Separazione di due liquidi non miscibili. - È questa un'operazione assai semplice per la quale s'adoperano apparecchi detti imbuti separatori (fig. 30). Introdotta la miscela nell'apparecchio si apre il rubinetto e si lascia calare in un recipiente sottoposto il liquido più pesante.
c) Separazione di due liquidi miscibili. Distillazione (v.). - La distillazione è un'operazione che consente di separare un liquido da sostanze non volatili che vi sono disciolte. Nei gabinetti si adoperano apparecchi come quello rappresentato dalla fig. 31. Nel pallone A bolle la soluzione: i vapori del solvente entrano nel refrigerante costituito da un tubo di vetro raffreddato da un manicotto esterno di vetro in cui circola acqua fredda. Il vapore così si condensa e il liquido si raccoglie in P.
Questo apparecchio serve anche per separare la miscela omogenea di due liquidi se questi hanno temperature di ebollizione nettamente differenti. Per es., scaldando nel pallone una miscela di acqua (punto di ebollizione 100°) e d'alcool (punto di ebollizione 78°), bolle per primo l'alcool e il termometro dell'apparecchio (introdotto nel tappo del pallone e col tubo immerso nei vapori) resta un certo tempo a 78°. Quando accenna a salire ciò indica che la maggior parte di alcool è passato in P. Certo non si ha una separazione completa perché un po' d'acqua passa in P e un po' d'alcool resta in A. Con questa operazione, detta distillazione frazionata, si ottiene, per es., dal petrolio grezzo la benzina, l'etere di petrolio, il petrolio da illuminazione, gli olî pesanti, la paraffina.
Se i liquidi si decompongono alla temperatura di ebollizione, si può fare la distillazione frazionata a pressione ridotta mediante, per es., l'apparecchio della fig. 32. Il palloncino ove bolle il liquido e il collettore ove si raccoglie il distillato, costituiscono un complesso chiuso: il collettore, mediante un tubo laterale di vetro è in comunicazione con una pompa a mercurio: esso viene raffreddato mediante un getto d'acqua fredda portata dal tubo soprastante. La diminuzione di pressione abbassa la temperatura di ebollizione di tutti i liquidi del miscuglio.
d) Sublimazione. - È un'operazione che serve a purificare e a separare quelle sostanze che per riscaldamento passano direttamente dallo stato solido allo stato gassoso, mentre poi i vapori passano per raffreddamento di nuovo allo stato solido. Mettendo nella capsula (figura 33) la sostanza da sublimare, sovrapponendo un imbuto e riscaldando leggermente, si ottiene aderente alle pareti dell'imbuto la sostanza sublimata, mentre le impurità restano nella capsula.
e) Dialisi. - Mettendo in un dializzatore (fig. 34), cioè in un recipiente di forma cilindrica, chiuso alla parte inferiore da una membrana colloide (pergamena animale o vegetale) una soluzione contenente sostanze cristalloidi e colloidi e tuffando il dializzatore nell'acqua, le sostanze cristalloidi attraversano la membrana e possono essere tolte del tutto, cambiando ripetutamente l'acqua esterna; invece le colloidi non passano sensibilmente. Così le une possono essere separate dalle altre.
f) Manipolazioni sui gas. - Per la separazione, analisi e misure varie sui gas (gassometria) v'è un numero grande d'ingegnosi apparecchi che sarebbe lungo descrivere. Altrettanto si dica per i varî tipi di generatori di gas e di gassometri dei quali si troverà cenno in altre voci. I gas che si sviluppano da un generatore qualunque si raccolgono per solito, dato che siano poco solubili in acqua, col metodo del bagno idropneumatico (fig. 35). Il recipiente nel quale si vuole introdurre il gas, si riempie d'acqua, e chiusa momentaneamente la bocca, si capovolge in una bacinella con una certa quantità d'acqua, poggiandola su un dischetto A con incavatura. Il tubo che porta il gas si dispone come mostra la figura, e così il gas, spostando il liquido, si raccoglie nel recipiente. Se il gas è solubile in acqua, si può sostituire a questa il mercurio (bagno idrargirio-pneumatico). I gas più pesanti o più leggieri dell'aria si possono raccogliere anche per spostamento di quest'ultima facendo arrivare il tubo che porta il gas in un recipiente rispettivamente diritto o capovolto. Il modo più generale per separare i gas è quello di ridurre la miscela allo stato liquido, e poi di sottoporre il liquido stesso alla distillazione frazionata.
Vetrerie comuni e graduate. - I recipienti che servono semplicemente a contenere liquidi e reattivi sono in fondo bottiglie comuni, per solito a tappo smerigliato. Qui ci occuperemo dei recipienti che servono a compiere le più importanti e le più comuni operazioni chimiche: recipienti formati di uno speciale vetro resistente ai reattivi e al calore.
I palloni (fig. 36) hanno una forma sferica e sono particolarmente adatti a sopportare la pressione esterna quando in essi si faccia il vuoto. I matracci (fig. 37) hanno fondo piatto e sono meno resistenti dei palloni. Le bevute sono matracci di forma conica (fig. 38). I beker (fig. 39) sono bicchieri di vetro sottile entro i quali possono bollire i liquidi. Nei beker e nelle bevute si possono abbastanza facilmente staccare i precipitati aderenti alle pareti con penne e spazzolini.
Le provette o tubi di assaggio sono piccoli tubi di vetro sottili cilindrici, chiusi da una parte e della capacità di 20 a 25 cmc. Servono per fare delle prove con piccole quantità di sostanze, specie allo stato di soluzione. Si tengono in supporti di legno detti scarabattole (fig. 40).
Le storte servono a varî usi: per es., a preparare un gas che si sviluppa per riscaldamento di un solido, a compiere distillazioni di sostanze che attacchino la gomma, il sughero, ecc. (nel qual caso si collegano con un collettore che si tien freddo come mostra la fig. 41), ecc.
Di grande utilità per il chimico è la vetreria graduata, adatta a prendere o misurare con la maggiore precisione possibile determinati volumi dei liquidi stessi. Un importante ramo dell'analisi quantitativa, l'analisi volumetrica, si fonda su tali misure.
Per prendere volumi determinati, piuttosto notevoli, di liquido o di soluzioni, si possono adoperare tubi tarati (fig. 42) o bicchieri tarati (fig. 43) che consentano di prelevare quantità di liquidi variabili. Invece coi matracci tarati (ve ne sono da 50, 100, 250, 500, 1000 e più centimetri cubici) si possono prendere quantità determinate di liquidi.
Questi matracci hanno un segno sul collo (fig. 44) che limita il volume dichiarato, posto che la temperatura sia di 15°.
Volumi di liquidi più piccoli si possono prendere con una certa precisione (fino al decimo di centimetro) colle burette (fig. 45), che sono tubi graduati con la graduazione di 50 o 100 cmc. e con un rubinetto (o tubo di gomma che si apre e chiude con una pinza) in basso. Introdotto il liquido si porta questo allo zero (divisione più alta), poi si apre il rubinetto e si fa discendere il liquido in un recipiente sottostante fino alla divisione voluta.
Con le pipette invece si può prendere una quantità piccola e fissa di liquido (fig. 46). S'aspira il liquido fino ad arrivare oltre un segno riportato sopra il rigonfiamento, si tappa rapidamente con un dito e poi stappando si fa scendere il liquido fino al segno superiore. Infine il liquido si fa discendere nel recipiente ove s'intende utilizzarlo fino a un segno posto in basso. Se tale segno inferiore non c'è, si scarica interamente la pipetta. Vi sono pipette da 1, 2, 5, 10, 20, 50 cmc.
La pipetta graduata (fig. 47) riunisce i vantaggi della buretta con quelli della pipetta, consentendo di prendere una quantità qualunque di liquido compreso fra 0 e 10, o 0 e 25 cmc., ecc.
Principali utensili da laboratorio. - Sostegni per montare apparecchi. - Uno dei più noti è il sostegno universale Bunsen (fig. 48). La parte principale è costituita di una base di ferro massiccio portante un'asta di ferro più o meno lunga. In basso v'è una lampada Bunsen nella quale è tratteggiato il piccolo cono per riparare la fiamma (fig. 48, b).
La lampada è fissa a una forchetta che permette di alzarla, se occorre. Vengono poi anelli di ferro di diversa larghezza fissati all'asta con morse (fig. 48, a); su questi si possono stendere reti metalliche sulle quali poggia il recipiente di vetro in cui si scalda qualche liquido. Poi v'è una pinza grande, girevole, per sostenere grossi tubi (p. es. refrigeranti); pinze varie, fisse per reggere tubi verticali (p. es. burette) e girevoli, e alle volte anche altri accessorî, come gancetti per sostenere termometri, ecc.
Naturalmente, a seconda dell'apparecchio che si deve montare, come mostrano alcune delle figure precedenti, si svitano e si tolgono le parti superflue dal sostegno.
Morse per gomma. - Occorre alle volte chiudere momentaneamente i tubi di gomma che si trovano in certi apparecchi. Ciò si fa con pinze a molle o pinze a vite (figure 49 e 50). È bene che la chiusura si faccia solo per il tempo strettamente necessario, altrimenti la gomma si deteriora.
Pinze per afferrare oggetti caldi. - Per crogioli o capsule si usano pinze più o meno ricurve (fig. 51) di ferro, nichel, a punte di platino, ecc.
Per tubi di saggio s'adoperano pinze di legno a molla (fig. 52) o d'acciaio (fig. 53)
Crogioli. - Per riscaldare fortemente sostanze solide s'adoperano per solito crogioli di porcellana, di quarzo, di platino (fig. 54)
I crogioli roventi si tengono con le pinze sopra descritte, oppure si poggiano su triangoli di filo di ferro rivestiti di tubetti di coccio (fig. 55) o di altro materiale refrattario e di grandezza opportuna.
Capsule, cristallizzatori, bagno maria, bagno di sabbia. - Le capsule (fig. 56) servono talora per riscaldare fortemente quantità di materia più grande di quella contenuta nei crogioli. Il riscaldamento d'una capsula si fa preferibilmente in forni a muffola, o a gas, o elettrici. Più spesso la capsula serve per evaporazioni a bagno maria o a bagno di sabbia.
Le capsule hanno per solito forma emisferica; ve ne sono di quarzo, di porcellana, d'argento, ecc.
L'evaporazione a bagno maria può essere fatta anche in cristallizzatori (fig. 57), che sono vaschette cilindriche di vetro con beccuccio; più spesso i cristallizzatori servono per evaporazioni lente a temperatura ordinaria, evaporazioni che si possono accelerare diminuendo la pressione.
Il bagno maria serve per eseguire evaporazioni mediante il vapor acqueo che si sviluppa da un recipiente ove si fa bollire dell'acqua. In queste condizioni la temperatura alla quale è esposta la capsula non supera 100°, e quindi si evitano possibili alterazioni o volatizzazioni della sostanza che deve restare come residuo.
Un bagno maria semplice è quello della fig. 58. Il coperchio è costituito d'anelli concentrici. Il tubo laterale è congegnato in modo che posto in comunicazione col rubinetto dell'acqua mantiene costante il livello di questa nel bagno maria, cosicché questo può essere abbandonato a sé stesso senza pericolo che vada a secco.
La fig. 59 mostra un bagno maria in funzione: come accessorio v'è uno speciale imbuto per riparare la capsula dalla caduta di corpi estranei e di polvere.
La fig. 60 mostra un assortimento di bagni a sabbia. Si tratta di recipienti conici fatti di lamina di ferro e strisce d'amianto; in essi s'introduce una certa quantità di sabbia sulla quale si posa, p. es., la capsula tracciando con questa stessa una cavità. Mediante una fiamma a gas la sabbia si riscalda uniformemente e si raggiunge così una temperatura più elevata che nel bagno maria, senza pericolo di proiezioni o di rotture.
Apparecchi d'essiccamento a caldo e a fireddo. - Per essiccare le sostanze e alle volte anche i recipienti, operazione assai frequente in chimica, s'usa, quando è possibile, il riscaldamento. Se si tratta di eliminare dell'acqua aderente basta scaldare a 100°; ciò che può farsi in stufe a doppia parete contenenti acqua nello spazio intermedio, portando l'acqua stessa all'ebollizione (fig. 61). Se si può alzare di più la temperatura, o se è necessario di farlo per scacciare, p. es., acqua combinata sia pure labilmente (p. es. acqua di cristallizzazione), s'usano stufe a circolazione d'aria calda (fig. 62). L'aria, scaldata da una serie di lampade a gas opportunamente distribuite, sale nello spazio fra le doppie pareti e circola con moti convettivi nell'interno della stufa. Un termometro piuttosto lungo col bulbo all'interno e la scala all'esterno permette di seguire la temperatura.
Molte volte però non si può usare il calore per produrre l'essiccamento; inoltre se si vuole impedire che una sostanza seccata a caldo riprenda umidità dall'aria, occorre tenerla in ambiente secco. Nell'uno e nell'altro caso si utilizzano apparecchi detti essiccatori (fig. 63).
Il recipiente può essere chiuso col coperchio poggiato sull'orlo arrotato e unto: nella parte inferiore vi sono sostanze fortemente igroscopiche come cloruro di calcio fuso, acido solforico concentrato, ecc. Per essiccare rapidamente a freddo una sostanza umida si usa un apparecchio analogo, ma provvisto di un tubo a rubinetto che consente di fare il vuoto. Così l'evaporazione è più rapida e le sostanze igroscopiche assorbono il vapore man mano che si forma (fig. 64).
Chimica inorganica.
Questo corpo di dottrine è una conquista recente dell'umanità: ha appena centocinquant'anni: tutt'al più, se lo si considera sotto certi aspetti, tre secoli.
Ma vi è una preistoria della chimica, se così si vuol chiamare la storia della chimica non scientifica, che giunge fino al limite dei tempi moderni con gli ultimi alchimisti e coi primi flogisti. Di questo periodo prescientifico (v. alchimia) ci limitiamo a ricordare i due caratteri fondamentali e cioè: da una parte, l'attività industriale di carattere empirico, che, nel corso dei secoli, dovette pur portare a qualche generalizzazione e che comunque accumulò notizie preziose; dall'altra parte, in perfetta antitesi con l'intento pratico dell'attività utilitaria suddetta, la speculazione filosofica degli antichi, completamente aprioristica e metafisica, lontana, anzi aborrente da qualunque controllo sperimentale, ma che tuttavia conservò per i secoli germi e indizî di verità. Questi due caratteri, così diversi nella loro indole e sostanza, nel Medioevo in qualche modo si congiunsero, o almeno s'intersecarono, poiché le idee derivate dalla filosofia aristotelica e neoplatonica (mescolate a deviazioni astrologiche e cabalistiche) indirizzarono l'esperienza attraverso problemi che furono chimerici nell'alchimia, aberranti (specialmente nelle posizioni estreme) nella iatrochimica, giungenti a soluzioni errate nella flogistica, ma che tuttavia rappresentarono qualcosa che intese a costruire dottrine chimiche su una base sperimentale. Il risultato di questa esperienza millenaria si può cogliere al tempo della chimica flogistica, nel sec. XVII. Dal punto di vista della tecnica sperimentale, si era, in quel tempo, acquistata, nel laboratorio e nell'industria, la pratica delle operazioni fondamentali della chimica: distillazione, calcinazione, precipitazione, filtrazione, sublimazione, ecc.: Boyle e i chimici pneumatici avevano iniziato la tecnica dello studio dei gas che fiorì in tale periodo. Si conoscevano e si preparavano innumerevoli sostanze nuove. Ai sette metalli dell'antichità (oro, argento, rame, ferro, mercurio, stagno, piombo), l'alchimista Basilio Valentino aveva aggiunto nel sec. XV l'antimonio e il bismuto, Paracelso nel sec. XVI lo zinco: si conoscevano anche l'arsenico e i minerali del cobalto che si adoperava in varî composti, si erano precisati i caratteri dello zolfo, si conosceva l'uso di innumerevoli altre sostanze, tra le quali principalissimi gli acidi (cloridrico, solforico, nitrico) gli alcali caustìci e i sali più diversi, quelli alcalini, di ammonio, dei metalli pesanti. Tutte le operazioni metallurgiche si erano perfezionate. Si conosceva la porcellana e si cominciava a parlare di concimi chimici. La terminologia riguardante tutto questo era però arbitraria e fantastica, e la classificazione di questi corpi in gruppi distinti era caotica.
Dal punto di vista dottrinale era caduta l'infatuazione alchimistica, sebbene l'alchimia avesse poi per un secolo ancora dei cultori. Paracelso e gli iatrochimici suoi seguaci avevano sostenuto che lo scopo della chimica è quello di preparare sostanze e miscugli che influiscano sul gioco chimico dei fenomeni vitali, poiché ormai questi s'interpretavano chimicamente. Ma questo assunto, anch'esso portato a conseguenze assurde, era stato superato. Boyle e i chimici flogistici avevano finalmente precisato il problema scientifico della chimica: scopo della chimica non era più ormai questo o quel problema utilitario, ma quello di raccogliere, studiare e interpretare nuovi fatti. Lo spirito galileiano era entrato così nella chimica.
Animato da questo, il periodo flogistico che va da Boyle (1600) a Lavoisier (fine del 1700) fu pieno di scoperte e di indagini. Vennero scoperti e isolati i principali gas. Ci si avviava a comprendere che l'aria è un miscuglio, che l'acqua è un composto. Già dal periodo iatrochimico si erano paragonati i fenomeni della combustione e della respirazione: ora questo si precisava più a fondo. Nel 1669 era stato scoperto il fosforo; verso la metà del sec. XVIII il platino fu descritto sicuramente da Watson e poi da Scheffer; nel 1751 Cronsted scoprì il nichelio e Scheele scoprì il manganese, isolato poi da Gahn nel 1774; Hyelm il molibdeno, Müller von Reichenstein il tellurio (1782); il tungsteno (wolframio) fu scoperto dai fratelli Elhuyar, spagnoli.
Mancava però ancora il fulcro sul quale tanta massa di fatti sperimentali avrebbe potuto costituirsi in una dottrina coerente. Questo fulcro era il concetto di elemento chimico. Boyle aveva rettamente enunciato questo concetto, nel suo Chemista Scepticuts del 1661, dove, criticando gli elementi aristotelici e alchimistici, aveva stabilito che come elementi si dovessero considerare soltanto i costituenti indecomponibili dei corpi, ma queste vedute del Bovle erano cadute nel vuoto. Stahl e i suoi seguaci (tra i quali Cavendish e Scheele, pur così grandi sperimentatori), fuorviati ancora dalla teoria aristotelica, avevano interpretato il fenomeno della combustione con la dottrina del flogisto. Tutto questo rappresentava un punto morto poiché, in fondo, malgrado i nuovi intenti scientifici, permaneva l'antico errore medievale all'affermazione non controllata induttivamente dall'esperienza.
Lavoisier compì quello che i flogisti non avevano se non inadeguatamente compiuto: seguì con la bilancia le trasformazioni che accompagnano la combustione e, riprendendo la definizione di elemento data dal Boyle, mostrò per questa via, ormai nettamente sperimentale, che nessuna delle quattro sostanze aristoteliche è un elemento. I corpi semplici conosciuti - stabilì Lavoisier - sono quelli della seguente tabella:
Questa tabella rispecchia le inadeguate conoscenze dell'epoca, ma ormai la teoria dei corpi semplici, degli elementi, era fondata su basi sperimentali, e immediatamente tutta la massa di fatti accumulata nei secoli acquistava un significato nuovo e diveniva suscettibile di essere tra breve elevata in un corpo di vera dottrina. Il Lavoisier, conscio di questo, riformò anche tutta la nomenclatura chimica, abolendo quella caotica e fantastica dei tempi alchimistici e sbozzando quella che poi, mutatis mutandis, anche noi oggi adoperiamo: riforma questa che non è formale, ma è indizio e conseguenza del fatto che in questa acquisizione degli elementi chimici si era trovato un punto di riferimento fondamentale. In una parola: la chimica era divenuta una scienza.
Perciò l'epoca che si apre dopo Lavoisier è sostanzialmente l'epoca che ancora dura e si svolge; e dal punto di vista logico è senza discontinuità. Ma vi si possono distinguere nettamente tre periodi. Nel primo, che va dagli inizî dell'800 a (press'a poco) il 1860-1870, la chimica conquista le sue unità fondamentali, i pesi molecolari e atomici, il concetto di valenza dal quale scaturisce la strutturistica inorganica e organica e la classificazione degli elementi; sono le strutture essenziali del nuovo edificio.
Nella seconda fase, che in parte si profila già lungo la prima e che continua poi anche nello stadio attuale, le dottrine fisiche penetrano nel cuore della chimica: e la chimica manifesta completamente il suo aspetto di scienza derivata da quelle leggi uniche che reggono tutta la fenomenologia della materia.
La terza fase si sovrappone alle altre già in svolgimento quando, al principio di questo secolo, coi fenomeni di radioattività, si perviene a delineare una struttura dell'atomo.
Il primo periodo ebbe continue alternative di luci e di ombre, poiché accadde che la verità apparsa, come in un primo bagliore, a Dalton e ai primissimi atomisti dell'800, continuò poi per cinque o sei decennî a sfuggire.
Lavoisier, oltre ad aver fissato sperimentalmente il concetto di elemento, aveva stabilito la legge della conservazione della massa o del peso, principio che ha le due caratteristiche del nuovo tempo: costituisce una generalizzazione ed è un'affermazione quantitativa. Su questo terreno di generalizzazioni quantitative comparivano subito nel 1799 per opera di J. L. Proust, la legge delle proporzioni definite, e nel 1802-03 per opera di John Dalton la legge delle proporzioni multiple: subito dopo, specialmente nelle mani potenti dello svedese Jöns Jakob Berzelius, prese nuovo significato una serie di esperienze, compiute nel precedente periodo flogistico da Wenzel e da Richter, per le quali si arriva alla legge degli equivalenti Questa legge (che comprende le altre due e che stabilisce che le quantità in peso di ogni elemento che si combinano con una quantità fissa di ossigeno - allora ci si riferì a 100 di ossigeno: oggi ci si riferisce a 8 - sono anche le quantità secondo le quali o secondo multipli o sottomultipli delle quali gli elementi si combinano, si sostituiscono, reagiscono tra loro) apparve subito ai chimici come l'espressione del fatto fondamentale che esistono quantità chimicamente equivalenti, cioè che ogni elemento entra nelle combinazioni chimiche con un peso caratteristico di esso. Questo fatto sarebbe stato ben limpido e non avrebbe richiesto opera d' interpretazioni; sennonché alcuni, anzi molti elementi, si combinano con l'ossigeno in rapporti diversi a dare composti diversi; tali rapporti sono tuttavia di molteplicità assai semplici, secondo la legge delle proporzioni multiple. Noi espriamiamo oggi questo fatto, dicendo che un elemento ha diversi equivalenti: ma questa idea fu scartata allora e si disse che ogni elemento ha un equivalente singolo, a scegliere il quale, tra i varî multipli possibili, furono adottati criterî varî e anche convenzionali (ragione, in seguito, di dubbî). Ma in conclusione si arrivò a una Tabella degli equivalenti o numeri proporzionali; e poichè essa fu adottata più o meno per un cinquantennio, si riporta qui quale si adottava verso il 1840 (unità di riferimento, ossigeno = 100).
Si osservi frattanto come, nel giro di soli 40 anni, era progredita si sono aggiunti, per citare solo i principali: lo iodio scoperto nel 1811 da Courtois e riconosciuto elemento da Gay-Lussac (1813), il bromo scoperto da Balard nel 1826, il selenio scoperto nel 1817 da Berzelius (che precisò anche le conoscenze intorno al tellurio), il boro isolato da Gay-Lussac e da Davy nel 1808 e il silicio isolato da Berzelius nel 1810. Né è da tacere che in questo stesso periodo si chiarificò il concetto dell'allotropia (per il carbonio, l'ossigeno, lo zolfo, il selenio, ecc.).
Anche l'ossigeno, l'azoto e l'idrogeno per i quali, nonostante l'opera di Lavoisier (che del resto considerava i gas allo stato libero come uniti a luce e calorico), erano rimaste alcune incertezze nei primissimi dell'800, furono considerati definitivamente elementi verso il 1820. E vedremo poi quale importante posizione abbia per altri concetti l'aver riconosciuto il cloro come elemento (invece che come l'ossido d'un ipotetico murio). I metalli alcalini sodio e potassio furono isolati per via elettrochimica dal Davy nel 1807; Arfvedson nel 1817 scoprì il litio; Seebeck preparò le amalgame di bario, stronzio, calcio e magnesio e, dopo queste, i metalli: l'alluminio fu preparato da Wöhler nel 1827 e il berillio pure da Wöhler nel 1828. Fu riconosciuto il cadmio fino dal 1817 (Stromeyer), il cromo nel 1777 (Vauquelin), l'uranio nel 1798 (Klaproth isolò un ossido che fu creduto il metallo: il metallo fu poi isolato da Péligot); il vanadio fu segnalato nel 1801 da Del Rio e studiato poi sicuramente nel 1867 da Roscoe. Ai primi dell'800 furono segnalati, e più tardi isolati, il columbio (niobio), il tantalio, il titanio, lo zirconio e il iorio; Berzelius e Klaproth aprirono la serie delle scoperte degli elementi delle terre del cerio (già segnalate da Gadolin). Mosander verso il 1840 isolò poi, dall'ossido di cerio impuro, il lantanio e il didimio (riconosciuto molto più tardi come un miscuglio di neodimio e praseodimio), e nel 1843 l'erbio e il terbio.
Questo rapido elenco mostra quale impulso avesse dato alla chimica la cognizione delle caratteristiche di un elemento. Non meno ampio è lo sviluppo dei concetti. Le leggi stechiometriche, che abbiamo sopra accennate e che avevano condotto alla tavola fondamentale degli equivalenti, assunsero subito un significato più profondo, dacché il Dalton nel 1808 richiamò in vita l'ipotesi atomica. Era ancora l'antica ipotesi di Democrito, Leucippo, Epicuro e Lucrezio (la materia è discontinua; l'universo è infinito e la parte piena ponderabile di esso è costituita da particelle immensamente piccole insecabili, indistruttibili: gli atomi). Era l'ipotesi atomica alla mente di filosofi e di pensatori: ma col Dalton, da filosofica, essa diventa scientifica, poiché nelle leggi stechiometriche Dalton e i daltoniani videro la prova d'una struttura atomica della materia e perciò allora, per la prima volta nei secoli, venne impostato il problema della determinazione dei pesi atomici.
Per un intricato gioco di rapporti di molteplicità fra i pesi atomici e i pesi equivalenti, tutti i tentativi di fissare con un criterio sicuro questi pesi atomici, fallirono per 60 anni. Due regole chimico-fisiche, quella dei calori specifici degli elementi solidi dovuta a Dulong e Petit (1819) e quella dell'isomorfismo di Mitscherlich (1819) diedero, è vero, qualche punto d'appoggio per questa scelta e ad un certo momento la legge dei volumi nelle reazioni tra gas, dovuta al Gay-Lussac, sembrò fornire l'invocato criterio di scelta; ma tutto ciò si rivelò poi limitato e insufficiente per una generalizzazione quale sarebbe stata necessaria. Ne derivò che per più di un cinquantennio la chimica tutta, inorganica e organica, da un lato fu animata da questo potente strumento che è l'ipotesi atomica, di cui tutti sentivano l'intima verità; dall'altro fu travagliata dalla mancanza della sicurezza dei pesi atomici prescelti.
Il Berzelius, poderoso sperimentatore e mente sintetica, aveva fino dai primordî del secolo stabilito empiricamente una tabella di pesi atomici che per molti elementi non differiva da quella che oggi possediamo. Egli aveva inoltre proposto, abbandonando tutti i simboli precedenti, d'indicare i diversi elementi con le iniziali dei nomi latini nel modo che anche oggi facciamo. Così si erano cominciate a scrivere le formule chimiche del tutto simili alle nostre. Ma ben più sostanziale era il criterio teorico col quale egli risaliva a stabilire tali formule - criterio che derivava dai fatti elettrochimici che intanto si erano andati scoprendo all'inizio del secolo, dopo Volta. Secondo il Berzelius l'atomo di ogni elemento era dotato di una polarità positiva o negativa: positivi i metalli, negativi i metalloidi. In forza di questo potevano unirsi tra loro gli elementi positivi coi negativi, per es.
o il meno elettronegativo col più elettronegativo, funzionando allora il primo, rispetto al secondo, da elettropositivo, per es.
la base e "l'acido" così formati, conservanti ancora polarità per un eccesso di carica d'uno dei costituenti, si univano poi a dare il sale. Da questo le formule, la concezione e anche una nomenclatura dualistica: il composto BaO . SO3 si chiamava solfato di barite: H2O. SO3, idrato di acido solforico. Questo concetto informò di sé tutta la chimica fin verso il 1840.
Decadde poi in quel torin0 di tempo, e le ragioni per cui decadde aprirono la via a grandi conquiste della chimica generale. La prima di queste ragioni condusse a una precisa definizione di acido, base e sale. Gli acidi erano secondo Lavoisier e secondo Berzelius, composti di ossigeno coi non metalli (ossigeno significa "generatore di acidi"). Ma già, verso il 1800, la dimostrazione che il cloro è un elemento e la conseguenza che l'acido cloridrico è un idracido, stabilì il concetto che esistono acidi privi di ossigeno, e questo concetto nel giro dei venti anni seguenti arrivò alle sue conseguenze estreme, poiché, affermata sicuramente dal Liebig l'esistenza di acidi mono-, bi-, tribasici, un complesso di considerazioni condusse il Liebig stesso a negare una differenza sostanziale tra sali aloidi (sali degli idracidi) e sali ossigenati: ed egli finì con l'affermare che oli acidi sono composti speciali di idrogeno in cui l'idrogeno può essere sostituito da metalli. Ciò implicava una concezione unitaria della formula degli acidi, delle basi e dei sali, che del resto era stata già affacciata venti anni prima da Davy e da Dulong, ma che era stata sommersa dalle idee dualistiche del Berzelius. Frattanto il Daniell, nel 1830, mostrava che l'elettrolisi dei sali non fornisce i prodotti che la teoria del Berzelius avrebbe fatto prevedere, e Faraday nel 1834 stabiliva, con le leggi dell'elettrolisi, che un equivalente di qualsivoglia elemento è legato ad una quantità uguale di elettricità e non a quantità diverse, come ammetteva il Berzelius.
Questi colpi non sarebbero forse stati sul momento definitivi per la teoria dualistica. Furono invece definitivi i fatti che intanto si erano accumulati nella chimica organica, largamente sviluppatasi dal 1820 in poi. E forse una delle prove più dimostrative, storicamente, della radice comune di queste due branche della chimica il vedere come in questo tempo il concetto dualistico del Berzelius tentasse d'introdursi nella chimica organica con la prima teoria dei radicali, ne rimanesse invece distrutto dalle teorie unitarie del Dumas, del Gerhardt e del Laurent e come da tutto questo, attraverso una serie di tentativi intorno alle formule della chimica organica contenuti nella nuova teoria dei radicali e in quella dei tipi, venissero - diciamo così - restituite alla chimica inorganica due concezioni, che furono ragione di potente sviluppo per essa: una è appunto la teoria unitaria, che per il momento serviva a stabilizzare l'interpretazione della costituzione degli acidi, delle basi e dei sali (mentre il concetto elettrochimico doveva poi risorgere sotto altra forma): l'altra fu il primo sbozzarsi della teoria della valenza o atomicità o capacità di saturazione degli elementi (secondo la quale l'atomo di ogni elemento può combinarsi determinatamente con un certo numero di atomi d'idrogeno o d'un altro elemento monovalente come l'idrogeno), teoria che, stabilita dal Frankland (1852) sulla base delle sue ricerche sui composti metallorganici, animò di sé quasi subito tutta la chimica.
Ma questo sviluppo di fatti e d'idee col quale l'una e l'altra branca della chimica si consolidavano definitivamente su forti basi, urtava sempre più e s'intricava nelle difficoltà provenienti dalla mancanza del criterio di scelta dei pesi atomici. L'idea del Gmelin di tornare (verso il 1840) alla tavola degli equivalenti, abbandonando quella dei pesi atomici, se non era un regresso, era un ripiego, e rivela la situazione di quell'epoca. In tanto disorientamento sorse provvidenziale e definitiva l'opera del nostro Stanislao Cannizzaro.
La soluzione del problema era contenuta già tutta virtualmente nell'ipotesi che Amedeo Avogadro aveva formulato nel 1811: volumi uguali di gas in condizioni uguali di pressione e di temperatura contengono ugual numero di molecole. Molecole, particelle ultime che costituiscono i corpi quali a noi appariscono con tutte le proprietà fisiche e chimiche; molecole costituite a loro volta di atomi (uno, due, tre o pochi più atomi) che entrano in gioco nelle reazioni chimiche e unendosi tra loro dànno luogo alle molecole dei composti. Molecole integranti e molecole elementari, aveva detto l'Avogadro; molecole e atomi le chiamò il Cannizzaro. E mostrò che questa ipotesi dell'Avogadro, che era passata quasi inosservata (benché riconfermata dall'Ampère in Francia nel 1814 e benché per breve tempo su di essa si fossero soffermati specialmente Gerhardt e Laurent nel 1840 e Gaudin nel 1842) conteneva tutta la soluzione del problema dei pesi atomici, poiché la piú piccola quantità in peso di un elemento contenuta nel peso molecolare di tutti i suoi composti, rappresentava e non poteva rappresentare altro - sostenne il Cannizzaro (1858) - che il peso atomico di quell'elemento.
Quest'idea geniale non fu accolta immediatamente quando il Cannizzaro la sostenne al Congresso di Karlsruhe, nel 1860, ma qualche anno dopo era diventata l'idea centrale di tutta la chimica. In forza di essa la teoria della valenza si precisava in modo definitivo: l'equivalente veniva a considerarsi come un'entità stechiometrica rappresentata da un sottomultiplo del peso atomico (là dove non coincide con esso): ogni elemento presentava diversi equivalenti (ciò che accettato definitivamente quando da Kolbe e Blom strand si stabilì che la valenza non è costante per un elemento, ma può variare). Da questo derivarono le formule strutturistiche in chimica inorganica, ma più ancora in chimica organica, dove la teoria della isomeria poteva così iniziare il suo sviluppo prodigioso. Infine gli elementi potevano ormai venire classificati, cioè paragonati nelle somiglianze e nelle dissomiglianze loro e dei loro composti, secondo un piano che fu dapprima frammentario nei tentativi di Chancourtois 11862) e di Newlands (1863), a tacere dei precedenti mcessariamente embrionali, ma che divenne completo e definitivo allorché il russo Dimitri Mendeleev assunse due criterî direttivi nella sua classificazione: i pesi atomici cannizzariani e la forma limite di combinazione degli elementi derivante dalla teoria della valenza. In base a questo, egli enunciò (1868-71) la grande legge: le proprietà fisiche e chimiche degli elementi sono una funzione periodica del peso atomico. Quest'opera del Mendeleev, a cui si aggiunge subito quella di Lothar Meyer è monumentale: chiude e riassume tutto il periodo trascorso da Lavoisier in poi. Nella sua forma originale contiene già tutte le sue strutture essenziali che non faranno poi che consolidarsi: i periodi lintervallo tra il metallo alcalino e l'alogeno); i gruppi (contenenti tutti gli elementi a forma limite di combinazione uguale); le serie (provenienti dalla doppia periodicità dei grandi periodi e determinanti i sottogruppi).
Su queste basi, ormai compiutamente razionali, la chimica inorganica, dopo il 1870, si sviluppò con un ritmo che s'intensificò di decennio in decennio. Si colmarono rapidamente i posti vuoti della prima tabella di Mendeleev. Il rubidio e il cesio, inclusi in essa, erano stati scoperti poco dopo il 1860 da Bunsen quando, avendo Kirchhoff dimostrato le leggi fondamentali dell'assorbimento e dell'emissione delle radiazioni luminose, l'analisi spettrale, per opera sua e di Bunsen, entrò definitivamente nella chimica come un mezzo potente di ricerca.
Tre dei principali elementi mancanti nella tabella, lo scandio, il gallio, il germanio vennero scoperti, il primo da Nilson nel 1879, il secondo da Lecoq de Boisbaudran nel 1875, il terzo da Winkler nel 1886; splendida conferma delle previsioni che ne aveva fatte il Mendeleev. Si intensificarono le ricerche intorno agli elementi delle terre rare che, per la grande singolare somiglianza loro, richiesero un lavoro d'isolamento estremamente sottile, talché di anno in anno si ebbero comunicazioni di elementi scoperti che poi risultarono non confermati (solo dagli ultimissimi anni i 14 elementi delle terre rare sono sicuramente individuati e tutti isolati, meno uno). Nel 1886 Moissan isolò il fluoro. Nel 1894-98 il Ramsay (che partì da una bella esperienza del Cavendish di 100 anni prima) scoprì i gas rari dell'atmosfera, elio, argo, neo, cripto, e xeno, che costituiscono il gruppo zero del sistema periodico, segnando ciascuno di essi, tra periodo e periodo, il passaggio dalla valenza 7 elettronegativa alla valenza 1 elettropositiva.
Naturalmente il primo lavoro, intorno a questi elementi vecchi e nuovi, fu la determinazione esatta dei pesi atomici, ciò che continuava del resto, affinandola, la tradizione lasciata da Stas e da Marignac della determinazione dell'equivalente (di cui il peso atomico è multiplo). E per i corpi semplici e per i composti, fondamentale diventò, dopo stabilita la regola di Avogadro - che era ormai il fulcro di tutta la stechiometria - la determinazione dei pesi molecolari, cioè delle densità gassose. Sulla base di queste unità fondamentali si svolse intanto la prima fase della ricerca chimico-fisica, che consisté in molteplici ricerche sulle relazioni tra proprietà fisiche (potere rotatorio, potere rifrangente, ecc.) e costituzione chimica.
Ma nel campo dei pesi molecolari si avverò ben presto una estensione di concetti e di mezzi con la constatazione che la regola di Avogadro è estensibile alle soluzioni diluite, quando il significato della pressione gassosa si paragonò e si uguagliò al significato della pressione osmotica (Pfeffer, 1877). Non solo si ricavò da questo il mezzo di determinare il peso molecolare delle sostanze in soluzione, (ciò che dapprima si compì in modo empirico, basandosi sia sulla pressione osmotica, sia su grandezze ad essa proporzionali - abbassamento della tensione di vapore, abbassamento del punto di congelamento, innalzamento del punto di ebollizione (Raoult, De Coppet)-, ma questo diede luogo alla grande generalizzazione del Van 't Hoff (1885) che costituisce la teoria delle soluzioni diluite, svolta su base termodinamica. E ciò a sua volta ebbe importanza grandissima, perché da un lato la deviazione dei pesi molecolari normali constatata, in soluzione, per gli acidi, le basi e i sali, cioè per gli elettroliti, stabilizzava, nel 1887, la teoria della dissociazione elettrolitica, che l'Arrhenius aveva già quattro anni prima formulata in base ai fatti riguardanti la conducibilità degli elettroliti che erano stati studiati da Hittorf e da Kohlrausch; dall'altro la teoria delle soluziom del Van't Hoff segnò l'epoca della piena introduzione della termodinamica nella chimica, ciò che portò alla trattazione energetica del problema dell'affinità. In questa trattazione confluirono due grandi correnti del pensiero chimico antecedente, la termochimica e la teoria degli equilibrî.
La termochimica si era affermata con Hess quando questi, nel 1840, anticipando di qualche anno il primo principio di termodinamica, aveva fissato la prima e la seconda legge della termochimica, sviluppo di idee precedenti di Lavoisier e Laplace: si era poi arricchita di dati sperimeritali con P. A. Favre e J. T. Silbermann (1846-1853), con G. R. Kirchhoff (1858), con J. Thomsen (1853) e con M. Berthelot. Questi nel 1873, riassumendo concetti precedenti, affermava il cosiddetto principio del lavoro massimo, il significato del quale era in definitiva che il calore svolto da una reazioue chimica (tonalità termica) fosse la misura dell'affinità.
La teoria degli equilibrî chimici (che derivava la sua idea centrale dal concetto espresso fino dal 1803 dal chimico savoiardo Berthollet, il quale - contro l'opinione del Bergman e contro le tavole dî affinità di quel tempo - aveva sostenuto che due sono i fattori operanti in una reazione chimica: l'affinità e la massa) trova la sua formulazione matematica nella legge di azione di massa di Guldberg e Waage (1867), con la quale si veniva a stabilire il concetto e il calcolo della costante di equilibrio di una reazione in sistema omogeneo.
Il precisarsi dei concetti termodinamici, che nella seconda metà del secolo fissò le relazioni fra tonalità termica ed energia libera d'un qualunque processo energetico, riunì in una magnifica sintesi i due campi di pensiero ora accennati, poiché il Van't Hoff nel 1887 mostrò come per misura dell'affinità o tendenza a compiersi di una reazione dovesse prendersi il lavoro massimo, o diminuzione di energia libera, connessi con quella reazione reversibilmerite condotta e mostrò anche come questo potesse calcolarsi dalla costante di equilibrio di essa: veniva così ad essere corretto il principio, erroneamente detto del lavoro massimo, di Berthelot. Stabilita poi dal Van 't Hoff stesso l'equazione differenziale indicante la variazione della costante di equilibrio con la temperatura (isocora di Van 't Hoff) si apriva il campo a una nuova estensione di concetti per opera del Nernst, quando questi mostrò (1906) col suo teorema del calore (che è in conclusione l'integrazione dell'equazione differenziale suddetta) come potesse calcolarsi l'affinità e quindi la costante di equilibrio, dalla conoscenza della tonalità termica e dei calori specifici delle sostanze reagenti e del prodotto di reazione.
A questi imponenti risultati, che costituiscono il tronco centrale dell'energetica chimica, un altro se ne era aggiunto, anch'esso dedotto dalla termodinamica: la famosa regola delle fasi (1878) di Gibbs che in una vasta trattazione aveva già precorso l'opera del Van 't Hoff. Con la regola delle fasi veniva a essere risolto il problema dell'equilibrio chimico in sistemi eterogenei; venivano stabilite cioè le relazioni che si hanno tra molteplici componenti quando essi sono distribuiti come tali, o come composti da essi originantisi, tra diverse fasi (solide, liquide, gassose) in equilibrio tra loro: campo che comprende i più vasti dominî della chimica teorica e tecnica.
Ma la legge di azione di massa che aveva portato a stabilire le condizioni fondamentali dell'equilibrio chimico (statica chimica) era basata tutta su un concetto, quello appunto della massa attiva o concentrazione molecolare, che doveva considerarsi anche per un altro problema non meno importante, quello del passaggio all'equilibrio. Questo problema fu anzi affrontato antecedentemente a quello degli equilibrî (Wilhelmy, Malaguti). Si formò così una trattazione che si può comprendere sotto il nome di cinetica chimica: con essa si stabilirono le leggi e le formule della velocità delle reazioni mono-, bi-, plurimolecolari e ad essa si riallacciò il problema della catalisi, vecchia idea del Berzelius che ora appariva sotto tutt'altro aspetto.
Non meno grande di quello ora accennato era il campo che aveva aperto la teoria di Arrhenius. Ammessa la dissociazione in ioni degli acidi, delle basi e dei sali in soluzione, tutta la chimica analitica si raggruppava in un modello coerente: applicando alla reazione di dissociazione ionica la dottrina degli equilibrî, ne derivava una interpretazione precisa dei fenomeni di idrolisi, della formazione dei complessi, della termochimica delle soluzioni, delle leggi della chimica quantitativa. Ma più importante ancora era lo sbozzarsi di un vasto criterio di distinzione tra chimica inorganica e organica, ché la prima appariva ormai più specialmente la chimica dei composti ionizzabili, o eteropolari, la seconda dei composti non ionizzabili, o omeopolari. E col concetto di elettropositività ed elettronegatività degli elementi, anche la dottrina della valenza acquistava nuovi aspetti. Così si ebbe la teoria delle valenze e controvalenze dell'Abegg (1904) e la teoria del Werner, l'una e l'altra non derivate propriamente dalla teoria di Arrhenius, ma certo possibili solo, e sviluppatesi, nell'atmosfera da essa creata. La teoria di Werner (formulata in maniera definitiva nell'opera Neuere Anschauungen auf dem Gebiete der anorganischen Chemie, Brunswick 1905, e alla elaborazione della quale ebbe molta parte il nostro Miolati) affrontò la questione dei composti molecolari, cioè dei composti complessi, risolvendola col concetto del numero di coordinazione dell'atomo di un elemento, capace di tenere impegnati intorno a sé (con valenze secondarie) un numero di altri atomi o gruppi in una sfera interna non ionogena, mentre può ancora impegnare ionogenicamente con le valenze principali atomi o gruppi di polarità opposta. La costituzione di tutti i composti inorganici rientrava in questo grande modello del Werner, e, poiché la distribuzione dei gruppi coordinati intorno all'atomo centrale doveva pensarsi secondo schemi geometrici, nacque da essa l'ipotesi di una stereoisomeria inorganica che l'esperienza confermò pienamente.
La teoria della dissociazione elettrolitica presentava però un punto oscuro, dacché l'esperienza aveva mostrato che gli elettroliti forti non obbediscono alla legge di Guldberg e Waage. Ciò ha dato occasione a una revisione della teoria di Arrhenius, basata sul fatto che negli elettroliti forti invece dell'equilibrio chimico tra ioni e molecole, si deve considerare prevalente l'equilibrio elettrostatico che si stabilisce tra gli ioni, poiché queste particelle cariche sono ora in alta concentrazione, e perciò s'influenzano reciprocamente agli effetti della mobilità e quindi della conducibilità e agli effetti osmotici. Queste considerazioni sbozzate da Sutherland (1907) e poi da Bjerrum, Milner, Ghosh e Hertz, hanno trovato il loro maggiore sviluppo nella teoria di Debye e Hückel (1923).
Infine, in relazione ai fatti di dissociazione elettrolitica, s'interpretarono secondo varî modelli i fenomeni che si compiono a un elettrodo (teoria della pila di Nernst), ma più importante ancora dello studio di questo meccanismo dello stabilirsi di una differenza di potenziale tra elettrodo ed elettrolita risultò la trattazione energetica del fenomeno, poiché il valore del potenziale a un elettrodo o quello della forza elettromotrice di una pila è la misura dell'affinità della reazione chimica che si compie reversibilmente all'elettrodo o nella pila, ciò che ricollega l'elettrochimica a tutte le altre branche della chimica teorica.
Verso la fine del secolo scorso e al principio di questo, lo sviluppo concettuale e sperimentale ormai raggiunto permise d'intensificare le ricerche nel campo del mondo molecolare e atomico. Già dalla metà del secolo in poi la teoria cinetica (Krönig, Clausius) aveva fornito molte grandezze del mondo molecolare (diametri molecolari, via libera media, ecc.), e dopo che specialmente Maxwell e Boltzmann avevano introdotto in essa il principio dell'equipartizione dell'energia tra i gradi di libertà di un sistema, molte leggi del mondo macroscopico si erano reinterpretate in funzione dei postulati inerenti a quel mondo immensamente piccolo. Ma tutto ciò era ben lungi da misure eseguite direttamente su particelle di dimensioni molecolari. Questo campo fu ora aperto dallo studio delle soluzioni colloidali e in generale di quei sistemi dispersi, nei quali si hanno particelle che sono ancora di dimensioni enormî rispetto alle singole molecole ordinarie (tanto da essere individuabili all'ultramicroscopio), ma tuttavia così piccole da assumere moto browniano, rivelatore del moto delle molecole del mezzo disperdente. L'indagine di questo mondo dotato di moto browniano condusse a ciò che può considerarsi la prova della reale esistenza delle molecole (Perrin, Einstein, Smoluchowski); permise di stabilire in modo sicuro il numero di molecole contenuto in una grammimolecola (cioè in tanti grammi di sostanza quanto è il peso molecolare relativo di essa), numero che fu chiamato di Avogadro e che è 6,09 × 1023. Dividendo il peso molecolare o atomico di una sostanza per questo enorme numero (che sorpassa ogni immaginazione concreta) si ha il peso assoluto di ogni molecola e di ogni atomo.
Nel momento in cui la teoria molecolare atomica riceveva questa conferma, due ordini di fatti venivano a influenzarla enormemente: l'esistenza di particelle subatomiche e la quantizzazione dell'energia radiante. La scoperta di particelle subatomiche derivò dalla scoperta delle sostanze radioattive (Becquerel, 1896; coniugi Curie, 1898: scoperta del polonio e del radio; Debierne, 1899: scoperta dell'attinio). Gli atomi di queste sostanze si disintegrano, emettendo particelle a (atomi di elio con due cariche positive), particelle β (elettroni), accompagnate da radiazioni γ di tipo Röntgen: questa fu la conclusione che il Rutherford, in base ad un'indagine profonda della radioattività, enunciò nel 1903. La conseguenza di ciò è che l'atomo è un edificio costituito di queste particelle: l'atomo ha una struttura. Il numero degli elementi radioattivi salì ben presto a varie decine: oggi se ne conoscono circa 40. La distribuzione di questi 40 elementi negli undici posti disponibili del sistema periodico (distribuzione che fu compiuta sulla base della cosiddetta legge di spostamento di Soddy e Fajans) mostró il fatto fino allora mai riscontrato che in una stessa 'casella del sistema periodico vengono a trovarsi vari elementi di peso atomico diverso, che perciò furono detti isotopi (v. isotopismo). Sorta allora la questione se anche per gli elementi ordinarî non esistesse il fenomeno dell'isotopia, rilevabile con particolari dispositivi, J.J. Thomson e F.W. Aston (con lo spettrografo di massa) la risolsero affermativamente, stabilendo che, ogni elemento è costituito da miscugli di atomi di pesi (interi) diversi, in proporzioni tali che il loro insieme porta al peso atomico, di solito non intero, che era stato fino ad allora conosciuto: solo l'idrogeno ha il peso atomico 1,008. Ne deriva che ciò che contrassegna una casella del sistema periodico non è un peso atomico singolo, come pensava il Mendeleev; è invece il numero atomico comune a tutti gli isotopi di una stessa pleiade. Questo numero atomico (che è anche il numero d'ordine delle caselle del sistema periodico) rivelò ben presto le altre sue caratteristiche di costante naturale fondamentale. Mostrò infatti il Moseley nel 1913 che esso può ricavarsi per ogni elemento dalle frequenze delle radiazioni Röntgen che l'elemento emette quando funzioni da anticatodo. Con questa determinazione del numero atomico tutte le inversioni e le anomalie che sussistevano nel sistema di Mendeleev, basato sul peso atomico, vengono a scomparire. Frattanto la tabella si avvia ormai al completamento totale (ricerche di Urbain sugli elementi delle terre rare: scoperta dell'hafinio (numero atomico 72) per opera di Coster e Hevesy (1923); scoperta del renio (43) e del masurio (75) per opera di W. Noddack, Tacke-Noddack e O. Berg (1925). Mancano ormai soltanto gli elementi di numero atomico 85 e 87: il 61 - florenzio o illinio - è già stato segnalato.
Ma il significato più profondo del numero atomico veniva poi a rivelarsi da quella struttura stessa dell'atomo che intanto si era andata indagando. L'atomo doveva infatti (per una somma di considerazioni esse pure rivelate dalle sostanze radioattive) pensarsi come costituito da un nucleo centrale carico positivamente e da elettroni rotanti o comunque moventisi intorno al nucleo, in numero uguale alle cariche del nucleo stesso. Si vide allora che il numero atomico rappresenta senz'altro la carica del nucleo. Perciò l'idrogeno (di numero atomico uno) ha un nucleo di carica uno e un elettrone in moto intorno ad esso; l'elio, un nucleo di carica due e due elettroni periferici: tutti gli atomi degli elementi successivi sono poi fatti da un nucleo costituito da ammassi di nuclei di elio, o di elio e d'idrogeno, contenenti quasi tutta la massa dell'atomo: gli elettroni moventisi intorno al nucleo sono distribuiti in strati che rappresentano altrettanti livelli energetici. In una prima fase (1913-1926) si credette di poter affermare che gli elettroni dei varî strati ruotano in orbite circolari o ellittiche (Bohr, 1913; Sommerfeld, 1918) intorno al nucleo, come pianeti intorno a un sole: ma questo chiaro modello dell'atomo si è dovuto recentemente abbandonare, in seguito allo sviluppo della meccanica quantistica (Heisenberg, 1926) e più ancora della meccanica ondulatoria (De Broglie e Schrödinger, 1926), basata sul concetto della natura nuplice (corpuscolare-ondulatoria) dei fenomeni compientisi alla scala di grandezza dell'atomo. Risulta tuttavia anche da questa nuova trattazione che gli elettroni attornianti il nucleo sono distribuiti e si muovono in livelli energetici quantizzati.
Anche nel nucleo si hanno elettroni, talché la carica del nucleo risulta dalla differenza tra le cariche positive degli ammassi di nuclei di elio e d'idrogeno che lo costituiscono e le cariche negative di questi elettroni. Il nucleo di elio poi (di massa relativa 4) risulta dall'unione di quattro nuclei d'idrogeno (massa 4 × 1,008), che perdono in quest'unione (impacchettamento) 0,032 unità di massa, trasformantesi in energia, secondo la teoria della relatività. Le conseguenze di questa nuova atomistica per la chimica generale e per la chimica inorganica sono e più ancora saranno incalcolabili:
1. I costituenti fondamentali della materia sono con quasi certezza il nucleo dell'idrogeno (protone) e l'elettrone.
2. Gli atomi dei varî elementi sono connessi, per questa unica origine, da rapporti genetici, talché alcuni spontaneamente si trasformano gli uni negli altri (elementi radioattivi), altri sono stati disintegrati, benché in quantità minime, per urti di particelle a sul nucleo (Rutherford, 1914).
3. La trasformazione di un atomo in un altro significa la trasformazione di un nucleo in un altro: le particelle a, lanciate dagli elementi radioattivi, sono i nuclei di elio del loro nucleo; le β sono gli elettroni del loro nucleo.
4. Quando gli elettroni periferici degli strati più vicini al nucleo vengono sbalzati da uno strato ad un altro, l'atomo emette le sue radiazioni Röntgen (radiazioni di alta frequenza).
5. Gli elettroni periferici degli strati esterni sono gli elettroni che entrano in gioco nei fenomeni ottici ordinarî e nelle reazioni chimiche comuni: quindi glî elettroni più esterni sono gli elettroni di valenza.
Nella distribuzione, nei moti, nei passaggi di questi elettroni da uno strato a un altro entra ora in gioco l'altro grande principio dell'atomistica moderna: la quantizzazione dell'energia radiante (l'energia radiante si trasmette e si riceve per quantità discrete e finite), teoria affermata per la prima volta da Planck nel 1900 e genialmente applicata al mondo atomico prima dalla trattazione di Bohr-Sommerfeld, poi più profondamente da quelle della meccanica ondulatoria.
La teoria della valenza e con questa la teoria della formazione delle molecole dagli atomi riceve tutta una luce nuova. Considerando infatti il numero e la distribuzione degli elettroni periferici (elettroni di valenza) si trova la variazione di valenza che contrassegna i gruppi del sistema periodico, si trova l'essenza del sistema stesso nel ricomparire periodico di strati elettronici periferici uguali, si trova l'interpretazione elettronica delle proprietà degli elementi di transizione nei grandi periodi (Bohr, Stoner, 1924; Swinne, 1925). Nella tendenza di un elemento ad assumere la configurazione elettronica periferica del gas raro che apre o di quello che chiude il periodo, si trova la ragione (Kossel, 1914), della formazione degli anioni e dei cationi o più generalmente quella dell'elettropositività e dell'elettronegatività.
E tutto porta poi a considerare e anche a definire con modelli (Kossell, Lewis, Langmuir), che però per il momento non si possono ritenere definitivi, due tipi di composti, quelli ove entra in gioco l'attrazione degli atomi ionizzati suddetti (composti eteropolari) e quelli ove entra in gioco la reciproca influenza di elettroni di atomi diversi posti in comune (composti omeopolari; Heitler e London hanno qui applicato di recente con successo la meccanica ondulatoria). A queste conquiste riguardanti la struttura atomica e molecolare la Röntgen-analisi ha poi aggiunto quella della struttura dei cristalli, che ci si rivelano come sorta di molecole giganti costituite da ioni o da atomi o da aggruppamenti atomici, distribuiti nei nodi di un reticolo elementare, che si ripete innumerevoli volte a formare il cristallo. Particolarmente importante per la chimica è il calcolo dell'energia reticolare (Max Born).
Questa conoscenza della struttura dell'atomo, delle molecole, dei reticoli cristallini (ancorché per ora non sicura né precisa in tanti dettagli e limitata da ipotesi e dubbî) permette di affrontare il problema del meccanismo di tanta parte della fenomenologia chimica (valenza, ionizzazione, adsorbimento, catalisi, ecc.), mentre la quantistica pone su nuove basi numerosi problemi (calori specifici, velocità di reazione, spettroscopia in generale, spettroscopia nell'infrarosso, fotochimica, magnetochimica, ecc.). Cosi si è iniziata un'era nuova. Il tentativo di scendere nell'intimo meccanismo dei fenomeni chimici fu, si direbbe quasi, il primo impulso dei ricercatori di ogni tempo. Mancando però gli strumenti concettuali e sperimentali, la chimica, divenuta più scientifica, si affermò nella seconda metà del secolo scorso soprattutto nelle conquiste delle trattazioni energetiche che prescindono essenzialmente da ogni ipotesi strutturale. Ora, sul terreno della nuova atomistica, quel tentativo è legittimamente risorto e si avvia di giorno in giorno al successo.
Chimica organica.
La conoscenza e la manipolazione di sostanze ricavate dal regno vegetale o animale risalgono alla più remota antichità. Esse si ricollegano alla utilizzazione dei diversi prodotti del latte, alle pratiche della fermentazione alcoolica e acetica, alla lavorazione della farina dei cereali, dell'amido, dei grassi, degli olî e del sapone, alla tintura dei tessuti con colori ricavati dalle piante e anche dagli animali (porpora di Tiro), alla preparazione dell'inchiostro (atramentum librarium), all'estrazione delle essenze, degli aromi, dei profumi e di molte sostanze usate come medicamenti, ecc.
Gli antichi Egiziani avevano in questo campo cognizioni assai estese e i materiali di origine organica che essi adoperavano per l'imbalsamazione dei cadaveri ne fanno ampia testimonianza. Quando, poi, nel Medioevo si diffuse la pratica della distillazione, furono le operazioni riguardanti le sostanze organiche che principalmente si avvantaggiarono di questo procedimento e vennero così ottenuti allo stato di maggiore purezza l'acido acetico (Geber, sec. VIII) e l'alcool (Geber e poi Raimondo Lullo, sec. XIII) e furono per la prima volta preparati l'etere solforico (Valerius Cordus: Oleum vitrioli dulce, 1540), l'acetone (sec. XV) e anche altri composti. Sul principio del '600 il vicentino Angelo Sala insegnò ad estrarre il sale d'acetosella dalla pianta (Rumex acetosa) e nel 1619 il bolognese Fabrizio Bartoletti scoprì lo zucchero di latte. Nel 1747 Marggraf riconobbe la presenza del saccarosio nella barbabietola e Rouelle il giovane nel 1773 estrasse l'urea dall'orina. Finalmente nell'ultima metà del sec. XVIII, principalmente per opera di Scheele, furono conosciuti una quantità di nuovi composti organici, come gli acidi tartarico, citrico, malico, lattico, ecc.
Già sulla fine del sec. XVII Nicolas Lemery nel suo celebre Cours de Chimie (1675) aveva fatta la distinzione delle tre grandi classi: dei corpi minerali, vegetali e animali; divisione mantenuta poi fino a Lavoisier. Solo dopo che fu riconosciuto che certi composti possono ricavarsi tanto dalle piante quanto dagli animali, le due ultime classi andarono a costituire la cosiddetta chimica organica.
Lavoisier fu il primo ad analizzare sistematicamente le materie organiche facendole bruciare con l'aiuto d'uno specchio ustorio entro grandi campane ripiene di ossigeno e determinando poi il carbonio e l'idrogeno dall'anidride carbonica e dall'acqua in tal modo formatesi. Stabilì così i fondamenti dell'analisi organica elementare e riconobbe che tutti quanti i composti organici contengono del carbonio. Da ciò il nome di chimica dei composti del carbonio col quale fu anche indicata la chimica organica. Lavoisier giunse poi alla conclusione che i corpi vegetali, oltre al carbonio, contengono dell'idrogeno e dell'ossigeno, mentre quelli animali sono frequentemente costituiti anche dall'azoto e talvolta dal zolfo e dal fosforo. Egli, che aveva inquadrato tutto il suo sistema chimico in base ai composti che l'ossigeno forma coi diversi elementi, espresse anche l'idea che mentre le sostanze minerali sono combinazioni dirette dei singoli elementi fra loro, le sostanze organiche fossero invece da considerarsi come ossidi speciali di aggruppamenti formati da carbonio e idrogeno, aggruppamenti che egli chiamò radicali (o radicali composti, indicandosi come radicali semplici gli elementi). E come gli elementi possono talora formare più di un ossido, così egli attribuì la stessa proprietà ai radicali composti. Egli considerava per es. lo zucchero come un ossido neutro, mentre riguardava come un ossido superiore l'acido ossalico, che si può ottenere dallo zucchero per ossidazione con acido nitrico.
Pareva pertanto che vi fosse una differenza fondamentale tra la natura intima delle sostanze minerali o inorganiche e quella delle sostanze organiche. D'altra parte non si vedeva in qual modo queste si potessero ottenere per sintesi e ciò dava forza alla convinzione che la formazione delle sostanze organiche fosse una prerogativa esclusiva degli esseri organizzati e viventi e che esse non si potessero preparare artificialmente, ma che si originassero esclusivamente sotto la speciale influenza di una forza sconosciuta, la forza vitale. In base a questa convinzione, ancora nel 1827 Eerzelius definiva la chimica organica come la chimica delle sostanze vegetali e animali, ossia delle sostanze che si formano sotto l'influenza della forza vitale, e tale definizione manteneva nell'edizione del 1849 del suo trattato, benché la sintesi dell'urea, conseguita fin dal 1828 da Friedrich Wöhler, la rendesse ormai insostenibile.
La sintesi dell'urea era però rimasta per molti anni il solo esempio di questo genere, e i sostenitori della teoria vitalistica obiettavano che essa non aveva il significato che si pretendeva di attribuirle, anche perché l'urea non è che un prodotto di rifiuto dell'organismo e un composto che sta al limite fra quelli inorganici e quelli organici. Altri, e fra questi Gerhardt, ritenevano che le forze chimiche potessero agire ma solo in senso distruttivo, e che fossero incapaci di costruire molecole organiche. Ma la sintesi dell'acido acetico conseguita da Kolbe (1843), quella effettuata da Wurtz delle ammoniache sostituite (1848), quelle di Berthelot delle materie grasse (1853), dell'alcool (1854), dell'acido formico (1856), ecc., fecero definitivamente cadere l'ipotesi della forza vitale. Berthelot dimostrò anzi come si potesse ottenere tutta una serie di composti organici, anche assai complessi, partendo da un carbonio d'origine eminentemente inorganica, proveniente da un minerale, la witherite (carbonato di bario). I lavori ormai classici di questo grande chimico su tale argomento furono poi riuniti da lui nel volume Chimie organique fondée sur la synthèse (Parigi 1860).
Fu così riconosciuto che non vi è nessuna differenza essenziale fra composti organici e composti minerali e che tutti si formano secondo le stesse leggi e sotto l'azione delle stesse energie. E oggi sappiamo infatti riprodurre per sintesi numerosi composti naturali anche assai complicati, come l'acido urico, il citrico, le sostanze zuccherine, l'indaco, la canfora, molti alcaloidi, ecc.
Quanto ai metodi coi quali tali sostanze si possono preparare, essi sono di solito assai diversi da quelli coi quali verosimilmente si formano in natura, ma il fatto, che pure con procedimento totalmente diverso si giunge a un composto identico a quello naturale non è senza significato, perché conferma l'attendibilità delle nostre speculazioni. Altre volte ha invece un particolare interesse anche il cercare quale possa essere il processo col quale un dato corpo si forma e si trasforma in seno agli organismi.
Per via sintetica sono state poi preparate moltissime altre sostanze organiche che potremmo chiamare artificiali, le quali, pur avendo i caratteri essenziali dei composti organici, non si trovano in natura. Alcune di queste hanno particolare importanza per il loro uso o come materie coloranti, o come profumi, o come medicamenti, o come materie esplosive. Così per es. la fucsina, la nitrobenzina, il fulmicotone, ecc.
Se oggi nessun chimico ammette più una differenza sostanziale tra i composti organici e quelli minerali, ciò nonostante, per le ragioni che ora vedremo, è pur sempre necessario stabilire una netta distinzione fra chimica minerale (o inorganica) e chimica organica, e fare dei composti del carbonio invece che un capitolo come quello degli altri elementi, una branca speciale della chimica. La chimica organica ha infatti un carattere tutto suo, dovuto al fatto che le combinazioni del carbonio presentano un insieme di proprietà che gli altri elementi non posseggono o hanno in grado assai minore.
Ciò dipende dalla natura del tutto particolare dell'elemento stesso. Il carbonio, per la sua speciale posizione nella classificazione periodica degli elementi chimici, situato com'è a eguale distanza tanto da quelli elettronegativi come i metalli alcalini, quanto dagli altri fortemente elettropositivi come gli alogeni, possiede un carattere per così dire neutro e di transizione, come viene dimostrato dalla sua affinità pressoché eguale tanto verso l'elemento elettropositivo, idrogeno, quanto verso quelli elettronegativi, cloro, bromo, ecc., quanto verso il carbonio stesso. In consegueuza di tale suo carattere neutro si manifesta nell'elemento carbonio una grande inerzia a passare dalla forma di combinazione già presa a un'altra più semplice e più stabile, e insieme una grande docilità a costruire edifici molecolari complicati e complessi. E a ciò fa anche riscontro la capacità che gli atomi di carbonio hanno di unirsi tra loro in lunghe concatenazioni (perfino di 60 atomi), dotate nondimeno di grande stabilità, mentre per gli altri elementi catene già di due o tre atomi, anche se si formano, sono facilmente decomponibili.
Oltre a ciò, nei composti organici prevalgono legami non polari, mentre in quelli inorganici prevalgono i legami polari. I composti inorganici sono perciò facilmente ionizzabili, al contrario della maggior parte dei composti organici che sono incapaci di ionizzazione o si ionizzano con difficoltà. Ciò porta come conseguenza che le reazioni fra i composti organici avvengono di regola lentameme, mentre i composti inorganici reagiscono con rapidità quasi istantanea, facendo precipitare brutalmente la trasformazione verso la forma di equilibrio più stabile e definitiva. Nelle reazioni della chimica organica si può invece realizzare anche la formazione di prodotti intermedî fra lo stato iniziale e lo stato finale, dotati nondimeno d'una certa stabilità, e si possono concomitantemente effettuare anche più trasformazioni parallele. Condizioni queste assai adatte allo svolgersi dei fenomeni chimici della vita, per i quali il carbonio è dunque il solo elemento che presenti una somma di proprietà così eccezionalmente favorevoli.
Infine, e sempre per le ragioni sopra accennate, nei composti organici gli atomi si prestano molto frequentemente ad assumere diverse e talora numerosissime posizioni di equilibrio, stabili anche entro limiti di temperatura assai estesi. Possono così prendere origine dei corpi che, pur essendo costituiti dagli stessi atomi nello stesso numero, differiscono nondimeno profondamente gli uni dagli altri per le proprietà chimiche e fisiche e ciò in conseguenza del diverso modo col quale gli atomi stessi sono disposti in seno alla molecola. Questo fenomeno, constatato per la prima volta da Liebig nel 1823 nell'acido fulminico (CNOH) e nell'acido cianico (NCOH), fu da Berzelius indicato col nome di isomeria (da ἰσομερής, costituito di parti eguali). Esso nei composti minerali si verifica soltanto eccezionalmente. Così, per es., mentre uno dei pochi casi di isomeria fra composti inorganici è quello presentato dalla nitroamide e dall'acido iponitroso, ambedue aventi la formula H2N2O2 ma corrispondenti alle due seguenti concatenazioni:
si conoscono invece circa 175 composti organici diversi, tutti corrispondenti alla formula C10H13O2N.
Da ciò la somma importanza, per lo studio dei composti organici, di ricercare in qual modo gli atomi sono disposti nella molecola; e da ciò problemi e criterî d'indagine diversi da quelli della chimica minerale. Anche la minore resistenza agli agenti chimici e fisici, e principalmente al calore, che di solito presentano i composti organici in confronto agli altri, porta come conseguenza procedimenti sperimentali e una tecnica di lavoro del tutto particolari.
Da quanto precede è facile anche intendere perché il numero delle combinazioni del carbonio sia così straordinariamente grande, tanto da superare quello dei composti di tutti gli altri elementi presi insieme. Ammontano infatti a quasi duecentomila i composti organici oggi noti e il numero di quelli teoricamente possibili è, si può dire, illimitato. Anche per questa ragione è opportuno che la chimica organica formi una parte separata e distinta dalla chimica degli altri elementi.
I metodi per stabilire qualitativamente e quantitativamente gli elementi contenuti nei composti organici furono elaborati principalmente da Liebig e da Dumas (1831) e successivamente modificati da Piria (1857), da Ugo Schiff col suo azotometro (1868), da Dennstedt (1897) e da altri. Assai importante è anche il metodo dovuto a Kjeldahl (1883) per la determinazione dell'azoto. Infine in questi ultimi tempi, Pregl (1913) ha proposto metodi di microanalisi organica che permettono di fare le determinazioni anche con pochi milligrammi di sostanza.
Già fino dal primo inizio dello sviluppo della chimica organica apparve evidente che la sola conoscenza della composizione qualitativa e quantitativa di una combinazione del carbonio, se può permettere di stabilirne la formula empirica, non è invece sufficiente a caratterizzarla completamente per la grande frequenza con la quale nei composti organici si verifica l'isomeria. Studiando però il comportamento chimico delle sostanze organiche, si può arrivare a riconoscere in esse l'esistenza di certi aggruppamenti particolarmente caratteristici, e si può allora scrivere la formula in modo da metterli in evidenza. Si hanno così le formule razionali.
Il problema dell'aggruppamento che gli atomi hanno in seno alla molecola, il problema cioè della costituzione e della natura delle combinazioni organiche, è stato oggetto di lunghe investigazioni e di aspre controversie e ha dato origine a molteplici teorie. La trattazione di esse appartiene alla storia della chimica; qui si prendono brevemente in esame soprattutto in relazione a ciò che di esse sopravvive nelle odierne dottrine.
Teoria dei radicali. - Già Lavoisier, come è stato accennato, aveva interpretato i composti organici come ossidi di radicali composti; Berzelius riprese quest'idea e siccome per mezzo di metodi di analisi più perfezionati aveva potuto stabilire che le leggi daltoniane delle combinazioni chimiche valgono anche per i composti organici, così estese anche alle combinazioni del carbonio la concezione dualistica elettrochimica che egli aveva sviluppata principalmente per i composti inorganici.
Ma per i composti organici, che generalmente non si prestano ai fenomeni elettrolitici, non si poteva avere una base sperimentale corrispondente a quella fornita dai composti inorganici. Però nello studio delle trasformazioni dei composti organici l'esperienza aveva insegnato che certi residui della loro molecola, certi aggruppamenti atomici particolari, rimanevano spesso inalterati e quindi passavano tutti interi da un derivato a un altro, analogamente a ciò che fanno gli atomi elementari, che notoriamnte passano inalterati dalla molecola di un composto in quella di un altro. Questi gruppi atomici facevano dunque la stessa parte degli elementi nei composti minerali e si potevano in certo modo considerare come i costituenti fondamentali delle combinazioni organiche. Essi furono designati col nome di radicali, già proposto da Guyton de Morveau e da Lavoisier, e teoria dei radicalî si chiamò la concezione relativa.
Il grandioso lavoro di Liebig e Wöhler sul radicale benzoile (1832), avendo fatto conoscere che un notevole numero di corpi contenevano lo stesso aggruppamento atomico C7H5O, contribuì a dare forte impulso alla teoria dei radicali, della quale anzi costitui per così dire uno dei cardini fondamentali. Così pure fu riconosciuto che il radicale etile, il radicale dell'alcool ordinario, rimane inalterato nelle trasformazioni che subiscono un gran numero di composti organici, e fu osservato che i suoi derivati presentano una certa analogia con quella dei metalli alcalini:
D'altra parte il cianogeno (scoperto fin dal 1815 da Gay-Lussac) si poteva sotto forma di radicale CN riscontrare in un certo numero di derivati, i quali mostrano delle analogie con quelli degli alogeni:
Dall'unione di questi due radicali composti, C2H5 e CN, poteva poi formarsi il composto C2H5CN, il cianuro d'etile, come dall'unione dei due elementi (radicali semplici) K e Cl si ha il cloruro di potassio KCl. Le ricerche di Bunsen sul radicale cacodile (1837) portarono pure valido appoggio a questa teoria e la chimica organica fu così definita come la chimica dei radicali composti (Dumas e Liebig, 1837).
Come dalle combinazioni inorganiche si erano potuti isolare molti degli elementi, si sperò dapprima di poter isolare i radicali delle combinazioni organiche e si pensava di ottenere dei corpi sotto certi rapporti paragonabili agli elementi. Molti chimici si dedicarono a queste ricerche dalle quali però risultò che i radicali, come tali, non sono isolabili poiché verosimilmente non hanno una reale esistenza nei composti organici, ma sono soltanto di natura puramente ipotetica. Quei corpi che furono isolati come radicali non hanno speciali affinità di combinazione e sono derivati non identici, ma soltanto polimeri coi radicali:
Le concezioni fondamentali della teoria dei radicali non esprimevano dunque la vera natura dei composti organici e non potevano servire di base a una dottrina duratura. Nondimeno questa teoria fu di grande giovamento allo sviluppo della chimica organica, sia perché fu la prima che riunì i dati e i risultati in un'unità scientifica, sia perché il concetto di radicale, notevolmente modificato, trovò posto nelle successive teorie e comparisce anche nelle formule odierne.
Teorie della sostituzione e dei tipi. - Mentre la teoria dei radicali si andava sviluppando, si scoprirono dei fatti che non erano in accordo con essa. Così Dumas trovava che per azione del cloro su certi composti organici, l'idrogeno si staccava ed entrava in combinazione una quantità equivalente di cloro senza che il carattere della combinazione venisse profondamente modificato. Laurent nel 1835 emise l'idea che il cloro sostituisse l'idrogeno nei radicali o nuclei "fondamentali", che per tal modo si trasformavano in radicali o nuclei "derivati", e formulò così la sua teoria dei nuclei. Ora, secondo Berzelius, non si poteva ammettere che l'idrogeno "elettropositivo" potesse essere sostituito dal cloro "elettronegativo" e che nondimeno la combinazione non cambiasse di carattere. D'altra parte l'ipotesi di una sostituzione era pure in contraddizione col principio elettrochimico delle riunioni binarie e col carattere di resistenza alle trasformazioni che si attribuiva ai radicali. Berzelius si mostrò pertanto fieramente avverso a questa teoria tanto che Dumas, che dapprima aveva condiviso le idee di Laurent, finì con lo sconfessarlo. Ciò nondimeno l'esperienza insegnava che p. es. l'acido tricloro-acetico, nel quale tre atomi d'idrogeno dell'acido acetico sono stati sostituiti da altrettanti atomi di cloro, conserva una grande analogia con l'acido acetico stesso. Similmente l'aldeide acetica, anche dopo la clorurazione, rimaneva sempre un'aldeide. E a questi esempî molti altri se ne aggiungevano. Malgrado la sostituzione si constatava dunque che il tipo del composto rimaneva inalterato e da ciò si era tratti a riconoscere al tipo originale del composto un'importanza fondamentale e a dar più valore allo "schema" di aggruppamento degli atomi che alla loro natura.
Fu così che Dumas nel 1839, sulla base delle sue ricerche e di quelle di Laurent, di Malaguti e di Regnault, abbandonando tutte le speculazioni anteriori sulla natura dell'affinità, sostituì alle formule binarie berzeliane le cosiddette formule unitarie, secondo le quali le combinazioni organiche si consideravano come un tutto unico riferibile ad uno schema, ad un tipo fondamentale. Ma il tentativo che egli fece di costruire così una teoria dei tipi ebbe assai scarso successo.
Un poco più tardi e soprattutto sulla base di nuove ricerche comparse nel frattempo, specialmente di quelle di A. Wurtz e di A.W. Hofmann sulle ammoniache composte (1849), che misero in evidenza il tipo ammoniaca, e di quelle di A. Williamson sugli eteri (1852), che misero in chiaro il tipo acqua, Laurent e soprattutto Gerhardt poterono dar forma a una nuova teoria che ulteriormente modificata, costituì poi la nuova teoria dei tipi (Gerhardt, 1856).
Secondo questa teoria tutte le combinazioni organiche si potevano riferire ai seguenti tipi fondamentali:
dai quali esse derivavano per sostituzione degli atomi d'idrogeno con gruppi o radicali (considerati però questi non più come corpi isolabili e paragonabili agli elementi, ma come semplici residui di molecole che restano intatti in alcune reazioni).
A questi schemi furono più tardi aggiunti quelli dei tipi misti o condensati, ecc., e così si poterono inquadrare, si può dire, tutte le combinazioni organiche conosciute a quel tempo.
Ma se la teoria dei tipi fu di grande utilità per la chimica, perché ebbe l'importante conseguenza di richiamare l'attenzione sul significato di equivalente, di atomo e di molecola (poiché partendo dal concetto di molecola si considerava l'aggruppamento degli atomi in essa) e se tale teoria permetteva delle vedute d'insieme sopra un grandissimo numero di corpi, non poteva però essere una vera teoria della combinazione chimica, a causa del suo carattere puramente formulare, e Gerhardt stesso se ne rendeva pienamente conto. Infatti essa doveva ben presto mostrarsi incapace di seguire il progresso della scienza.
La teoria dei radicali e quella dei tipi avevano fatto convergere tutta l'attenzione dei chimici sugli aggruppamenti e sugli schemi e lasciavano piuttosto in disparte le considerazioni riguardanti i singoli costituenti fondamentali dei corpi, gli atomi, e la loro natura chimica ed elettrochimica. Kolbe riprese questo punto di vista e tentò una rivivificazione delle idee dualistiche berzeliane opportunamente modificate. In base alle sue classiche ricerche sull'elettrolisi dei derivati organici (1849) e alle speculazioni sue e di Frankland sull'analogia delle combinazioni organiche e di quelle inorganiche, egli (1859) poté stabilire dei ravvicinamenti fra molti composti organici e giunse a predire delle isomerie, là dove la teoria dei tipi non permetteva di prevederne, per gli alcoli. Pochi anni dopo (1862) Friedel scopriva un nuovo alcool propilico, l'alcool isopropilico, e verificava così la predizione di Kolbe. Un po' più tardi (1864) Butlerow trovava poi anche un alcool terziario, l'alcool butilico terziario.
La teoria dei tipi doveva perciò cedere il posto ad un'altra teoria, nella quale troveremo nondimeno traccia sia dei radicali, sia del concetto di sostituzione e di tipo.
Teoria della struttura chimica. - A Frankland spetta il merito di aver dato l'idea direttrice alla quale doveva informarsi la nuova dottrina. Frankland nelle sue memorabili ricerche sulle combinazioni metallo-organiche (1852) aveva fatto l'osservazione che, per es., un atomo di zinco, d'azoto, di fosforo, d'arsenico, di antimonio, ecc., hanno la proprietà di formare dei composti contenenti sempre "lo stesso numero" di equivalenti di altri elementi o di radicali, qualunque sia la natura di essi; e riconobbe che le affinità di quegli elementi è soddisfatta sempreché essi siano uniti a quel dato numero di equivalenti. Venne così a introdurre nella scienza il concetto di capacità di saturazione degli elementi e dei radicali, il concetto di valenza degli atomi, come A. W. Hofmann propose di dire. Già dalle formule dei tipi era del resto risultato che certi atomi avevano la proprietà di tenere uniti e per così dire legati più radicali.
Frankland non fece però l'applicazione di questo concetto ai derivati del carbonio. Questo passo importante fu fatto quasi nello stesso tempo (1858) da Couper e da Kekulé, i quali riconobbero che il carbonio è "tetravalente" e mostrarono che molti composti organici si potevano interpretare sulla base di questo dato fondamentale.
A Kekulé si deve l'ulteriore sviluppo di queste idee, che formarono la base della teoria cosiddetta della struttura chimica, espressione usata per la prima volta da Butlerow nel 1861. La formazione di questa nuova dottrina fu anche validamente favorita dalla netta distinzione fra atomo ed equivalente che intanto era stata fatta da Cannizzaro nel suo celebre Sunto di un corso di filosofia chimica (1858), distinzione che servì a fissare in modo sicuro i pesi atomici.
La teoria della struttura si basa essenzialmente sulla differente valenza degli atomi elementari e sulla loro proprietà di concatenarsi mediante le singole valenze. Nella sua forma definitiva essa riposa sui seguenti postulati fondamentali:
L'atomo del carbonio è tetravalente, fatto che si accorda anche con la sua posizione nel sistema periodico. Un composto non può esistere se tutte le valenze degli atomi che lo compongono non sono scambievolmente saturate. Soltanto in alcuni pochi composti, come l'ossido di carbonio, gli isocianuri, l'acido fulminico, il trifenilmetile, ecc., sembra che la tetravalenza del carbonio non si manifesti.
Le quattro affinità del carbonio sono equivalenti, e L. Henry (1888) ne ha dato una dimostrazione sperimentale rigorosa ed esauriente.
Gli atomi del carbonio possono concatenarsi direttamente gli uni con gli altri legandosi fra loro per una, due o tre valenze. In modo analogo possono, mediante una o più valenze, riunirsi ad atomi di altri elementi (come pure a gruppi composti, a radicali).
Sulla base di queste semplici regole e adottando l'idea emessa da Couper di rappresentare con lineette (o con punti) le valenze per mezzo delle quali gli atomi stanno uniti fra loro, ecco per esempio quale viene ad essere la formula di costituzione o di struttura dell'acido acetico:
che più semplicemente si può anche scrivere così: CH3−CO•OH. Una tale formula mette in evidenza molte relazioni. Essa mostra che uno dei quattro atomi d'idrogeno deve comportarsi in modo diverso dagli altri, perché è unito ad un atomo di ossigeno per formare il gruppo OH, mentre gli altri tre sono uuiti direttamente al carbonio. Inoltre i due atomi di ossigeno devono avere proprietà diverse l'uno dall'altro; e infatti l'ossigeno dell'OH può essere staccato più facilmente dell'altro. Infine i due atomi di carbonio devono aver pure proprietà diverse; uno, quello unito con due atomi di ossigeno, deve prestarsi facilmente a formare CO2, l'altro ad essere separato allo stato d'idrocarburo. Tutte queste proprietà che vengono espresse, e per così dire suggerite dalla formula, sono realmente possedute dal composto.
A differenza delle formule razionali, che mettono in rilievo la condizione speciale di alcuni soltanto degli atomi della molecola, le formule di struttura indicano dunque in modo completo la concatenazione di tutti gli atomi. Esse hanno pertanto al più alto grado la proprietà di rappresentare sia la costituzione sia la funzione dei corpi, ci dànno una ragione semplice e chiara delle isomerie e ci permettono di tirare un gran numero di conclusioni e di esprimere un gran numero di fatti in modo rapido e preciso. Qualche volta ci fanno anche prevedere certe proprietà d'un composto.
I radicali, che nell'antica concezione berzeliana si consideravano come suscettibili d'essere isolati allo stato libero e di avere nella molecola una specie di esistenza a parte, si considerano nella teoria della struttura come aggruppamenti atomici aventi una o più valenze non soddisfatte, e perciò non capaci di esistere allo stato libero. Essi passano generalmente senza modificazione da un corpo all'altro, pur non escludeudo che in certe reazioni possano anche subire delle trasformazioni. Tali aggruppamenti atomici mono-, bi-, trivalenti si possono considerare come derivati dalla molecola di un composto per sottrazione di atomi o di gruppi di atomi monovalenti o polivalenti. Dal metano, per es., per sottrazione successiva di atomi d'idrogeno, si possono far derivare i radicali seguenti:
Dal concetto di radicali deriva anche il nome col quale comunemente si indicano certi composti: così, per es., il monoclorometano, CH3Cl, si chiama anche cloruro di metile; il monocloropropano, C3H7Cl, cloruro di propile, ecc.
Sulla base degli schemi strutturali si può anche tentare di ricostruire per sintesi l'architettura molecolare dei composti organici e quasi sempre i tentativi di sintesi sono stati pienamente coronati da successo perché il prodotto preparato artificialmente è risultato identico a quello naturale. Ogni qual volta due composti isomeri mostrano anche la più piccola differenza nelle loro proprietà chimiche, questa trova sempre riscontro in una diversità strutturale.
Non dobbiamo però illuderci che le formule di costituzione si possano considerare come una rappresentazione reale della disposizione degli atomi nella molecola. Vedremo anzi più avanti che sono necessariamente incomplete, anche perché ci danno rappresentazione in un piano (cioè a due dimensioni) di corpi che realmente esistono nello spazio.
Trovata nella teoria della struttura la sua base e la sua guida sicura e definitiva, la chimica organica si andò sviluppando rapidamente e rigogliosamente in tutti i suoi svariati capitoli.
I criterî e i metodi basati essenzialmente sull'analisi seguiti prevalentemente fino ad allora si completarono e s'integrarono con i metodi basati sulla sintesi e questi acquistarono anzi un'importanza preponderante. Si determinò pertanto un nuovo orientamento e un nuovo indirizzo nello sviluppo di questa scienza.
È impossibile in breve spazio ricordare le sintesi, anche importanti, di singoli composti chimici conseguite in quel primo periodo e dopo, ma non si possono passare sotto silenzio alcune reazioni generali che hanno interesse fondamentale perché servono per ottenere gruppi interi di composti. In primo luogo quella dovuta a Frankland (1850) e sviluppata da Wurtz per la sintesi degl'idrocarburi, facendo agire lo zinco o il sodio sugli ioduri alcoolici; reazione che Fittig e Tollens (1864) estesero agl'idrocarburi aromatici. Altra reazione di applicazione molto generale è quella di Friedel e Crafts (1877) che per mezzo di copulazioni catalizzate dal cloruro di alluminio permette di ottenere idrocarburi, chetoni, acidi, ecc.
La reazione di Bertagnini (1856), sviluppata poi da Perkin (1875), consistente nel far condensare un'aldeide col sale d'un acido organico dà pure modo di ottenere un gran numero di acidi non saturi. D'importanza fondamentale è anche la trasformazione descritta per primo da Piria (1844) dei gruppi amminici in gruppi ossidrilici, per azione dell'acido nitroso (reazione di disamidazione di Piria), con la quale, per es., dagli amminoacidi si può passare agli ossiacidi. Più recentemente (1900) ha meritamente raggiunto "un successo senza precedenti" (come si esprime il Ladenburg) il metodo di Grignard, basato sull'uso di composti organomagnesiaci, con il quale si preparano facilmente idrocarburi, alcoli, glicoli, eteri, chetoni, aldeidi, acidi, fenoli, ecc.
Oltre che nel campo dei composti della serie grassa o alifatica, dei composti aciclici, come anche furon detti, l'applicazione della teoria della struttura fu particolarmente fruttuosa per l'interpretazione di quel grande e importantissimo gruppo di composti organici che furono detti aromatici o della serie aromatica, perché molti di essi erano stati per la prima volta ricavati da essenze o da resine odorose, dai cosiddetti aromi.
Alcuni di questi composti erano già noti al tempo di Scheele e di Lavoisier; nei primi decennî del secolo scorso, specialmente in seguito ai grandiosi lavori di Liebig e di Wöhler sui derivati benzoilici, sull'amigdalina (1832), ecc., molti altri se ne conobbero. Alla conoscenza d'importanti gruppi di questi composti contribuirono anche illustri chimici italiani, come Piria, con i suoi magistrali lavori sui composti della serie salicilica (1855) e sui glucosidi salicina (1838-45) e populina (1852-55), Bertagnini con la sua sintesi dei composti cinnamici (1856), Cannizzaro con i composti della serie toluica (1862) e con la reazione caratteristica che da lui prende nome (1853)
Fu merito grande del Kekulé l'aver riconosciuto che i composti aromatici si possono tutti considerare come derivati dell'idrocarburo benzene, C6H6 o di idrocarburi che stanno in stretto rapporto con esso. Nel 1865 egli propose per questo idrocarburo la seguente formula ciclica:
che è oggi quella generalmente adottata, per quanto anche altri schemi siano stati proposti (v. benzolo). Egli costruì così la teoria generale del grande capitolo dei composti aromatici. Allo sviluppo della teoria del benzene contribuì con classiche ricerche anche Guglielmo Körner, che, benché nato in Germania, passò gran parte della sua vita e insegnò fino alla sua morte in Italia, così che si può ritenere italiano d'adozione. Nel 1874 egli pubblicò nella Gazzetta chimica italiana i suoi studî sulla determinazione della posizione chimica nei derivati del benzene, studî che sono di fondamentale importanza.
Sulla traccia dello schema esagonale del benzene fu stabilita la costituzione della naftalina, C10H8, principalmente per opera di Graebe (1869), quella dell'antracene, C14H10 (Graebe e Liebermann), del fenantrene, C14H10:
e degli altri idrocarburi aromatici a nuclei benzenici condensati di natura ancora più complessa come il pirene, C16H10, il crisene, C18H12, il picene, C22H14, ecc. Numerosi derivati aromatici fu pure riconosciuto che si potevano riferire a idrocarburi con nuclei aromatici concatenati, sia direttamente come il difenile, sia mediante atomi di carbonio, come il difenilmetano, il difeniletano, ecc.
Lo sviluppo della teoria delle combinazioni aromatiche ebbe anche grandissima influenza sulla tecnica industriale e principalmente su quella delle sostanze coloranti artificiali (v. coloranti, sostanze); industria che ci ha dato numerosissimi composti dotati dei più smaglianti colori e che nulla hanno da invidiare alle più reputate sostanze coloranti naturali.
Sebbene l'industria dei cosiddetti colori d'anilina sia sorta principalmente in seguito agl'imponenti lavori di A. W. Hofmann sull'anilina e sulle basi omologhe, nondimeno lo sviluppo ulteriore di essa sarebbe stato impossibile senza la conoscenza esatta della costituzione delle sostanze aromatiche. Il primo colore d'anilina preparato industrialmente, la malveina, era già stata ottenuta da W. H. Perkin nel 1856 per ossidazione dell'anilina con bicromato di potassio e acido solforico. A. W. Hofmann nel 1858 osservò la formazione del rosso di anilina e poco dopo (1859) Verguin a Lione preparò la fucsina. Di grande interesse pratico fu poi la scoperta del violetto di metile (Lauth) e quella del nero di anilina (Lightfoot, 1863). Dalle ricerche di E. ed O. Fischer (1878), i quali prepararono il verde malachite e il verde Vittoria, fu poi messo in chiaro che i colori del tipo della rosalina sono derivati del trifenilmetano. Si ricollegano a questo idrocarburo anche le ftaleine, magnifiche sostanze coloranti scoperte un po' più tardi, principalmente in seguito ai lavori di A. v. Baeyer, di Caro, ecc. Invece i coloranti azoici (1878), dovuti principalmente ai lavori di Griess, di v. Martius, di Nietzki, Witt, ecc., stanno in relazione con l'azobenzene e con l'azonaftalina. Gli studî di Graebe sui chinoni e sui derivati chinonici lo condussero a occuparsi dell'alizarina, la sostanza colorante rossa della Robbia (Rubia tinctorum), largamente usata per il cosiddetto "rosso turco". Egli dimostrò che essa non è un derivato della naftalina, come prima si riteneva, sibbene dell'antracene e insieme con Liebermann ne raggiunse la sintesi nel 1869. L'alizarina è stato il primo colore naturale importante riprodotto artificialmente. In questi ultimi tempi sono state anche messe in chiaro la natura e la costituzione dei pigmenti dei fiori, delle cosiddette antocianine, soprattutto in seguito ai lavori di v. Kostanecki e dei suoi collaboratori, e di Willstätter. Malgrado la grande varietà dei colori dei fiori essi si possono ridurre a pochi tipi fondamentali, se non a un tipo fondamentale unico di composti.
Di pari passo con le sostanze coloranti si sviluppò anche l'industria dei medicamenti organici sintetici. Ascendono oggi a circa 5000 le sostanze organiche sintetiche proposte per l'uso medico, delle quali però soltanto alcune hanno avuto vita duratura e reale importanza pratica. Per merito principalmente di Ehrlich (1909) ha preso poi vita un ramo importantissimo della chimica organica applicata alla medicina, la chemoterapia, la quale studia sistematicamente il particolare comportamento fisiologico dei diversi aggruppamenti atomici. Uno dei prodotti più generalmente noti dovuto a questi studî è stato il salvarsan.
Anche la tecnica delle sostanze esplosive e quella dei profumi sintetici (vanillina: Reimer e Tiemann, 1876; ionone: Tiemann) ebbero largo impulso dallo sviluppo scientifico della chimica dei composti aromatici. Sono ora argomento di studio, principalmente per opera di Ruzicka, le sostanze odorose di origine animale, il muschio e lo zibetto.
Sul principio del presente secolo hanno poi assunto speciale importanza, e da un punto di vista del tutto inaspettato, alcuni derivati assai vicini al trifenil metano. Infatti dagli studî di Gomberg (1900) è risultato che nell'esafenil etano
probabilmente per l'accumularsi dei fenili nella molecola, il legame fra i due atomi di carbonio dell'etano viene ad essere molto indebolito, cosicché il composto in soluzione può esistere anche dissociato in due molecole di trifenil metile, aventi il carbonio trivalente:
Questo composto costituisce il primo esempio, e uno dei pochi finora conosciuti, di composti a carbonio trivalente e dell'esistenza (sia pure in condizioni un po' speciali) di radicali allo stato libero. Al trifenil metile e a qualche altro composto analogo ad esso si possono aggiungere i metal chetili, che pure in certe condizioni possono esistere allo stato libero, p. es. nella seguente forma:
col carbonio parimenti trivalente. Tutti questi composti a carbonio trivalente sono di solito assai fortemente colorati. È molto significativo il fatto che essi sono dotati di una grande facilità a entrare in reazione; questa grande reattività è anche la proprietà caratteristica che si attribuiva ai radicali della vecchia teoria berzeliana, dei quali questi sarebbero dunque veri e proprî esempî. Sono stati ottenuti anche radicali azotati liberi contenenti l'azoto bivalente come per es. il difenil azoto:
(H. Wieland, 1911), e sembra anche radicali liberi con lo zolfo monovalente.
Altro capitolo di composti, sviluppatosi in relazione con quello dei composti aromatici, è quello dei derivati polimetilenici. Il termine più semplice di essi è il trimetilene:
che è isomero col propilene (CH2=CH−CH3) della serie aciclica, ma che differisce da esso per la sua scarsa reattività. Si conoscono poi derivati ad anelli formati da quattro, cinque, sei, sette, otto e anche più gruppi CH2. Anelli formati da 15 e anche da 17 atomi di carbonio esistono, come sembra, nei costituenti del profumo naturale del muschio e dello zibetto. Questi idrocarburi polimetilenici si chiamarono anche cicloparaffine, perché non avendo doppî legami presentano il comportamento tipico degl'idrocarburi saturi.
I più numerosi composti idroaromatici sono però quelli che corrispondono ad anelli di sei atomi di carbonio e furono anche i primi a essere conosciuti. Anzi, prima della scoperta del trimetilene, fatta nel 1882 da Freund, e degli studî di W.H. Perkin iunior (1883) sul tetrametilene, si riteneva che essi rappresentassero gli anelli idroaromatici più semplici che si potessero avere. Essi sono anche i più importanti perché stanno in rapporto con numerose sostanze assai diffuse nel regno vegetale, come i terpeni e le canfore, e perché sono in stretta relazione col benzene e con i composti aromatici dai quali in molti casi si possono anche ottenere per diretta idrogenazione. Un metodo elegante e generale per tale idrogenazione diretta dei composti aromatici, mediante l'uso di catalizzatori metallici, è quello dovuto a Sabatier e Senderens (1897). La chimica dei terpeni, che per molto tempo formò uno dei capitoli più intricati della chimica organica, si è sviluppata principalmente in seguito alle sistematiche e importanti ricerche di O. Wallach iniziate nel 1884. Vi hanno pure validamente contribuito Tiemann, Semmler, Bredt e altri.
Il capitolo della chimica dei terpeni ha poi acquistato un interesse ancora maggiore per la relazione che essi hanno col caucciù. Il caucciù (v.) fu introdotto in Europa nel 1736 da La Condamine; il primo processo di vulcanizzazione a caldo con lo zolfo risale al 1839 e la vulcanizzazione a freddo col cloruro di zolfo fu scoperta nel 1846 da A. Parkes. Le ricerche per la sintesi del caucciù, che dal lato scientifico si può dire completamente raggiunta, sono principalmente dovute a Harries e ai suoi collaboratori.
Le considerazioni riguardanti la struttura dell'anello benzenico furono estese anche ai cosiddetti composti eterociclici dopo che, principalmente da Körner (1869), fu messa in chiaro la stretta relazione che piridina, chinolina e isochinolina:
hanno col benzene e con la naftalina.
La piridina, scoperta da Anderson (1846) fra i prodotti basici provenienti dalla distillazione dell'olio animale di Dippel, fu ritrovata da Williams anche nel catrame del carbon fossile insieme con la chinolina. Gerhardt già nel 1842 aveva osservato che la chinolina è un prodotto della decomposizione della chinina e di altri alcaloidi. Nel 1877 Ramsay per condensazione dell'acetilene con l'acido cianidrico ottenne la piridina con una sintesi che rispecchia quella del benzene dall'acetilene effettuata da Berthelot. Reazioni importanti per la sintesi di derivati della piridina sono poi quelle scoperte da Hantzsch (1882), da Michael (1885) e da Guareschi (1892-1910). La più importante sintesi della chinolina è dovuta a Skraup (1880).
Allo sviluppo della costituzione di questi composti eterociclici fece seguito lo studio di altre classi di composti e per es. dei derivati del furano, del tiofene e del pirrolo ai quali fu pure riconosciuta struttura ciclica:
Il furano fu scoperto da Limpricht nel 1870. La sua aldeide, il furfurolo, fu studiata specialmente da A. v. Baeyer e da E. Fischer (1877) che ne misero in evidenza la grande analogia con l'aldeide benzoica. Il tiofene fu trovato da V. Meyer (1883) nella benzina del catrame; e nel classico studio che egli ne fece, dimostrò la singolare analogia di esso con quell'idrocarburo.
Il pirrolo, che si trova fra i prodotti della distillazione del catrame del carbon fossile e in maggior quantità fra quelli dell'olio animale, era già stato da Baeyer e da Emmerling (1870) riconosciuto come un composto ciclico. La chimica del pirrolo e dei suoi derivati fu poi sviluppata con una lunga serie di belle ricerche effettuate da G. Ciamician e dai suoi collaboratori dal 1881 in poi. Questo nucleo eterociclico ha assunto un'importanza grandissima da quando fu riconosciuto che esso costituisce l'aggruppamento fondamentale tanto della materia colorante del sangue quanto della clorofilla, i due principali pigmenti organici, come è risultato dai lavori di Marchlewski e soprattutto da quelli di Willstätter. Gli studi di Angeli hanno poi fatto conoscere che appartengono al gruppo dei derivati pirrolici anche altri pigmenti animali, come p. es. le melanine. Anche il nucleo del pirrolo, come quelli della piridina e della chinolina, è stato riscontrato nella molecola di alcuni alcaloidi.
Nel 1869 A. v. Baeyer scoprì l'indolo:
e ne mise poi in chiaro la relazione col pirrolo. Esso fa parte dell'aggruppamento fondamentale dell'indaco, la magnifica sostanza colorante azzurra della Indigofera tinctoria, che fu ottenuta per sintesi dal Baeyer stesso già nel 1880, ma la cui produzione industriale fu raggiunta solo nel 1897. Il nucleo indolico si trova anche nella complessa molecola delle proteine (triptofano).
Importante è stato anche lo sviluppo conseguito dalla chimica degli alcaloidi. Il primo alcaloide conosciuto fu la morfina, isolata da F. W. Sertürner nel 1805: la chinina fu scoperta nel 1820 da Pelletier e Caventou. Nel 1886 Ladenburg effettuò la prima sintesi d'un alcaloide naturale, la coniina, il principio velenoso della cicuta (Conium maculatum). A questa sintesi fecero poi seguito quella dell'atropiria (Willstätter, 1902), quella della nicotina (Pictet, 1904) la cui costituzione era stata stabilita da Pinner nel 1893, quelle della papaverina (1909), della laudanosina (Pictet, 1909), della cocaina (Willstätter, 1903; Robinson, 1924), ecc.
Ricerche classiche sui cosiddetti alcaloidi cadaverici, sono dovute a Francesco Selmi (1872), che diede ad essi il nome di ptomaine, oggi generalmente adottato. Molte di queste ptomaine furono poi chimicamente caratterizzate da Kobert, da Brieger, da Guareschi e Mosso, ecc., ma alcune di esse non sono di struttura eterociclica.
Un capitolo della chimica organica del più grande interesse prese poi origine dallo studio di quella specie d'isomeria che le formule ordinarie non permettevano di rappresentare. Com'è stato sopra accennato, la rappresentazione in un piano, per mezzo di schemi a due dimensioni, quali sono le ordinarie formule di struttura di corpi esistenti nello spazio, doveva necessariamente risultare incompleta. Essa infatti si mostrò incapace d'interpretare quella che Carius (1863) aveva chiamata l'isomeria fisica. Esempî di questa isomeria erano noti da molto tempo e già Pasteur, nei suoi celebri studî sugli acidi tartarici, eseguiti dal 1848 al 1860, aveva espresso l'idea che dipendesse dalla dissimmetria molecolare. Van't Hoff e Le Bel, nel 1874, indipendentemente l'uno dall'altro, per spiegare l'isomeria fisica proposero di rappresentare con schemi a tre dimensioni la disposizione degli atomi nella molecola, rappresentazione che si ricollega alla teoria della struttura ma che per così dire la sviluppa e la completa. Prese così origine la stereochimica.
Questa ha per fondamento il modello tetraedrico dell'atomo di carbonio (fig. 65) già ideato da Kekulé fin dal 1867 e successivamente (1869) anche da altri (Blomstrand, Paternò, Wislicenus, ecc.), modello tetraedrico che quando le quattro valenze del carbonio sono saturate da quattro atomi o gruppi fra loro diversi (carbonio asimmetrico), fa prevedere per il composto corrispondente la possibilità di due forme enantiomorfe. La teoria di Van 't Hoff e di Le Bel venne così a precisare che una delle condizioni nelle quali si verifica la dissimmetria molecolare preconizzata da Pasteur si ha quando la molecola d'un composto contiene uno o più atomi di carbonio asimmetrico. Questa condizione fu difatti riscontrata in tutte le sostanze dotate di potere rotatorio ottico. È notevole il fatto che Astbury nel 1923, esaminando per mezzo dei raggi X, col metodo di Laue e Bragg, l'acido tartarico destrogiro, ha potuto, conformemente alle vedute profetiche di Pasteur, constatarne direttamente l'asimmetria della molecola.
A J. Wislicenus, i cui studî sugli acidi lattici (1873) avevano fortemente contribuito alla teoria del Van 't Hoff sul carbonio asimmetrico, si deve anche (1887) lo studio di un'altra isomeria, dipendente pure dal diverso orientamento nello spazio dei gruppi che costituiscono la molecola, l'isomeria per doppio legame fra carbonio e carbonio, detta anche isomeria geometrica. Il primo e più comune esempio di tale isomeria ci viene dato dai due acidi maleico e rumarico la cui diversa configurazione trova pure adeguata rappresentazione per mezzo dei modelli tetraedrici, ma che si può anche esprimere con le formule seguenti:
Hantzsch e altri la studiarono anche nei composti azotati.
Nel 1885 A. v. Baeyer sulla base dello schema tetraedrico dell'atomo di carbonio tentò anche di dare un'ingegnosa spiegazione della particolare stabilità che presentano gli anelli formati da 5 o da 6 atomi di carbonio in confronto con quelli che ne contengono un numero diverso e formulò la sua teoria delle tensioni. Baeyer osservò che se per mezzo di modelli tetraedrici si cerca di concatenare fra loro con legame semplice più atomi di carbonio, senza esercitare azioni di distorsione delle valenze, si vede che assai facilmente si forma un anello chiuso di cinque atomi, perché allora una delle valenze del primo atomo viene automaticamente a ricongiungersi con una di quelle del quinto (fig. 66).
Ma se si tenta di fare un anello chiuso con più o con meno di cinque atomi, non ci si riesce altrimenti che con una più o meno grande deviazione delle valenze dalla loro naturale direzione. Secondo Baeyer si viene in tal modo a determinare uno stato di tensione per il quale il composto risulta tanto meno stabile quanto maggiore è stata la distorsione effettuata. Ora, subito dopo i nuclei pentatomici, i più stabili risultano quelli esatomici, nei quali la chiusura dell'anello corrisponde a uno spostamento assai piccolo della direzione delle valenze. Molti fatti confermano questa teoria, benché i recenti studî di Ruzicka sugli anelli a 15 e a 18 atomi di carbonio sembrino non accordarsi pienamente con essa.
Allo schema tetraedrico dell'atomo di carbonio sono ispirati anche i tentativi di Guye (1890) di dedurre il segno e il grado della rotazione ottica dei composti organici dalla massa dei gruppi uniti al carbonio asimmetrico, concezione che da recenti ricerche è stata notevolmente modificata.
A. v. Baeyer fin dal 1888 estese e applicò i concetti della stereochimica anche all'interpretazione delle isomerie che si hanno nei sistemi ciclici dei composti idroaromatici (acidi idroftalici), e la teoria del carbonio asimmetrico servì pure notevolmente a Wallach nei suoi importanti studî sul gruppo dei terpeni.
Ma l'applicazione dei criterî stereochimici ha rappresentato un aiuto assolutamente indispensabile per lo studio dell'interessantissimo gruppo delle materie zuccherine, mirabilmeme chiarito dalle ricerche effettuate da Emilio Fischer dal 1884 in poi. Senza il filo conduttore del concetto del carbonio asimmetrico sarebbe stato impossibile a questo chimico di orientarsi nel labirinto delle complesse isomerie fisiche che presentano questi composti. Si ricollegano agli studî sugli zuccheri anche le ricerche, sempre del Fischer, su molti glucosidi e la sintesi di alcuni di essi (1893-1902).
Al Fischer (1882-1906) dobbiamo pure lo studio completo delle sostanze puriniche (ac. urico, basi xantiniche, teobromina, caffeina, ecc.) che hanno tanta importanza nel campo biologico, come pure (1913) la determinazione della struttura del tannino (pentadigalloilglucosio) e delle sostanze tanniche in genere (i cosiddetti depsidi, da δέψειν "conciare") delle quali già M. Schiff (1871) aveva riconosciuto la stretta analogia con l'acido digallico. Infine E. Fischer (1899) affrontò anche il problema più formidabile della chimica organica, quello delle proteine, e concatenando insieme parecchie molecole di amminoacidi, ottenne i cosiddetti polipeptidi, sostanze molto simili ai peptoni e che quindi rispecchiano in una forma estremamente semplificata il tipo schematico delle sostanze proteiche.
Chiarito dall'opera di E. Fischer l'intricato capitolo delle sostanze zuccherine, s'imponeva il problema dei polisaccaridi complessi (amido, gomma, cellulosio), anche biologicamente così importanti, alla soluzione del quale stanno contribuendo il Pictet, il Pringsheim, il Karrer e altri, mentre R. Willstätter ha affrontato magistralmente il difficile studio delle sostanze enzimatiche.
Tale il vasto edifizio della chimica organica, sorto appena in un secolo (è del 1828 la sintesi dell'urea), con uno sviluppo così rigoglioso che non ha riscontro nella storia di nessun'altra scienza.
È maraviglioso il constatare come la semplice concezione della tetravalenza del carbonio e della concatenazione degli atomi, per quanto espressione del più schietto materialismo scientifico, abbia potuto servire d'orientamento in una selva di fatti così intricata quale è la chimica organica. È così grande il numero delle sostanze che hanno fino a oggi trovato in tale teoria un'adeguata sistemazione, che ormai sembra assai difficile che essa possa venir sostituita da qualche modo di rappresentazione fondamentalmente diverso. Sulla base di premesse così elementari si son potute sempre interpretare, spesso prevedere, le diverse e innumerevoli forme alle quali si presta questo proteiforme elemento che è il carbonio. L'indagine sperimentale, nella chimica organica talora più arte che scienza, ha spiegato in questo lavoro immane tutte le risorse e tutti gli accorgimenti che l'esperienza e la fantasia potevano suggerire.
Alle geniali intuizioni dei pionieri della chimica organica fanno ora riscontro i risultati delle più moderne ricerche della chimica e della fisica. Abbiamo sopra ricordato gli studî di Astbury sulla dissimmetria dell'acido tartarico, dissimmetria che si rivela anche per mezzo dei raggi X. Alcuni anni fa Debye e Scherrer hanno dimostrato con l'interferenza dei raggi X nel benzolo liquido che questo è effettivamente formato da nuclei esagonali. Infine lo studio del reticolo cristallino del diamante ha condotto alla conclusione che gli atomi del carbonio sono uniti fra loro secondo lo schema tetraedrico per formare degli anelli esagonali (fig. 67), proprio come nel modello del Kekulé dell'anello benzenico.
Ma le formule di struttura, malgrado il contenuto reale che indubbiamente posseggono, non rappresentano che una parte della realtà; qualcosa, forse molto di esse, dovrà necessariamente ritrovarsi nelle teorie che verranno, ma esse non possono di per sé stesse rappresentare una vera teoria.
Il moderno sviluppo delle dottrine elettroniche, le più recenti vedute sulla natura della valenza e del doppio e del triplo legame, il risorgere sotto nuova forma di alcune vecchie idee di Blomstrand (1869) tendenti a introdurre qualcosa delle concezioni elettrochimiche di Berzelius negli schemi della teoria della struttura, le indagini che si vanno ora perseguendo sull'influenza del carattere elettrochimico degli elementi e dei gruppi, sul significato e sull'importanza dei momenti elettrici molecolari, l'applicazione ai problemi della chimica organica dei più recenti metodi dell'indagine spettroscopica determinano oggi nuovi orientamenti anche nello studio dei composti del carbonio. Queste ricerche, che tendono a precisare le condizioni energetiche caratteristiche per certi atomi e per certi gruppi, che vogliono stabilire con dati numerici l'energia di certi legami, la frequenza di certi oscillatori atomici e per conseguenza la maggiore o minore reattività di determinati aggruppamenti, che studiano lo stato delle molecole in rapporto all'ambiente nel quale si trovano, ci faranno indubbiamente ritrovare sotto una forma più rigorosa e numericamente precisa molte delle relazioni e delle regole già scoperte empiricamente nel passato, ma in pari tempo ce ne riveleranno di nuove. Esse contribuiranno a far penetrare la dottrina energetica dell'affinità nel campo delle combinazioni organiche e ci permetteranno di conoscere più intimamente il chimismo di queste sostanze così strettamente connesse anche con i fenomeni della vita. Il compito della chimica organica è perciò lungi dall'essere esaurito e anche essa, come tutte le altre scienze, va trasformandosi ed evolvendosi nel continuo divenire del pensiero scientifico.
Bibl.: Ch. Gerhardt, Précis de Chimie organique, Parigi 1844; A. Laurent, Méthode de Chimie, Parigi 1854; R. Piria, Chimica organica, Torino 1870; C. W. Blomstrand, Die Chemie der Jetztzeit, Berlino 1869; V. Meyer e P. Jacobson, Lehrbuch der organischen Chemie, Lipsia 1907; F. Beilstein, Handbuch der organischen Chemie, 4ª ed., Berlino (in corso di pubblicazione); J. H. Van't Hoff, Ansichten über die organische Chemie, Brunswick 1881; J. B. Cohen, Organic Chemistry for advanced Students, Londra 1918; A.W. Stewart, Recent advances in organic Chemistry, Londra 1920; G. Errera, Chimica organica, Palermo 1922; A. F. Holleman, Chimica organica (trad. ital.), Milano 1927; F. Henrich, Les théories de la Chimique organique (trad. franc.), Parigi 1925; Ch. Moureu, Chimie organique, 9ª ed., Parigi 1928; E. Molinari, Chimica organica, Milano, I (1927), II (1930).
Chimica analitica.
L'analisi chimica ha per oggetto di far conoscere e specificare come sia composto un corpo qualunque. Essa si chiama qualitativa allorquando non considera in questo corpo che la natura delle sue parti componenti, siano esse semplici o composte, senza occuparsi delle loro proporzioni; quantitativa quando insegna il modo di separare le parti componenti, le une dalle altre, e di valutarne le proporzioni in peso o in volume.
Chimica analitica qualitativa. - Fin dai tempi di Roberto Boyle (1626-1691) veniva ritenuto uno dei più fondamentali e importanti problemi della chimica la ricerca sperimentale della composizione delle sostanza. Tale ricerca, che in quel periodo, cosiddetto flogistico, si trovava ancora in uno stato infantile, ha cominciato difatti a prendere un notevole e sistematico sviluppo mercé l'opera di Boyle, di Marggraf e specialmente di Scheele e di Bergman. È stato Boyle che ha introdotto per primo la parola "analisi" per indicare quelle reazioni chimicne con le quali si possono riconoscere i componenti d'una sostanza o d'una miscela di sostanze. Si deve a lui l'applicazione metodica dei succhi delle pianta, tra cui il tornasole, quali indicatori per riconoscere le sostanze acide, basiche o neutre. E stato Boyle a introdurre l'uso di alcuni reagenti caratteristici per riconoscere numerose sostanze sotto forma di precipitati; così per la determinazione degli acidi solforico e cloridrico egli indicò le soluzioni dei sali di calcio e d'argento; per l'ammoniaca utilizzò i fumi che si producono quando essa viene a contatto con i vapori di acido cloridrico; riconobbe i sali di rame per la colorazione blu della loro soluzione trattata con eccesso d'ammoniaca, le soluzioni contenenti ferro per la colorazione bruna che si produce aggiungendovi infusi di sostanze tanniche e così via. Per riconoscere alcuni metalli egli sfruttò in modo felice le precipitazioni di essi per mezzo di altri metalli.
Uno dei migliori analisti di quel tempo, Andrea Sigismondo Marggraf (1709-1782), indicò anch'egli numerosi reagenti adatti per il riconoscimento di svariate sostanze. Fu il primo a fare chiara distinzione fra calce minerale (soda); usò la soluzione di ferrocianuro potassico per riconoscere il ferro; per identificare il sodio e il potassio si basò sulla colorazione che i sali di questi due metalli dànno alla fiamma. Facendo poi agire la potassa su molti sali, spiegò la composizione di questi; stabilì che il gesso è formato da acido solforico e calce e che nello spato pesante è contenuto acido solforico; inoltre fu uno dei primi a usare il microscopio per riconoscere le sostanze dalla loro forma cristallina.
Per quanto riguarda lo svedese Scheele (1742-1786) è superfluo porre in rilievo come questo insigne sperimentatore abbia potuto scoprire e identificare tante nuove sostanze, soltanto deducendone l'esistenza a mezzo di speciali reazioni; possiamo quindi fondamentalmente considerarlo come uno dei creatori della chimica analitica e in questo genere di studî si trova la vera impronta del suo genio. Egli non ha però raccolto insieme né rese note sistematicamente le sue numerose e preziose osservazioni analitiche. A questa lacuna lasciata da Scheele ha tuttavia rimediato in gran parte Torbern Bergman (1735-1784), anch'egli svedese, il quale va considerato come uno dei primi che abbia fondato sistematicamente l'analisi qualitativa minerale. Le reazioni che egli usò per ricercare e determinare la barite, la calce, il rame, l'idrogeno solforato, lo zolfo, gli acidi ossalico e arsenioso, l'anidride carbonica, ecc., sono quelle usate anche oggi. Bergman ha richiamato pure l'attenzione sull'uso degli alcali fissi per precipitare molte soluzioni metalliche, come pure su numerosi altri reagenti, quali il sublimato corrosivo, il sale di Saturno, il fegato di zolfo; ha precisato inoltre le migliori condizioni per la separazione e la raccolta dei precipitati. A lui è dovuta la prima indicazione di un accurato metodo per il saggio dei minerali, per il trattamento di questi con acidi e la loro disgregazione con carbonato potassico.
Si giunge così ai tempi di Lavoisier (1743-1794) con una raccolta non disprezzabile di numerose conoscenze di analitica qualitativa minerale. Da Lavoisier a oggi tali conoscenze sono andate estendendosi ampiamente verso risultati sempre migliori. Si è sopra ricordato come Bergman avesse dato interessanti istruzioni circa l'analisi qualitativa minerale, per via umida, suddividendo in gruppi, sul tipo cioè della pratica attuale, le varie sostanze minerali da ricercare. Dal processo analitico che indicò questo chimico ha preso gradualmente sviluppo il metodo sistematico che oggi si segue. A perfezionare il metodo iniziale di Bergman, oltre il Berzelius (1779-1848), che lavorò con grande successo anche in questo campo, hanno contribuito notevolmente i tedeschi Lampadius e Göttling, ai quali si deve la pubblicazione di pregevoli trattati di chimica analitica, nel principio del secolo scorso.
Le osservazioni di Klaproth, Vauquelin, Berzelius, Stromeyer ed altri sull'analisi dei minerali rafforzarono sempre più il metodo della ricerca qualitativa. Un grande allievo di Berzelius, Enrico Rose (1795-1864), ha portato un altissimo contributo alla chimica analitica. Nel suo Handbuch der analytischen Chemie egli ha raccolto e criticato magistralmente i metodi di analisi qualitativa e quantitativa allora noti. Questo trattato rimane giustamente in altissima fama come una delle pubblicazioni più pregevoli comparse finora nel campo della chimica analitica. Notevole sviluppo alla chimica analitica qualitativa ha recato anche un contemporaneo di Rose, il francese Thénard (1777-1857), il chimico che insieme a Gay-Lussac scoprì l'acqua ossigenata. Egli ha portato efficaci miglioramenti a quel metodo di eliminazione, che oggi adotta l'analisi qualitativa, basato sulla supposizione ehe la sostanza in esame contenga in sé tutti i corpi da ricercare. Thénard ha pubblicato nel 1816 il pregevole trattato: Principes générales d'analyse chimique.
Degna di alta considerazione è pure l'opera di R. Fresenius (1818-1897) che per tanto tempo è rimasto il rappresentante principale della chimica analitica. Questo insigne analista fondò nel 1848 a Wiesbaden un laboratorio chimico divenuto famoso per il continuo suo sviluppo. Anche Fresenius ha pubblicato (1841-1846) un trattato di chimica analitica che ha avuto straordinaria diffusione. Può asserirsi che dopo la pubblicazione di quest'ultimo trattato il procedimento generico dell'analisi qualitativa minerale non abbia subito modificazioni sostanziali. Fresenius ha inoltre il grande merito d'aver creato un riferimento centrale per le ricerche analitiche, fondando nel 1862 il periodico Zeitschrift für analytische Chemie salito in grande reputazione e che si pubblica tuttora. Altro trattato molto pregevole di chimica analitica è quello pubblicato dai francesi Gerhardt e Chancel. Il Gerhardt, oltre le sue geniali osservazioni nella chimica teorica, ha con la massima chiarezza raccolto un'interessante messe di notizie in questo trattato.
L'analisi qualitativa per via secca si è considerevolmente sviluppata nel sec. XVIII con l'uso del cannello ferruminatorio, introdotto nella chimica analitica dal Bergman e dal mineralogista Cronstedt. Quesiti usarono altresì il borace, la soda, la soluzione di nitrato di cobalto e altri reagenti, adoperati anche oggi nella via secca, come pure fecero uso della differenza fra fiamma ossidante e riducente. L'analisi per via secca ha trovato sempre più sviluppo per merito soprattutto di Berzelius, il quale ha lasciato in proposito una classica pubblicazione Uber die Anwendung des Lötrohrs (1820). Fra le ricerche per via secca va ricordata l'analisi spettroscopica, creata nel 1859 da Bunsen e Kirchhoff, che ha ricevuto applicazioni di grande importanza per la sua straordinaria sensibilità e sicurezza, specialmente nel difficile studio delle terre rare. Nell'epoca moderna ha preso sviluppo nell'analitica minerale l'uso di sostanze organiche capaci di dare con i cationi o anioni minerali dei precipitati insolubili (sali metallici complessi interni) o delle colorazioni caratteristiche. Una delle più belle e sensibili di tali reazioni è quella scoperta nel 1905 dal chimico russo Čugaev (Tschugaeff) che usa per ricercare il nichel la dimetlgliossima.
L'analisi qualitativa minerale, come si eseguisce oggi, è suddivisa nelle due branche: a) per via secca; b) per via umida.
Per via secca. - Consiste nell'esame della sostanza allo stato solido; comprende saggi di riscaldamento entro tubicini di vetro, arroventamento sul carbone a mezzo del cannello ferruminatorio, riscaldamento con fondenti e ossidanti, colorazioni della fiamma, saggi con borace o sale di fosforo nelle cosiddette perle, ecc. Tali reazioni hanno per lo più il valore di saggi preliminari; tuttavia non bisogna mai trascurarne l'esecuzione poiché esse dànno utilissimi indizî sulla composizione della sostanza in esame, permettendo spesso una notevole abbreviazione dell'analisi.
Per via umida. - Comprende una serie di operazioni mediante le quali la soluzione della sostanza in esame viene trattata con reattivi che producono reazioni speciali, in generale precipitazioni, allorché in essa sono presenti certi elementi. La ricerca analitica dei cationi è sistematica; essa suddivide cioè i cationi stessi in sei gruppi distinti dei quali i primi cinque hanno ciascuno un reattivo generale precipitante:
1° gruppo: reattivo generale, acido cloridrico; argento, piombo, mercurio (mercuroso).
2° gruppo: reattivo generale, idrogeno solforato; piombo, rame, cadmio, bismuto, mercurio (mercurico), arsenico, antimonio, stagno, oro, platino.
3° gruppo: reattivo generale, ammoniaca (in presenza di cloruro ammonico); alluminio, ferro, cromo (fosfati, ossalati dei metalli alcalini-terrosi).
4° gruppo: reattivo generale, solfuro ammonico; zinco, manganese, nichel, cobalto.
5° gruppo: reattivo generale, carbonato ammonico; calcio, stronzio, bario.
6° gruppo: (non ha reattivo generale); sodio, potassio, litio.
La ricerca degli acidi o anioni si eseguisce dopo quella delle basi o cationi, giacché, tenendo conto della natura di questi ultimi, rinvenuti nell'analisi, dei caratteri di solubilità della sostanza primitiva e delle osservazioni ricavate dai saggi per via secca, si può con sicurezza escludere la presenza di alcuni acidi, abbreviando e semplificando di molto la durata dell'analisi. La ricerca degli anioni non è sistematica come quella dei cationi; i varî acidi sono in generale ricercati indipendentemente l'uno dall'altro, con singoli saggi che si eseguiscono o sulla sostanza primitiva o sopra una soluzione che si prepara appositamente da essa.
Chimica analitica quantitativa. - L'analisi quantitativa si suddivide generalmente nei seguenti capitoli:1. gravimetrico; 2. volumetrico; 3. elettrolitico; 4. colorimetrico; 5. gasometrico; 6. analisi delle sostanze organiche; 7. analisi conduttometrica e potenziometrica.
Metodo gravimetrico. - È detto anche ponderale o per pesata. In essa un dato costituente è precipitato dalla soluzione in cui si trova disciolto, allo stato di composto definito insolubile, mediante l'aggiunta di determinati reattivi, ovvero opportunamente alterato come tale allo stato solido, ad esempio col calore.
Fino ai tempi di Lavoisier si erano fatti dei semplici tentativi di analisi quantitativa gravimetrica, dovuti specialmente a Bergman. Prima di giungere alla sua epoca memorabile ben poco si sapeva difatti sulla natura dell'aria e dell'acqua nel cui seno si compie la maggior parte dei fenomeni chimici. Si ignorava poi completamente l'assioma fondamentale della legge sulla conservazione del peso. Lavoisier, che aveva chiaramente intuito l'importanza dell'analisi quantitativa, studiò in modo speciale i composti d'ossigeno, determinando il rapporto con cui il carbonio si trova combinato nell'anidride carbonica, e quello dell'idrogeno nell'acqua. Tuttavia Lavoisier non introdusse alcun metodo generale per l'analisi quantitativa dei corpi inorganici.
Va rammentato il francese Proust (1754-1826) che ha portato un contributo notevole in questo campo, compiendo determinazioni analitiche quantitative per dimostrare la sua legge delle proporzioni definite. Nel principio del secolo scorso le ricerche di analisi quantitativa erano soprattutto dirette alla determinazione dei pesi atomici. Grande successo ottenne in questo campo Berzelius, con lavori fondamentali, introducendo molti metodi gravimetrici nuovi o migliorando quelli già in uso. I valori dei pesi atomici da lui pubblicati nel 1816 mostrano una mirabile approssimazione con quelli oggi ammessi. Dopo Berzelius altre determinazioni esatte di pesi atomici, legate a belle ricerche di analitica, sono dovute a Dumas, a Erdmann e Marchand e soprattutto a Marignac e a Stas. Quest'ultimo, insigne analista belga (1813-1891), ha meriti ben noti, straordinarî, per avere compiuto numerose e classiche determinazioni di pesi atomici. Basti ricordare che Stas, a conferma della legge sulle proporzioni definite, base dell'analitica quantitativa, preparò in quattro modi diversi il cloruro d'argento, raggiungendo con ciò il massimo grado d'accuratezza, giacché rilevò ogni volta sperimentalmente come una stessa quantità di cloro si combini con 100 parti di argento, per dare sempre 132 parti di cloruro d'argento:
Come si vede, i valori del cloruro d'argento si differenziano solo nella terza cifra decimale e ciò dipendentemente da inevitabili, per quanto minimi, errori d'esperienza. Se si ripensa ai mezzi ben modesti dei laboratorî chimici che si avevano in quei tempi, ai mezzi ancora più modesti che si potevano in essi utilizzare, questi risultati di Stas non possono non comparire sempre più mirabili oggi, in cui, senza confronti, alta è la perfezione raggiunta nei mezzi tecnici della chimica sperimentale. Per dare un'idea di questo raffronto, si riporta la ramgurazione (fig. 68) d'un modello di stanza per laboratorio chimico, quale si poteva avere ai tempi di Stas.
Il procedimento dell'analisi quantitativa gravimetrica comprende le seguenti operazioni:
a) Pesata della sostanza in esame e sua soluzione. - Tale pesata si eseguisce con la cosiddetta bilancia analitica, la cui sensibilità arriva in generale a 1/10 di milligrammo. Si pesa con le dovute regole un'opportuna quantità della sostanza in esame e si scioglie poi in acqua o in altro solvente richiesto dal caso.
b) Formazione del precipitato. - Si aggiunge uno speciale reattivo alla soluzione cosi ottenuta, in modo da precipitare sotto forma insolubile la sostanza che si vuol dosare. Le precipitazioni si eseguiscono usando soluzioni possibilmente diluite per impedire o rendere meno dannosi i fenomeni di occlusione di sali da parte dei precipitati. Talora può unirsi il reattivo precipitante alla soluzione in esame, all'ordinaria temperatura, e, se occorre, scaldare successivamente; altre volte è necessario che, prima di unirle, le due soluzioni siano riscaldate. Dopo l'aggiunta del reattivo precipitante è necessario lasciare la miscela in riposo per un certo tempo, ovvero agitarla di quando in quando, mantenendola a temperatura ordinaria o a caldo, alla luce ordinaria o all'oscuro. Non è possibile per tali precipitazioni dare regole generali; quelle particolari si troveranno dove si tratta delle singole sostanze da dosare.
c) Raccolta e lavaggio del precipitato. - Il precipitato prodottosi va accuratamente raccolto, lavato, filtrato e seccato. La filtrazione si esegue con un filtro di carta, di cui è noto il peso delle ceneri (vi sono ora in commercio filtri che hanno un peso di ceneri trascurabile); si usano in generale piccoli filtri, del diametro di 9-11 centimetri, diametro che non va scelto in rapporto con il volume del liquido da filtrare ma con la quantità del precipitato. Se il precipitato da pesarsi si altera per un brusco riscaldamento, è necessario raccoglierlo su un filtro tarato, cioè su un filtro che sia stato previamente riscaldato, fino a costanza di peso, alla stessa temperatura a cui la sostanza precipitata deve poi essere seccata. Si può fare uso in molti casi, con grande vantaggio, di speciali crogioli filtranti detti di Gooch (fig. 69). Il crogiolo di Gooch ha il fondo perforato; si predispone sul fondo di esso un filtro di amianto; si pesa il tutto dopo averlo essiccato alla temperatura prescritta, indi si filtra attraverso l'amianto il precipitato e lo si lava; poi si risecca e si pesa.
Si può fare con lo stesso crogiolo un numero grande di determinazioni se si ha cura, allorché la quantità del precipitato diviene troppo grande, di levare la parte superiore con precauzione, senza guastare lo strato di amianto; così si può usare ulteriormente il crogiolo. Molto più comodi dei crogioli di Gooch in porcellana con filtro di amianto, sono i crogioli di Gooch in platino con filtro di platino. Il crogiolo Gooch può applicarsi sopra un sostegno di vetro munito d' una membrana di gomma sulla quale esso si adagia a pressione. Poi si applica tale sostegno a una beuta da pompa e così si può filtrare a pressione ridotta (fig. 70).
Per quanto riguarda il lavaggio del precipitato, se questo sedimenta rapidamente, si può decantare il liquido soprastante attraverso il filtro per poi aggiungere altra acqua al precipitato stesso, agitare bene, lasciare sedimentare e decantare di nuovo. In questo modo può compiersi in massima parte il lavaggio del precipitato entro il recipiente stesso in cui è avvenuta la precipitazione. Se però il precipitato non sedimenta facilmente, si trasporta direttamente il liquido sul filtro, rimovendone le ultime tracce dal recipiente mediante sfregamento delle pareti con bacchetta di vetro munita a un'estremità di un pezzetto di gomma elastica. Il lavaggio viene compiuto spruzzando accuratamente un getto d'acqua (o di altro liquido o soluzione prescritta dal caso) sulle pareti del filtro. Va tenuto presente che il lavaggio riesce più efficace riempiendo e poi facendo ogni volta ruotare completamente il filtro, che non sforzandosi a mantenere il filtro stesso pieno del liquido di lavaggio. Il lavaggio viene continuato finché il filtrato sia libero dei prodotti secondarî solubili che devono eliminarsi.
d) Essiccazione, pesata del precipitato. - Compiuto il lavaggio, si pone entro una stufa l'imbuto contenente il filtro col precipitato. Nel caso in cui questo si sia raccolto su un filtro tarato o in crogiolo filtrante pure tarato, questi si mantengono in stufa, a opportuna temperatura, fino a raggiungere costanza di peso. Se il precipitato può essere calcinato, si allontana dal filtro la maggior parte di esso, ponendolo in un crogiolo o in un vetro d'orologio, poi si brucia il filtro separatamente, aggiungendo la cenere alla parte principale del precipitato e si calcina infine il tutto fino a peso costante. Questo metodo si usa quando il corpo da calcinare può essere ridotto dai prodotti della combustione, come succede, ad esempio, per il cloruro d'argento, il solfato di piombo, ecc.
Prima di eseguire questa operazione il precipitato dev'essere completamente seccato a 100°. Dopo ciò si pone il crogiolo, a tale scopo preparato e pesato, su un pezzo di carta lucida, si fa cadere accuratamente il precipitato nel crogiolo insieme con quanto può distaccarsi dal filtro, fregando leggermente con una spirale di platino. Se qualche particella fosse durante questa operazione caduta sulla carta, la si versa nel crogiolo con l'aiuto d'una barba di penna. Aderenti al filtro rimangono ancora piccole particelle del precipitato che devono essere pesate. Per ricuperarle si brucia il filtro; a tal uopo si ripiega il filtro arrotolandolo in modo che la parte di esso esente di precipitato venga a essere situata all'esterno. Il piccolo rotolo viene avvoltolato con un forte filo di platino, il quale, come indica la fig. 71, viene infisso mediante un tappo nel foro d'un piatto di porcellana. Dopo avervi messo sotto il crogiolo, si dà fuoco con la fiamma a gas, allontanando poi la fiamma e lasciando bruciare la carta tranquillamente. Nel caso rimanessero ancora delle parti carbonizzate sul filo, si toccano parecchie volte di seguito e con precauzione con la fiamma, finché tutto sia incenerito. Si lascia cadere poi nel crogiolo la cenere e si scalda dopo averlo coperto, dapprima con piccola fiamma, aumentandola poi molto gradatamente fino alla temperatura prescritta. Dopo di che si lascia raffreddare alquanto il crogiolo e lo si pone ancora caldo, ma non più rovente, entro un essiccatoio; poi si pesa.
Talora occorre riscaldare il precipitato fuori del contatto dell'aria e cioè in corrente di un dato gas, ad esempio d'idrogeno; si adopera in tal caso il crogiolo di Rose, un crogiolo cioè di porcellana porosa non verniciata, sul cui coperchio può adattarsi un tubo adduttore per il quale passa una corrente gassosa.
2. Metodo volumetrico. - Si fonda sull'uso di soluzioni di reattivi a concentrazione nota, ossia delle cosiddette soluzioni titolate.
I metodi analitici volumetrici si sono sviluppati più tardivamente dei metodi gravimetrici. È stato Gay-Lussac a introdurli nella scienza, elaborando con grande cura la sua guida alla Chlorimetrie nel 1834, e quella alla Alkalimetrie nel 1828. Altri punti importanti nello sviluppo storico della volumetria sono l'utilizzazione del permanganato potassico per la determinazione del ferro, proposta da Margueritte nel 1846, e quindi con essa l'inizio dell'ossidimetria; l'impiego indicato da Bunsen d'una soluzione titolata di iodio e di una rispondente di tiosolfato sodico, ossia la creazione della iodometria. Un grande promotore dell'analisi volumetrica è stato F. Mohr (1806-1879) che ha lasciato larga traccia delle sue ricerche. In parte egli ha migliorato i metodi antichi, in parte ne ha introdotti dei nuovi; ha acquistato grande notorietà con il suo trattato Lehrbuch der chemischer Titriermethode. Tra gli altri numerosi scienziati che coltivarono questo campo apportandovi preziose innovazioni va ricordato un allievo di Liebig, Jacob Volhard (1834-1910), a cui si devono alcuni classici metodi volumetrici.
A grande differenza dell'analisi ponderale, quella volumetrica si limita a misurare esattamente il volume d'un liquido titolato, necessario a produrre la completa trasformazione in un dato composto dell'elemento o gruppo atomico che si deve dosare. L'analisi volumetrica riduce quindi al minimo necessario le pesate ed elimina quelle operazioni laboriose, caratteristiche dei dosaggi gravimetrici, come filtrazioni, lavaggio dei precipitati, incenerimento dei filtri, calcinazioni, ecc. In tali analisi si fa uso di liquidi titolati o cosiddetti normali, i quali non sono altro che reattivi comuni sciolti nell'acqua ma aventi una composizione, un titolo stabilito con la massima esattezza e si adoperano in quantità misurate mediante burette graduate, usandone la quantità rigorosamente necessaria perché si compia una data reazione; la quantità cercata del corpo si deduce dal volume di reattivo che si è consumato.
L'analisi volumetrica comprende le seguenti branche: alcalimetria e acidimetria; analisi per ossidazione e riduzione; analisi per precipitazione.
a) Preparazione di una soluzione titolata. - Generalmente la soluzione titolata contiene il grammo equivalente della sostanza reattiva, disciolto in un litro d'acqua. Una tale soluzione viene chiamata normale. Così ad esempio un litro di soluzione normale di acido cloridrico HCl (peso molecolare 36,5) dovrà contenere grammi 36,5 di questo acido, gr. 49 di acido solforico SO4H2 (peso molecolare 98), gr. 40 di idrato sodico NaOH (peso molecolare 40), gr. 85,7 di idrato baritico Ba (OH)2 (peso molecolare 171,4), gr. 53 di carbonato sodico CO3Na2 (peso molecolare 126), ecc.
Oltre che quelle normali si usano anche soluzioni più diluite e cioè, ad esempio, semi-, quinto-, decimo-, centesimo-normali, le quali contengono rispettivamente in un litro d'acqua la metà, il quinto, il decimo e il centesimo del grammo equivalente della sostanza reattiva. Possono anche prepararsi soluzioni più concentrate, ad es., doppio-, triplo-normali, contenenti cioè in un litro d'acqua, il doppio, il triplo del peso equivalente. Le soluzioni normali si indicano con la semplice abbreviazione N; le più diluite N/2, N/5, N/10, N/100 ovvero 1/2 N, 1/5 N, 1/10 N, 1/100 N; le più concentrate: 2 N, 3 N, ecc. Si ha così, ad es., che un cmc. di soluzione normale di carbonato sodico neutralizza esattamente gr. 0,049 di acido solforico, gr. 0,0365 di acido cloridrico, ossia le quantità equivalenti d'acido solforico o cloridrico contenute rispettivamente in un cmc. delle soluzioni normali di questi due acidi. Le soluzioni titolate si hanno pesando la quantità esatta della sostanza pura e sciogliendola nel volume d'acqua, o preparando una soluzione di approssimativa normalità e determinandone poi il titolo esatto per via gravimetrica o per altre vie. Se una soluzione normale è tale da alterarsi col tempo, bisogna verificarne il titolo periodicamente.
Nelle analisi tecniche una soluzione, che è usata soltanto per un dato processo analitico, può essere preparata, indipendentemente dal concetto ora ricordato di normalità, e cioè in modo tale che un cmc. di essa, ad es., corrisponda a gr. 0,01 di sostanza da dosare. Tali soluzioni titolate che si dicono empiriche risparmiano un certo numero di calcoli, per modo che una determinazione quantitativa può essere anche affidata a personale di limitata cultura analitica.
b) Preparazione della soluzione della sostanza. - La preparazione della soluzione della sostanza in esame consiste generalmente nel disciogliere un esatto peso di questa in un determinato volume di acqua, onde, prelevando porzioni aliquote di tale volume, possono eseguirsi diversi saggi riferibili sempre alla stessa pesata.
c) Titolazione. - Viene effettuata generalmente facendo gocciolare il liquido titolato da una buretta in un volume noto della soluzione in esame.
Varî artifici vengono messi in gioco per rivelare la fine della reazioni; essi possono essere distinti in due gruppi, quelli cioè nei quali sopravviene di per sé un cambiamento entro la miscela liquida reagente, e quelli nei quali è necessario invece usare un cosiddetto indicatore che, mediante il cambiamento del suo aspetto, mostri che siamo in presenza d'un eccesso di reattivo; nel primo gruppo possiamo citare, ad esempio, la titolazione di un cianuro con nitrato d'argento, mediante il metodo Liebig, nel quale la reazione è terminata allorché la soluzione comincia a divenire con permanenza lattescente; così la titolazione del ferro mediante permanganato potassico, della quale si deduce la fine per la persistenza del colore roseo che si ha quando tutto il ferro è ossidato. Nel secondo gruppo, quello degl'indicatori, possiamo ricordare l'applicazione del tornasole, della fenolftaleina, del metilarancio nell'alcalimetria ed acidimetria, di sostanze cioè che cambiano il loro colore secondo che si trovino in ambiente acido o alcalino, della salda d'amido che formando un composto blu con tracce di iodio trova largo impiego nell'estesa branca della iodometria.
In generale tali indicatori si possono aggiungere direttamente alla soluzione da analizzarsi soltanto nei casi in cui non ne resti disturbata la reazione principale; negli altri casi si fanno prove cosiddette al tocco con piccolissime quantitâ del liquido che si analizza, seguitando ad aggiungere la soluzione titolata fino al punto in cui si ha reazione con l'indicatore che si trova distribuito in piccoli scodellini di porcellana. Naturalmente quest'ultimo modo di procedere non può offrire l'esattezza del primo e quindi le prove al tocco rappresentano metodi più approssimativi, ma che pur servono molto bene specialmente in numerose analisi tecniche. Un esempio di tali dosaggi è dato da quello dei sali ferrosi mediante bicromato potassico, dove per indicatore s'usa il ferricianuro potassico; la fine della reazione si ha quando una goccia della soluzione ferrosa in esame non produce più colorazione blu con la soluzione di ferricianuro, disposta entro le piccole vaschettine di porcellana.
3. Metodo elettrolitico. - Consiste nel decomporre una soluzione di un sale metallico, in generale d'un elettrolita, mediante la corrente elettrica, e nel pesare il deposito ottenuto ad uno degli elettrodi.
L'introduzione della corrente elettrica a scopo di dosaggio nel l'analisi chimica non è molto antica. È stato W. Gibbs che per il primo nel 1864, ha eseguito la determinazione elettrolitica del rame; seguirono pochi altri sperimentatori, finché A. Classen nel 1881 si rese meritevole per avere sviluppato tali metodi e per avere pubblicato al riguardo, nel 1903, il pregevole trattato Handbuch der chemischen Analyse durch Elektrolyse. In seguito l'analisi elettrolitica ha preso grande sviluppo; al suo progresso ha molto contribuito la chimica fisica dando una base scientifica allo svolgimento di essa, prima studiato empiricamente. Un'accurata storia dell'elettroanalisi è stata pubblicata nel 1931 da R. Fresenius (vol. LXXXI della Zeitschr. f. analytische Chemie).
I metalli per i quali finora si usavano i metodi elettrolitici, sono quasi esclusivamerite quelli pesanti; la maggior parte di essi si separa al catodo; quelli che dànno perossidi conduttori si possono facilmente separare all'anodo. La separazione quantitativa dei metalli per via elettrolitica si fonda sulla differenza di potenziale necessaria per la separazione dai relativi ioni allo stato metallico.
4. Metodo colorimetrico. - Questo metodo si usa quando occorre determinare tracce di sostanze capaci di fornire reazioni colorate ben definite. A tale scopo si fa opportunamente assumere alla soluzione in esame una colorazione la cui intensità può essere comparata con quella che presenta un'analoga soluzione a titolo noto. Si prepara perciò una serie di soluzioni titolate, contenenti ciascuna quantità variabili e ben definite della sostanza che si vuol dosare, serie che mostrerà dei colori più o meno intensi con un dato reattivo, in funzione della concentrazione di detta sostanza. Per confrontare tali colorazioni si fa uso di apparecchi detti colorimetrici, dei quali oggi si hanno modelli di grande perfezione. L'analisi colorimetrica è giunta a costituire un prezioso mezzo d'aiuto per il chimico analista quando a questo occorre determinare sollecitamente quantità così piccole di sostanze da rendere vani i tentativi di dosarla per pesata o per via volumetrica. Così, ad esempio, per il dosaggio colorimetrico di piccolissime quantità di rame, si usa comunemente la colorazione con ammoniaca o con ferrocianuro potassico: per quello di tracce di ammoniaca la colorazione che questa produce con il reattivo di Nessler.
5. Analisi dei gas. - Riguardo a tale analisi s'incontrano numerosi tentativi nella chimica del passato. Già verso la fine del periodo flogistico si fece uso di reattivi assorbenti per varî gas; così per assorbire l'anidride carbonica fu usata la potassa, per l'ossigeno l'idrato ferroso umido ovvero il fosforo. Naturalmente queste prime analisi gassometriche non erano esatte; basti ricordare, ad es., che Priestley e Scheele trovarono, indipendentemente, che l'ossigeno era contenuto nell'aria nel rapporto oscillante dal 18 al 27%. Una determinazione assai accurata dell'ossigeno nell'aria fu invece compiuta nel 1781 da Henry Cavendish col metodo suggerito da volta, che consisteva nel far esplodere l'aria atmosferica, in presenza d'idrogeno. In tal modo, al contrario dei precedenti sperimentatori, egli trovò costante la composizione dell'aria atmosferica, con un contenuto di ossigeno del 20,85% in volume (valore medio oggi ammesso 20,9).
Per dare ancora un'idea della mirabile precisione raggiunta da Cavendish nelle sue ricerche gassometriche, va ricordato che questi, facendo scoccare le scintille elettriche entro un dato volume di aria atmosferica, opportunamente arricchita d'ossigeno, si accorse che non tutto l'azoto di essa si trasformava in ipoazotide; ne rimaneva constantemente un piccolo residuo incombinato, del quale egli non seppe dare alcuna spiegazione, ma che precisò essere 1/120 del volume dell'azoto totale. Fu questa una mirabile previsione dell'argo, scoperto dopo più di un secolo da Rayleigh e Ramsay, argo di cui esiste nell'aria il 0,93%, in volume, valore vicinissimo a quello precisato da Cavendish.
L'analisi gassometrica ha avuto però un grande sviluppo soltanto dopo i lavori fondamentali di Roberto Bunsen. I metodi da questo ideati, basati sull'assorbimento o sulla combustione dei gas in esame, sono di grande esattezza e hanno ricevuto in seguito soltanto leggieri miglioramenti. Questi lavori cominciarono nel 1838 e furono raccolti nel famoso trattato Gasometrische Methoden pubblicato nel 1867.
Oltre ai metodi dovuti a Bunsen se ne sono in seguito sviluppati molti altri specialmente per l'analisi dei gas a scopo tecnico; sebbene essi siano basati sullo stesso principio, permettono di eseguire in breve tempo, con sufficiente esattezza e con apparecchi semplici, la determinazione dei cosiddetti gas industriali (C. Winkler e W. Hempel meritano insieme con altri, Bunte e Orsat, menzione speciale per avere semplificato gli apparecchi e generalizzato tali metodi).
6. Analisi dei composti organici. - Gli elementi che principalmente costituiscono i composti organici, sono, oltre il carbonio sempre presente, l'idrogeno, l'azoto, lo zolfo, il fosforo, gli alogeni e talora alcuni metalli (per es.: ferro, magnesio). Dal lato qualitativo il carbonio, quando non sia già rivelabile col semplice riscaldamento della sostanza, si mette in evidenza scaldando la sostanza stessa con ossido di rame; il carbonio genera anidride carbonica che intorbida l'acqua di calce, mentre l'idrogeno produce acqua che si condensa nelle pareti fredde del tubo in cui si pratica il riscaldamento. L'azoto può svelarsi per la produzione d'ammoniaca cui dà origine la sostanza in esame riscaldata con calce sodata; ma un metodo più generale e sensibile per la sua ricerca è quello di Lassaigne: la sostanza in esame viene scaldata al rosso con sodio metallico e il residuo ripreso con acqua, si filtra e si addiziona di solfato ferroso, cloruro ferrico e acido cloridrico; una colorazione blu (blu di Prussia) dovuta alla formazione iniziale del cianuro sodico, avvenuta durante la fusione, e alla successiva reazione di questo sale con quelli di ferro, indica la presenza dell'azoto.
Gli alogeni possono essere spesso rivelati riscaldando la sostanza in esame con calce, lisciviando poi la massa con acqua e saggiando se tale soluzione filtrata dà le reazioni dei cloruri, bromuri e ioduri. Beilstein ha proposto di ricercare gli alogeni riscaldando la sostanza in esame con ossido ramico alla fiamma Bunsen sopra un filo di platino; se sono presenti alogeni si osserva una colorazione verde alla fiamma. Lo zolfo si ricerca riscaldando la sostanza in esame con sodio, sciogliendo il prodotto in acqua e aggiungendo nitroprussiato sodico; una colorazione blu-violacea indica presenza di zolfo (reazione di Wohl). Il fosforo può rivelarsi riscaldando la sostanza con una miscela di nitrato e carbonato potassico; in tal modo esso si trasforma in fosfato alcalino che, portato in soluzione acquosa, si identifica con le reazioni caratteristiche dell'anione ortofosforico.
Quanto all'analisi quantitativa dei composti organici, spetta a Lavoisier il merito di avere per primo indicata la via da seguire. Constatato che tanto l'anidride carbonica quanto l'acqua si producono nella combustione delle sostanze organiche, propose nelle sue linee generali il metodo, tuttora seguito, per la determinazione quantitativa dei due elementi, carbonio e idrogeno, nelle sostanze organiche. Per le sostanze facilmente combustibili Lavoisier bruciava una quantità pesata di esse entro una campana chiusa, contenente un noto volume d'ossigeno; determinava poi il volume dell'anidride carbonica formatasi e quello dell'ossigeno residuo. In tal modo poteva calcolare le quantità di carbonio e d'idrogeno. Per le sostanze di combustione difficile (come, ad es., zucchero, resine) Lavoisier usava, invece dell'ossigeno libero, talune sostanze, che riscaldate cedono il loro ossigeno (quali, ad es., ossido di mercurio, minio); riscaldando la sostanza organica in esame, mescolata con uno di tali ossidanti, otteneva anidride carbonica determinabile quantitativamente mediante assorbimento con potassa caustica. Queste ricerche di Lavoisier non furono conosciute ai suoi tempi, ma sono apparse soltanto molti anni dopo la sua morte; se fossero state subito rese note, l'analisi organica avrebbe avuto uno sviluppo molto più precoce di quello che ha avuto in realtà. Ignorandosi tali risultati di Lavoisier, seguirono lunghe ricerche infruttuose; così, ad es., Gay-Lussac e Thénard cercarono di bruciare la sostanza organica mescolata a clorato potassico, metodo incerto per la combustione violenta che avviene. Berzelius propose di aggiungere cloruro sodico al clorato per moderare la vivacità della reazione che andava regolata con cauto riscaldamento; consigliò di assorbire l'anidride carbonica con soluzione di potassa e il vapor d'acqua con cloruro di calcio.
Un miglioramento notevole lo ha introdotto Gay-Lussac nel 1815, consigliando quale mezzo ossidante l'impiego dell'ossido di rame, come è anche oggi in uso. Si deve però a Justus Liebig (1803-1873) il miglioramento di tutto il processo di combustione, con l'introduzione di un apparecchio semplificato che nel suo insieme corrisponde a quello anche oggi adoperato per la determinazione del carbonio e dell'idrogeno nelle sostanze organiche. Tale determinazione si compie attualmente riscaldando entro una lunga canna di vetro infusibile, chiusa da un lato, un dato peso della sostanza in esame, mescolata con ossido di rame; in tal modo l'idrogeno e il carbonio della sostanza dànno origine ad acqua e anidride carbonica, le quali rispettivamente vengono assorbite da un tubo a cloruro di calcio anidro e da una soluzione di idrato potassico.
Nei tempi moderni questo processo di combustione ha naturalmente avuto miglioramenti nei suoi particolari; sono stati proposti varî tipi di fornelli per riscaldare la lunga canna (oggi si usa scaldare anche elettricamente); il processo viene eseguito talora in canna aperta, in corrente di ossigeno, in presenza di nero di platino, per facilitare la combustione.
L'esatta determinazione dell'azoto nei composti organici fu resa possibile soltanto per il metodo eccellente di A. Dumas (1800-1884) che consiste nell'effettuare la combustione della sostanza in presenza di ossido ramico e raccogliere in apposito azotometro l'azoto che si svolge. Per la determinazione dell'azoto va inoltre ricordato il processo Kjeldahl, secondo il quale la sostanza è trattata a caldo con acido solfotico concentrato e qualche ossidante, fino a completa soluzione. Con ciò l'azoto della sostanza organica si trasforma in ammoniaca che rimane combinata con l'acido solforico, da cui la si fa svolgere bollendolo con eccesso di soda caustica. L'ammoniaca che così si svolge si raccoglie in acido cloridrico e si dosa poi acidimetricamente. È un metodo molto usato per la sua semplicità e rapidità d'operazione.
Gli alogeni possono essere dosati arroventando la sostanza con calce viva; in tal modo la sostanza stessa dà origine ad alogenuri di calcio che vengono disciolti in acqua e poi precipitati col nitrato d'argento. Ovvero si può seguire il metodo proposto da Carius, riscaldando la sostanza in tubo chiuso con acido nitrico e nitrato d'argento; in tal modo gli alogeni delle sostanze organiche dànno i rispettivi sali d'argento.
Oggi l'analisi elementare si può compiere anche sopra quantità piccolissime di sostanza. Si deve a F. Pregl, dell'università di Gratz, l'alto merito di avere (1910-15) ideati e resi pratici questi metodi di micro-analisi organica che permettono una rapida ed esatta determinazione del carbonio, idrogeno, azoto, zolfo, alogeni, in pochi milligrammi d'una sostanza organica.
La micro-analisi fa uso di una bilancia della portata di grammi venti e della sensibilità di un millesimo di milligrammo; si serve poi di piccoli speciali apparecchi di alta perfezione dal lato tecnico, e foggiati sul tipo di quelli, molto più grandi, che si adoperano nelle ordinarie analisi elementari. Per la determinazione dell'azoto, Pregl, oltre a un micro-metodo di combustione elementare tipo Dumas, ha ideato anche, con ottimi risultati, un micro-metodo Kjeldahl. La micro-analisi organica va sempre più estendendosi nelle sue applicazioni presso i laboratorî scientifici e nel campo della chimica biologica. Per la sua esecuzione si trovano in commercio apparecchi di grande perfezione tecnica. Pregl, nel 1917, ha pubblicato in proposito un piccolo trattato, ove con chiarezza ha riassunto le principali notizie e indicazioni sulla micro-analisi.
7. Analisi conduttometrica e potenziometrica. - Le reazioni, saturazioni, precipitazioni, ecc., che si producono allorché si mescolano delle soluzioni, sono necessariamente accompagnate da variazioni più o meno brusche, più o meno accentuate, della conducibilità elettrica di tali soluzioni. Questo fenomeno, studiato per primo da Kohlrausch, poi da molti altri chimico-fisici, è stato messo a profitto per servire da indicatore sensibile in quelle reazioni nelle quali i comuni indicatori chimici non possono adoperarsi, come avviene ad esempio nelle soluzioni fortemente colorate, oppure diluite, per cui i viraggi mancano di nettezza. Il fondamento di questa titolazione è la misura ripetuta della conducibilità elettrica d'una soluzione che venga a poco a poco, in quantità crescenti, addizionata di un determinato reattivo. La conducibilità di tale soluzione varia così in modo continuo a misura che si aggiunge il reattivo, finché questo ha esaurito la sua azione sulla sostanza da dosare; da questo momento cambia la legge di variazione della conducibilità in funzione del reattivo aggiunto, e sulla curva che rappresenta il fenomeno compare un punto singolare. Supponiamo di volere, per es., neutralizzare la soluzione di un acido forte con una base forte, servendoci della conducibilità elettrica quale indicatore.
La soluzione di un acido forte (AH ⇄ A′ + H•) addizionata di quella di una base forte (BOH ⇄ B• + OH′) dà luogo alla formazione di un sale AB, ossia a un processo di neutralizzazione:
La misura della conducibilità elettrica ci mostra come con la graduale aggiunta della base BOH all'acido AH il valore della conduci- bilità stessa diminuisce, per la scomparsa dei due ioni molto mobili H• − ed OH′, che vanno a formare la molecola dell'acqua pochissimo ionizzata. Questa diminuzione continua fino a che è raggiunto il punto di neutralizzazione, oltre il quale l'aggiunta successiva della base fornisce alla soluzione altri ioni B• e OH′ che si aggiungono a quelli A′ B- del sale, onde la conducibilità elettrica aumenta. Si ha così una curva che si può rappresentare con un diagramma che abbia nell'ordinata i valori della conducibilità elettrica, nell'ascissa le quantità crescenti della base aggiunta (fig. 72).
Naturalmente il sale A B che si forma in tale processo di neutralizzazione non deve andare soggetto a fenomeni d'idrolisi, deve cioè risultare formato da un acido forte e da una base parimenti forte; altrimenti non si possono avere risultati attendibili.
La titolazione può compiersi anche misurando differenze di p0tenziale. Essa in tal caso si basa sulla misura dei cambiamenti di potenziale che si stabiliscono fra un elettrodo polarizzato e la soluzione dove esso è immerso, allorché si modifica, per aggiunta di un reattivo, lo stato ionico della soluzione stessa.
Bibl.: Analisi qualitativa minerale: Oltre i trattati ricordati nel testo (Rose-Thénard, Freseneius, Gerhardt e Chancel), vedi: De Koninck-Meinecke, Lehrb. d. qualitat. Mineralanalyse, Berlino 1900; A. Carnot, Traité d'analyse des substances minérales, Parigi 1898-1910; F. P. Treadwell, Trattato di chimica analitica, Milano 1912-13; Boll-Leroide, Précis d'analyse chimique, Parigi 1930; G. Autenrieth, Analisi chimica qualitativa, Roma 1914; W. Ostwald, Elementi scientifici di chimica analitica, 2ª ed., Milano 1914.
Analisi quantitativa minerale: Quasi tutti i trattati ora ricordati hanno una parte che riguarda la quantitativa. Va inoltre rammentato il pregevole trattato: A. Classen, Ausgewählte Methoden der analytischen Chemie, Brunswick 1901. Per quanto riguarda specialmente analisi di silicati e rocce: H. Washington, Manual Chemical Analysis of Rocks; W. F. Hillebrand, Analysis of silicate and carbonate rocks, 2 voll., New York 1907-10.
Analisi quantitativa volumetrica: H. Beckurts, Die Methoden d. Massanalyse, Brunswick 1913; R. Weinland, Anleitung für das Prakticum in der Massanalyse, Tubinga 1911; J. M. Kolthoff, Die Massanalyse, 1928.
Chimica analitica colorimetrica: J. H. Yoe, Photometric Chemical Analysis: I, Colorimetrica; II, Nephelometric, 2 voll., New York 1928-9. V. anche R. Grassini, Analisi colorimetrica, In I. Guareschi, Nuova Encicl. di Chimica, Torino 1913, II, pp. 718-784.
Chimica fisica.
Generalità. - Come tutte le scienze naturali anche la chimica fisica è passata al suo nascere attraverso a un periodo iniziale che possiamo definire come puramente empirico, nel quale era considerata come quella parte della chimica che cerca di risolvere problemi chimici con metodi fisici, cioè mediante la determinazione di costanti fisiche. Tale concezione antiquata non risponde più né allo spirito né al contenuto di questa scienza che costituisce oggi la base teorica e concettuale del pensiero chimico. Però come tale la chimica fisica è ancora una scienza molto giovane e finora non ha potuto inquadrare in modo logico e soddisfacente che una piccola parte dell'innumerevole serie di fatti che la chimica empirica ha segnalato. Così nel campo delle relazioni tra costituzione chimica e proprietà fisiche dei corpi, se pure la chimica fisica ha fatto, specie negli ultimi anni, dei passi meravigliosi, non permette ancora di abbandonare del tutto l'esposizione empirica dei fatti, dato che un inquadramento logico di essi potrebbe riuscire oggi assai incompleto.
Lo studio delle relazioni fra costanti fisiche e composizione si può dire s'inizî con la legge di Dulong e Petit e prende grande sviluppo con i lavori di Kopp (1842 a 1853) sui calori specifici, sui volumi molecolari, sulle regolarità nei punti d'ebollizione, specie di composti organici, ecc.; e continua nella seconda metà del secolo scorso con le ricerche sulle proprietà ottiche, specie sul potere rifrangente, sui calori di combustione, ecc.
Nei tempi nei quali si svolgevano queste ricerche, fervevano anche le ricerche nel campo della chimica organica. Le discussioni, p. es., sulla formula di costituzione del benzolo avevano fatto accumulare un ricchissimo materiale sperimentale e suscitato dotte e interminabili polemiche fra i cultori della chimica organica. Fu così che i chimico-fisici d'allora, scoperto il carattere costitutivo di molte costanti fisiche, vollero considerare i diversi tipi di legami (p. es. i legami semplici, doppî e tripli fra atomi di carbonio, il legame etereo, carbonilico e ossidrilico, ecc.) come qualche cosa di fisso, d'immutabile, d'indipendente dal resto della molecola, portante un contributo calcolabile fisso alle costanti fisiche del composto. Tale idea portò a insuccessi e gettò il discredito sulle ricerche. Si vollero applicare le pretese costanti costitutive per decidere su formule di struttura e si giunse al risultato che mentre il Brühl con le sue ricerche sul potere rifrangente confermava per il benzolo la formula di Kekulé, il Thomson con i suoi studî sui calori di combustione confermava la formula prismatica di Ladenburg. In seguito s'allargò il concetto di costante costitutiva tenendo conto di un'eventuale influenza di legami su altri: per es., stabilendo la definizione di doppî legami coniugati, cumulati, isolati, polari e non polari, ecc. Ma ciò non è che un modo di rendere i fatti forzatamente aderenti alla teoria con una specie d'interpolazione fra punti sempre più numerosi: e mentre si cerca di eliminare alcune delle più stridenti deviazioni, non si spiegano, p. es., le innegabili differenze fra costanti fisiche d'isomeri di posizione come p. es. gli etilenici ed etilidenici.
Concetto di costante atomica e costitutiva. - Se consideriamo determinate costanti fisiche di composti, può darsi che il valore di queste dipenda, secondo una certa legge, da costanti numeriche fisse corrispondenti agli atomi dei singoli elementi, cioè sia una funzione di queste. Il caso più semplice si avrà quando la costante fisica del composto sia addirittura uguale alla somma di costanti atomiche, nel qual caso la proprietà si dice addittiva. Per constatare nel modo più generale se una proprietà è addittiva bisogna considerare un numero di composti (opportunamente scelti) pari a quello degli elementi, determinare sperimentalmente la costante fisica di questi composti e poi stabilire dei sistemi d'equazioni in cui i contributi atomici figurino come incognite. Dopo sarà facile verificare, prendendo altri composti, se le costanti trovate corrispondono a quelle calcolate in base alle costanti atomiche.
Tra le proprietà addittive c'è il peso molecolare il quale è uguale (almeno praticamente) alla somma dei pesi atomici. In generale, secondo le idee moderne, poiché nelle reazioni chimiche si producono modificazioni interessanti specialmente gli elettroni più esterni, resteranno inalterate nelle combinazioni quelle proprietà fisiche degli atomi costituenti che vengono determinate dagli elettroni più vicini al nucleo, e si modificheranno invece più o meno quelle interessanti gli elettroni esterni. Così si constata la perfetta addittività degli spettri ad alta frequenza (spettri Röntgen) degli elementi nei composti. Per quanto vi siano proprietà fisiche che entro certi limiti si possono considerare approssimativamente come addittive, tuttavia spesso si osservano influenze diversamente notevoli dello stato di combinazioni (influenze costitutive).
I composti organici sono quelli che naturalmente meglio si prestano a studiare tali influenze. S'è creduto, come si è detto, in molti casi di poter considerare le diverse specie di legami (per es., come qualche cosa di fisso che portasse un contributo invariabile alle costanti fisiche del composto (costanti costitutive). In tal caso, per trovare queste costanti costitutive unitamente alle atomiche, si procedeva nel modo prima descritto per le proprietà addittive, solo che s'introducevano anche altre incognite corrispondenti alle costanti costitutive, e con un numero sufficiente di dati sperimentali si trovavano così al tempo stesso le costami atomiche e costitutive risolvendo il sistema d'equazioni all'uopo impiantato. Nei paragrafi seguenti riassumeremo i risultati dello studio delle principali proprietà fisiche in relazione alla costituzione.
Calori specifici. - Per calore specifico d'una sostanza s'intende la quantità di calore necessaria per aumentare d'un grado la temperatura dell'unità di peso della sostanza. Esso varia con il variare della temperatura di partenza e perciò in generale si precisa l'intervallo 14°÷15°. Per il calore specifico degli elementi c'è una legge importante che rappresenta uno dei criterî per stabilire il valore approssimato dei pesi atomici: la legge di Dulong e Petit. Questa legge, di cui si parla altrove, enunciata nel 1818, dice che il calore specifico degli elementi, moltiplicato per il peso atomico, dà un valore approssimativameute costante che s'aggira intorno a 6,4 e viene chiamato calore atomico. Essa s'applica solo agli elementi solidi, e fra questi alcuni, di peso atomico inferiore a 30, dànno notevoli scarti (berillio, boro, carbonio, silicio). Però il Weber scoprì che il calore specifico di questi elementi cresce col crescere della temperatura e tende a raggiungere il valore normale: p. es., il carbonio (diamante) ha il calore atomico 1,76 a temperatura ordinaria e 5,51 a 1000°.
Nel 1831 il Neumann intraprese una serie di ricerche per vedere se gli elementi, entrando in combinazione, portavano un contributo calcolabile al calore specifico dei composti. Tali ricerche furono poi continuate dal Woestyn e specialmente dal Kopp (1864). Se si definisce come calore molecolare d'un composto il prodotto del calore specifico di questo composto per il peso molecolare (ovvero la quantità di calore necessaria per alzare d'un grado la temperatura della grammimolecola della sostanza), la cosiddetta legge di Neumann e di Kopp può enunciarsi: "Il calore molecolare d'una combinazione solida è uguale alla somma dei calori atomici degli elementi contenutivi". Col nome di calore atomico s'intende non il valore di 6,4, ma quello trovato sperimentalmente, cioè per es., per gli elementi seguenti (secondo i dati di Kopp):
Per gli altri elementi si può assumere 6,4.
I valori per gli elementi gassosi come H e O sono stati dedotti da combinazioni solide di questi elementi determinando il calore molecolare e applicando la legge suddetta: ciò è giustificato dal fatto che i valori così trovati sono indipendenti dai composti scelti. Perciò nel complesso il calore molecolare si può considerare, almeno approssimativamente, come una proprietà addittiva. Mentre in generale le relazioni fra costanti fisiche e costituzione sono state trovate in sostanze organiche, le quali meglio si prestano allo studio delle influenze costitutive, invece per le relazioni fra calore molecolare e costituzione di composti organici, non si è trovato nulla di notevole. R. Schiff ha constatato che per stabilire tali relazioni nel caso di sostanze organiche è più conveniente riferirsi ai calori specifici che ai molecolari. Si riscontra allora che il calore specifico dei grandi gruppi di sostanze affini è quasi lo stesso e tale permane anche a diverse temperature. Per es., 27 eteri di acidi grassi studiati dallo Schiff, hanno tutti il calore specifico:
in cui t è la temperatura. Per gl'idrocarburi saturi si ha:
Per altre serie sono state trovate relazioni consimili.
Punti di fusione. - In linea generale la temperatura di fusione degli elementi è una funzione periodica dei pesi atomici e segue approssimativamente l'andamento dei volumi atomici, però con varie irregolarità, dovute probabilmente all'esistenza di varie forme allotropiche e ad altre cause sconosciute. Anche per i composti non vi sono regole semplici; in questo caso come fattore perturbante è da ricordarsi specialmente la polimeria. Per es., CO2 è più volatile di CCl4, al contrario SiO2 non è volatile e SiCl4 lo è: ciò si deve all'essere la silice un polimero di SiO2.
Nel campo della chimica organica si trova che in molte serie omologhe si hanno variazioni regolari nella temperatura di fusione purché si suddividano in due sottoserie rispettivamente con un numero dispari e pari di atomi di carbonio. In tal caso si osserva in ciascuna di queste sottoserie che col crescere del numero degli atomi di carbonio cresce regolarmente la temperatura di fusione, però non in modo costante. Ciò negli idrocarburi saturi, negli alchilmetilchetoni, negli acidi grassi saturi, ecc. Vi sono però delle eccezioni nel campo degli acidi bibasici e negli idrocarburi aromatici.
Fra due combinazioni isomere fonde a temperatura più alta quella la cui molecola possiede struttura più simmetrica. Per es., IH2C−CH2I (ioduro d'etilene) fonde a 73° e H3C−CHI2 (ioduro d'etilidene) è liquido. Nei derivati aromatici para che sono i più simmetrici, si riscontrano per solito i punti di fusione più elevati. Questa regola si verifica più nettamente nei derivati trisostituiti con tre gruppi sostituenti uguali. Per es., C6H3Br3 simmetrico (1, 3,5) fonde a 119°; l'asimmetrico (1, 2,4) fonde a 87°; il vicinale (1, 2,3) a 44°. Nei tetrasostituiti a gruppi sostituenti uguali, quello che fonde più alto è (1, 2,4,5) cioè il più simmetrico. Non manca qualche eccezione a questa regola.
Inoltre si verifica spesso che "in composti isomeri, specie alifatici, il punto di fusione è tanto più basso quanto più ramificata è la catena" (regola di Markovnikov).
Per gli stereoisomeri otticamente attivi è noto che i due antipodi hanno la stessa temperatura di fusione: il composto racemico per solito fonde più alto, ma non sempre.
Infine qualche altra regola riguarda gli effetti delle sostituzioni di certi gruppi. L'entrata degli alogeni aumenta la temperatura di fusione, ma non v'è regola fissa circa l'effetto del cloro, bromo, iodio, poiché talora l'innalzamento è più notevole col cloro, talora con l'iodio. La sostituzione dell'ossidrile all'idrogeno innalza la temperatura di fusione: ciò avviene anche più nettamente con l'entrata del carbossile o del gruppo amidico. Nel complesso risulta che il punto di fusione è una proprietà eminentemente costitutiva e che non è possibile stabilire dati che consentano di calcolare la temperatura di fusione in base alla formula di costituzione.
Punti di ebollizione. - Per le sostanze inorganiche non vi sono notevoli regolarità nei punti di ebollizione.
Per le organiche le prime ricerche su vasta scala si devono al Kopp che le iniziò nel 1842 e continuò per varî anni fruendo del materiale sempre più vasto fornito dalle ricerche di chimica organica. Si sono trovate delle regole non troppo generali, valevoli di solito per certi gruppi di composti soltanto.
Nelle serie omologhe degli alcoli primarî saturi a catena normale, degli acidi monobasici saturi normali e degli eteri dell'acido acetico, s'è trovato che col crescere d'un gruppo CH2, la temperatura d'ebollizione aumenta abbastanza regolarmente di 19 a 21 gradi; nelle aldeidi e ammine primarie tale aumento è più notevole variando da 25 a 31 gradi; invece nella serie dei chetoni e alcoli secondarî gli aumenti sono molto più deboli, e non troppo costanti. In alcune serie (p. es., degl'idrocarburi saturi normali) la differenza si fa più piccola man mano che si procede nella serie, tendendo verso un limite. Lo stesso si dica dei derivati alogenici degl'idrocarburi saturi normali con un atomo dell'alogeno all'estremità della catena. Secondo una regola stabilita da L. Henry l'introduzione d'un atomo di Cl in un gruppo terminale CH3; innalza di 60 gradi la temperatura di ebollizione; introducendone altri, si hanno incrementi minori. La sostituzione d'un atomo di Br a uno di Cl porta in media un aumento di gradi 22,5, di uno di I a uno di Cl di 50. Per es., le temperature d'ebollizione di CH4, CH3Cl, CH3Er, CH3I sono −164°; −3°; 4°,5; 44°. Sembra che la sostituzione di Fl a H non porti modificazioni sensibili. Il fatto che introducendo in un composto organico gli elementi d'uno stesso gruppo (per es., nel caso citato, gli alogeni) si hanno temperature d'ebollizione che crescono col peso atomico, si riscontra anche in altri casi. Per es., N(CH3)3, P(CH3)3, Sb(CH3)3 bollono rispettivamente a 41°, 70°, 80°; (CH3)2O, (CH3)2S, (CH3)2Se, (CH3)2Te a −23°, 37°, 58°, 82°; C(CH3)4; Si(CH3)4, Sn(CH3)4 a 9°,5, 30°, 78°.
La sostituzione di OH a H aumenta di circa 100 gradi la temperatura d'ebollizione nei casi di:1. trasformazione d'idrocarburi saturi e non saturi ed idrocarburi aromatici in alcoli; 2. trasformazioni d'alcoli monovalenti in bivalenti; 3. trasformazione d'aldeidi in acidi. La sostituzione di NH2 a H produce un aumento analogo ma solo negl'idrocarburi aromatici.
Per gl'isomeri si hanno le seguenti regolarità: nella serie grassa le combinazioni normali hanno punti d'ebollizione più elevati delle ramificate; quanto più una catena è ramificata tanto maggiore è la volatilità. Per es., i composti
bollono rispettivamente a 38°, 30°, 9°, 5°.
Il principio generale che la simmetria della molecola abbassa la temperatura d'ebollizione e l'innalzamento del peso molecolare l'aumenta (cosicché alle volte un aumento di simmetria compensa un aumento nella complessità molecolare) costituisce secondo Earp il criterio più generale che regola i punti d'ebollizione. Si osserva qualche altra regolarità, più limitata. Per es., il punto di ebollizione delle sostanze isomere contenenti ossigeno è tanto più basso quanto più vicini al centro sono gli atomi d'ossigeno: un alcool secondario bolle più basso dell'isomero primario.
L'influenza del doppio legame grasso non è costante. Il triplo legame invece porta sempre a un innalzamento. L'idrogenazione del benzene e derivati porta sempre a un aumento di volatilità.
Una delle cause d'irregolarità è in molti casi l'associazione, e si nota anche nel campo della chimica inorganica: HI bolle a −25°, HBr a −73°, HCl a −100°; invece HFl bolle a +19°,4; così H2S, H2Se, H2Te hanno volatilità decrescente, mentre H2O è liquido. In chimica organica sono specialmente associati i composti poliossidrilici.
A proposito delle regolarità nelle temperature d'ebollizione è stata sollevata un'altra questione: la scelta della pressione di 760 mm. per determinare la temperatura d'ebollizione può apparire del tutto arbitraria. Un tale dubbio è stato rimosso da Guldberg il quale ha dimostrato che in molti composti il rapporto Tθ fra la temperatura d'ebollizione in gradi assoluti a 760 mm. e la temperatura critica θ è all'incirca costante e uguale a 2/3.
Da quanto è stato esposto risulta che la temperatura d'ebollizione è, come quella di fusione, fortemente influenzata dalla costituzione, senza che si possano stabilire regole quantitative. A nulla infatti hanno approdato i tentativi di Kopp, Groshans, Goldstein, e altri di stabilire formule in proposito.
Volumi molecolari. - Se d è il peso specifico d'una sostanza, la reciproca 1/d rappresenta il volume occupato dall'unità di peso della sostanza e quindi il prodotto M/d (indicando con M il peso molecolare della sostanza) dà il volume occupato dalla grammimolecola, cioè quello che si chiama volume molecolare.
Per i gas sussiste la legge fondamentale d'Avogadro. Per i solidi e liquidi dei quali ci occuperemo, le cose sono più complicate. Anzitutto il volume molecolare varia con la temperatura. Le temperature teoricamente corrispondenti sarebbero quelle critiche, ma data la difficoltà di ricerche a queste temperature si sono prese di solito le temperature d'ebollizione a 760 mm. che, come si è detto sopra, si possono considerare approssimativamente come corrispondenti. Alcuni autori hanno fatto anche le determinazioni dei pesi specifici a una stessa temperatura.
Le prime ricerche estese si devono al Kopp (dal 1842 in poi) il quale determinò i pesi specifici alle temperature d'ebollizione. Le vicende di tali ricerche sono pressoché identiche a quelle di altre ricerche consimili. Da principio Kopp trovò essere il volume molecolare una proprietà addittiva, cioè la somma di costanti atomiche (volumi atomici): p. es. trovò come volumi atomici di O, H, C, rispettivamente 9,4;4,7;12,5. In seguito (1855), lavorando su materiale più abbondante fornitogli dai progressi incessanti della chimica organica, dovette riconoscere qualche influenza costitutiva, ciò che già era stato sostenuto da Schröder. Specialmente l'ossigeno manifestava valori diversi secondo la forma di combinazione. Così il Kopp rettificando i dati precedenti stabilì per volumi atomici di H, C, O″, O′ (O″ ossigeno carbonilico, O′ alcoolico ed etereo), i valori 5,5; 11,0; 12,2; 7,8. Stabilì poi, come volumi atomici di zolfo, cloro, bromo, iodio, rispettivamente 22,6; 22,8; 27,2; 37,5. Per l'azoto trovò 2,3 con qualche piccola variazione nei diversi tipi di composti azotati. Le ricerche di Kopp riguardavano in prevalenza i composti grassi; quando per opera di Thorpe, Lossen, R. Schiff e altri autori si allargarono le ricerche anche nel campo dei composti aromatici, si trovò in generale per questi un volume molecolare superiore a quello trovato con le regole di Kopp. Inoltre si riscontrarono valori diversi anche per isomeri di posizione, come p. es. il cloruro d'etilene e d'etilidene (85,24 e 88,18 secondo Städel), ciò che evidentemente non può rappresentarsi con costanti costitutive riferentisi semplicemente a speciali legami.
Nel complesso il volume molecolare è anch'esso una proprietà costitutiva non calcolabile a priori dalla formula, data l'influenza di delicate differenze costitutive quali quelle riscontrate per isomeri di posizione, fra composti grassi e aromatici, ecc. Certe formule proposte dal Lossen non rappresentano che un tentativo non riuscito per raggiungere tale obiettivo.
Calore di combustione. - Per calore di combustione d'un composto organico s'intende la quantità di calore che si ottiene quando la grammimolecola del composto stesso brucia completamente in modo che il carbonio dia anidride carbonica, l'idrogeno acqua, ecc. Si determina preferibilmente con la bomba calorimetrica di Berthelot, bruciando un determinato peso di sostanza entro l'ossigeno compresso: questo metodo, oltre alla notevole precisione, presenta anche il vantaggio che la reazione si compie a volume costante.
Il calore di combustione serve specialmente per dedurre il calore di formazione di composti organici i quali non si possono ottenere quasi mai direttamente dai componenti. Facendo la differenza fra la quantità di calore che darebbero bruciando gli elementi combustibili contenuti nella grammimolecola (posto che fossero liberi) e il calore di combustione, si ottiene evidentemente il calore di formazione.
Noi potremmo indifferentemente cercare di stabilire relazioni fra la composizione chimica e il calore di combustione ovvero fra la prima e il calore di formazione. Per solito ci si riferisce al primo come a quello che ci rappresenta un dato sperimentale diretto.
Le ricerche sperimentali sui calori di combustione delle sostanze organiche, iniziate da Favre e Silbermann, furono continuate da Thomsen, Berthelot, Longuinine, Stohmann e altri, specie nell'ultimo trentennio dello scorso secolo.
Il comportamento dei termini successivi di varie serie omologhe (nelle quali l'incremento di un CH2 portava l'incremento costante di 159 calorie nel calore di combustione), la quasi identità del calore di combustione di isomeri, la costanza della differenza fra i calori di combustione d'idrocarburi e alcoli corrispondenti (circa 29 calorie), sembrarono escludere l'influenza della costituzione e fecero ritenere essere il calore di combustione una proprietà addittiva. Però ben presto si trovarono eccezioni notevoli, specie nel campo dei composti aromatici. Per isomeri di costituzione profondamente diversa, come, per es., il benzolo e il suo isomero biacetilenico, il dipropargile, si trovarono forti differenze nel calore di combustione. Il Thomsen e altri rilevarono che il doppio legame fra atomi di C porta un incremento notevole e non costante del calore di combustione; anche più forte è l'influenza del triplo legame. Così pure differenze notevoli si hanno secondo che l'ossigeno ha i legami C−O−H, C−O−C, C=O. Onde, per es., mentre i due isomeri acetato di metile e formiato d'etile hanno lo stesso calore di combustione, invece i due isomeri formiato di etile e acido acetico l'hanno diverso. Il Thomsen determinò così il contributo che varî tipi di legami portano al calore di combustione dei composti e cercò di servirsi di tali dati per decidere su formule di costituzione controverse, per es. su quella del benzolo. Come già si è accennato, ciò lo condusse ad ammettere l'esistenza di 9 semplici legami in accordo con la formula prismatica di Ladenburg, mentre il Brühl basandosi sul potere rifrangente (v. più sotto) confermò la formula di Kekulé. L'insuccesso di queste ricerche si deve non solo a ragioni d'indole generale accennate nell'introduzione, ma anche a difficoltà speciali riguardanti la determinazione dei calori di combustione.
Infine per i calori di combustione v'era un'altra causa che rendeva difficile il calcolo delle costanti costitutive, anche caso per caso, serie per serie. Riferiamoci per facilitare l'esposizione ai calori di formazione. Dopo trovato, per es., che il calore di formazione del metano (CH4) è 18, non basta per ottenere la costante corrispondente al legame C−H dividere 18 per 4. Questo dato, 18 calorie, si deduce tenendo conto del calore di combustione del metano gassoso, del calore di combustione del carbonio solido (diamante) e dell'idrogeno molecolare (H2), cioè si riferisce alla reazione
Ai tempi di Thomsen non s'avevano dati precisi sul calore corrispondente alla trasformazione del C (diamante) in C gassoso atomico, né dato alcuno corrispondente alla trasformazione di H2 in 2H.
Adottando i dati di Kohn secondo i quali la trasformazione del carbonio solido (diamante) in carbonio gassoso atomico richiede 150 calorie, e di Wohl per cui la dissociazione di H2 in 2H richiede 90 calorie, si avrà evidentemente
Così effettivamente (almeno in questo caso) la formazione del legame C - H produce 348/4 = 87 calorie.
Analogamente, poiché il calore di formazione dell'etano da C (solido) e H2 è 22 calorie, si deduce
Ora siccome i 6 legami C−H dell'etano si formano emettendo 87 × 6 = 522 calorie, la differenza 592-522 = 70 calorie dà la tonalità del legame C=C (alifatico).
In modo analogo è stato dedotto 105 per il doppio legame alifatico, 118 per quello aromatico, 170 per il triplo legame.
Si è riportato questo calcolo, fatto dal Fajans a tutt'altro fine, come esempio del metodo di stabilire le costanti costitutive nei calori di formazione, posto che tali costanti siano veramente tali. Non è forse ammissibile come principio teorico che i 6 legami C−H in C2H6 siano uguali ai legami C−H in CH4: però quando si tratti di composti d'una stessa serie ciò potrà anche ammettersi praticamente. Ma tale principio non può generalizzarsi, e ciò impedisce di stabilire regole generali per calcolare i calori di combustione, o di formazione, dalla formula. Sembra incredibile che delle forme di struttura si sia dato un'interpretazione così materiale da ammettere, per es., che il legame semplice nell'etano sia identico al legame semplice del cloralio, cosicché a esso corrisponda una costante tonalità termica.
Proprietà ottiche. - Le relazioni tra materia ed energia raggiante portano a considerare fenomeni che possono essere studiati qualitativamente e quantitativamente e confrontati con la costituzione chimica delle sostanze. Fra i primi ricorderemo il colore, la fluorescenza, la fosforescenza, ecc.; fra i secondi gl'indici di rifrazione, il potere rotatorio, ecc.
a) Colore. - È noto che quando la luce colpisce un corpo può essere riflessa, assorbita o attraversare il corpo stesso. Avviene però in generale che il corpo (se si tratta d'una luce complessa, p. es. bianca) esercita un assorbimento selettivo della luce che penetra o che si riflette su esso: ed è a questo che si deve il colore dei corpi. Mediante gli spettri d'assorbimento possiamo studiare il fenomeno con sostanze trasparenti, particolarmente con soluzioni.
Interessanti sono le ricerche sulle relazioni fra colore e costituzione nelle sostanze organiche. Notiamo anzitutto che la colorazione delle sostanze è connessa con la presenza di certi gruppi detti cromofori (Witt). In generale, se non vi sono gruppi modificativi, la presenza di soli cromofori produce colorazione gialla (per assorbimento dell'azzurro violetto); le sostanze che contengono tali gruppi possono essere anche incolori se le bande d'assorbimento sono nell'ultravioletto. Ma vi sono gruppi detti batocromi che producono spostamenti verso il rosso e altri detti ipsocromi (meno numerosi dei primi) che tendono a spostare le bande d'assorbimento verso il violetto.
Fra i gruppi cromofori più importanti sono da ricordare −C=C− N=N−, =C=O. Altri gruppi cromofori sono C=S, C=N unito a un arile, N2O, NO2, N=O, ecc. Si chiamano auxocromi certi gruppi come NH2, OH, ecc. che pur non essendo per sé cromofori, rendono la colorazione provocata dai cromofori più intensa e profonda. Gruppi batocromi sono p. es. CH3, C2H5, OCH3, CO, C6H5 e in generale i gruppi che aumentano il numero di atomi di carbonio nella molecola. Gruppi ipsocromi sono p. es. CH3, CO, C6H5•CO, H, ecc.
Consideriamo il caso estremo che la sostanza contenente i gruppi cromofori abbia le bande d'assorbimento nell'ultravioletto: introducendo gradatamente gruppi batocromi le bande si sposteranno verso il rosso: giungeranno così nella parte visibile dello spettro invadendo il violetto, cosicché la sostanza apparirà giallo-verdastra; poi gradatamente l'azzurro, il verde, ecc., cosicché la sostanza apparirà gialla, aranciata, rosso, porpora. Ma le bande, invadendo sempre più la parte meno rifrangibile, finiranno con l'abbandonare quella più rifrangibile, onde apparirà (con l'aumentare del numero e dell'efficienza dei gruppi batocromi) la colorazione violetta, indaco, finché poi quando le bande avranno raggiunto l'ultrarosso la sostanza potrà essere incolora. Per es. il fulvene è giallo, il dimetilfulvene è aranciato, il difenilfulvene rosso cupo. Così i seguenti derivati del trifenilmetano: aurina, eosina, eritrosina, fucsina, violetto metile, violetto benzile, contenenti gli stessi gruppi cromofori ma batocromi di crescente efficienza, hanno colori varianti per gradi dal giallo all'estremo violetto.
Le sostanze colorate sono quelle che hanno bande d'assorbimento nella parte visibile dello spettro, ma naturalmente possiamo generalizzare le ricerche sull'assorbimento estendendole all'ultrarosso e all'ultravioletto. Quasi tutti i corpi esercitano invero un potere selettivo nell'ultrarosso che si può studiare quando si tratti di sostanze solubili in liquidi trasparenti ai raggi ultrarossi, come il solfuro e il tetracloruro di carbonio.
b) Fluorescenza. - Il miglior modo per mettere in evidenza questo fenomeno è quello di far cadere, entro un recipiente a pareti di vetro contenente il liquido, un fascio convergente di luce bianca mediante una lente. Si vedrà che mentre la parte non attraversata da raggi, vista per trasparenza, ha un colore, invece quella del cono illuminato ne ha un altro. In generale le sostanze fluorescenti trasformano alcuni raggi di più alta rifrangibilità in altri di rifrangibilità minore, p. es. gli azzurri in verdi, gli ultravioletti in violetti, ecc. Sembra che, perché il fenomeno si verifichi, sia necessaria la presenza di certi gruppi detti fluorofori e che questi siano introdotti in determinate molecole. I principali gruppi fluorofori sono:
ll primo è il nucleo del pirone contenuto in alcune sostanze fluorescenti, come la fluorescina e lo xantone. Il secondo è l'anello centrale dell'antracene che provoca la fluorescenza in molti derivati di questo composto. Il terzo è l'anello centrale dell'acridina. Il quarto, quinto, sesto sono rispettivamente l'anello azinico, ossiazinico, tioazinico.
Perché questi gruppi provochino la fluorescenza è necessario, ad eccezione di qualche caso, che siano racchiusi da anelli benzenici. Anche il solvente può contribuire al fenomeno, perché vi sono sostanze fluorescenti solo in certi solventi. Le radiazioni più atte a produrre il fenomeno della fluorescenza sono le violette e ultraviolette.
Hewitt ha dimostrato che quasi sempre le sostanze organiche fluorescenti presentano il fenomeno della tautomeria (cioè della presenza di un solo isomero in una sostanza, le cui proprietà permettono di attribuirle due composizioni diverse) e in base a questo ha cercato di spiegare il meccanismo del fenomeno. Ma poi è stato rilevato che non solo vi sono sostanze tautomere non fluorescenti, ma che ve ne sono altre fluorescenti per le quali non è possibile immaginare tautomerie anche in senso lato. Secondo Perrin la fluorescenza si spiega ammettendo che la radiazione eccitatrice porti la molecola a uno stato instabile cui reagisce con emissione di luce. La fosforescenza si ha quando l'emissione di luce continua un certo tempo quando è cessata la radiazione eccitatrice. In corpi come CaS BaS la fosforescenza scompare a bassa temperatura, mentre in certe sostanze organiche avviene il contrario.
c) Potere rifrangente molecolare. - noto che l'indice relativo di rifrazione di due mezzi trasparenti è dato dalla formula n = sen i/sen r, in cui i è l'angolo d'incidenza ed r quello di rifrazione. L'indice n dipende dalla natura dei due mezzi, dalla lunghezza d'onda del raggio e anche dalla temperatura e dalla pressione. L'indice assoluto di rifrazione d' un mezzo è il rapporto suddetto quando la luce passa dal vuoto a quel mezzo: praticamente esso si ottiene moltiplicando l'indice relativo fra l'aria e il mezzo considerato per 1,000294 e si misura con speciali apparecchi detti rifrattometri. Anche l'indice di rifrazione di sostanze organiche (specialmente liquide o allo stato di soluzione) è stato messo in relazione con la costituzione, in una serie di vaste ricerche.
La prima questione che s'è presentata in tale studio è stata quella relativa alla scelta della lunghezza d'onda. S'era pensato di determinare l'indice a una lunghezza d'onda qualunque e poi di riferirlo col calcolo a una lunghezza d'onda infinita: per ciò occorreva applicare una relazione che desse l'indice in funzione della lunghezza d'onda e poi calcolare n al limite per λ = ∞. Ora sono state proposte all'uopo varie formule, ma per diverse ragioni teoriche e pratiche è prevalso il criterio proposto fino dal 1884 da R. Nasini di riferirsi a lunghezze d'onda determinate come la NaD (λ = 5893 Å) e la Hα (λ = 6563 Å). Molte determinazioni sono state fatte anche con la Hγ per aver modo, dal computo dei dati ottenuti con la Hα e la Hγ di studiare quantitativamente il fenomeno della dispersione. S'è trovato che usando queste diverse lunghezze d'onda non restano sostanzialmente modificate le relazioni fra costituzione e potere rifrangente.
Per trovare il potere rifrangente specifico bisognava stabilire la relazione che passa fra indice di rifrazione e peso specifico in modo da ottenere espressioni pressoché indipendenti dalla temperatura. Fra le formule proposte per esprimere il potere rifrangente specifico ricordiamo:
dette anche brevemente la formula n e la formula n2. Entrambe corrispondono sufficientemente: ma nelle ricerche più recenti è stata specialmente utilizzata la seconda che nel caso di liquidi pare corrisponda meglio. Si dice rifrazione molecolare il prodotto della rifrazione specifica R per il peso molecolare M. Adottando la formula n2 si ha:
Le prime ricerche su questa costante sembra risalgano al 1840 (Deville), ma i primi lavori importanti si devono a Gladstone e Dale (1863 e seg.) e al Landolt (1864 e seg.). Dalle misure di Gladstone e Dale, per quanto fatte con materiale non sempre puro, emerse subito essere la rifrazione molecolare una proprietà fortemente costitutiva. Il Landolt, che eseguì misure di grande precisione, trovò che isomeri aventi una stretta analogia di costituzione (come p. es. i composti metameri) hanno rifrazione molecolare pressoché uguale, ma quando la struttura è profondamente diversa (p. es. nell'alcool allilico e nell'aldeide propilica, nell'acido propargilico e nella acroleina) si hanno forti differenze. Il Landolt trovò differenze piccole ma superiori agli errori d'esperienza anche per derivati alogenici etilenici ed etilidenici, differenze che non si potevano rappresentare neppure con costanti costitutive; nelle serie omologhe constatò che l'aggiunta di un CH2 portava incrementi pressoché costanti nella rifrazione. Nonostante l'evidente influenza della costituzione, il Landolt cercò di rappresentare la rifrazione molecolare come la somma di rifrazioni atomiche: calcolò all'uopo queste ultime prendendo dei valori medî: p. es., per l'ossigeno prese la media fra il contributo dato dall'ossigeno alcoolico e quello dato dall'ossigeno aldeidico. Nel 1880 Brühl intraprese una serie di vaste ricerche dalle quali credette di poter dedurre che la rifrazione molecolare d'un composto si può considerare come la somma di costanti atomiche e costitutive. Nella tavola seguente diamo nella 1ª colonna il valore di queste costanti, trovate da Brühl, riferito alla riga Hα; nella 2ª quello riferito alla riga NaD (costanti trovate da Conrady); nella 3ª e nella 4ª dati più recenti di Eisenlohr (1910), riferiti però specialmente a composti grassi.
Per l'azoto varî autori hanno trovato valori assai diversi secondo la costituzione. Vi sono differenze sensibili nel comportamento delle ammine alifatiche primarie, secondarie e terziarie (rifrazione atomica N da 2,311 a 2,924); nelle ammine aromatiche la rifrazione atomica dell'azoto è molto superiore (fino a 4,32); più alta ancora nelle ossime aromatiche. Differenze analoghe si riscontrano pure per P, S, ecc., contenuti in composti organici.
La discussione sulle influenze costitutive si protrasse per lunghi anni finché estese ricerche di Brühl (1906) poterono chiarire i fenomeni di esaltamento del potere rifrangente e le leggi che li regolano. Il Brühl chiamò sistema coniugato un sistema con la catena −C=C−C=C− (nella quale al posto dei gruppi non saturi C=C vi possono essere anche i gruppi C=C, C=N, C=O), isolato se contenente p. es. la catena −C=C−C−C=C−, cumulato −C=C=C−. Dall'esame di molti composti il Brühl concluse che si ha esaltamento del potere rifrangente solo nel primo caso, però con alcune eccezioni. Nello stesso benzolo, che sarebbe un sistema con tre gruppi coniugati, non v'è esaltazione (perciò un tal sistema è chiamato neutral-coniugato), ciò che Brühl cercò spiegare con particolari considerazioni cinetiche. Queste ricerche vennero ulteriormente estese da Auwers e Eisenlohr, i quali distinsero diversi tipi di legami multipli coniugati e stabilirono regole quantitative sull'effetto di tali legami accoppiati. Nel complesso è risultato da tutte queste ricerche essere il potere rifrangente molecolare una proprietà nettamente costitutiva. Quanto alla possibilità di dedurre questa costante come somma di costanti atomiche e costitutive essa è molto discutibile: per lo meno le costanti corrispondenti ai varî tipi di legami sono insufficienti e bisogna tener conto di relazioni d'indole generale nell'intera molecola quali quelle ora esposte, relazioni forse destinate a moltiplicarsi con l'aumentare dei dati. Con l'aiuto di tutte queste costanti addittive e costitutive (in senso lato) s'è potuto in alcuni casi decidere su formule di costituzione incerta, ma non riteniamo debba essere questo lo scopo di ricerche consimili. La formula è utile in quanto che esprime sinteticamente il complesso delle proprietà note della sostanza, dei modi di formarla, della possibilità di farla reagire e trasformare in altre. Se non si riesce per via esclusivamente chimica a fissarla, riteniamo di scarsa utilità il fissarla con la misura d'una costante fisica.
d) Potere dispersivo. - Lo studio del potere dispersivo è connesso con lo studio del potere rifrangente. Basta infatti determinare i poteri rifrangenti specifici con due lunghezze d'onda differenti, p. es., come si suole, con le righe Hα e Hγ, per trovare una differenza variabile da sostanza a sostanza. Anche questa costante appare fortemente influenzata dalla costituzione. Molte volte si constata che a una forte rifrazione corrisponde una forte dispersione, ma, come dimostrano Nasini e allievi, non sempre.
e) Potere rotatorio. - Si dicono dotate di potere rotatorio o otticamente attive le sostanze che deviano il piano della luce polarizzata. Il fenomeno si può verificare in cristalli del sistema monometrico, esagonale e dimetrico. In tal caso il potere rotatorio è collegato con la presenza di due forme cristalline (emiedriche o tetartoedriche), non sovrapponibili, di cui l'una è l'immagine speculare dell'altra: queste si dicono enantiomorfe e ruotano da parti opposte e di un angolo uguale la luce polarizzata. Un noto esempio ce lo fornisce il quarzo. Se le sostanze enantiomorfe sono solubili (p. es. clorato sodico), perdono sciogliendosi la loro attività, la quale quindi in questo caso appare legata alla forma cristallina. Vi sono invece sostanze organiche che si presentano otticamente attive anche allo stato liquido o in soluzione e per le quali bisogna ammettere che l'attività ottica risieda nella molecola. È noto che tale attività è connessa con la presenza di atomi di carbonio asimmetrici.
Il potere rotatorio specifico d'una sostanza si riferisce per solito alla riga D del sodio ed è dato dall'espressione
dove a è l'angolo di rotazione, l la lunghezza dello strato attivo esaminato e d la densità della sostanza. Il potere rotatorio molecolare è il prodotto [a]D M, ma per solito, essendo un numero grande, se ne prende la centesima parte. Sull'argomento delle relazioni fra i valori numerici del potere rotatorio molecolare e la costituzione, il Krecke nel 1872 enunciò alcuni principî che poi furono riconosciuti inapplicabili; lo stesso si dica dei tentativi di Thomsen e di altri. Tuttavia s'è potuto stabilire qualche relazione d'una certa generalità. Se in un composto CR1R2R3R4 si sostituiscono. p. es., ad R4 i termini successivi d'una serie omologa, si constata che il potere rotatorio aumenta dapprima col crescere degli atomi di carbonio del gruppo, tendendo a un limite che è approssimativamente raggiunto con C5. Quando ad R4, si sostituiscono successivamente due gruppi simili, l'uno saturo e l'altro no, si vede che quest'ultimo esalta maggiormente il potere rotatorio (l'etilenico più dell'acetilenico). Notevole è specialmente l'influenza del doppio legame coniugato −CH=CH− CH=CH−. Lo stabilirsi d'una catena chiusa aumenta il potere rotatorio: notevole specialmente è l'effetto negli anelli lattonici. Infine Guye e Walden hanno dimostrato la sovrapposizione degli effetti ottici, cioè il sommarsi del potere rotatorio dei singoli gruppi attivi costituenti la molecola.
Degno di nota è l'ingegnoso tentativo di Guye per stabilire a priori il potere rotatorio in base alla formula. Supponendo di riferirsi al C tetraedrico, se i quattro gruppi uniti al carbonio, collocati ai vertici del tetraedro, sono uguali, il centro di gravità del sistema coincide con il centro di figura. Se due o tre gruppi sono differenti esso non coincide più, ma tuttavia viene sempre a cadere in uno dei sei piani di simmetria passanti per uno spigolo e per il punto di mezzo dello spigolo opposto. Cosicché il prodotto delle sei distanze del centro di gravità da questi sei piani è sempre zero. Invece tale prodotto, che il Guye chiama prodotto di dissimmetria, è diverso da zero se i quattro gruppi sono disuguali e, secondo Guye, il potere rotatorio cresce con esso. A parte le difficoltà del calcolo in base al peso dei gruppi sostituenti (difficoltà che possono eliminarsi con alcune semplificazioni), è stato riconosciuto che il principio di Guye, pur trovando conferme parziali, non può corrispondere, data l'influenza della costituzione dei gruppi che rende insufficiente la considerazione del solo peso. Infatti vi sono delle sostanze otticamente attive in cui l'atomo di carbonio asimmetrico è unito a due gruppi isomeri.
In questi ultimi tempi, specie per opera del Betti e della sua scuola, si sono però sviluppate delle ricerche che mostrano uno stretto legame tra il potere rotatorio d'una molecola e il comportamento chimico dei gruppi sostituenti. Anzi si è cercato di collegare con tali ricerche il potere rotatorio al momento elettrico molecolare.
Capillarità; tensione superficiale. - È noto che la superficie libera dei liquidi si comporta come una lamina elastica tesa. Si dice tensione superficiale la forza che agisce perpendicolarmente a una sezione lunga 1 cm., alla superficie libera. I fenomeni cui dà luogo la tensione superficiale si dicono anche capillari poichè fra essi v'è l'ascensione dei liquidi in tubi capillari. La tensione superficiale nel sistema C. G. S. viene espressa dal quoziente d'una forza espressa in dine per una lunghezza misurata in centimetri.
Per la determinazione della tensione superficiale si rimanda alle voci corrispondenti: ricordiamo che uno dei mezzi più comuni è quello di misurare l'altezza a cui arriva un liquido in un capillare immerso nel liquido stesso. Se h è tale altezza, s il peso specifico del liquido, si ha
Tale formula è applicabile solo se il liquido bagna il tubo, ciò che del resto è il caso più frequente.
Fra la tensione superficiale d'un liquido e la sua composizione esistono delle relazionî. Qualche ricerca in proposito fu fatta dal Mendeleev (1860); nel 1864 Wilhelmy riconobbe che gl'isomeri hanno uguale tensione superficiale se di costituzione simile (per es. i metameri), diversa se la differenza è profonda.
Sulla tensione superficiale dei liquidi organici ha eseguito ricerche assai estese R. Schiff (1884), scegliendo per i confronti le temperature d'ebollizione che si potevano considerare praticamente come corrispondenti. Schiff ha trovato che sostanze anche di natura chimica diversa e non isomere ma di peso molecolare uguale (per es. l'alcool isobutilico C4H10O e il formiato d'etile C3H6O2) hanno, alla temperatura d'ebollizione, innalzamenti capillari uguali. Cosicché, sembra che la costante γ stia in qualche rapporto col peso molecolare. Lo Schiff ha creduto poi opportuno di mettere in relazione la costituzione non con γ ma con N = γ/m, in cui m rappresenta il peso molecolare della sostanza. Tale costante è proporzionale al numero di molecole sollevate quando la tensione superficiale dà luogo all'innalzamento capillare. Lo Schiff ha trovato che tale numero resta inalterato quando, per es., nelle combinazioni si sostituiscono due atomi di H con uno di C. Così un atomo di O equivale a 3 di H e uno di Cl a 7. Onde è possibile calcolare le costanti di capillarità dalle formule. Basta ridurre tutto a H e applicare la formula
in cui n indica il numero delle unità d'idrogeno. Prendendo, per es., il cloruro di propile C3H7, Cl si ha dalla formula N = 23,4 mentre l'esperienza dà 23,8. Si riscontrano però anche influenze costitutive: per es., un doppio legame equivale a 1 di H. L'azoto ha influenza trascurabile nelle ammine primarie, nelle secondarie vale da 1 a 2 unità H, nei nitro-composti vale 2H, nei cianuri 3H. Dunque la tensione superficiale alla temperatura d'ebollizione ha specialmente caratteri addittivi con influenze costitutive.
Recentemente Sugden, in seguito a ricerche teoriche, ha stabilito una funzione, che egli chiama paracora, data dall'espressione
in cui M è il peso molecolare della sostanza considerata, D la densità del liquido, d quella del vapore corrispondente e γ la tensione superficiale. Questa costante può servire a calcolare il volume critico mediante la relazione P = 0,78 Vc. Inoltre essa può eguagliarsi alla somma di costanti atomiche e costitutive della sostanza cui si riferisce. A questa espressione i doppî legami, a seconda della loro natura, portano contributo variabile; differenza si ha soprattutto fra i doppî legami ordinarî e quelli di tipo polare (quali compaiono, p. es., in composti a doppio legame che originano la tautomeria).
Relazioni tra forma cristallina, composizione e costituzione. - Una delle leggi fondamentali della cristallografia, enunciata oltre un secolo fa da Haüy, stabiliva che "ogni determinata sostanza possiede una sola, determinata forma cristallina: sostanze diverse posseggono forme cristalline diverse". Contro tale principio furono rilevate ben presto numerose eccezioni che nel 1828 vennero concretate da E. Mitscherlich nel seguente principio: "vi sono intere serie di sostanze che nonostante la diversità chimica presentano forme cristalline del tutto concordanti per il valore e numero di angoli e facce", ed egli riconobbe che questo si verificava quando le sostanze avevano costituzione chimica analoga. Questo fenomeno fu chiamato isomorfismo. Da principio esso fu stabilito constatando l'uguaglianza degli angoli diedri corrispondenti; poi s'adottò anche il criterio del sinmorfismo, cioè la proprietà di certe coppie di sostanze cristallizzabili di formare cristalli misti (tali che un unico individuo cristallino contiene le due sostanze). Così furono chiamate isomorfe iridifferentemente le sostanze isogone o sinmorfe, per quanto i due criterî talora fossero discordi.
Per chiarire ciò che si debba intendere per analogia di costituzione, confrontiamo i composti contenuti in ciascuna delle righe seguenti:
Nei due composti della prima riga v'è evidente analogia formale, identità di valenza nella parte differente P e As e analogia chimica intima fra P e As; così nei composti della terza riga. Lo stesso si può dire per i primi tre composti della seconda riga; il 4° invece è analogo formalmente, ma Tl non presenta analogia con K, Rb, Cs. Nei composti della quarta riga v'è analogia formale, di valenza e in parte anche chimica ma meno stretta che fra quelli della terza poiché K e Rb sono più analoghi chimicamente di K e Na. Finalmente fra i composti della quinta riga v'è solo analogia formale: non v'è analogia di valenza, poiché la somiglianza delle formule deriva da eguale valenza del catione e dell'anione: non v'è affatto analogia chimica. Ebbene, si constata eguaglianza (approssimativa) d'angoli fra i composti della stessa riga in I, II, III, IV; si ha il sinmorfismo in III e V. Mentre da una parte il sinmorfismo dei composti in III e l'assenza in IV farebbe credere che questo fenomeno richiedesse un'analogia chimica strettissima, dall'altra il sinmorfismo in V mostra che può bastare un'analogia puramente formale. Ciò vuol dire che il sinmorfismo è determinato da ragioni più complesse e riposte. Tali ragioni vennero espresse dal Grimme riferendosi agli studî recenti sulla costituzione dei cristalli mediante i raggi Röntgen, ma riteniamo prematuro parlare di tale argomento ancora in studio. Anche ammesso il principio che per avere il sinmorfismo fra due sostanze cristalline sia necessaria la quasi identità dei reticolati cristallini, con distanze pressoché uguali degli atomi o gruppi corrispondenti, resterebbe sempre a sapere quali condizioni determinano tali uguaglianze; perciò il problema sarebbe spostato e non risolto. Sembra che il fenomeno sia in relazione col diametro degli ioni o degli atomi sostituentisi, ma è indubitato che influisce anche la parte invariata.
Nel complesso, per stabilire l'isomorfismo fra due sostanze, il miglior criterio è quello dell'uguaglianza o quasi degli angoli. Misure esattissime di angoli fatte in serie di sali isomorfi mostrano che in realtà gli angoli corrispondenti non sono del tutto uguali ma presentano piccole differenze, tanto minori quanto più profonda è l'analogia. Ciò fa prevedere che fra corpi chimicamente e cristallograficamente diversi vi possono essere casi intermedî di corpi quasi analoghi e quasi isomorfi.
Infatti vi sono serie di corpi detti omeomorfi, di costituzione chimica abbastanza somigliante, che pure non potendosi dire isomorfi hanno tuttavia angoli e rapporti assiali assai vicini. Una di queste serie può indicarsi con la formula MIIIMIVA6I•6H2O dove MII è un elemento bivalente (Zn, Cd, Mg, Mn, Fe, Co, Ni, Cu), MIV un elemento tetravalente (Si, Sn, Ti, Zr, Pt) e AI un alogeno. Questi composti cristallizzano tutti nel sistema esagonale e l'asse disuguale (posti uguali a 1 gli altri) varia entro limiti abbastanza ristretti (da 0,5043 a 0,5310). Quanto alle relazioni generiche fra costituzione e sistema cristallino, è stato constatato che in generale alla maggiore semplicità della molecola corrisponde la maggior simmetria della formula cristallina. Le sostanze inorganiche di tipo più semplice (elementi e composti binarî) cristallizzano per solito nel sistema monometrico e, meno frequentemente, nell'esagonale. In sostanze un po' meno semplici predomina la forma esagonale; nelle più complesse successivamente la forma trimetrica e monoclina, quest'ultima frequentissima nei composti organici.
Le sostanze organiche si prestano allo studio sistematico delle modificazioni prodotte nella forma cristallina dalla sostituzione di atomi di H con altri elementi o gruppi. Questo studio si chiama morfotropia.
Il Groth, che per primo fece ricerche sistematiche in proposito, credette di riconoscere in certi elementi o gruppi delle forze morfotropiche atte a modificare in modo determinato e prevedibile la forma cristallina delle sostanze in cui venivano introdotte. Tali modificazioni dipenderebbero, secondo Groth, dalla natura chimica e dalla forma cristallina della sostanza primitiva, dalle speciali proprietà morfologiche degli elementi o gruppi sostituenti e infine dalla posizione di questi nella molecola. Il Groth, studiando specialmente derivati del benzene, stabilì le seguenti regole:1. la sostituzione d'un H con un OH o un NO2 non porta cambiamenti nel sistema cristallino, ma solo modificazioni nei rapporti assiali, prevalentemente in una direzione; 2. il Cl e Br sostituendo H producono profonde modificazioni conducendo ad altri sistemi di minor simmetria. Per es., il benzene è rombico, mentre il bicloro e tetraclorobenzene sono monoclini; 3. l'introduzione del gruppo CH3 produce forti modificazioni in vario senso.
Hintze trovò che in alcuni derivati della naftalina, sostituendo Cl si hanno addirittura prodotti isomorfi con quelli che si ottengono sostituendo Br. Per es., introducendo nel tetracloruro di monocloronaftalina C10H7ClCl4 un atomo di Br ovvero uno di Cl si hanno cristalli monoclini con gl'identici rapporti assiali e lo stesso angolo β. Hiritze chiama isomorfotropici quegli elementi o radicali che sostituiti nello stesso posto d'una determinata combinazione conducono a corpi isomorfi. Queste ricerche però non hanno portato a risultati generali; le regole stesse del Groth, limitate ai composti aromatici, non valgono in generale per i composti grassi.
Relazioni fra costanti fisiche varie e costituzione. - È stata trovata qualche relazione fra la solubilità di sostanze e la composizione. La solubilità di sostanze chimicamente analoghe è tanto più grande quanto più bassa è la temperatura di fusione. In accordo a queste relazioni fra solubilità e fusibilità si trovano in molte serie omologhe dei dati regolarmente varianti se si fa la distinzione in due sottoserie con un numero pari o dispari di atomi di carbonio.
Pascal ha trovato relazioni fra la suscettività magnetica e la composizione nelle sostanze organiche. La suscettività magnetica molecolare (suscettività specifica × peso molecolare) si può considerare la somma di suscettività atomiche e costitutive.
Le suscettività atomiche sono in generale negative, quelle costitutive positive; però la suscettività molecolare è sempre negativa.
Ecco tali costanti secondo Pascal:
Bibl.: H. I. Van't Hoff, Voerlesungen über theoretische Chemie, Brunswick 1898; R. Nasini, Relazioni fra le proprietà fisiche e la costituzione chimica, in Nuova Enciclop. Chimica del Guareschi, I, Torino 1906; W. Ostwald, Grundriss der allgemeinen Chemie, Lipsia 1909; J. Einselohr, Spektrochemie organischer Verdindungen, Stoccarda 1912; J. Eggert, Lehrbuch der physikalischen Chemie, Lipsia 1926.