Chiose Selmiane
Pubblicate per la prima volta da F. Selmi (nel 1865) su due codici fiorentini (Laurenziano 40, 46 e Magliabechiano VII 1028) queste postille alla prima cantica si trovano, parzialmente unite alla versione toscana del commento di Graziolo stampata dal Vernon, anche nel codice 7765 della Biblioteca Nazionale di Parigi (sigla P) e nello Strozziano 160 (sigla S). Il Rocca (Di alcuni commenti, pp. 85-86) indicò l'esistenza di altri codici, e particolarmente di un Marciano ital. CL. IX, CLXXIX (sigla M) che rispetto agli altri manoscritti presenta una lezione più ampia e più chiara, maggiormente affine a P-S.
I codici fiorentini seguiti dal Selmi recano invece una lezione in più luoghi compendiata e talora guasta, mentre " sembra che all'antico testo originale meglio s'accostino " P, S, M: nel quale ultimo codice si trova interpolato anche qualche luogo del Bambaglioli non presente in P-S. Di fronte a una situazione del genere, naturale che si pensasse a pubblicare anche la redazione Marciana delle Chiose; e ciò fece nel 1900 l'Avalle. Ed è di questa redazione che converrà discorrere brevemente, come della più completa. Il Selmi, quanto all'autore, inclinava a crederlo fiorentino; ma il Paur e lo Hegel pensarono genericamente alla Toscana, mentre il Mittarelli, nella descrizione del codice Marciano, vi vedeva un senese, e proponeva di identificarlo, senza fondamento, con Cecco di Meo di Mellone degli Ugurgieri. A un guelfo senese pensò anche il Rocca, per ragioni di lingua e di contenuto (pp. 122-126); ed è il massimo che si possa ricavare dalle Chiose. Quanto alla datazione, l'unico dato sicuro (terminus ante quem) è il 1337, data della morte di Federico d'Aragona; mentre nulla di più si ricava dalla certezza che il chiosatore ha conosciuto (pur servendosene in misura assai scarsa) i commenti di Iacopo e del Bambaglioli.
Quanto al valore intrinseco delle Chiose, noteremo anzitutto una mancanza di organicità e connessione, che si riflette anche nelle dichiarazioni del senso allegorico: si oscilla da un'attenzione per il dato economico e sociale (il traviamento di D. consisterebbe nell'aver egli abbandonato la scienza poiché " l'avarizia lo strignea sì forte... che del tutto abbandonò lo studio ") a una lettura in chiave ascetica (più che moraleggiante) per di più fondata su di un'equivoca polisemia ben lontana dal testo (ad es. Caronte è l'antico peccato, ma insieme rappresenta " le dilettazioni e le volontà dei vizi carnali ", mentre Virgilio è considerato sia personaggio reale che, summaticamente, mero emblema dei suoi libri e dell'effetto pedagogico ch'ebbero su D.; e anche Beatrice è intesa, negando che si tratti della Portinari, dapprima " per quella virtù che fa biate le cose " e poi per la Sapienza). Il tono della chiosa è sempre genericamente popolare, sia nelle parti storiche che in quelle mitologiche; anche gli accenni a fatti recenti sono spesso errati, e non mancano gravi fraintendimenti nella semplice dichiarazione letterale del testo. Nel complesso, l'opera è da consultare con cautela: si tratta di testimone relativamente antico ma poco fededegno.
Bibl. - Edizioni: Chiose Anonime alla prima Cantica della D.C., di un contemporaneo del Poeta [a c. di F. Selmi], Torino 1865; Le antiche Chiose anonime all'Inferno di D. secondo il testo marciano [a c. di] G. Avalle, Città di Castello 1900. Studi: J.B. Mittarelli, Bibliotheca Codicum manuscriptorum monasterii S. Michaelis Venetiarum, Venezia 1779, col. 212; C. Hegel, Ueber den historischen Werth der älteren Dante-Commentare, Lipsia 1878, 2-6; F. Pellegrini, Le Chiose all'Inferno edite da F. Selmi e il cod. Marc. Ital. CL. IX, n. 179, in " Giorn. stor. " XIV (1889) 421-431; id., Di un commento poco noto del sec. XIV alla prima cantica della D.C., Verona 1890 (per Nozze Cipolla-Vettone); L. Rocca, Di alcuni commenti della D.C. composti nei primi vent'anni dopo la morte di D., Firenze .1891, 79-126; E. Cavallari, La fortuna di D. nel Trecento, ibid. 1921, 193-196; F. Mazzoni, La critica dantesca del secolo XIV, in " Cultura e Scuola " n. 13-14 (1965) 293.