Chirurgia ortopedica
La pratica dell’ortopedia risale a epoche molto lontane. I primi dispositivi ortopedici, tra i quali una tavola di legno utile per ridurre lussazioni e fratture, sono presentati già nei testi ippocratici, del IV sec. a.C. All’interno del Corpus Hippocraticum (nel trattato Sulle articolazioni, attribuito a Ippocrate stesso) è anche descritta la tecnica, ancora utilizzata, per la riduzione della lussazione della spalla. Tuttavia, molto più recente è l’uso del termine ortopedia, comparso solo nel 1741. Fu il medico francese Nicolas Andry a coniarlo, a partire da due parole greche (orthós: diritto; paĩs, paidós: bambino), con riferimento alla disciplina che perseguiva l’obiettivo di correggere le deformità fisiche nei bambini. Sulla copertina dello stesso libro appare per la prima volta il simbolo dell’ortopedia: un albero torto legato tramite una corda a un’asta dritta infissa nel terreno. La nascita dell’ortopedia come pratica chirurgica va collocata nei decenni successivi, tra la fine del XVIII e il XIX secolo. Nel 1780, sorge in Svizzera presso Orbe, nel cantone di Vaud, il primo istituto destinato alla cura delle deformità nei bambini. A partire dai primi decenni dell’Ottocento, l’esercizio della chirurgia ortopedica ha luogo in istituti specializzati, tra i primi quello di Venel in Svizzera e quelli di Montpellier, Parigi e Lione. Proprio alla Francia spetta il riconoscimento del maggior contributo alla diffusione della chirurgia delle deformità. I primi interventi di correzione delle scoliosi sono stati infatti realizzati in istituti francesi, e la prima tenotomia sul tendine di Achille per la correzione dei piedi torti è stata eseguita nel 1816 a Montpellier da Jacques Delpech. In Italia, tra il 1823 e il 1840, a Torino, a Napoli e a Firenze sorgono i primi istituti ortopedici, allestiti sul modello di quelli francesi, destinati cioè alla cura delle deformità infantili.
Più recente è invece la chirurgia della mano, che si occupa in modo completo di tutte le malattie, e relativi problemi medico-chirurgici, che interessano la mano e ne determinano un deficit funzionale e doloroso. Tale disciplina nasce infatti solo nel XX sec., trovando un suo primo grande impulso evolutivo nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, in relazione all’esperienza maturata dai chirurghi generali e ortopedici nel trattamento dei traumi bellici. In un primo momento in Europa, soprattutto in Francia e Germania, e poi negli Stati Uniti, da quest’enorme esperienza comincia a emergere la figura del chirurgo della mano e si evidenziano i primi studi e i contributi dei pionieri di quella che è attualmente un’alta specializzazione. Negli anni Sessanta del Novecento, grazie all’avvento della microchirurgia vascolare e nervosa periferica, si assiste alla nascita delle prime grandi scuole di chirurgia della mano ancora in Francia, Inghilterra, Australia e Italia.
L’approccio allo studio e al trattamento delle deformazioni dell’apparato scheletrico è stato rivoluzionato nel 1895, con la scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Conrad Röntgen e la conseguente introduzione della radiografia diagnostica. Da allora, lo sviluppo è stato enorme. I nuovi mezzi diagnostici si sono combinati all’evoluzione dei materiali utilizzati, grazie all’impiego sempre più ampio di prodotti utilizzati dall’industria aerospa-ziale, ceramiche, sostanze plastiche e leghe metalliche, che presentano importanti caratteristiche meccaniche e maggiore tollerabilità locale. Ciò ha consentito una migliore tenuta delle osteosintesi metalliche e una più efficace funzionalità delle protesi articolari, associata a una biocompatibilità quasi totale degli impianti. Attualmente, più di ogni altra disciplina chirurgica, l’ortopedia si avvale di una raffinata scelta di materiali e del sempre maggiore contributo della tecnologia.
L’utilizzo della chirurgia ortopedica in ambito pediatrico riguarda soprattutto alcune malformazioni relativamente frequenti: il piede torto congenito, il piede piatto, le scoliosi gravi e la displasia congenita dell’anca, in alcune particolari condizioni.
È una grave e complessa malformazione del piede presente alla nascita, caratterizzata da una deviazione viziosa e permanente degli assi anatomici fra loro e rispetto a quelli della gamba. Ne segue una modificazione dei normali punti di appoggio del piede e un’alterazione del movimento. Ogni anno in tutto il mondo nascono più di 100.000 bambini affetti da questa patologia (l’80% dei quali nei Paesi in via di sviluppo), che interessa prevalentemente il sesso maschile (1 su 1000 nati in Italia, con rapporto di 3 a 1) ed è spesso bilaterale. La malformazione è presente nel feto a partire già dall’undicesima settimana di gestazione, anche se difficilmente viene diagnosticata con un esame ecografico prima della sedicesima. Il piede torto, così come la displasia dell’anca e la scoliosi idiopatica, è dunque una malformazione dello sviluppo.
La diagnosi certa, però, si ha di solito alla nascita. La varietà che rappresenta circa il 75% dei casi è il cosiddetto piede equino-varo-supinato-addotto: il piede presenta contemporaneamente equinismo (l’appoggio avviene solo sull’avampiede), varismo (l’asse longitudinale del calcagno è deviato all’interno rispetto all’asse longitudinale della gamba), supinazione (rotazione in modo tale che la pianta è rivolta all’interno) e adduzione (l’avampiede è piegato verso l’interno). In pratica, l’appoggio al suolo avviene solo sul margine esterno del piede e sull’avampiede ed è, inoltre, sempre presente un’ipotonotrofia della muscolatura della gamba. Altri tipi di piede torto meno frequenti sono il piede talo-valgo-pronato, il metatarso addotto o supinato e il piede piatto reflesso.
La prognosi di questa patologia è strettamente correlata alla precocità del trattamento terapeutico e al grado di deformità. Se, infatti, la malformazione viene trascurata si instaurano progressivamente delle alterazioni secondarie sia del piede sia di altri distretti quali: ginocchio, anca e colonna vertebrale. Inizialmente il trattamento è conservativo, ma può diventare cruento se il risultato funzionale raggiunto non è accettabile. Esso si basa sullo svolgimento di modellamenti manuali nel senso contrario alle deformazioni, eseguendo per 5-6 volte al giorno manovre lente e graduali, evitando così lo schiacciamento dei nuclei di accrescimento e consentendo l’adattamento delle strutture vasculo-nervose rispetto le nuove posizioni. Segue il confezionamento di apparecchi gessati femoro-podalici a ginocchio flesso che vanno ripetuti ogni 14÷20 giorni per almeno due mesi. Se la deformità non migliora nonostante il modellamento manuale è fondamentale ricorrere all’intervento chirurgico, che può prevedere interventi semplici sulle parti molli (allungamento del tendine di Achille o l’esecuzione di una capsulotomia posteriore dell’articolazione tibiotarsica) o interessare le articolazioni posteriori e mediali del piede e l’allungamento dei tendini mediali accorciati (intervento di Codivilla). Gli interventi sullo scheletro escludono le recidive o le conseguenze dei piedi torti trascurati.
Il trattamento del piede torto congenito è andato incontro negli anni a sviluppi e miglioramenti, soprattutto in seguito agli ottimi risultati ottenuti dopo l’introduzione di una tecnica più efficace e meno invasiva: il cosiddetto metodo Ponseti, sviluppato negli anni Cinquanta del Novecento dal chirurgo argentino Ignacio Ponseti, e successivamente perfezionata. Secondo questa tecnica il trattamento del piede torto congenito può essere intrapreso, se possibile, subito dopo la nascita. È quindi importante una diagnosi precoce, per poi correggere questa malformazione con l’applicazione di cinque o sei apparecchi gessati successivi a ginocchia flesse e, in molti casi, con la tenotomia percutanea del tendine di Achille, essenziale per la correzione definitiva dell’equinismo. Segue un periodo durante il quale è opportuna una stabilizzazione che consenta di conservare il grado di correzione raggiunto attraverso l’utilizzo di un tutore che mantiene il piede in abduzione e va indossato durante la notte fino a un età che può andare dai 2 ai 4 anni. Il ripristino delle funzionalità del piede è stato ormai dimostrato in studi di follow up durati anche trentacinque anni.
È una deformità relativamente frequente che consiste nella riduzione o scomparsa della volta plantare longitudinale mediale. È caratterizzata da una deviazione in pronazione del retropiede (extrarotazione rispetto all’asse longitudinale del piede), supinazione dell’avampiede (intrarotazione rispetto all’asse longitudinale del piede), mentre l’astragalo scivola in avanti, medialmente e in basso. Questa patologia spesso è dovuta a una lassità capsulo-legamentosa o all’insufficienza dei muscoli responsabili del mantenimento della volta longitudinale mediale (definiti perciò muscoli cavizzanti, quali il tibiale posteriore, il peroniero lungo, il flessore comune delle dita e il flessore lungo dell’alluce). È un problema che solitamente si supera con la crescita, con l’evoluzione spontanea verso lo sviluppo di un piede normale con gli archi plantari ben rappresentati entro i 7-10 anni: il grado di valgismo del piede, che esprime la gravità del piede piatto, si riduce spontaneamente con lo sviluppo e la maturazione ossea, e quindi solo una ridotta percentuale dei casi arriva al trattamento chirurgico. È fondamentale eseguire un’accurata diagnosi differenziale tramite un esame obiettivo e radiografico, valutando inoltre il paziente sia sotto carico sia fuori carico, concentrandosi in particolar modo sulla deambulazione.
Prima dei due anni d’età bisogna evitare la correzione di un piede clinicamente piatto. In questa fascia d’età, infatti, vi è la presenza di una bolla adiposa plantare che simula una condizione di apparente piattismo. La terapia incruenta prevede l’utilizzo di plantari realizzati in cuoio o in diversi materiali moderni. Altrettanto valido è associare esercizi fisiocinesioterapici che possono agire sinergicamente al plantare. Sarà opportuno eseguire dei controlli periodici per valutare la validità del trattamento, e solo se a fine crescita la deformità non è stata corretta adeguatamente è necessario l’intervento chirurgico.
Attualmente si corregge il piede piatto in modo mininvasivo a partire dai 10-12 anni. In particolare, la tecnica prevede un’incisione nel piede sotto il malleolo esterno e l’introduzione per via percutanea di una vite di calibro adeguato tra astragalo e calcagno, oppure una vite astragalica con funzione di calcaneo stop. Questo intervento determina la correzione del piede piatto in modo definitivo. La vite può essere realizzata in acido polilattico e dopo 3-4 anni, esaurita la sua funzione, viene riassorbita dai tessuti. Se la vite non è riassorbibile l’eventuale rimozione della stessa avverrà alla fine dello sviluppo. I risultati eccellenti di queste metodiche mininvasive sono ormai confortate da follow up di oltre dieci anni e da continui confronti con altre metodiche. Purtroppo, però, la tecnica chirurgica non è applicabile in tutti i casi, che andranno selezionati in base a una valutazione biomeccanica e radiologica, al fine di ottenere risultati eccellenti.
È una deformità laterale della colonna vertebrale sul piano frontale associata a una rotazione del corpo vertebrale (rotoscoliosi); è proprio quest’ultimo elemento che distingue la scoliosi ‘vera’ o ‘strutturata’, cioè il vero e proprio dimorfismo del rachide, dall’atteggiamento scoliotico, paramorfismo di frequente osservazione e con tendenza a una risoluzione spontanea. La scoliosi è invece a carattere evolutivo, e tende a peggiorare lentamente fino al termine dell’accrescimento scheletrico, in particolar modo in corrispondenza dello sviluppo puberale (periodo di massimo aumento della statura). Tuttavia, anche in età adulta si può verificare un persistente peggioramento della deformità (ca. 1 grado all’anno). Lo scopo principale del trattamento è quello di arrestare l’evolversi della patologia: molto spesso, infatti, il ripristino del normale allineamento della colonna non è ottenibile neanche chirurgicamente. Il successo dell’intervento è quindi strettamente correlato alla precocità di una diagnosi corretta. Fattori prognostici fondamentali sono l’età del paziente (tanto più precoce è l’insorgenza della scoliosi maggiore sarà il suo potenziale evolutivo e quindi la prognosi), dall’entità della curva (misurata in gradi con il metodo di Cobb) e della rotazione vertebrale, dalla localizzazione della curva (peggior prognosi nelle forme dorsali e dorsolombari).
Il trattamento può essere incruento (fisiocinesiterapia e corsetti amovibili o gessati) o cruento; spesso questi sono provvedimenti simultanei e/o successivi, poiché nessuno di essi da solo risulta efficace. La fisiocinesiterapia è basata sulla ricerca di una stabilizzazione attiva delle curve tramite l’esecuzione di precisi esercizi che hanno la funzione di stimolare la muscolatura paravertebrale e riequilibrare i movimenti del tronco. I corsetti, invece, basano il loro utilizzo sulla ricerca di un’autocorrezione attiva da parte del paziente, come accade per il busto Milwaukee. Esso è composto da un canestro pelvico sormontato da tre aste raccordate da un collare con appoggi occipitomentonieri. Altri tipi di busti (Boston, Chenau, Lyonese) svolgono una correzione passiva della deformità, tramite l’applicazione di spinte e controspinte capaci di correggere sia la curva scoliotica sia le gibbosità. Solo in alcuni casi selezionati vengono applicati i corsetti gessati che vengono realizzati su specifici letti ortopedici di riduzione.
Il trattamento cruento è invece utilizzato in tutte quelle forme di grave scoliosi nelle quali la fisiocinesiterapia e i corsetti ortopedici non hanno avuto successo. L’intervento consiste nella correzione della curva seguita dalla realizzazione di artrodesi delle vertebre comprese nella curva stessa (fusione di più vertebre eseguita apponendo innesti ossei sui processi articolari e sulle lamine) e conseguentemente sulla loro stabilizzazione con mezzi di sintesi metallici. Quando serve si possono prelevare innesti ossei dalle ali iliache, eventualmente integrati con sostituti ossei. Nel periodo postoperatorio il recupero è rapido, e il paziente può alzarsi e camminare già a due giorni dall’intervento chirurgico. L’applicazione di tutori è destinata ai casi di marcata osteopenia.
Schematicamente, il trattamento della scoliosi può essere suddiviso come segue: (a) curve fino a 20 gradi: fisiocinesiterapia e sorveglianza clinica, soprattutto durante gli anni dello sviluppo; (b) curve tra 20 e 40 gradi: applicazione di corsetti accompagnati da esercizi precisi da svolgere con il busto; (c) curve sopra i 40 gradi: trattamento chirurgico.
È un’affezione ereditaria caratterizzata alla nascita dall’alterazione dello sviluppo e della conformazione dell’articolazione coxo-femorale, da lassità capsulo-legamentosa e da retrazione muscolo-tendinea. Per questi motivi dopo la nascita l’anca tende a sublussarsi o a lussarsi. Colpisce sopratutto individui di sesso femminile e quasi nel 50% dei casi è bilaterale. Spesso alla nascita l’anca displasica non è ancora lussata ma risulta comunque lassa. Per determinarne la lussazione esiste una manovra ortopedica patognomonica di questa patologia, definita manovra di Ortolani-Barlow. Essa consiste nella sensazione di uno scatto durante l’abduzione e l’extrarotazione dell’anca con il neonato in posizione supina ad anche flesse a 90°. Eseguendo la manovra inversa si ottiene la riduzione manuale della lussazione stessa. Oltre all’attento esame clinico, anche l’ecografia e l’esame radiografico dell’anca sono molto utili per ottenere una diagnosi corretta.
Per un trattamento efficace risultano di fondamentale importanza l’età del paziente e lo stadio della patologia. Quando la patologia viene diagnosticata durante le prime settimane di vita (anca displasica, ma non lussata), si possono applicare dei tutori che consentono di far rimanere l’anca nella sua posizione naturale, ovvero ben centrata nell’acetabolo. Il paziente eseguirà a distanza dei controlli ecografici e radiografici al fine di monitorare l’andamento del trattamento; spesso si evidenzia un normale sviluppo dell’articolazione. Viceversa, nel caso di una diagnosi più tardiva (dopo il sesto mese) non solo cambia il tipo di trattamento ma, poiché nel frattempo si è venuta a instaurare una sublussazione o addirittura una lussazione franca, si altera la possibilità di successo del trattamento stesso. In particolare occorre prima di tutto eseguire una riduzione della testa femorale risalita; alcune volte ciò può essere ottenuto con una terapia incruenta, attraverso l’applicazione di una trazione progressiva cutanea e susseguente immobilizzazione in gesso. A volte, però, questo trattamento non dà il successo sperato a causa dell’interposizione di tessuti molli o per la rigidità dei muscoli retratti. In questi casi si ricorre a una riduzione a cielo aperto (eseguendo eventualmente anche allungamenti miotendinei e accorciamenti femorali) con seguente immobilizzazione in un primo momento con apparecchio gessato e poi con tutori. Infine, nei casi di lussazione inveterata è opportuno ricorrere a interventi chirurgici che hanno lo scopo di migliorare la capacità contenitiva dell’acetabolo (che in questi casi è scadente) con interventi di tettoplastica, osteotomie di bacino, oppure correggere la coxa valga antiversa con interventi di osteotomia di centramento femorale.
Una branca molto importante della chirurgia ortopedica è quella della sostituzione protesica di articolazioni non più funzionalmente efficienti. Si tratta di sostituire le superfici articolari con componenti protesiche di materiale biocompatibile. I sintomi che più spesso rendono necessario il ricorso a tale tipo di chirurgia sono il dolore e la perdita del normale range of motion (ROM o articolarità). A seconda dell’articolazione coinvolta, questi sintomi possono avere conseguenze invalidanti o inabilitanti per il paziente.
In termini epidemiologici la chirurgia protesica ha avuto un notevole incremento negli ultimi anni. Questo fatto può essere spiegato alla luce del fatto che, a fronte di un significativo aumento della vita media, da parte dei pazienti vi è la richiesta di una migliore qualità della vita, mentre vi è la necessità di dover garantire al paziente la propria autonomia. A queste richieste l’intervento risponde in maniera eccellente, portando benefici sia in termini di risoluzione della sintomatologia dolorosa, sia in termini della restituzione dell’autonomia e del movimento. Nella decisione di intraprendere un intervento sostitutivo (o artroplastica) ci sono importanti parametri da considerare: le condizioni del soggetto, la mono- o bilateralità della patologia, il grado della compromissione anatomopatologica e l’efficienza dei gruppi muscolari periarticolari. L’acquisizione di una sempre maggiore esperienza unita all’elevato grado di ottimizzazione raggiunto sotto l’aspetto tecnologico (design, biomateriali, tecniche chirurgiche, strumentari ecc.) ha consentito di allargare le indicazioni a molte patologie: (a) patologie articolari di tipo degenerativo (artrosi, la causa più frequente); (b) le forme artritiche (artrite reumatoide ecc.); (c) l’osteonecrosi; (d) la sublussazione e la lussazione congenita (nel caso dell’anca); (e) i tumori ossei; (f) le fratture. Tuttavia nonostante i progressi fatti sarebbe un errore pensare all’artroplastica come unico possibile trattamento. Dovrebbe essere considerato infatti un piano terapeutico diversificato sulla base del tipo di malattia, dell’età, dell’attesa di vita del paziente ma anche in base all’esistenza di alternativeconservative (di natura fisioterapica e/o infiltrative) ochirurgiche: artroscopia, core decompression (osteonecrosi della testa del femore), osteotomie.
Quando viene indicato l’intervento il planning preoperatorio si effettua sulle radiografie dell’articolazione da trattare, e all’osservazione si accompagnano la misurazione ed eventualmente la scelta del mezzo di fissazione. Un altro fattore importante della chirurgia protesica è il successivo e necessario trattamento fisioterapico, volto al recupero del tono della muscolatura attivatrice dell’articolazione stessa in modo da stabilizzare l’artroprotesi, riducendo così il rischio di lussazioni, ma soprattutto per un precoce recupero della stazione eretta e della deambulazione dopo interventi all’anca o al ginocchio. Va infine sottolineato che, nonostante i continui miglioramenti e nella tecnica chirurgica e nei materiali delle componenti stesse, non si deve pensare alla protesi come a qualcosa di eterno: tutte le protesi possiedono una vita media di diversi anni ma che, essenzialmente, dipende dal tipo di impiego che il paziente ne fa.
La causa più comune del fallimento di un’artroprotesi è la mobilizzazione asettica che dipende dal verificarsi di due fenomeni: l’usura delle superfici articolari e la reazione biologica che deriva dalla liberazione di particelle dalle componenti protesiche. Infatti l’associazione tra usura volumetrica e riassorbimento osseo periprotesico è in relazione al numero di particelle biologicamente attive rilasciate dall’usura della protesi stessa. La risposta biologica è di tipo infiammatorio e un ruolo importante lo assumono i macrofagi e le cellule giganti. Questi fagocitano i detriti liberati, attivano i fibroblasti, formano granulomi e, liberando citochine, attivano il processo di riassorbimento nell’osso prospiciente l’impianto causandone la mobilizzazione e quindi il fallimento dell’artroplastica. Sono quindi necessari dei controlli di routine nei pazienti protesizzati, poiché la maggior parte di lesioni litiche in presenza di una componente stabile sono assolutamente asintomatiche.
È un intervento che costituisce una soluzione sempre più diffusa a numerose patologie invalidanti. In generale, l’indicazione all’artroplastica coxofemorale scaturisce dalla valutazione di due sintomi fondamentali: il dolore e la riduzione della funzione articolare residua. Sono attualmente disponibili diversi modelli di protesi totale di anca con una grande varietà di modelli sia delle componenti acetabolari sia di quelle femorali. Nessun modello tuttavia può essere considerato ideale per tutti i tipi di pazienti. La scelta della tipologia si basa sulle necessità del paziente, sull’aspettativa di vita, sullo stile di vita, sulla morfologia, le dimensioni e la qualità dell’osso, nonché sull’esperienza del chirurgo.
Le artroprotesi di anca, che da sole costituiscono circa il 65% di tutti gli interventi di chirurgia protesica in ortopedia, possono essere classificate in base a vari fattori. Biomeccanicamente possiamo distinguere due tipi di protesi: di distribuzione di carico, dette load sharing device, che trasmettono il carico direttamente all’osso diafisario (steli femorali cementati e non); e di trasferimento di carico, dette load transfer device, che lo trasmettono a una porzione epifisaria (protesi di rivestimento) o alla porzione cortico-spongiosa della pelvi (coppa acetabolare). Nelle prime è importante il mantenimento di una forza compressiva risultante più vicina possibile al normale, così per non modificare la distribuzione dei carichi all’interfaccia tra protesi e osso. Le protesi a trasferimento di carico presentano diversi vantaggi rispetto alle precedenti perché sono più conservative. Infatti, non vengono assolutamente modificate l’anatomia dell’anca nell’off-set (ovvero la distanza tra centro articolare e diafisi), la lunghezza dell’arto, il grado di antiversione del collo del femore, la distribuzione del carico al femore prossimale. Ciò comporta inoltre un minor rischio di lussazione.
Riguardo la tecnica di fissazione all’osso si distinguono invece le protesi cementate da quelle non cementate. Talvolta può essere necessario ricorrere a due tipi diversi di fissaggio sullo stelo e sul cotile. Dall’uso del cemento solo per l’ancoraggio dello stelo nascono le protesi ‘ibride’; se invece è solo la componente acetabolare a essere cementata la protesi viene detta ‘ibrida inversa’. Considerando le dovute eccezioni, la scelta dell’eventuale uso del cemento si effettua in base alla misura del cortical index (spessore delle corticali in rapporto alle dimensioni del canale midollare), il cui valore normale è compreso tra lo 0,42 e lo 0,58; per valori superiori allo 0,50 si avrà l’indicazione per l’uso di protesi non cementate altrimenti ci si orienterà verso impianti cementati o ibridi. Si deve inoltre evidenziare l’importanza di un tono muscolare adeguato nei pazienti con elevata attività di carico: l’insufficienza muscolare (risolvibile con il prolungamento del programma riabilitativo) potrebbe infatti portare alla mobilizzazione dell’impianto. Nel decorso postoperatorio possono essere utilizzati diversi strumenti di valutazione, tra cui l’analisi di schede compilate dal paziente per valutare nel tempo il dolore e la funzione articolare, e l’esame radiografico al fine di ricercare zone di radioluminescenza od osteolisi.
Un’ulteriore classificazione può essere fatta in base alla scelta dell’accoppiamento, ovvero la scelta dell’abbinamento tra la testa femorale e la coppa acetabolare. La coppia usata più comunemente è polietilene-metallo. Possibili sono poi gli accoppiamenti ceramica-ceramica (utilizzato soprattutto nei pazienti giovani perché poco soggetti alla usura ma purtroppo anche molto costosi), ceramica-polietilene e metallo-metallo.
Un’ultima considerazione deve essere fatta: in seguito all’aumento della vita media della popolazione, e alle sempre maggiori richieste funzionali da parte dei pazienti, bisogna tener presente che molte protesi avranno bisogno di un intervento di revisione di una o di entrambe le componenti. A questo riguardo, è di fondamentale importanza la conservazione del bone stock. Gli interventi di revisione rappresentano ormai una parte sempre più ampia degli interventi di artroprotesi di anca. Per questo motivo nei pazienti giovani si fa ricorso a protesi di rivestimento o a conservazione di collo che permettendo una maggior salvaguardia del patrimonio osseo facilitano gli eventuali interventi di riprotesizzazione.
L’uso delle protesi nel ginocchio rappresenta la soluzione dell’ultimo stadio dell’artrosi di tale articolazione. L’articolazione del ginocchio è composta da tre ossa e da tre compartimenti: mediale (condilo femorale mediale e piatto tibiale mediale), laterale (condilo laterale e piatto laterale) e femoro-rotuleo (rotula e troclea femorale). Le protesi possono sostituire anche tutti e tre i compartimenti.
Le protesi monocompartimentali vengono usate quando il processo degenerativo riguarda un unico compartimento. Ciò ha luogo fondamentalmente nelle deviazioni assiali dell’arto inferiore, che aumentano il carico, per unità di superficie, supportato dal singolo compartimento. Il sovraccarico che ne deriva eccede la resistenza della cartilagine determinandone il deterioramento. I pazienti destinati all’intervento sono relativamente giovani e presentano un dolore localizzato al comparto mediale o laterale che aumenta in relazione all’impegno funzionale e al carico. È importante valutare nei candidati l’allineamento degli arti in appoggio monopodalico e dell’allineamento meccanico tramite una radiografia in ortostatismo effettuata da 1 m di distanza e includendo anca ginocchio e caviglia. Non tutte le deformità assiali possono infatti essere corrette con questo tipo di protesi, masolo quelle che non superino i 10° divalgismo o varismo rispetto ai valori normali. Le controindicazioni sono diverse: oltre alla deformità eccessiva, le artropatie infiammatorie, la lassità legamentosa (che genera un carico anomalo e maggiore usura dell’impianto e quindi un precoce fallimento), una sindrome femoro-rotulea, e le aspettative del paziente (che dovrà evitare sovraccarichi per aumentare la longevità dell’impianto) limitano l’utilizzo dell’impianto. Il vantaggio delle protesi monocompartimentali è che eliminano il dolore (in pazienti selezionati) salvaguardando il patrimonio osseo. L’intervento di revisione in caso di fallimento è relativamente più semplice rispetto a quello successivo a una protesi totale.
L’indicazione alla protesi totale del ginocchio è rappresentata solitamente da un grave processo artrosico che genera dolore non più controllabile con una terapia conservativa. Anche la deformità, legata al processo artrosico, può divenire la principale indicazione all’intervento qualora minacci l’esito di un’artroprotesi già pianificata. Diversi sono i design protesici esistenti. Si possono distinguere in bi- o tricompartimentali a seconda che venga sostituita anche la faccia articolare della rotula. La decisione sulla sostituzione della superficie articolare rotulea si basa sul grado di degenerazione. Il rischio è quello della persistenza di dolore del ginocchio in sede anteriore. Solitamente le superfici articolari sono costituite da metallo, per la componente femorale e polietilene, per quella tibiale e rotulea.
Biomeccanicamente le artroprotesi vengono distinte a seconda che conservino o meno il legamento crociato posteriore (LCP). A favore della conservazione del legamento vi è la possibilità di un più ampio range di movimento, la maggiore stabilità negli spostamenti di traslazione del ginocchio, la migliore conservazione della cinetica del passo, la minore resezione ossea per il posizionamento della componente femorale e il migliorato funzionamento della femoro-rotulea. Tuttavia, vi sono anche ragioni a favore del sacrificio dell’LCP. Infatti, non sempre il legamento è valido, e tali protesi garantiscono maggiore sicurezza nella correzione di deformità accentuate e contemporaneamente un minor tasso di usura (si ha maggiore congruenza delle superfici articolari sul piano sagittale che si traduce in minori stress del polietilene tibiale). In entrambe le tipologie protesiche è comunque importante effettuare un bilanciamentolegamentoso. Sono ammessi giochi di 1-2 mm in direzione laterale: un eccessivo gioco potrebbe infatti renderenecessario, infatti, l’utilizzo di protesi vincolate (a cerniera).
Va inoltre tenuto presente che l’artroprotesi di ginocchio ha un’aspettativa di vita limitata, inversamente proporzionale al livello di attività. Il candidato ideale è quindi un paziente an-ziano con uno stile di vita piuttostosedentario, per il quale è presente un aspetto emotivo da non sottovalutare: il miglioramento dello stato funzionale si ripercuote sul recupero dell’indipendenza e della stima di sé.
Tale protesi è stata sviluppata intorno agli anni Settanta del secolo scorso come alternativa all’artrodesi nell’osteoartrosi avanzata dell’articolazione tibio-tarsica, ma ben presto il numero eccessivo di complicanze ne ha reso impopolare l’utilizzo. Recentemente, grazie al miglioramento della tecnica chirurgica e al miglior design protesico (che determina una diminuzione della resezione ossea pur offrendo una maggiore stabilità), si sono ottenuti risultati incoraggianti a breve termine. Tuttavia il rinnovato interesse per le protesi di seconda generazione rimane condizionato dalla storia insoddisfacente dei primi impianti, dalle fastidiose complicanze (che riguardano la guarigione della ferita che in più del 40% dei casi avviene in seconda intenzione: i tessuti infatti sono meno vascolarizzati di quelli in altri distretti) e dalla dif-ficoltà delle procedure di salvataggio e di revisione. Imodelli di prima generazione potevano essere distintiin vincolati e non. I primi trasferivano in modo eccessivo forze di taglio, di compressione e di rotazione, associate al carico, su una superficie relativamen-te piccola dell’interfaccia osso-protesi, causando una mobilizzazione precoce. I secondi invece, pur determinando un minore scollamento delle componen-ti, erano instabili e determinavano un conflitto con il malleolo o con i tessuti molli. Le protesi di seconda gene-razione si distinguono in protesi con superficie in carico mobile o fissa. Quelle del primo tipo hanno una componente in polietilene interposta tra la componente astragalica (convessa), e quella tibiale (piatta), avendo, di fatto, due distinte superfici articolari. I dispositivi con superficie in carico vincolata hanno un’unica articolazione tra la componente tibiale e quella astragalica.
Il candidato ottimale all’intervento è una persona anziana, con basse richieste funzionali e artrosi articolare multipla. Nell’atto chirurgico una volta posizionate le componenti protesiche bisogna effettuare la ricostruzione di legamenti, ed è essenziale ottenere una tensione uguale e adeguata nei complessi legamentosi deltoideo e laterale. Un’eccessiva lassità legamentosa può portare a instabilità, soprattutto nelle protesi con componente intermedia mobile. Nonostante i risultati a medio termine siano promettenti non è ancora giustificata la diffusione della protesi totale di caviglia al di fuori dei centri di ricerca.
Questo tipo di protesi ha avuto un minore sviluppo rispetto a quella di altre articolazioni sottoposte a carico perché meno interessata da patologie di tipo degenerativo, le quali sono inoltre meno debilitanti. La maggior parte delle sindromi dolorose sono infatti legate a lesioni dei tessuti molli. Le cause del ricorso alla chirurgia sono le stesse di tutta la chirurgia protesica: un dolore non rispondente alla terapia conservativa e una limitazione funzionale rilevante. Osteoartrosi e artrite reumatoide sono i fattori eziologici più comuni, seguite dall’osteonecrosi. La rottura massiva della cuffia dei rotatori viene considerata una controindicazione relativa (in questi casi la funzione muscolare viene vicariata mediante trasposizioni miotendinee) così come la perdita di funzione del deltoide. Infezioni in fase attiva e la spalla neuropatica rappresentano le controindicazioni assolute.
La pianificazione preoperatoria è molto importante e si basa sullo studio radiografico dell’articolazione; la risonanza magnetica è utile a indagare le condizioni della cuffia dei rotatori e l’estensione del danno cartilagineo. Schematicamente una prima distinzione può essere effettuata tra emiartroprotesi (endoprotesi), con sostituzione della sola testa omerale, e artroprotesi. La scelta tra le due opzioni è ancora dibattuta. La prima presenta un tempo operatorio più breve, è di più facile esecuzione, può essere utilizzata nei pazienti con rottura massiva della cuffia ma offre minor controllo del dolore; la seconda invece agisce in maniera più efficace sul dolore (le superfici articolari della testa omerale e della glenoide vengono entrambe sostituite). I risultati funzionalmente migliori quando si utilizza questo tipo di protesi sono nella cura dell’osteoartosi, in quanto generalmente la cuffia dei rotatori è intatta e il bone stock buono; nel paziente con artrite reumatoide la presenza di una sofferenza miotendinea influisce negativamente.
Tra le protesi totali di spalla è possibile la distinzione tra artroprotesi diretta e inversa. La seconda, che presenta una superficie convessa sul versante glenoideo e uno concavo su quello omerale, sembra garantire migliori risultati funzionali nel paziente anziano e con rottura della cuffia dei rotatori.
La necessità di una ricostruzione anatomica perfetta rappresenta il prerequisito necessario per un buon risultato. Importante in questo senso è il mantenimento della superficie articolare della testa a circa 8÷10 mm dalla grande tuberosità (in senso craniale). L’offset, la distanza che intercorre tra la porzione laterale della coracoide e il margine laterale della grande tuberosità, è importante per il mantenimento dei bracci di leva del muscolo sovrascapolare e deltoide.
Naturalmente all’intervento segue un lungo percorso riabilitativo volto al recupero del tono muscolare e quindi del movimento e della funzione articolare. Controlli periodici clinico-radiografici devono essere effettuati per diagnosticare precocemente l’eventuale usura e/o mobilizzazione delle componenti.
L’artroscopia è una procedura chirurgica utilizzata sia a fini diagnostici sia chirurgici. Negli ultimi anni le indicazioni sono cresciute notevolmente grazie al miglioramento dello strumentario e delle tecniche chirurgiche. Lo strumentario si compone di un artroscopio a fibre ottiche, costituito da un sistema di lenti circondato da fibrille di vetro che conducono la luce (il diametro, l’angolo d’inclinazione e il campo visivo sono le peculiarità che distinguono i vari artroscopi), di sorgenti luminose a fibre ottiche e di telecamere che insieme a palpatori, forbici, pinze (basket e da presa), bisturi, laser, cutter e shaver (che elimina e aspira la parte di tessuto danneggiato), completano lo strumentario. Sono inoltre necessari sistemi di irrigazione, in quanto irrigano e distendono l’articolazione.
L’artroscopia nasce come alternativa all’artrotomia, rispetto alla quale presenta numerosi vantaggi: minore morbilità postoperatoria (i tempi di recupero sono minori), minore risposta infiammatoria (che si traduce in un minor dolore e una riabilitazione più rapida), incisioni cutanee più piccole, riduzione dei tempi e costi di ospedalizzazione (il ricovero dura solitamente 1-2 giorni), possibilità di realizzare interventi di difficile esecuzione con l’artrotomia (meniscectomia parziale), minore percentuale di complicanze e una diagnosi più accurata. Gli svantaggi sono irrisori se paragonati ai vantaggi ma comunque presenti: necessità di lavorare entro spazi stretti, possibilità di danneggiare le strutture intrarticolari, strumenti fragili, delicati e molto costosi.
Recentemente l’artroscopia si è arricchita di una nuova grande possibilità offerta dalla ricerca nel campo della biologia cellulare. Per trattare gravi difetti isolati e a tutto spessore è stato infatti sperimentato, con risultati molto promettenti, l’utilizzo un tessuto di riparazione simile alla cartilagine ialina sotto l’aspetto morfologico, funzionale e istologico, ottenuto grazie al trapianto di condrociti autologhi. L’attecchimento del trapianto è condizionato da vari fattori: l’età del paziente (un paziente giovane tra i 15 e i 20 anni mostra i risultati migliori), la durata della sintomatologia (minore di due anni), la localizzazione della lesione (difetti sulla troclea o sul condilo femorale esterno rispondono meglio dei difetti sul condilo mediale o sulla rotula) e il numero delle lesioni (più lesioni ci sono peggiori saranno i risultati). Controindicazioni all’intervento sono: l’obesità, l’osteonecrosi idiopatica, osteoartrosi. L’intervento è effettuato in due tempi: una prima artroscopia viene eseguita per diagnosticare il tipo di lesione e ottenere un piccolo prelievo cartilagineo in una superficie non di carico. Il materiale prelevato viene quindi inviato in laboratorio dove i condrociti sono isolati ed espansi su una matrice. A distanza di un mese si avrà un materiale mucoadesivo pronto per essere posizionato nel difetto cartilagineo senza la necessità di mezzi di fissazione.
Le articolazioni in cui è possibile l’impiego della tecnica artroscopica sono: polso, gomito, spalla, caviglia, ginocchio e anca. Il ginocchio è, senza dubbio, quella dove l’artroscopia trova una maggiore applicazione. L’intervento eseguito più di frequente è quello della resezione totale o parziale del menisco a seconda del tipo di lesione. Nella meniscectomia parziale vengono rimossi solamente i frammenti meniscali instabili come nelle lesioni a manico di secchia, e si preserva la porzione più periferica del menisco stesso, in grado di garantire stabilità e un certo grado di protezione alla cartilagine. Tuttavia, spesso il danno meniscale si estende anche alla porzio-ne più periferica della fibrocartilagine. Ciò accade soprattutto nelle lesioni del corno posteriore del menisco interno, che verrà quindi rimosso completamente (meniscectomia subtotale). La meniscectomia totale viene presa in considerazione quando questo è fortemente degenerato e distaccato dall’inserzione periferica. Nel rimuovere la lesione bisogna fare attenzione a regolarizzare bene i margini, evitando di spargere frammenti nell’articolazione. L’asportazione della lesione meniscale non rappresenta comunque l’unico tipo di trattamento; in casi selezionati può essere attuata una meniscoplastica (la riparazione della lesione per mezzo di un ago).
Altri interventi che vengono effettuati artroscopicamente nel ginocchio sono: la riparazione del menisco discoide, l’asportazione di cisti meniscali, il debridment (ossia un lavaggio, per liberare il ginocchio da eventuali corpi liberi, con successiva regolarizzazione delle cartilagini articolari), resezione delle pliche sinoviali, cura dell’osteocondrite dissecante, della condromalacia rotulea (con il release laterale) e ricostruzione dei legamenti crociati. Quest’ultimo intervento prevede la loro sostituzione con un materiale che sia in grado di offrire rigidità e resistenza al carico tali da garantire una buona tenuta meccanica. Per soddisfare tali richieste funzionali, si possono utilizzare i legamenti rotulei, i tendini quadruplicati degli ischiocrurali e (usato meno comunemente) quello del quadricipite. La fissazione può avvenire con viti a interferenza, anche in materiale riassorbibile. Il recupero completo, che permetta anche il ritorno alla pratica sportiva, si ha intorno al sesto mese.
Lo scheletro può essere interessato, come gli altri distretti dell’organismo, da neoplasie di diverso tipo, che possono alterare la struttura dell’osso con ripercussioni sulla funzione e sulla resistenza meccanica del segmento osseo coinvolto. Tuttavia i tumori dello scheletro presentano uno spettro di gravità assai ampio che può includere non raramente quadri con prognosi infausta. Nell’ambito della patologia tumorale dello scheletro, si deve operare una prima distinzione tra tumori primitivi e metastasi ossee.
I tumori ossei primitivi sono classificati secondo un criterio istogenetico, ovvero in base al tipo di tessuto che essi formano: tessuto osseo (osteogenetici), cartilagine (condrogenetici), tessuto fibroso (fibrogenetici). Ciascun gruppo comprende forme benigne, con crescita espansiva più lenta, e maligne, ad alta invasività, con accrescimento di tipo infiltrativo e destruente. Si tratta di neoplasie relativamente rare: in Italia la loro incidenza è di 0,8÷1 caso per 100.000 abitanti cioè circa 500 nuovi casi all’anno.
Nelle forme benigne solitamente si asporta il tessuto neoplastico, svuotando la cavità prodotta dal tumore nel tessuto osseo, per riempirla successivamente con sostituti dell’osso o innesti ossei. Nel caso di un osteocondroma (esostosi) la neoplasia non crea una cavità ma si accresce esternamente alla superficie del segmento osseo, al quale è fissata tramite un peduncolo. In questo caso l’intervento consiste nell’asportazione del tumore attraverso sezione alla sua base d’impianto. In alcuni casi (osteoma osteoide) la neoplasia può essere distrutta attraverso la termoablazione, cioè introducendo nell’osso sonde che emettono onde ad alta frequenza. Le forme a malignità intermedia possono essere invece trattate con asportazione del tessuto neoplastico, associata all’impiego di sostanze adiuvanti locali (fenolo, crioterapia) nella cavità residua.
Sebbene l’approccio alle forme maligne sia di tipo multidisciplinare (chemioterapia, radioterapia), la chirurgia rappresenta il cardine della terapia. In particolare, la chemioterapia preoperatoria (neoadiuvante) e postoperatoria (adiuvante) con i farmaci antiblastici, associata alla chirurgia radicale della neoplasia, ha portato a un incremento delle percentuali di sopravvivenza dal 5% a più del 50% a 5 anni nel sarcoma osteogenico, il più frequente tumore osseo maligno. La terapia radiante trova indicazione in alcune forme (in particolare nel sarcoma di Ewing), in cui ha dimostrato grande efficacia.
La moderna chirurgia oncologica in ortopedia si basa su interventi di ampia resezione del segmento osseo colpito con tutti i tessuti molli contigui (resezioni compartimentali) e nella successiva sostituzione con innesti autologhi o omologhi, con trapianti ossei vascolarizzati o con protesi modulari. Se l’osso è ‘spendibile’ come nel caso del perone, dell’ala iliaca o di una costola, non sempre viene poi eseguito un intervento ricostruttivo. L’amputazione, in passato praticata nella quasi totalità dei tumori maligni, risulta indicata oggi solo in casi molto avanzati ed estesi, nei quali nessun’altra strategia chirurgica è in grado di garantire una resezione adeguata, o quando il sarcoma ha interessato il fascio vascolo-nervoso principale dell’arto.
Con l’aumento epidemiologico delle neoplasie maligne di altri distretti dell’organismo, anche le forme metastatiche dello scheletro sono sensibilmente aumentate negli ultimi anni. La metastasi ossea costituisce la più frequente forma di neoplasia maligna a livello dello scheletro. Il tessuto osseo rappresenta il terzo sito più colpito dal processo di metastatizzazione, dopo polmone e fegato. In ordine di frequenza le sedi primitive di origine della metastasi sono la mammella, la prostata, il polmone e il rene, più raramente la tiroide e l’apparato gastrointestinale.
L’affinamento dei protocolli chemioterapici e delle strategie radioterapiche, dotate di maggior effetto sulla neoplasia e minor tossicità sui tessuti sani, ha condotto all’incremento della sopravvivenza dei pazienti con patologia oncologica avanzata e al conseguente aumento del ricorso alla chirurgia ortopedica per le complicanze legate al processo di metastatizzazione.
L’ortopedico è chiamato ad agire non solo quando la lesione ossea causa un fallimento meccanico ma anche con interventi di carattere profilattico, così da evitare l’evento fratturativo (spesso percepito dal paziente come terminale nel decorso della malattia), e ridurre la sintomatologia dolorosa dovuta a micromovimenti a livello del focolaio metastatico.
L’indicazione al trattamento delle fratture patologiche o delle lesioni a rischio è stabilita in base alla valutazione di diversi parametri: condizioni generali del paziente, sede ed estensione della metastasi, grado di riassorbimento osseo, comportamento biologico della neoplasia, risposta alle terapie adiuvanti, caratteristiche del dolore. Tuttavia, la patologia tumorale può invalidare la capacità del paziente di sopportare interventi chirurgici. L’intervento ortopedico dovrebbe quindi essere predittivo dell’estensione regionale della lesione e garantire una stabilità tale da permettere una ripresa funzionale dell’arto colpito e un carico precoce. È dunque essenziale una chiara definizione delle indicazioni chirurgiche, del tipo d’intervento da eseguire e dei mezzi di sintesi da utilizzare nelle diverse situazioni per garantire un trattamento individuale che consenta di associare all’aumentata sopravvivenza del paziente con malattia oncologica avanzata un miglioramento della qualità di vita.
I pazienti che presentano una singola metastasi ossea, generalmente hanno una discreta aspettativa di sopravvivenza. Si tratta tuttavia di una minoranza dei casi, nei quali si deve considerare la buona prognosi del tumore primitivo valutando l’efficacia dei trattamenti locoregionali e quindi anche il tipo di tumore (istotipo), rendendo necessaria e auspicabile la stretta collaborazione tra il chirurgo ortopedico e l’équipe oncologica. In questa situazione clinica, l’intervento è mirato sia a ripristinare la funzione meccanica dell’osso colpito, sia a fini curativi seguendo criteri di chirurgia oncologica. La metastasi solitaria è aggredita come se fosse un tumore primitivo; pertanto l’indicazione corretta è di eseguire un’escissione ampia ed eventualmente una successiva ricostruzione con una protesi da resezione cementata o con uno spaziatore intercalare.
Nei pazienti con numerose lesioni metastatiche e più scadenti condizioni generali è più difficile porre in atto correttamente l’indicazione chirurgica. Quando si ha una frattura patologica, la soluzione chirurgica deve essere possibilmente rapida e permettere in tempi relativamente brevi la ripresa di uno stato funzionale accettabile. Nella pianificazione dell’intervento si deve considerare la presenza del tessuto neoplastico vitale, che rende una frattura patologica completamente differente da una frattura traumatica e senza il quale peraltro l’osso non sarebbe probabilmente andato incontro a frattura. È una differenza fondamentale che non deve essere sottovalutata in questa fase: trattare queste lesioni con le tecniche convenzionali impiegate nella routine traumatologica può infatti condurre a numerosi fallimenti. La presenza delle cellule neoplastiche ostacola i fenomeni riparativi della frattura e non si avrà dunque produzione di callo osseo, e una terapia conservativa non potrebbe quindi garantire stabilità della frattura patologica.
Di più difficile inquadramento è l’indicazione al trattamento chirurgico per i malati con lesioni ripetitive a rischio imminente di frattura, che devono essere attentamente valutate secondo criteri meccanici e biologici. La scelta della strategia chirurgica è stabilita in relazione alla sede della metastasi. Quando la lesione è limitata alla porzione del segmento osseo più vicina all’articolazione è indicato l’impianto di endoprotesi cementate a stelo lungo: se però la lesione risulta talmente estesa da compromettere la stabilità dell’impianto protesico si opta per megaprotesi da resezione. Per le localizzazioni diafisarie, ossia nella porzione centrale delle ossa lunghe, le opzioni chirurgiche di trattamento più valide sono rappresentate soprattutto dalle tecniche di osteosintesi rinforzata con cemento. Questa consiste nell’impiego di chiodi bloccati con delle viti, associati all’asportazione del tessuto neoplastico e all’impiego di adiuvanti. Il fenolo è l’adiuvante locale maggiormente utilizzato, eseguendo con un tampone delle toccature delle pareti ossee residue allo svuotamento: si ottiene così la distruzione delle cellule tumorali residue. Anche il cemento ha un’azione sulle cellule della metastasi: durante la solidificazione produce un effetto termico e uno tossico dovuto ai chemioterapici con i quali è miscelato. Accanto all’effetto adiuvante, il cemento riveste anche un’importanza meccanica indiscutibile: garantisce, infatti, un completo riempimento della cavità ossea con una buona rigidità strutturale e, rinforzando l’osteosintesi, permette più precocemente il carico. Il mancato impiego del cemento potrebbe infatti portare a un’instabilità della lesione e risultare quindi inefficace, mentre potrebbe essere invece considerato nei pazienti per i quali risulta indicato un approccio mininvasivo, meno traumatizzante.
Le metastasi ossee a livello della colonna possono produrre cedimenti strutturali con crolli dei corpi delle vertebre. Anche queste fratture patologiche possono richiedere un trattamento cruento: vertebroplastica e cifoplastica. In presenza di una progressiva compressione del midollo spinale da parte del tessuto neoplastico, può essere indicata una laminectomia decompressiva, ovvero l’asportazione della porzione posteriore della vertebra con riduzione della pressione nel canale midollare, associata alla stabilizzazione vertebrale. Ovviamente, anche per le sedi vertebrali ci si avvale di chemioterapia e radioterapia.
In chirurgia ortopedica, rappresenta un’importante esigenza la possibilità di disporre di tessuto osseo o suoi sostituti per colmare porzioni del sistema scheletrico asportate per tumori, riassorbite per processi di osteolisi, per funzioni riempitive e di sostegno, o necessarie per favorire la guarigione delle fratture e per indurre la fusione chirurgica di capi articolari (artrodesi). In alternativa al tessuto osseo, possono essere impiegati materiali sintetici in cui può crescere il tessuto osseo (osteoconduzione) o una sostanza che stimola la sua formazione (osteoinduzione).
Gli innesti (l’impianto di una porzione di uno o più tessuti, priva di una vascolarizzazione propria) si distinguono in autologhi o omoinnesti, se prelevati dallo stesso individuo, in omologhi o alloinnesti, se provenienti da un altro individuo umano, e in eterologhi o xenoinnesti, se prelevati da animale. Le sedi di prelievo sono l’ala iliaca, da cui è possibile ottenere relativamente grandi quantità, la superficie antero-mediale della metafiso-diafisaria della tibia e le costole. Nella chirurgia della mano, il prelievo può essere fatto dalla meta-epifisi distale del radio. L’innesto autologo è quello maggiormente impiegato perché fornisce maggiori garanzie di attecchimento, e può essere costituito da osso spongioso, corticale o da ambedue. Gli innesti omologhi possono essere prelevati da donatore vivente, soprattutto tessuto osseo da teste femorali rimosse per interventi di artroprotesi, o da cadavere, prelevando anche interi segmenti scheletrici. Nelle banche dell’osso, gli innesti omologhi vengono conservati dopo che sia stata accertata l’assenza di agenti infettivi: l’osso viene congelato conservando le caratteristiche meccaniche e in parte anche quelle biologiche. Se l’innesto osseo contiene anche porzioni di cartilagine, è allora necessario l’impiego di sostanze chimiche per proteggere le cellule della cartilagine, i condrociti. Un’altra tecnica di conservazione è la liofilizzazione, che tuttavia non garantisce la conservazione delle proprietà biomeccaniche. Osso omologo, trattato in maniera analoga a quelli della banca, può essere fornito in preparati commerciali di forme e dimensioni variabili. La capacità di attecchimento e integrazione del tessuto osseo omologo è minore e più lenta rispetto a quanto avviene negli innesti autologhi. Gli innesti eterologhi, di origine bovina o porcina, sono sottoposti a specifici trattamenti che privano l’osso non solo degli agenti infettivi ma anche delle molecole che possono dare reazioni allergiche o di rigetto.
Tra i trapianti (la sostituzione di un organo o un tessuto insieme ai vasi che lo irrorano), quello maggiormente impiegato è rappresentato dal perone vascolarizzato. Si ottiene dallo stesso paziente, prelevandone una lunga porzione con i vasi che lo nutrono. Attraverso la tecnica microchirurgica, le strutture vascolari sono prelevate e collegate ai vasi della regione ricevente: in questo modo, l’osso resta vitale e possiede ottime capacità di attecchimento. Tale procedura può essere associata al trapianto di parte del muscolo e della cute sovrastante, nel caso si debba trattare una perdita importante dei tessuti molli circostanti. Il perone è impiegato per colmare difetti di molti centimetri di altre ossa lunghe, quali l’omero o il radio.
I sostituti dell’osso sono materiali biocompatibili osteoconduttivi che vengono progressivamente colonizzati da cellule osteogeniche (produttrici di tessuto osseo). I più impiegati sono il corallo madreporico costituito quasi interamente da carbonato di calcio, le ceramiche di fosfato tricalcico e i cementi ionici.
I fattori osteoinduttivi sono sostanze che stimolano le cellule osteogeniche e quindi la formazione di tessuto osseo. Tra quelli maggiormente utilizzati vi è il gel piastrinico, poiché da tempo si conoscono numerosi fattori biologici prodotti dalle piastrine capaci di stimolare l’osteogenesi: il fattore di crescita piastrinico (PDGF) e i fattori di crescita trasformanti (TGF). A questi deve aggiungersi la presenza di cellule staminali capaci di differenziarsi in cellule produttrici di tessuto osseo. Il gel di piastrine è impiegato in associazione a innesti ossei. Altri fattori sono le BMP (Bone morphogenetic protein) prodotte dalle cellule del tessuto osseo: ne sono state identificate più di quindici tipi. Due di queste si sono dimostrate particolarmente attive: la BMP-7, disponibile come preparato commerciale, e la BMP-2, della quale possono ottenersi alte concentrazioni attraverso tecniche di biologia molecolare.
La mano è sede di numerose patologie, di cui i traumi sono la causa più frequente: infortuni domestici, del traffico, dello sport, degli hobby (bricolage) e le lesioni da agenti termici (ustioni). Se non trattate correttamente, lesioni più o meno complesse a carico della mano possono determinare gravi invalidità dell’organo. Accanto alle lesioni traumatiche, la mano è sede anche di patologie che interessano le articolazioni come l’artrosi, i noduli di Bouchard, di Heberden, l’artrosi della base del pollice o rizoartrosi, lesioni dei legamenti delle dita e del polso e lesioni dei tendini.
Le più frequenti patologie non traumatiche della mano sono quindi: le tendinopatie, sia dei tendini estensori sia dei tendini flessori, il dito a scatto, la tendinite di De Quervain, i piccoli tumori, lipomi, condromi, le cisti sinoviali, il morbo di Dupuytren, la compressione del nervo mediano al canale carpale (più nota come sindrome del tunnel carpale). La mano è infine sede di numerose malformazioni congenite che meritano una diagnosi e un trattamento precoce.
È sicuramente la patologia della mano che più frequentemente necessita di una terapia chirurgica. Si tratta di una neuropatia dovuta alla compressione del nervo mediano al polso nel suo passaggio attraverso il tunnel carpale, canale localizzato nel polso e formato dalle ossa carpali sulle quali è teso il legamento traverso che costituisce il tetto del tunnel stesso. Il trattamento chirurgico, da perseguire non prima di aver tentato una terapia conservativa (farmaci antinfiammatori, laser, ultrasuoni, ionoforesi) prevede la sezione del legamento trasverso del carpo che riduce la pressione all’interno del canale del carpo, talvolta associato alla liberazione del nervo mediano da eventuali aderenze fibrose. L’intervento si esegue di norma in day hospital e può essere effettuato con una piccola incisione al palmo, o con tecnica endoscopica. L’anestesia è preferibilmente al braccio, ma può essere anche limitata alla mano associata a sedazione.
Costituiscono il gruppo di patologie della mano di più comune riscontro nella pratica clinica. Tra queste, il ricorso alla chirurgia è più frequentemente richiesto dalla tenosinovite stenosante di De Quervain e dal ‘dito a scatto’. Ambedue sono espressione di un conflitto meccanico tra contenente e contenuto, ovvero tra le pulegge di scorrimento: le guaine tendinee e i tendini dell’apparato flessore nel dito a scatto, e l’apparato estensore del pollice nella malattia di De Quervain. Le guaine tendinee da fattore di protezione diventano fattore di malattia.
Il dito a scatto è il risultato di un’infiammazione che produce ispessimento tendineo dell’apparato flessore digitale con difficoltà nell’escursione in flesso-estensione dell’articolazione interfalangea prossimale. Si produce quindi un blocco in posizione di flessione obbligata dell’articolazione, che può essere risolto con un maggiore impegno muscolare degli estensori o con l’aiuto dell’altra mano che riporta in estensione il dito dopo uno scatto. La terapia per le forme strutturate è fondamentalmente chirurgica: si attua l’apertura longitudinale della puleggia associata alla liberazione del tendine dalla guaina infiammata, responsabile della costrizione meccanica e del deficit di scorrimento. L’intervento si esegue attraverso una piccola incisione a livello della piega flessoria palmo-digitale. La durata è di pochi minuti e il paziente, che può essere dimesso subito dopo l’intervento, viene invitato immediatamente al movimento attivo e passivo autoassistito delle dita, compreso quello operato.
La malattia di De Quervain è una patologia infiammatoria che coinvolge la guaina che riveste due estensori del pollice, l’abduttore lungo e l’estensore breve che occupano il primo compartimento dorsale del polso. L’intervento chirurgico è indicato in presenza di dolore intenso e persistente, e viene effettuato di solito ambulatorialmente: si esegue una piccola incisione traversa di circa due o tre centimetri a livello del dorso del polso in corrispondenza del primo compartimento che ospita i due tendini interessati. La guaina stenotica e infiammata viene incisa in tutta la sua estensione longitudinale e si produce la liberazione dei tendini, verificandone lo scorrimento intraoperatoriamente. Il paziente può essere dimesso all’uscita dalla sala operatoria.
Appartiene al gruppo delle fibromatosi e la sua causa rimane parzialmente sconosciuta. La patologia consiste nella progressiva retrazione di una struttura fibrosa localizzata a livello del palmo della mano, l’aponeurosi palmare, situata tra la cute e i tendini flessori, cui conseguono deficit nell’estensione delle dita. Si instaura progressivamente e colpisce sovente le due mani, estendendosi prevalentemente al quarto e quinto dito. Inizialmente si osservano al di sotto della cute del palmo dei piccoli noduli duri di tessuto fibroso, i quali formano poi delle catene discontinue che si fondono in corde dure. A queste consegue la retrazione progressiva che induce la flessione delle dita, con i tendini intatti. Questa evoluzione è molto lenta, la durata può essere di mesi o persino anni, con un andamento intermittente, e possibile miglioramento spontaneo. L’operazione (aponeurectomia), delicata a causa della presenza nel palmo della mano di strutture vascolo-nervose e tendinee, consiste nella rimozione delle corde e dei noduli di tessuto fibroso per permettere l’estensione delle dita e quindi il recupero funzionale. Una caratteristica della malattia da considerare è l’estrema variabilità con cui si manifesta, sia in termini di estensione e grado di retrazione delle dita sia di velocità di evoluzione. È essenziale scegliere con cura il momento opportuno per l’intervento, né troppo presto, quando non è ancora necessario, né troppo tardi, quando le articolazioni si sono bloccate. Si deve però considerare che si tratta di una malattia evolutiva, che può continuare anche dopo l’intervento, colpendo altre dita o, nei casi più gravi, le stesse dita dopo alcuni anni.
Anche alcune patologie articolari della mano possono trovare una indicazione al trattamento chirurgico. Tra queste la più frequente è la rizoartrosi, ovvero l’artrosi che interessa l’articolazione fra il trapezio e il primo osso metacarpale, localizzata alla base del pollice. Questa è una delle sedi più comuni di sviluppo dell’artrosi, patologia degenerativa delle articolazioni che in questo caso può produrre un’importante invalidità nell’uso della mano, dal momento che l’articolazione della base del pollice compie movimenti importanti per la sua funzione prensile. Il trattamento è di tipo chirurgico quando le terapie conservative si sono dimostrate inefficaci nel controllo del dolore o il deficit funzionale è molto marcato. L’operazione consiste fondamentalmente nell’eliminare l’articolazione malata, principalmente in due modi: la fusione delle due ossa (artrodesi), o l’asportazione del trapezio (trapeziectomia) e la sua sostituzione con materiale biologico oppure protesi. La scelta dell’intervento da eseguire va fatta caso per caso in base alla gravità del quadro, l’estensione dell’artrosi, le esigenze funzionali del paziente.
Generalmente, l’artrodesi viene riservata ai pazienti più giovani con maggiori esigenze funzionali di forza e con un certo grado di instabilità dell’articolazione tra il trapezio e il primo metacarpo con le altre articolazioni vicine. La trapeziectomia invece è adottata nei pazienti con età più avanzata o comunque che hanno un’artrosi più estesa. Consente una migliore mobilità articolare sebbene la forza di presa possa risultare ridotta. Lo scopo dell’intervento è quello di eliminare il dolore e recuperare la funzione di presa del pollice. In termini generali, con l’artrodesi si riduce la mobilità e migliora la forza di presa mentre con la trapeziectomia migliora la mobilità e si riduce la forza di presa.
Possono essere molteplici e di diverso grado di gravità. La sindattilia è il tipo di malformazione più frequente e consiste nell’unione di due o più dita tra di loro. Ciò che è importante definire ai fini chirurgici è se tale unione è solo della cute o anche delle strutture ossee. I primi interventi devono avvenire molto precocemente, con l’attenta separazione delle strutture ossee e tendinee, nel rispetto delle fibre nervose e dei vasi, e una plastica della cute nello spazio interdigitale. Mano a mano che il bambino cresce, se necessario, verranno programmati interventi successivi all’intervento principale per modellare le dita stesse.
È un campo della chirurgia ortopedica di notevole interesse per la complessità del distretto anatomico interessato e l’avvento di nuove tecniche chirurgiche che si avvalgono della microscopia intraoperatoria. Le patologie vertebrali che richiedono più di frequente un trattamento chirurgico sono le stenosi e le ernie discali.
La stenosi vertebrale è il restringimento, congenito o acquisito, del canale vertebrale. Tale restringimento è presente soprattutto nei tratti della colonna nei quali è maggiore il movimento intervertebrale, ovvero il tratto cervicale e il tratto lombare. Generalmente i restringimenti del canale vertebrale avvengono in seguito ad alterazioni degenerativo-artrosiche che si instaurano con il passa-re degli anni. Di conseguenza si riducono i diametri del canale vertebrale, con successivo conflitto tra il canale stesso da una parte e il midollo spinale e le radici nervose dall’altra. Questo conflitto può determinare la compressione del midollo spinale (nelle stenosi del canale cervicale) o delle radici nervose (nelle stenosi cervicali e lombari), con differenti sintomi.
A livello cervicale, sono coinvolti più frequentemente gli spazi intervertebrali tra la quinta, la sesta e la settima vertebra (C5-C6 e C6-C7). Il più delle volte è presente solo cervicobrachialgia (dolore al collo irradiato all’arto superiore). Esistono, però, diversi quadri clinici. Difatti vi può essere la presenza di una compressione centrale che comporta segni piramidali nei quattro arti, paraparesi spastica e disturbi sensitivi, soprattutto a livello degli arti superiori. Se, invece, è presente una compressione laterale da entrambi i lati si instaura una sindrome radicolare che determina segni piramidali e disturbi della funzione vescicale. Nel caso sia coinvolto il midollo spinale, si potranno evidenziare segni di ipertonia dei muscoli degli arti inferiori, fino a quadri di paraparesi con segni di spasticità. La diagnosi strumentale si avvale della tomografia computerizzata (TC) e della risonanza magnetica (RM), ma anche l’esame elettromiografico può essere d’aiuto.
Nei pazienti asintomatici si opta solitamente per un trattamento conservativo, monitorando la patologia con controlli periodici. Se il paziente manifesta invece sintomi clinici si sceglie il trattamento chirurgico. L’obiettivo dell’intervento è di eseguire la decompressione delle strutture nervose cui segue il ripristino di un canale cervicale sufficientemente ampio. Quando vi è una grave disfunzione midollare lo scopo prioritario dell’intervento chirurgico è quello di interrompere la progressione della mielopatia. In questi casi, infatti, può non avvenire un miglioramento dal punto di vista clinico.
La decompressione chirurgica del canale cervicale può essere realizzata con approccio posteriore e/o anteriore. Il primo è indicato quando la compressione midollare è localizzata posteriormente attraverso una laminoartrectomia (asportazione chirurgica degli elementi ossei posteriori che comprimono le radici nervose e il sacco durale). L’accesso anteriore, invece, è doveroso quando la compressione si esercita anteriormente. Nei casi più gravi di stenosi, nei quali sono presenti deformità e instabilità associate, è essenziale un approccio combinato, anteriore e posteriore.
Nelle stenosi lombari il livello intervertebrale più frequentemente colpito è L4-L5, seguito da L3-L4. Solitamente il paziente è in un’età adulta o senile e viene coinvolto maggiormente il sesso femminile, poiché nelle donne la spondilolistesi (scivolamento in avanti della parte anteriore della vertebra rispetto la parte postero-inferiore della stessa, che resta solidale col metamero vertebrale sottostante), spesso una causa di stenosi, è più frequente. Sintomo tipico delle stenosi del canale vertebrale lombare è la claudicatio intermittens lomboradicolare, che consiste nell’aumento del dolore irradiato agli arti inferiori dopo l’inizio della deambulazione; tale dolore costringe a fermarsi per trovare sollievo, ed è talvolta accompagnato da lombalgia. Alla base di questo fenomeno vi è l’ischemia delle radici compresse che determina la riduzione degli impulsi nervosi verso il muscolo. Per la diagnosi strumentale particolare importanza è rivestita dalla RM.
La stenosi vertebrale non si riduce con il passare del tempo ma, al contrario, tende ad aumentare. Ecco perché, quando la sintomatologia non è più controllabile con trattamenti incruenti (farmaci, terapie fisiche antalgiche, fisioterapia) o non si hanno risultati durevoli, con conseguente compromissione significativa della qualità di vita, una possibile soluzione è quella chirurgica, anche in pazienti ultrasettantenni.
Scopo del trattamento chirurgico delle stenosi del canale vertebrale lombare è la decompressione delle strutture nervose. Per raggiungere questo obiettivo è indicata una tecnica chirurgica con accesso posteriore e una rimozione precisa delle strutture (lamine, zigoapofisi, ligamenti gialli, capsule articolari) responsabili del fenomeno compressivo. La decompressione può essere ottenuta con differenti tecniche che comportano l’esposizione più o meno ampia delle strutture nervose, attraverso laminectomia bilaterale nelle stenosi centrali o laminotomia nelle stenosi laterali. Nel caso in cui la gravità del restringimento richieda l’asportazione quasi completa degli elementi ossei posteriori, si deve associare la stabilizzazione della colonna (blocco della colonna nel tratto interessato) che può essere realizzata attraverso l’utilizzo di viti peduncolari e barre. Se la stenosi coinvolge il recesso laterale e l’obiettivo dell’intervento è distrarre i forami di coniugazione e rinforzare le capacità di carico della colonna vertebrale, è possibile eseguire interventi mininvasivi che consistono nel posizionamento di dispositivi interspinosi.
La colonna vertebrale è sottoposta all’usura del tempo e, di conseguenza, agli effetti della funzione che esercita, che è quella di asse portante del corpo e di elemento di movimento. Il disco intervertebrale ha la funzione di assorbire i carichi che gravano sulla colonna ed è costituito da due parti interconnesse tra loro: il nucleo polposo e l’anello fibroso.
L’ernia del disco è una sporgenza circoscritta del disco intervertebrale, o una fuoriuscita parziale o totale del nucleo polposo fuori dai limiti del disco stesso. L’ernia può essere contenuta (quando è ancora trattenuta in sede dalle fibre del legamento longitudinale posteriore), protrusa (quando essa non è più trattenuta in sede, ma non si allontana dal suo punto d’origine) o espulsa (detta anche migrata, quando il nucleo polposo si distacca liberamente). In base alla sede si distinguono ernie mediane, postero laterali, intraforaminale e intraspongiosa. Sono colpiti i soggetti tra i 30 e i 50 anni. I dischi più frequentemente interessati sono quelli relativi alle ultime due vertebre lombari e alla prima sacrale (L4-L5 e L5-S1), visto il maggior carico cui sono coinvolti rispetto a tutti gli altri. Può essere interessato anche il disco L3-L4, anche se in maniera minore. Le ernie L4-L5 e L5-S1 provocano solitamente una lombosciatalgia mentre le ernie L3-L4 causano lombocruralgia. Se l’ernia è contenuta o protrusa si determina un quadro di lombalgia; invece un’ernia migrata causa di solito dolore radicolare. La diagnosi strumentale si esegue abitualmente con la RM, mentre TC ed elettromiografia possono essere di aiuto per confermare la diagnosi.
In genere si attua un trattamento conservativo: riposo a letto per qualche giorno e la somministrazione di antinfiammatori cortisonici per una settimana con riduzione progressiva delle dosi; successivamente farmaci non cortisonici per 2÷4 settimane. La terapia fisica può essere iniziata dopo la seconda settimana unita alla ginnastica posturale dopo la terza settimana dall’inizio dei sintomi. Nella maggior parte dei casi la sintomatologia si risolve nell’arco di 4÷6 settimane.
Il trattamento chirurgico, invece, è necessario in quei pazienti che non beneficiano della terapia incruenta e che presentano grave dolore e deficit motorio. In particolare, è indicato in quei pazienti con dolore irradiato da più di due mesi con scarsa tendenza alla risoluzione naturale. La rimozione chirurgica del frammento discale erniato elimina la compressione e risolve il processo infiammatorio responsabile della sintomatologia dolorosa.
Esistono diverse opzioni terapeutiche cruente; in particolare gli interventi percutanei intradiscali (laserdiscectomia e nucleoplastica) sono indicati nei casi di ernie contenute in assenza di deficit motori. Gli interventi chirurgici a cielo aperto trovano indicazione negli altri casi e consistono nella microdiscectomia o nella discectomia convenzionale. La prima determina una minore incisione cutanea (di appena 3 cm) mentre la seconda esige un’incisione maggiore (6÷8 cm) e una maggiore asportazione lamino-articolare per avere accesso al disco e decomprimere la radice nervosa. La tecnica microscopica di utilizzo comune consente, grazie all’utilizzo di un microscopio operatorio, l’asportazione dell’ernia (espulsa ma non migrata) tramite una piccola incisione e quindi con un minor danno delle strutture adiacenti.
Quando si è in presenza di un grave deficit della funzione radicolare è necessario un intervento chirurgico che decomprima la radice, riuscendo, in tal modo, non solo a risolvere la sintomatologia dolorosa, ma anche consentire il ripristino della funzione nervosa alterata.
Campanacci 1990: Campanacci, Mario, Bone and soft tissue tumors, New York, Springer, 1990.
Canale 2005: Campbell. Chirurgia ortopedica, 10. ed., a cura di S. Terry Canale, Roma, Verduci, 2005.
Capanna, Campanacci 2001: Capanna, Rodolfo - Campanacci, Domenico A., The treatment of metastases in the appendicular skeleton, “Journal of bone and joint surgery”, 83B, 2001, pp. 471-481.
Craig 2004: Craig, Edward V., Ortopedia clinica, a cura diGiovanni Peretti, Roma, A. Delfino, 2004.
Fitzgerald 2004: Fitzgerald, Robert H. - Kaufer, Herbert - Malkani, Arthur L., Ortopedia e traumatologia, Roma, Verduci, 2004.
Grassi 2007: Grassi, Federico e altri, Manuale di ortopedia e traumatologia, Milano, Elsevier Masson, 2007.
Greene 2005: Greene, Walter B., Ortopedia e traumatologia, 2. ed., a cura di Paolo Gallinaro, A. Masse, Torino, Minerva Medica, 2005.
Mancini, Morlacchi 1977: Mancini, Attilio - Morlacchi, Carlo, Clinica ortopedica, Padova, Piccin, 1977.
Postacchini 2006: Postacchini, Franco - Ippolito, Ernesto - Ferretti, Andrea, Ortopedia e traumatologia, Roma, A. Delfino, 2006.
Stern 2002: Stern, Steven H., Tecniche chirurgiche fondamentali in ortopedia, Roma, Verduci, 2002.