chirurgia
Ramo fondamentale della medicina che affronta il problema terapeutico con atti manuali o con operazioni strumentali.
La c., come altre pratiche mediche, essendo legata alle malattie, è probabilmente antica quanto il genere umano. Come ogni disciplina è costellata da tappe che vengono ricordate con i nomi di personaggi storici che ne hanno segnato il progresso. Studiosi come Ippocrate, Aulo Cornelio Celso, A. Paré, A. Vesalio, J. Hunter, W.S. Halsted, A. Carrel, sono conosciuti come pionieri ed eroi di questa disciplina. In realtà, pionieri lo sono stati ma i veri ‘eroi’ della c. sono tutti i pazienti che per la prima volta si sono sottoposti a un intervento chirurgico mai tentato prima, sicuramente con la speranza di migliorare o guarire, ma anche accettando il rischio di una procedura del tutto sperimentale e spesso dolorosa. I primi interventi chirurgici erano demolitivi (come l’amputazione di un arto) e per arrivare alla c. moderna sono stati necessari quattro fattori fondamentali: lo studio dettagliato dell’anatomia; la conoscenza delle infezioni e delle tecniche che consentono di operare in sterilità; il progresso dell’anestesia; la possibilità di ricostruire la continuità di visceri e vasi con le suture chirurgiche. La conoscenza dell’anatomia umana è cominciata con la prima dissezione descritta da Mondino de Luzzi nel 1316, mentre lo straordinario atlante (De humani corporis fabrica, 1543) di Andrea Vesalio rimase a lungo un punto fermo nella conoscenza dell’anatomia anche per i chirurghi. Il 1543 è anche l’anno di un altro importantissimo contributo alla conoscenza scientifica, il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico: in uno stesso anno quindi si registrò un incredibile e contemporaneo progresso della conoscenza del nostro corpo e del nostro cosmo.
Le infezioni sono sempre state uno dei principali ostacoli al successo di un intervento chirurgico. Sino al 20° sec. anche i chirurghi più abili spesso non riuscivano a sottrarre i loro pazienti alla morte a causa delle infezioni post-operatorie: ascessi, setticemie e gangrene erano assai comuni e alcuni notarono che erano più frequenti se un paziente veniva operato in ospedale rispetto a una procedura chirurgica simile ma condotta al di fuori dell’ospedale. Fu l’ostetrico ungherese I. Semmelweis che nel 1847, a soli ventotto anni, intuì che erano proprio i medici, non lavandosi le mani, a trasferire le infezioni da una paziente all’altra rendendosi responsabili di una mortalità materna in occasione del parto in ospedale pari al 20%, mentre la mortalità a casa era dell’1%. Una intuizione straordinaria, se si considera che avvenne prima che si determinasse che i microrganismi erano responsabili delle infezioni. Purtroppo Semmelweis, invece di essere gratificato, venne allontanato dall’ospedale e toccò a J. Lister, nel 1867, con l’articolo On the antiseptic principle in the practice of surgery (pubblicato sulla rivista The Lancet), spiegare come l’antisepsi fosse essenziale per la c. al fine di prevenire la mortalità legata alle infezioni post-operatorie.
Ancora oggi spesso si indica, erroneamente, la velocità di esecuzione di un intervento come una delle caratteristiche di un grande chirurgo. Questa concezione nasce dal tempo in cui, non esistendo l’anestesia, la brevità della c. era essenziale per diminuire il dolore del paziente. L’uso dell’etere, introdotto da W.T.G. Morton il 16 ottobre del 1846, per un intervento chirurgico al Massachusetts General Hospital di Boston, e l’introduzione del cloroformio come anestetico avvenuta nel 1847 da parte di sir J.Y. Simpson, ad Edimburgo, aprirono una nuova era della c., che diventava non più legata alla rapidità ma alla precisione della esecuzione.
Anatomia, antisepsi ed anestesia aprono la strada alla c. moderna che permette oggi la ricostruzione di visceri e vasi sanguigni ed è giunta sino alla realizzazione dell’intervento tecnicamente più complesso, rappresentato dal trapianto di fegato, eseguito per la prima volta sull’uomo da T.E. Starzl nel 1963. Questo avanzamento è stato reso possibile dalla invenzione di un metodo, l’anastomosi (➔), che permette di unire due segmenti di un vaso sanguigno (arteria o vena) e ristabilire al loro interno il flusso del sangue. L’ideatore di questa tecnica è stato il chirurgo francese A. Carrel, insignito del Nobel nel 1912. Oggi la c. è una disciplina molto sofisticata, non più basata sulle ‘mani’ e le intuizioni di un singolo chirurgo ma affidata a un lavoro di team dove esperti di anestesia, malattie infettive, radiologia, terapia intensiva, infermieri e tecnici specializzati lavorano insieme utilizzando strumenti che spesso consentono di operare organi dell’addome, del torace o di altre aree anatomiche, entrandovi attraverso piccole incisioni (➔ laparoscopia) e con l’ausilio di ottiche e strumenti che permettono al chirurgo di intervenire senza dover introdurre le sue mani nel corpo del malato. La figura del chirurgo che opera ogni parte del corpo umano è ormai scomparsa e sono sorte specializzazioni che studiano singoli organi o apparati (c. addominale, toracica, cardiovascolare, ortopedica, ostetrica e ginecologica, neurochirurgia, ecc.). Il rischio che si corre è però quello di una formazione sempre più tecnica e settoriale che allontani il professionista dalla visione del malato come persona con le sue ansie, paure, disagi e sofferenze: aspetti molto più complessi di quelli legati alla riparazione di un organo.