Chiusura domenicale e festiva di attività commerciali
Nel 2010-2011 la Consulta ha riequilibrato il sistema delle competenze legislative attribuite dalla riforma costituzionale del 2001 allo Stato e alle Regioni rispettivamente in materia di tutela della concorrenza e di commercio. In precedenza la Corte, nel definire i confini dei due ambiti, aveva in una prima fase controllato – in modo attento a proteggere le prerogative regionali – la ragionevolezza e proporzionalità delle norme statali pro-concorrenziali; riconoscendo invece, in un secondo momento, prevalenza al valore «concorrenza» (e quindi alla potestà statale). Non molto lineari sono stati pure i percorsi seguiti dal Giudice amministrativo: da una preminenza assoluta attribuita alle istanze di liberalizzazione si è arrivati a un orientamento secondo cui nella disciplina del commercio le Regioni devono contemperare quelle istanze con le altre esigenze socio-culturali.
Con due pronunce del 2010-20111 la Consulta, occupandosi della titolarità della funzione legislativa in tema di apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali, ha riequilibrato il sistema delle competenze statali e regionali circa la tutela della concorrenza nella disciplina del commercio: rispetto alle posizioni precedenti, di cui si dirà appresso, queste recenti decisioni meglio presidiano le prerogative delle Regioni. La Corte ha, da un lato, stabilito che la competenza legislativa spetta alle Regioni, in quanto «la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientra nella materia ‘commercio’ di cui all’art. 117, co. 4, Cost.», e non nella materia «tutela della concorrenza» di competenza dello Stato ex art. 117, co. 2, lett. e), Cost.2. Da l l ’ a l t r o lato, quel Giudice ha osservato che le Regioni hanno sicuramente la possibilità di dettare norme con effetti pro-concorrenziali3: a condizione però che – proprio in considerazione dell’intestazione allo Stato della funzione legislativa di cui al citato art. 117, co. 2, lett. e), Cost. – «tali effetti siano marginali o indiretti e non siano in contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza»4.
La riforma costituzionale del 2001, com’è noto, ha:
a) prescritto espressamente il rispetto, da parte del legislatore interno, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (art. 117, co. 1, Cost.);
b) riservato allo Stato la «tutela della concorrenza» (art. 117, co. 2, lett. e), Cost.;
c) lasciato per silentium alla competenza legislativa residuale delle Regioni – ai sensi dell’art. 117, co. 4, Cost. – la materia del commercio.
In virtù di questa potestà esclusiva le Regioni hanno iniziato a legiferare in materia di commercio, spesso introducendo prescrizioni vincolistiche che sono andate a incidere sugli ambiti di competenza statale e sulla relativa normazione, connotata da una certa apertura nel senso della liberalizzazione dell’attività commerciale5. Ne è così derivata la questione circa la delimitazione dei due territori normativi. Chiamata a svolgere il consueto ruolo di regolarne i confini, la Consulta – almeno sino alle recenti pronunce di cui s’è detto sopra – ha assunto posizioni ondivaghe: dapprima sembrando disponibile a privilegiare le istanze regolatorie avanzate dagli ordinamenti regionali, di poi spostandosi verso un asse meglio in sintonia con la visione più liberalizzatrice propria della disciplina statale.
2.1 L’evoluzione del quadro normativo sino al 1998
La disciplina del commercio è da sempre caratterizzata, invero, da un rapporto conflittuale tra istanze liberiste ed istanze regolatorie. La prima normazione generale in materia di commercio fu recata dal R.d.l. 16.12.1926, n. 2174, convertito con l. 18.12.1927, n. 2501, il quale introdusse un regime autorizzatorio corredato da un sistema di controlli e licenze di polizia a tutela dell’ordine pubblico e dell’igiene6. La Carta costituzionale del 1948 stabilì poi il principio fondamentale (art. 41, co. 1) secondo cui «l’iniziativa economica privata è libera»: l’esercizio dell’attività commerciale era dunque ‘affare privato’, ma solo in linea di principio7: il commercio poteva essere soggetto a limitazioni funzionali alla necessità di tutelare interessi pubblici sia a programmi e controlli (art. 41, co. 2 e 3, Cost.). Il boom economico nazionale rese necessario un intervento di riforma del sistema8, che si concretizzò nella l. 11.6.1971, n. 426, la quale si fondava su due elementi caratterizzanti: l’istituzione del registro degli esercenti il commercio (REC); la pianificazione strutturale del commercio a livello comunale. Con la l. n. 426/1971 si tocca «il punto massimo di interventismo pubblico raggiunto in un settore che, ai tempi dello Stato liberale classico, aveva registrato unicamente un controllo pubblico per finalità di polizia di sicurezza e di igiene e sanità»9.
2.2 Il d.lgs. 31.3.1998, n. 114 e il cd. decreto Bersani: verso la liberalizzazione dell’attività commerciale?
Il cambio di rotta si ebbe con il d.lgs. 31.3.1998, n. 114, Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della l. 15 marzo 1997, n. 59: trova in tal modo sbocco un’imperiosa spinta riformatrice che aveva dato luogo anche a due referendum abrogativi della precedente disciplina, entrambi tuttavia infruttuosi10. Il decreto, ancora vigente, è stato salutato come un manifesto della liberalizzazione del commercio in virtù del richiamo ai principi della tutela della concorrenza e della libera circolazione delle merci: suo scopo dichiarato è invero quello di assicurare «la trasparenza del mercato, la concorrenza, la libertà di impresa e la libera circolazione delle merci»11 e di far sì che l’attività commerciale sia «esercitata nel rispetto dei principi contenuti nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato»12. In particolare, la disciplina del 1998 supera il vecchio sistema mediante tre misure fondamentali: l’abolizione del REC e delle cd. tabelle merceologiche; la dequotazione della pianificazione commerciale; la semplificazione procedimentale. Se le enunciazioni di principio del d.lgs. n. 114/1998 riprendono i dettami comunitari della tutela della concorrenza e della libera circolazione delle merci, tuttavia almeno due elementi inducono a moderare gli entusiasmi. Anzitutto, il decreto impone la tutela anche d’interessi tendenzialmente confliggenti con i principi comunitari in parola13. In secondo luogo, lo strumento pianificatorio non è stato abbandonato del tutto, ma sostituito con la fissazione – demandata a Regioni e Comuni – di «indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali» e di «criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale»14. Nonostante le affermazioni di principio, dunque, il d.lgs. n. 114/1998 reca ancora istanze di tipo regolatorio, che hanno indotto anche la più recente giurisprudenza a osservare che esso «non persegue in via esclusiva una finalità liberalizzatrice»15. Questo risulta evidente, per esempio, nelle disposizioni sull’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali. Infatti, eccettuato il caso delle cd. città d’arte e dei Comuni a economia prevalentemente turistica (per i quali è disposta16 la liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura al pubblico degli esercizi), per tutti gli altri casi quel decreto sancisce l’obbligo di chiusura domenicale e festiva: salvo poi demandare al Comune – «sentite le organizzazioni locali dei consumatori, delle imprese del commercio e dei lavoratori dipendenti» – l’individuazione dei giorni e delle zone del territorio comunale nei quali gli esercenti possono derogare a quell’obbligo, con la precisazione che «detti giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonché ulteriori otto domeniche o festività nel corso degli altri mesi dell’anno»17. Per i Comuni diversi da quelli a economia prevalentemente turistica e dalle città d’arte, quindi, il d.lgs. n. 114/1998 impone in linea generale la chiusura domenicale e festiva degli esercizi, prevedendo però che a livello comunale sia definito un calendario delle aperture: il quale tenga conto sia degli interessi degli esercenti sia delle altre esigenze sociali. Il ricordato riparto di competenze disegnato dalla riforma costituzionale del 2001 e la diffusione di normazioni regionali che raffrenavano la spinta liberalizzatrice impressa dal d.lgs. n. 114/1998 hanno poi indotto lo Stato a intervenire con nuove norme inserite nel cd. decreto Bersani (d.l. 4.7.2006, n. 223, convertito con l. 4.8.2006, n. 248, rubricato Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale): il cui fine dichiarato18 è quello di «garantire il rispetto degli articoli 43, 49, 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea» attraverso la liberalizzazione delle attività imprenditoriali. L’intervento statale ha incentivato la tutela della concorrenza anche nel settore del commercio, disponendo l’abrogazione delle norme statali confliggenti con le norme pro-concorrenziali e l’adeguamento di quelle regionali entro il 1° gennaio 2007: in questo modo l’ordinamento statale si è pienamente conformato ai dettami comunitari nonché alle indicazioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato19.
Come più sopra accennato, la riforma costituzionale del 2001 ha riservato la «tutela della concorrenza» alla competenza legislativa dello Stato, lasciando per silentium il commercio alla competenza residuale delle Regioni: la Corte costituzionale ha quindi dovuto svolgere il compito non facile di delineare i confini dei rispettivi ambiti. Nel 2004 la Consulta si è in primo luogo premurata di chiarire, in via preliminare, che il commercio è materia di competenza regionale20, altresì statuendo21:
a) che la «tutela della concorrenza», più che una materia in senso stretto, è una materia cd. trasversale;
b) che «la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario, che comprende interventi regolativi, la disciplina antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza»22.
Affrontando il nodo della questione la Corte, al fine di evitare che la natura trasversale della competenza statale in materia di tutela della concorrenza erodesse la potestà legislativa regionale in materia di commercio, ha in una prima fase23 vagliato la costituzionalità delle norme statali indubbiate utilizzando il canone della loro proporzionalità e ragionevolezza. Tuttavia, a seguito della spinta liberalizzatrice di cui al d.l. n. 223/2006 cit., a partire dal 200724 la Consulta ha fatto ricorso a un nuovo criterio di giudizio: quello della coerenza della norma rispetto all’obiettivo. Ai fini dello scrutinio di legittimità diviene quindi rilevante solo accertare se l’intervento statale «sia strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale»25: il Giudice delle leggi pare aver ragionato, cioè, in termini di oggettiva primazia del valore «tutela della concorrenza». Non a caso con riferimento a quelle decisioni della Consulta è stato osservato26 che «la logica della ‘prevalenza’ dell’interesse statale alla difesa della concorrenza … è destinata ad allontanare la possibilità di svolgere uno screening coerente ed esaustivo sulla ragionevolezza della norma censurata, al fine di verificare l’eventuale sproporzione dell’intervento statale rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza». Rispetto a quelle decisioni del 2007 – nelle quali, come si è visto, le esigenze di tutela della concorrenza (e quindi la competenza statale in materia) hanno rappresentato un limite molto serio all’esercizio della potestà regionale in tema di commercio – gli ultimi, citati interventi della Corte costituzionale (2010- 2011) hanno perseguito, come detto, l’obiettivo di bilanciare in modo più accurato i poteri di Stato e Regioni. Con queste pronunce la Consulta ha ritenuto che le regolazioni regionali – inerenti l’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali – strutturate in modo differente rispetto alla disciplina racchiusa nel citato art. 11 d.lgs. n. 114/1998 sono costituzionalmente legittime nei limiti in cui non collidano con le norme dettate dallo Stato a tutela della concorrenza. Sulla base di questa impostazione di principio, con la sentenza 8.10.2010, n. 288 la Corte costituzionale ha in particolare ritenuto legittima la normativa lombarda sull’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali per la vendita al dettaglio, affermando che la stessa «non si pone in contrasto con il d.lgs. n. 114 del 1998, e in particolare con l’art. 11 …, in quanto introduce una disciplina di settore di sostanziale liberalizzazione che, in conformità con quella statale, prende in considerazione una serie di parametri» e assicura «un regime di maggiore liberalizzazione delle aperture domenicali e festive rispetto a quanto stabilito dal comma 5 dell’art. 11 del d.lgs. n. 114 del 199827». Con la sentenza 21.4.2011, n. 150 la Consulta ha invece dichiarato l’illegittimità della legge abruzzese in materia proprio perché, «invece di ampliare o, comunque, di non modificare la portata della liberalizzazione introdotta a partire dal d.lgs. n. 114 del 1998, viene a regolamentare in modo più restrittivo la materia degli orari degli esercizi commerciali e della facoltà di apertura nelle giornate domenicali e festive, traducendosi in una misura che contrasta con l’art. 117, co. 2, lett. e), Cost.28». Con queste recenti decisioni, pertanto, la Corte costituzionale ha, per un verso, meglio protetto le prerogative delle Regioni in materia di commercio – per esempio fugando ogni dubbio sul fatto che rientri nella loro competenza la disciplina dell’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali –, ma ha nello stesso tempo ribadito che l’esercizio di quelle prerogative non può contrastare con gli obiettivi di tutela della concorrenza perseguiti dallo Stato col d.lgs. n. 114/1998.
3.1 Gli orientamenti del Giudice amministrativo
Così come la Corte costituzionale, anche la giurisprudenza amministrativa ha conosciuto percorsi non del tutto lineari nei suoi orientamenti in tema di commercio e tutela della concorrenza. Subito dopo le ricordate pronunce della Consulta del 200729 il Giudice amministrativo ha ritenuto che le esigenze di liberalizzazione del mercato – come sancite a livello comunitario, prima ancora che dalle disposizioni pro-concorrenziali dettate dallo Stato – fossero prevalenti rispetto agli interessi pubblici con essa confliggenti. Da ciò è discesa ad esempio – anche sulla base delle sollecitazioni dell’AGCM30 – la disapplicazione, per contrasto con i principi comunitari in materia di tutela della concorrenza, delle normative regionali che introducevano limiti (anche solo di tipo procedimentale) all’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali31. Secondo l’orientamento qui considerato, infatti, persino la previsione di una programmazione dell’apertura degli esercizi commerciali costituirebbe una barriera (sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo) all’accesso al mercato e al suo libero funzionamento, poiché limiterebbe – in contrasto col principio comunitario della libera concorrenza – la libertà imprenditoriale. Rispetto a quest’impostazione, però, il recepimento nel nostro ordinamento della citata direttiva servizi e le pronunce della Corte costituzionale del 2010-2011 paiono aver comportato un riassetto dell’intera problematica dei rapporti fra tutela della concorrenza e disciplina del commercio. Ancora una volta terreno di confronto è stato quello della regolazione dell’apertura degli esercizi commerciali: il Giudice amministrativo ha qui riconsiderato il proprio precedente orientamento, escludendo stavolta che il diritto comunitario impedisca agli Stati membri – e, dunque, alle loro articolazioni territoriali (nella specie, le Regioni) – di dettare discipline in qualche modo restrittive della libertà imprenditoriale. È stato in particolare osservato32 che «il principio comunitario di concorrenza cui fare riferimento ai fini di un’eventuale disapplicazione di norme in contrasto con il medesimo è quello, generale, di libero accesso al mercato di riferimento al fine di consentire la libera iniziativa economica in un determinato settore (concorrenza ‘nel mercato’) ma non quello, più ristretto, legato alla regolamentazione dell’attività di imprenditori che nel mercato di riferimento già sono presenti»: sicché stabilire il calendario delle aperture domenicali e festive non dà luogo ad una «illegittima restrizione della concorrenza ma solo ad una regolamentazione dei giorni di chiusura … secondo la ripartizione di competenze costituzionalmente prevista … senza alterare l’accesso al singolo mercato di riferimento o distorcere illegittimamente la concorrenza». Premesso quindi che la regolazione dell’apertura domenicale degli esercizi commerciali – al contrario di quanto affermato in alcune precedenti decisioni – non integra una restrizione lesiva della concorrenza, il Giudice amministrativo ha soggiunto che qualora un tale effetto si verificasse, esso risulterebbe pur sempre giustificato alla luce della necessità di salvaguardare le peculiarità socio-culturali nazionali o regionali33. Una necessità che, d’altro canto, è ormai da tempo sostenuta dalla stessa giurisprudenza comunitaria, la quale ha esortato gli Stati membri – in sede di regolazione del mercato – ad operare un sostanziale bilanciamento di interessi, da effettuarsi sulla base del principio di proporzionalità, tra gli interessi socioculturali delle collettività interessate e quelli degli operatori economici: esortazione non sfuggita alla giurisprudenza amministrativa34, la quale ha prontamente osservato che proprio la «Corte di Giustizia della Comunità europea è giunta alla conclusione che la normativa nazionale sulla chiusura domenicale non confligge con il principio di libera circolazione delle merci»35. Secondo questo recente orientamento del Giudice amministrativo, quindi, non contrastano col diritto comunitario né con la normativa statale pro-concorrenziale quelle disposizioni regionali che – nel regolare l’apertura degli esercizi commerciali – non optino per il massimo grado di liberalizzazione, ma pongano restrizioni alla libertà imprenditoriale dettate dall’esigenza di contemperare gli interessi degli operatori economici con altri interessi egualmente meritevoli di tutela, quali ad esempio quelli dei lavoratori. Da ciò sembra dover derivare, su un piano più generale, che le Regioni – nell’esercizio della propria potestà legislativa in materia di commercio – non sono affatto tenute a riconoscere al principio della libertà di mercato preminenza assoluta, bensì a darne attuazione tenendo nella dovuta considerazione pure le esigenze socio-culturali della specifica comunità regionale.
1 C. cost., 8.10.2010, n. 288, in Foro it., 2011, I, 361 e C. cost., 21.4.2011, n. 150, in www.giurcost. it.
2 C. cost., 8.10.2010, n. 288, cit. e 21.4.2011, n. 150, cit.
3 Proprio perché diversamente – sostiene la Corte con le sentenze in esame – il carattere trasversale e potenzialmente omnicomprensivo della materia «tutela della concorrenza» finirebbe con lo svuotare del tutto le competenze attribuite alla Regioni con la riforma costituzionale del 2001.
4 C. cost., 8.10.2010, n. 288, cit. e 21.4.2011, n. 150, cit.
5 In questo senso, Cintioli, Concorrenza, istituzioni e servizio pubblico, Milano, 2010, 306 ss.
6 Con non rari episodi di conflitti di competenza: si veda Maggiora, La nuova disciplina del commercio, Milano, 1998, 13 ss.
7 Amorth, Commercio (disciplina amministrativa), in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 808 ss.
8 Orlando, Il commercio, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, pt. spec., IV, Milano, 2003, 3534 ss., offre un’attenta disamina dell’evoluzione normativa in materia di commercio. Si veda anche Sanviti, Commercio (disciplina amministrativa), in Dig. pubbl., III, Torino, 1989, 200 ss.
9 Cintioli, Concorrenza, cit., 93 ss.
10 Cfr. Maggiora, La nuova disciplina del commercio, cit.
11 Art. 1, co. 3, lett. a), d.lgs. n. 114/1998.
12 Art. 2 d.lgs. n. 114/1998.
13 Interessi dei quali devono tener conto Regioni ed Enti locali nell’ambito delle funzioni loro attribuite: tutela dei centri storici, protezione del consumatore, tutela dell’occupazione, salvaguardia delle zone di montagna, rurali, insulari, ecc. (cfr. artt. 1 e 6 d.lgs. n. 114/1998).
14 Art. 6 d.lgs. n. 114/1998. In proposito, v. tuttavia TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 11.1.2011, n. 6 (in www.giustizia-amministrativa.it), che ha annullato un regolamento comunale il quale, seppur sotto la dicitura formale di «indirizzi e criteri di programmazione», disciplinava un contingentamento dell’offerta di vendita.
15 TAR Veneto, Venezia, sez. III, 26.1.2010, n. 135, in Foro amm. - TAR, 2010, 99 e TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 26.10.2010, n. 8002, in Foro amm. - TAR, 2010, 3152.
16 Secondo l’art. 12 d.lgs. n. 114/1998, infatti, «nei comuni ad economia prevalentemente turistica, nelle città d’arte o nelle zone del territorio dei medesimi, gli esercenti determinano liberamente gli orari di apertura e di chiusura e possono derogare dall’obbligo di cui all’articolo 11, comma 4», cioè dall’obbligo di chiusura domenicale e festiva.
17 Art. 11 d.lgs. n. 114/1998. Le disposizioni di quest’articolo non si applicano alle tipologie di attività enumerate dall’art. 13 del medesimo decreto.
18 All’art. 1 del decreto medesimo.
19 La quale – persino dopo il recente recepimento della direttiva servizi n. 2006/123/CE da parte del d.lgs. n. 59/2010 – ha spesso segnalato il carattere anticoncorrenziale di alcune norme regionali: cfr. AGCM, AS165, 4.3.1999; e, da ultimo, AGCM, AS775, 22.11.2010, entrambe in www.agcm.it.
20 C. cost., 13.1.2004, n. 1, in Foro amm. - Cons. St., 2004, 27.
21 C. cost., 13.1.2004, n. 14, in Foro amm. - Cons. St., 2004, 61.
22 In proposito cfr. Caranta, La tutela della concorrenza, le competenze legislative e la difficile applicazione del Titolo V della Costituzione, in www.forumcostituzionale. it.
23 C. cost. n. 14/2004 cit.
24 C. cost., 23.11.2007, n. 401, in Foro amm. - Cons. St., 2007, 3026; C. cost., 14.12.2007, n. 430, in Foro amm. - Cons. St., 2007, 3356; C. cost., 21.12.2007, n. 443, in Foro amm. - Cons. St., 2007, 3366 e C. cost., 21.12.2007, n. 452, in Foro amm. - Cons. St., 2007, 3370.
25 C. cost. n. 430/2007, cit.
26Cassetti, La Corte costituzionale salva le liberalizzazioni del 2006: dalla trasversalità alla prevalenza della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, in www.federalismi.it.
27 In quanto «il numero delle domeniche e delle festività in cui è consentita una deroga all’obbligo di chiusura, passa da tredici (previsto dal decreto statale) a ventidue (consentito a livello regionale) mentre per i negozi di vicinato (esercizi commerciali con superficie inferiore ai 250 metri quadrati), anche al fine di un riequilibrio della capacità competitiva delle diverse reti distributive, è consentita l’apertura durante tutto il corso dell’anno» (C. cost., 8.10.2010, n. 288, cit.).
28 La disposizione indubbiata (art. 2 l. reg. Abr. n. 38/2010) è – secondo la Consulta – illegittima perché impone «agli esercizi commerciali che vogliano usufruire della facoltà di derogare all’obbligo di chiusura domenicale e festiva, di ‘compensare’ ogni giornata di apertura facoltativa domenicale o festiva con una corrispondente giornata di chiusura infrasettimanale» (C. cost., 21.4.2011, n. 150, cit.).
29 Le citate sentenze C. cost., 23.11.2007, n. 401, 14.12.2007, n. 430, 21.12.2007, nn. 443 e 452.
30 Si consideri, tra le tante, la segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato AS480, 20.10.2008, contenente Osservazioni in materia di apertura degli esercizi commerciali in Italia, in www.agcm.it.
31 TAR Puglia, Lecce, sez. I, 1.7.2009, n. 1752 e 9.6.2010, nn. 1385 e 1386 tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
32 TAR Toscana, Firenze, sez. II, 2.3.2011, n. 395, in Foro amm. - TAR, 2011, 804.
33 TAR Puglia, Lecce, sez. I, 11.4.2011, n. 639 e 25.5.2011, n. 960, entrambe in www.giustizia- amministrativa.it.
34 TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 26.10.2010, n. 8002, cit.
35 Una normazione siffatta – secondo la Corte di giustizia – «persegue un obiettivo legittimo alla luce del diritto comunitario», in quanto «le discipline nazionali che limitano l’apertura domenicale di esercizi commerciali costituiscono l’espressione di determinate scelte, rispondenti alle peculiarità socioculturali nazionali o regionali» (sentenza 16.12.1992, causa C-169/91)..