GLUCK, Christoph Willibald
Compositore, nato da Alexander il 2 luglio 1714 ad Erasbach presso Berching (Palatinato), morto a Vienna il 15 novembre 1787. Ancor bambino fu condotto in Boemia, dove il padre suo - già soldato negli eserciti di Eugenio di Savoia e allora guardia forestale - serviva nobili famiglie: tra le altre (dal 1722) quella dei Kinsky, a Böhmisch Kamnitz (Česká Kamenice) e poi (dal 1724) quella dei Lobkowitz, in Neuschloss presso Böhmisch Leipa (Českä Lípa); dai quali anni d'infanzia, trascorsi in paese slavo e nel seno della libera natura, si formarono nella sensibilità musicale del fanciullo elementi caratteristici. La prima scuola musicale cui s'accostò il G., quella di Bohuslav Černohorský, maestro di cappella a San Giacomo in Praga, più che contrapporsi alla musicalità popolare, offriva l'esempio delle stilistiche allora dominanti non meno in Boemia che nei paesi tedeschi, le quali venivano dall'Italia e si volgevano non tanto all'arte dell'elaborazione contrappuntistica quanto alla venustà della linea melodica. Il Černohorský - quando il G., abbandonata la casa paterna, si recò a Praga a vivere come cantore di chiesa e suonatore nelle danze pubbliche - tornava proprio allora (1735) dall'Italia, dove per gran tempo aveva dimorato e dove aveva avuto allievi come G. Tartini; era egli stesso un esempio d'interpretazione nordica dello stile italiano, a un dipresso come lo erano, in quel tempo medesimo, i tedeschi J. A. Hasse, K. H. Graun, G. Ph. Telemann ed altri. Così che il G. entrava già, presso il Černohorský, in quell'orbita di musica d'arte che doveva accoglierlo dopo poco tempo, quando, per cura del principe Melzi (il quale aveva ammirato la viva musicalità del giovane violoncellista in una serata in casa Lobkowitz a Vienna) egli fu condotto a Milano e posto alla scuola di G.B. Sammartini, il celebre sinfonista allora maestro di cappella a S. Maria Maddalena.
Col Sammartini il G., che dal "Padre boemo" (Černohorský) era stato iniziato agli stilemi della musica di chiesa, assimilò compiutamente, durante i quattro anni di lavoro (1736-1740), quelli della musica strumentale, dallo stesso Sammartini aperta a nuove correnti, e dell'opera teatrale di scuola italiana; le forme strumentali di G.B. Pergolesi, di G.B. Sammartini, di B. Galuppi, per citare le influenze più visibili, si concretano nuovamente, presso il G., in pagine appartenenti non solo ai primi periodi della sua attività (oltre le varie ouvertures, o sinfonie, delle opere giovanili, v. le sonate per due violini e basso del 1746, ove dalle influenze pergolesiane si traggono esplicazioni stilistiche prossime a quelle del primo Mannheimer: J. Stamitz, e il sammartiniano Allegro della sinfonia del Telemacco [sic] composta verso il 1749-50 e ripresa poi per l'Armida del 1777) ma anche ai già maturi, come la sinfonia, anch'essa sammartiniana, dell'Orfeo, composta verso il 1762; le forme operistiche dei Napoletani (dallo Scarlatti al Porpora e al Vinci) del Hasse e dei nuovi Veneziani (A. Caldara, B. Galuppi), delle quali il G. doveva del resto essere edotto fin dai tempi di Praga e di Vienna, si disegnano nettamente sul piano delle opere gluckiane del periodo 1741-1762 e talvolta appaiono anche nel seno di alcune del periodo successivo; finalmente, oltre l'adozione di tali forme costruttive (Aria col da capo e altri stilemi che ora saranno esposti), è da notare un fatto che in ordine alla sostanza musicale ha un'importanza fors'anche maggiore: l'adesione della pura lirica gluckiana - per quel che è "melodia" - al tipo della melodia italiana. Alle melodie composte secondo questo tipo nel periodo italiano il G. farà appello, riprendendole immutate o quasi, fin nelle più tarde opere francesi, là dove il discorso poetico-musicale (formato dal G. con elementi anche francesi e tedeschi) scompare subitaneamente sotto l'arco estatico della melodia pura. Melodia, questa, il cui esempio sovrano: O malheureuse Iphigénie, non è che l'aria Se mai senti spirarti sul volto composta nel 1752 per la metastasiana Clemenza di Tito.
Nei suoi inizî l'arte di G. appare vivente soprattutto di melodia pura, non soltanto per il luogo riserbato alla musica di maggiore impegno, che - come era d'uso più comune - era quello dell'Aria, ma anche, e anzi specialmente, per il valore musicale delle singole ispirazioni: dell'Artaserse (la prima opera teatrale del G., rappresentata a Milano il 26 dicembre 1741) e del Demetrio (sotto il titolo di Cleonice, Venezia 1742) non rimangono che poche arie (rispettivamente 1 e 5); della terza opera, Demofoonte (Milano 1742) conosciamo solo le arie (edito il i° atto a cura di J. Tiersot, nelle Publ. della Gluck-Gesellschaft, I, 1914), oltre un duetto ed il finale d'insieme, le quali seguono la forma tradizionale (L. Rossi, A. Scarlatti ecc.) col da capo, e che giungono talvolta a un'intensa espressione. Nella lettura dei frammenti di queste prime opere e di quelle che immediatamente seguirono, si nota il fervore col quale il giovane barbaro sentiva le passioni presentate dai versi da musicare. Anche presso i migliori Italiani del tempo non sempre s'incontra la trepida tenerezza del giovanile canto gluckiano: Rasserena il mesto ciglio, composto probabilmente per qualcuna delle opere (Demofoonte, Tigrane, Sofonisba), contaminate poi nel "pasticcio" Artamene (ed. in The favourite songs, ecc., da J. Walsh, Londra 1746); canto la cui tendenza alla melodia pura si discerne - come nell'altra aria della stessa serie: Se crudeli tanto siete - anche nelle rapite espansioni vocali in ampî intervalli (di 6ª subito nella prima aria, di 5ª e di 10ª nella seconda) che ricorrono così frequenti nelle frasi italiane del Gluck a coronarne le salienze quasi accenni melismatici.
Tale fervore, tale intensità di fede, per così dire, nel valore lirico dei sentimenti presentati dalla poesia, costituiscono fin da questi primi saggi il carattere più proprio, quasi peculiare del Gluck, dal quale si determina nella musica un tono di appassionata dedizione, di Leidenschaft non solito all'arte operistica del tempo, più spesso decorativa o lievemente sensuale.
Questo tono distingue del resto - oltre le ispirazioni puramente melodiche nei momenti di estasi lirica - qualsiasi pagina che abbia, nel corso dell'opera, un valore costitutivo: il G. riesce a sostanziare di sé perfino le forme o le formule più usate, e a superare i limiti del gusto del suo tempo; come avviene per es., nelle scene fantastiche di evocazioni, di sortilegi, di misteriosi riti, nelle quali il G. non ricorre a mezzi diversi dai comuni: le celebri scene in cui Armida evoca gli spiriti dell'Odio (Armida, atto II, se. 2ª e III, 3ª) e che sono basate rispettivamente su musiche del Tigrane 1743) e della Sofonisba (1744), o anche quelle - composte verso il 1762 - in cui le divinità degl'Inferi tentano di respingere Orfeo, nulla presentano nel loro apparato formale che non presentassero Hasse o Vinci, ma ogni pericolo di stilizzazione è vinto dall'impeto quasi selvaggio che il G. traeva dal fondo stesso del drammatismo, ove in altri tempi e in altra arte erano nati C. Monteverdi e P.F. Cavalli e nasceranno G. Verdi e R. Wagner.
Contro la stilizzazione, contro l'impersonalità "per difetto" reagisce l'individualismo tipico del G., cui attraverso alcune crisi verrà a corrispondere la coscienza di nuove necessità estetiche.
La sollecitudine dell'espressione più individuale trova già in alcune stilistiche del Rameau (studiate dal Gluck già intorno al 1745-1746), elementi ricchi di risorse per una rivalutazione del discorso poetico-musicale, e quindi dello stesso svolgimento del dramma, determinato non solo dalle salienze liriche (Aria), ma anche dal senso del dialogo e della meditazione (così vocale [recitativo] come strumentale: interludî, cortei e - nel tardo Gluck - anche le danze).
All'arte francese e a quella, intimamente germanica, di G.F. Händel, il G. può accostarsi in occasione del suo viaggio a Londra (attraverso la Francia) compiuto dal 1745 al '46. S'è visto l'insieme delle proprietà e dei pregi delle prime opere (che si mantengono nelle successive dal Tigrane [1743] all'Ippolito [1745]) ed è facile immaginare il plauso che ne venne al giovane musicista (il Demetrio, secondo una testimonianza del tempo "fu portato alle stelle" nelle varie città: Milano, Venezia, Crema, Torino, ove compariva). Da Torino egli parte per Londra nel 1745, chiamatovi - per iniziativa di lord Middlesex - quale compositore per il teatro in Haymarket. I lavori londinesi (La caduta dei Giganti e Artamene), quantunque contenessero numerose pagine delle migliori opere anteriori, non ebbero però accoglienze favorevoli, ed è singolare la preferenza che in confronto con le arie incontrarono le danze. Secondo il Reichardt, G.F. Händel (che alcuni riferiscono aver disprezzato la tecnica gluckiana) avrebbe spiegato al Gluck tale freddezza del pubblico come conseguenza della "soverchia pena che il Gluk si era dato per gl'Inglesi". Ma lo stesso Gluck cerca ragioni più profonde, constatando la difficoltà che si oppone al buon effetto di una musica trasportata da una scena, da una data sfera di sentimenti, a un'altra d'indole differente. Nel corso della sua carriera il Gluck praticherà il procedimento non di rado, ma con cautela vigile e senso d'uomo di teatro, riprendendo le sue pagine (osserva F.A. Gevaert) come semplici abbozzi e studî per il quadro definitivo.
Vicino a tali osservazioni d'ordine estetico, cui s'accostano anche le deduzioni tratte poi dal G. dal recitato del Rameau, si pongono esperienze d'ordine più propriamente musicale: da una parte la potente architettura, a masse disposte da un ritmo costante, dell'oratorio händeliano (a una delle quali manifestazioni: Judas Maccabaeus [1746], il G. ebbe occasione di assistere a Londra), dall'altra l'intensa suggestione del canto popolare britannico, pur così semplice e ingenuo. Esperienze, come si vede, assai disparate, ma ambedue concorrenti a richiamare dal fondo dello spirito gluckiano elementi germanici fino allora non sviluppati. A una personale sintesi queste eterogenee impressioni e gli usi italiani del G. non giungeranno che più tardi, mentre fino al 1762 circa è lecito osservarne un giuoco vario, non privo di rapporti, d'altra parte, con le circostanze e i motivi onde nascono le singole opere.
Con la fine del 1746 s'inizia per il G. (che lascia Londra in condizioni assai tristi) un periodo di transizione; caratterizzato specialmente, nel suo aspetto positivo, da tentativi di ascesa stilistica (Semiramide riconosciuta [1748], Ezio [1780, anno cui forse risale almeno la sostanza musicale del Telemacco da J. Tiersot posto nel 1765], La clemenza di Tito [1752]) e da saggi nel genere Singspiel (poi, presso i Francesi, Opéra comique) e nel balletto di corte. Rientrato in Germania, il G. comincia a lavorare d'occasione: opere per solennità principesche, divertimenti, balletti e pezzi da interpolare in Singspiele e brevi opere comiche francesi. Ricordiamo, tra le prime, Le nozze d'Ercole e d'Ebe (Pillnitz 1747, lavoro convenzionale, la cui buona musica è in parte tratta da Sofonisba) e La contesa dei Numi (castello di Charlottenburg presso Copenaghen, 1749). In quel torno di tempo (fino al 1749 incluso) il maestro segue i giri dell'impresa P. Mingotti, presso la quale è direttore d'orchestra, e la sua produzione ne è in certo modo vincolata a circostanze pratiche; ma l'ispirazione musicale trova pure i suoi momenti, come p. es. nella Semiramide, ove appaiono pagine d'intensa espressione (v. l'Andante della sinfonia, degno del Vivaldi, o - più propriamente - del Gluck d'Orfeo). Nel 1750 passa per Praga, ove presenta Ezio, opera notevole, oltre che per la cura posta nella scrittura armonica e strumentale, anche per il suo indirizzo architettonico, che ci rende ragione delle forme del Telemacco e anche di Paride ed Elena. A Vienna (dove intanto gli apriva una vita più calma e agiata il matrimonio con la buona Marianne Pergin) si stabilisce fin dall'autunno dello stesso anno. Sembra essere di quegli anni il Telemacco, l'opera più importante, per i piani costruttivi, fra le estranee alla cosiddetta "riforma".
Quivi si nota una volta di più quella virtù gluckiana della fede, della eticità, per così dire, del lavoro artistico, che determina nella musica un tono di necessità, di fermezza, non solo nelle linee ma nell'intera condotta componistica; tale da distinguere nettamente l'applicazione gluckiana delle forme più comuni; i caratteri che giustamente osserva A.B. Marx (Gluck und die Oper, Berlino 1863) nella stilistica del Telemacco, non sono però nuovi come vorrebbero lo stesso Marx, il Tiersot e altri esegeti: la disposizione di più brevi quadri o scene in grandi blocchi cementati da vincoli tonali e formali (riprese periodiche di elementi-base, corali o altro) è costume della composizione händeliana; il recitativo accompagnato è in uso presso molti metastasiani, da L. Vinci a J.A. Hasse e a N. Jommelli, il quale ultimo non ha inoltre della scrittura armonica e della strumentale minor cura che non abbia il Gluck. Quel che è peculiare del futuro "riformatore" è piuttosto l'uso che di tali stilemi vien fatto, secondo una volontà che li stringe al compito: alla costruzione del dramma musicale. Nel Telemacco, oltre la forza espressiva di alcune pagine (che in parte ritorneranno nell'Alceste, nella prima Ifigenia [l'aria n. 8 del Telemacco: Ah, chi di voi m'addita, diventerà l'iniziale recitato-arioso di Agamennone nel n. 10 di Ifigenia] e nell'Armida) è appunto visibile lo sforzo verso l'organicità del quadro drammatico-musicale, sforzo che ci rende ragione delle virtù onde nacquero Alceste, Armida e la seconda Ifigenia.
Dopo altre due opere serie: Issipile (Praga 1752) e La clemenza di Tito (Napoli 1752) meno importanti, quanto a proprietà drammatiche, del Telemacco, ma delle quali l'ultima contiene melodie sublimi, Gluck lavora per l'aristocrazia e per la corte di Vienna (dopo La clemenza di Tito egli viene assunto quale Kapellmeister dal principe di Sassonia-Hildburghausen, e dal 1754 al '64 dalla Hofoper) e compone sinfonie e ouvertures all'italiana, brevi opere leggiere: Le Cinesi (1754), La danza (1753, cui l'Eco e Narciso del 1779 prenderà un'aria) e balletti: L'orfano della Cina e Alessandro (ambedue del 1755), l'atto unico L'innocenza giustificata (Vienna, Hofoper, 1755; partitura indulgente al virtuosismo vocale), le opere in tre atti Antigono (1756, rappr. a Roma, ove al Gluck venne in tale occasione conferito dal pontefice il titolo nobiliare di cavaliere, che d'allora in poi egli prepose sempre al suo nome) e Il re pastore (Vienna 1756) e il magnifico balletto Don Giovanni (1761).
Nei lavori che abbiam detto leggieri, il G. avvia nella sua carriera un movimento del quale, come si è accennato, l'importanza in questo periodo di transizione non è scarsa: dalle opere comiche e dai balletti del 1754-55 si passa, attraverso ai pezzi da interpolare in Singspiele e in opere leggiere francesi, ai veri opéras comiques su testi di Ch.-S. Favart, che al G. erano affidati dal conte Durazzo, sovrintendente dei teatri viennesi; dei quali opéras comiques il musicista compì circa una diecina, dal 1758 al 1764, cioè anche dopo l'Orfeo che apre il periodo della "riforma".
Quivi tra l'altro riemergono elementi popolareschi (Lieder, danze cantate o strumentali), spesso slavizzanti, come ne L'île de Merlin (1758) e ne La rencontre imprévue (1764), e si propone al musicista il nuovo compito dell'intonazione musicale della frase francese, ove il G. raggiunge uno stile assai prossimo, anche nel disegno melodico in sé, a quello delle opere dal 1772 in poi, come si vede nell'aria Je chérirai Jusqu'au trépas della Rencontre imprévue. Alcune pagine de L'ivrogne corrigé (1760) e de L'île de Merlin sono anzi passate, degnamente, addirittura nell'Armida e nella Ifigenia in Tauride. Gli stilemi tipici di questi opéras comiques derivano da quelli di altre forme: dagl'intermezzi e dalle scènes italiennes en musique divulgate dai buffonisti (v.) all'inizio del secondo Settecento, per quel che concerne la trattazione dell'opera intera; dall'opera di J.-Ph. Rameau riguardo al discorso musicale su testo francese; oltre che dalla musica popolare tedesca e slava, spesso richiamata nei "pezzi di genere", nelle brevi ariette (veri e proprî Lieder) e nelle danze. Come osserva il Tiersot, i lavori del G. costituiscono, poco dopo l'opera del Duni, i primi esempî dell'opéra comique francese.
La principale linea di forza di questa gluckiana transizione, diretta verso l'organicità del dramma (cui il pensiero del tempo connetteva necessariamente la valorizzazione del discorso poetico-musicale) si conclude nell'Orfeo ed Euridice, la prima opera della riforma, rappresentata con grande plauso a Vienna (Hofburg) il 5 ottobre del 1762. Il testo era dovuto al critico e poeta Ranieri de' Calzabigi (v.), consigliere imperiale alla Corte dei conti dei Paesi Bassi, dal G. conosciuto a Vienna dove il Calzabigi s'era recato nel 1761.
Il valore di questa collaborazione (variamente calcolato in ordine al peso delle dichiarazioni teoriche del G. e del Calzabigi e perfino alla priorità tra l'uno e l'altro dei due riformatori) è comprensibile, più che nell'esame delle teorie, che poi ci ricondurrebbero, attraverso lo stesso Metastasio (v. il saggio di R. Rolland, Métastase precurseur de Gluck, riedito in Voyage musical, ece., Parigi 1920), ai lontani Fiorentini e ad Emilio del Cavaliere, proprio nell'esame dell'opera d'arte cui le teorie s'unirono. Nella partitura dell'Orfeo vediamo una decisiva sintesi del tutto purificatrice, raggiunta dal mondo gluckiano nel contatto col severo, totalmente affettivo (senza le dispersioni extra-liriche del Metastasio), libretto del Calzabigi. Il dramma or poetico or musicale cede il passo al dramma musicale propriamente detto, totalmente rivissuto in musica. Il ritmo del poema si risolve in un ritmo generatore di architetture musicali, le cui membrature constano di quegli elementi (recitato, arioso, aria, interventi corali e orchestrali, ecc.) che presso i metastasiani servivano a separati scopi. Dall'Orfeo in poi la musica esprime il senso più intimo del processo poetico, esplicandone i successivi momenti in masse ben distinte (da valori tonali, ritmici, e spesso anche tematici) e avviate, ciascuna per la sua funzione, da tale ritmo generatore di tutta l'azione. Esempio, valido per l'intera opera gluckiana della riforma, il primo atto dell'Orfeo (che giova leggere nella stesura definitiva del 1774): esso risolve le tre fasi essenziali del processo drammatico, dalla desolazione, attraverso la dolcezza dei ricordi, alla rinascita della speranza, in tre masse costitutive: dal n. 1 al 6, tonalità Do minore e relativo Mi-b maggiore, ritmo pari, movimento lento, motivo ascendente di 4ª sol-do con cadenza intensificata dalla 7ª di dominante; dal n. 7 all'11 (Lied in tre strofe distinte da brevi recitati), tonalità Fa maggiore ritmo dispari, movimento in Andantino; dal n. 12 al 17, tonalità immediatamente relative al Do maggiore (con la finale illuminazione in Sol), ritmo e movimento varî come variano quivi i moti affettivi, fino all'Allegro maestoso finale. Queste le tracce, per così dire, grafiche della riassunzione del dramma in architettura musicale; la quale architettura, per essere organica, cioè vivente, esigeva appunto la vitalità dei suoi elementi e quindi la fecondità lirica delle zone poetiche onde essi elementi nascevano. Quivi (oltre il peculiare valore del contatto col Calzabigi) il senso positivo della gluckiana "soggezione della musica alla poesia" la quale finisce per risolversi proprio in totale riespressione della poesia nella musica; e quivi la divergenza tra il dramma musicale gluckiano e la metastasiana ghirlanda di musiche e di poesie, cui s'informeranno le norme poi esplicate. Norme il cui vero senso, meglio che nelle prefazioni all'Alceste e a Paride ed Elena, si discerne nelle partiture stesse.
L'Alceste (la seconda opera della riforma Gluck-Calzabigi, rappresentata con buon esito a Vienria [Hofburg] il 16 dicembre 1767; a Parigi, nella versione definitiva su testo francese del du Roullet, con esito dapprima incerto, il 23 aprile 1776) mostra lo stesso procedimento componistico già veduto nell'Orfeo, in un dramma ben più interiorizzato, e quindi in un'ispirazione musicale ben più severa e complessa. Al quale dramma si accede per un'introduzione sinfonica (Intrada, nella vers. ital.), ove iniziamo, per così dire, la discesa entro noi stessi. G. annunzia il dramma in questa libera sinfonia volventesi intorno al suo essenziale motivo (re-fa) come il dramma si volverà nel seno del dolore, allo stesso modo che dietro il suo esempio praticheranno i romantici. Come la sinfonia, così tutto nel corso dell'intera partitura è funzione del dramma, alla cui architettura musicale concorrono forme e mezzi, proporzionalmente potenziati: il recitato (sempre "con strumenti") vi sfocia, attraverso il naturale intensificarsi della commozione, lungi da intenti decorativi, nell'Arioso drammatico o nella lirica Aria, movendosi le persone (i soli) or contro or frammezzo le moltitudini corali, in una densa atmosfera orchestrale. Esempio sublime la grande scena corale del secondo atto, ove alla non più contenibile angoscia del solo, dell'individuo, sgorga e intorno si snoda la commossa meditazione del coro, dell'umanità cui sovrasta il mistero del Fato.
E nella prefazione si legge il codice di questo lavorare: rispondenza della sinfonia all'argomento del dramma, adesione della musica alla poesia, concorso dell'orchestra all'espressione, semplicità (contro ogni virtuosismo) nella scrittura e nell'interpretazione. Le quali norme possiamo ora considerare per quel che esse rispecchiano presso il G., differenziate da quel che furono presso il Rameau (ove non la musica alla poesia, ma l'accento musicale, sia pure nell'accezione più intima, aderisce all'accento della frase verbale) o presso L. Vinci, J.A. Hasse, N. Jommelli, T. Traetta, ecc.; poiché tutte sono proposte dal solo impulso drammatico.
La potente unità di tono affettivo dell'Alceste, cui sottentrerà nell'Armide l'unità derivante dall'assoluta predominanza di una sola persona (la protagonista), e nella seconda Iphigénie un'unità piuttosto stilistica che altro, doveva provocare ovunque, svalutata spesso a monotonia, una certa irrequietezza, che nell'ambiente piuttosto stanco e alessandrino di una Vienna rimpiangente il vecchio poeta cesareo e attaccata sempre ai suoi maestri decoratori, era più che altrove accentuata.
Il G. lavora, dopo l'Orfeo e l'Alceste, a opere d'occasione (Il trionfo di Clelia, Bologna 1763; Il Parnasso confuso, Schönbrunn 1765; La corona, 1765, non eseguita; Le feste d'Apollo, trittico comprendente anche l'Orfeo, Parma 1769), e anche a un altro dramma musicale: Paride ed Elena (testo di R. de' Calzabigi, rappr. a Vienna il 30 novembre 1770); ma né l'amabilità delle prime, né le suggestive bellezze di quest'ultimo (v. la venusta aria di Paride nel secondo atto, n. 15, oltre la sinfonia, su pagine dell'opera, e le ultime scene) poterono evitare al maestro una lenta discesa nel favore della corte e del pubblico. Cui s'aggiunse, nel 1769, una grave delusione (con non meno gravi dissesti finanziarî) incontrata nell'impresa dei teatri imperiali, che durante qualche mese il G. aveva assunto.
Opportuno dunque veniva, in quegli anni, l'orientarsi del G. verso il ben più vivo ambiente parigino, ove l'opera in musica era, fin dal suo sorgere, oggetto d'intelligente se pur intellettualistico studio; e dove pensatori e maestri, dal La Bruyère agli enciclopedisti, dal Lulli al Rameau, avevano sospinto e sospingevano l'opera verso il dramma, o almeno verso una maggiore aderenza della musica alla poesia. (A proposito di tale ambiente intellettuale vedi specialmente l'ordinato saggio di E. Hirschberg, Die Encyclopädisten und die Französische Oper im 18. Jahrhundert, in Publik. d. Int. Musikges., Beihefte X, Lipsia 1903; e la prima parte del Gluck di R. Rolland, riedito in Musiciens d'autrefois, Parigi 1908, 2ª ed. 1919). Il G., non inesperto, fin dagli Opéras comiques sovra citati, delle esigenze e delle risorse musicali della lingua francese, doveva simpatizzare con una tradizione così tendente al dramma. Soprattutto, egli si volgeva verso la vita.
E del valore decisivo che doveva avere questo suo nuovo orientamento, il G. era pienamente consapevole. All'ambiente dei Diderot, dei D'Alembert, dei Rousseau (al quale ultimo egli protesta devozione e gratitudine come di spirituale discepolo) il maestro viene incontro con uno strenuo impegno di tutte le sue risorse di artefice, presentando a Parigi, un'opera tratta (dall'abilità del francese F. Le Blanc, bailli du Roullet, attaché all'ambasciata presso l'imperatore) da quella raciniana Iphigénie, che il Diderot aveva già proposto a "... l'homme de génie qui doit placer la véritable tragédie... sur le théâtre lyrique" (Troisième entretien sur le Fils naturel, 1757).
Nell'Iphigénie en Aulide la severa bellezza (un poco grigia) di molte pagine (a principiare dalla celebre ouverture, di cui si ricorderanno Mozart, Weber e Beethoven) e l'aspetto monumentale dell'insieme dei tre atti non bastano appunto a celare questa tensione, questo strenuo sforzo dell'artefice; le fioriture gluckiane di diverse correnti stilistiche (italiane, tedesche, slave, francesi) non sono unificate da un vigoroso sentimento che tutte le ricrei in una sintesi lirica, quale s'era trovata nel mondo, stilisticamente meno eterogeneo, dell'Orfeo e dell'Alceste; quale rinascerà nelle opere successive a questa prima entrata del G. nel mondo francese.
Accolta, il 19 aprile 1754, con plauso immenso (se pur non scevro da contrasti da parte di alcuni critici), l'Iphigénie en Aulide aprì a G. un cammino più libero. Le resistenze dell'Académie royale de musique erano ormai cose del passato; e si aggiunga che l'allieva e ora protettrice di G., Maria Antonietta, poteva imporre dal trono quel che come delfina aveva consigliato. Eguale plauso ebbe l'Orphée (adattato alle scene francesi) il 2 agosto 1774, che tra l'altro ridestò i vecchi entusiasmi dell'influente Rousseau per l'Orfeo ed Euridice. Ma in seguito ai dubbî che accolsero la prima rappresentazione della nuova Alceste (nuova per opportuni e radicali mutamenti) le ostilità degl'intransigenti tradizionalisti (italianizzanti o fedeli ai numi Lulli-Rameau) si levarono focose. La contesa divampava in tutta la cerchia intellettuale di Parigi. Per il G. parteggiavano, oltre il Rousseau, l'abate F. Arnaud, il Suard e altri; contrarî erano gli enciclopedisti D'Alembert e Grimm, I.-F. Marmontel, il P.-L. Ginguené e il caparbio La Harpe, i quali scesero a puerilità insigni, chiamando a Parigi, nel 1776, un altro operista, Niccolò Piccinni, da opporre, proprio come in una sfida, al creatore di Alceste. (Circa questa contesa v. specialmente i Mémoires ecc. dell'abate G. Leblond [Napoli 1781] e Gluck et Piccinni di G. Desnoiresterres [Parigi 1871], oltre le rettifiche a quest'ultimo portate da J. Tiersot nel suo Gluck [Parigi 1919]). Sdegnoso, il G. si ritirava, negli ultimi mesi del 1776, a Vienna, per compiere la sua Armide, sul vecchio libretto del Quinault già musicato dal Lulli; né portò avanti il Roland che ambedue i maestri avrebbero dovuto porre in musica. Per concedere all'Académie royale de musique la sua nuova opera (ch'egli dichiarava aver composto "in modo tale ch'essa non potesse invecchiare tanto presto") il G. impose rigide condizioni, tra le quali il diritto a due mesi di prove. Rappresentata il 23 settembre 1777, l'Armide destò, come già l'Alceste, vivo interessamento più che entusiasmo.
Il capolavoro di G. è infatti un dramma tutto interiore, svolto interamente nel complesso animo di Armida, cui intorno si stende come un velo magico trapunto d'immaginose finzioni. La musica, doviziosa di armonie e di timbri sottili, di dolcissime volute melodiche, si condensa e s'innerva nell'espressione di questa eroica (e romantica) figura, come doveva poi avvenire alla musica wagneriana al comparire di Isotta. Questa esplicazione musicale dei caratteri, delle singole individualità (già notata dallo stesso G. in una lettera al Du Roullet, ed. nell'Année littéraire, VIII, 1776, pag. 322) tocca infatti i suoi momenti capitali nelle sinuose e pur potentissime scene di Armida: Atto I, sc. 1ª e 2ª (Ah, qu'il me serait aimable...; Si . Je dois m'engager un Jour); II, sc. 5ª (terminata dal meraviglioso incantesimo); l'intero III atto e il finale del V, in una compiuta parabola drammatica. In questa interiorità del preromantico tedesco, che determinò nel paese dell'intellettualismo così acri incomprensioni (specialmente presso il La Harpe), è la virtù per la quale Armida "non può invecchiare" e che a noi la rende più cara che il nitido rilievo adamantino della seconda Iphigénie, nel quale, tranne qualche momento (per es., le scene di Oreste nel tempio, II atto, n. 14 e 15) ogni passione si presenta già purificata e superata, priva ormai di drammatico dinamismo agogico, nella serena linea della melodia e dell'architettura.
Ma l'esito dell'Iphigénie en Tauride (libretto di N.-F. Guillard), rappresentata il 18 maggio 1779, fu tale da sconfiggere ogni critica avversa. Ivi era raggiunta la sintesi dello spirito musicale del tempo, ove le singole tradizioni nazionali si fondevano interamente. Né la freddezza trovata dall'ultimo lavoro, il leggiadro divertimento Écho et Narcisse (su libretto di J.-B. Tschudi, rappr. il 24 settembre 1779) valse a restituire vera forza ai nemici. Quando il maestro, nell'ottobre 1779, ritornò a Vienna per vivervi i suoi ultimi anni nella pace così duramente guadagnata, nulla poteva più nuocere al suo nome, ormai elevato al disopra dei paesi e dei tempi.
Opere e principali edizioni: La produzione gluckiana, costituita da più di cento lavori teatrali, da sinfonie (e ouvertures), sonate a tre, Lieder su versi del Klopstock (che risalgono al 1770), un De profundis, un Salmo a cappella, ecc., è edita soltanto in parte, in attesa dell'edizione completa di cui ora si occupa la Neue Gluck-Gesellschaft di Lipsia. Molti lavori si conservano manoscritti presso varie biblioteche, a Parigi, Vienna, Dresda, ecc. Le opere della "riforma" sono accessibili in edizioni varie; tra le quali si deve notare quella di Breitkopf u. Härtel di Lipsia, curata da B. Damke, C. Saint-Saëns, M.lle Pellétan e J. Tiersot e quella curata da F. A. Gevaert (Parigi, Lemoine). Opere anteriori nei Denkmäler der Tonkunst austriaci e bavaresi. Guida utile per lo studioso è: A. Wotquenne, Catal. thématique des øuvres de Chr. W. Gluck, Lipsia 1904.
Bibl.: Della vastissima letteratura gluckiana (in parte indicata da A. Aber nel suo Handbuch der Musikliteratur, Lipsia 1922 e, per la parte tedesca, da S. Wortmann nella sua dissertazione lipsiense Die deutsche Gluck-Literatur, Norimberga 1914) ricorderemo, oltre i già citati, soltanto i lavori più importanti o comunque più utili: A. Schmid, Chr. W. Ritter v. G.,Lipsia 1854; A. Reissmann, Chr. W. v. G., Berlino-Lipsia 1882; J. d'Udine, G., Parigi 1913; E. Kurth, Die Jugendopern Glucks, negli Studien zur Musikwissenschaft diretti da G. Adler, Lipsia e Vienna 1913; M. Arend, Zur Kunst Glucks, Ratisbona 1914; I. Pizzetti, Il teatro musicale di G., in Musicisti contemporanei, Firenze 1914; F. Vatielli, Riflessi della lotta gluckista in Italia, in Rivista musicale italiana, 1914; W. Vetter, Glucks Entwicklung zum Opernreformator, in Archiv f. Musikwiss., VI, 2, 1924. Ricca di utili studî è la collez. del Gluck-Jahrbuch, Lipsia 1913-18.