Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Grazie alla collaborazione con Calzabigi, Gluck dà attuazione a quella riforma dell’opera universalmente auspicata da decenni e sulla quale s’era acceso un vivace dibattito intellettuale. Musicista dal forte istinto drammatico, la sua opera ha una notevole risonanza europea: dà luogo a polemiche, ma conferisce anche una nuova dignità allo spettacolo dell’opera in musica ed esercita un influsso duraturo sul teatro musicale delle epoche successive.
La collaborazione con Ranieri de’ Calzabigi e le istanze riformatrici dell’opera
La riforma dell’opera seria, motivo ricorrente nelle critiche che letterati e musicisti appuntano al dramma per musica settecentesco oltre che necessità largamente avvertita, pare realizzarsi nel momento in cui un musicista come Christoph Willibald Gluck incontra un intellettuale capace di fornirgli il materiale letterario necessario alla creazione di un dramma ispirato alle nuove idee, e lavora con lui in perfetta comunanza di intenti. Intellettuale e avventuriero d’origine italiana, grande appassionato di problemi teatrali, Ranieri de’Calzabigi si rifà alle idee di Algarotti e degli illuministi francesi: al dramma per musica metastasiano rimprovera di non mettere in scena passioni forti ed elementari, tradendo così lo scopo primario del teatro tragico e dell’opera in musica. Calzabigi propugna una poesia sfrondata da ogni elemento decorativo o accessorio, capace di suscitare forti emozioni nel compositore e negli spettatori.
I presupposti teorici della collaborazione di Gluck e Calzabigi sono enunciati nelle prefazioni alle partiture a stampa di Alceste (1767) e di Paride ed Elena (1770). L’idea centrale della riforma è che alla parola vada reso il ruolo che le spetta, affinché dall’unione di musica e poesia possa scaturire l’immediatezza espressiva dei sentimenti.
È dunque necessario cercare una compenetrazione più stretta fra musica e poesia di quella esistente nel dramma per musica italiano di allora. Librettista e compositore trovano un importante modello nella tragédie lyrique francese, col suo rispetto per la declamazione del testo poetico e i versi che si dispongono liberamente, seguendo l’impulso emotivo; sul piano musicale ciò comporta l’esclusione degli orpelli vocali virtuosistici, come pure delle strutture formali – l’aria col “da capo”, in primo luogo – meno funzionali alla comunicazione immediata dei sentimenti.
Per le sue enunciazioni teoriche, la storiografia musicale è solita attribuire a Gluck l’invenzione di quelle soluzioni drammaturgiche che producono la cosiddetta opera riformata, l’invenzione cioè di quegli elementi che superano e abbattono le convenzioni invalse nel dramma per musica del tempo. In realtà, a Vienna, le idee che ispirano la riforma gluckiana circolano già da tempo, né sono nuovi i tentativi di sperimentare una fusione fra stile italiano e francese. In Gluck sono nuove, piuttosto, la serietà d’atteggiamento dell’artista nei confronti della sua opera, la stretta collaborazione col librettista, l’attenzione per il testo poetico, la cura profusa nelle prove e nell’allestimento dello spettacolo.
Vienna e l’opera “riformata”
Artaserse (1741) segna l’esordio di una carriera teatrale che si svolge, inizialmente, nel solco della tradizione metastasiana.
Per una decina d’anni Gluck compone drammi per musica all’italiana, scrivendo per Milano, Venezia, Napoli, Vienna, Praga, Londra e le città dell’Europa nord-orientale (che tocca al seguito di una troupe italiana).
Nel 1752 Gluck si stabilisce definitivamente a Vienna. Nella capitale degli Asburgo è imperante l’opera italiana, ma l’ambiente è cosmopolita e assai stimolante.
Influssi francesi condizionano l’ambiente culturale che ruota intorno alla corte e Vienna è anche fra i massimi centri del razionalismo e del cosmopolitismo illuminista. Gluck, che ha contatti con la corte, si orienta dapprima verso il genere dell’opéra-comique, di moda a Vienna in questo periodo; entra anche in contatto con le idee degli intellettuali sul teatro, e vi si appassiona: germinano in questo periodo le idee che porteranno alla futura riforma.
Nel 1761, dalla collaborazione tra Gluck e Calzabigi, nasce Don Juan ou Le festin de pierre, tratto dall’omonima commedia di Molière, ballo pantomimo su coreografie del fiorentino Gasparo Angiolini, maestro di ballo alla corte viennese. Da manifestazione puramente decorativa, il ballo diviene arte eloquente e drammatica: Don Juan aderisce al concetto di “verità espressiva” formulato da Angiolini (che è anche teorico della danza), ed è il primo lavoro gluckiano ufficialmente “riformato”. L’anno seguente (1762) va in scena al Burgtheater l’“azione teatrale” Orfeo ed Euridice; altra tappa fondamentale della collaborazione Gluck-Calzabigi è il 1767, anno in cui viene allestita la “tragedia messa in musica” Alceste.
La prefazione della partitura a stampa di quest’ultima (1769) coincide col manifesto programmatico della riforma e dà voce alle idee che da tempo circolano in Europa.
Se alcuni elementi specifici dell’Orfeo rimandano all’opera italiana (la presenza del protagonista castrato, la riduzione dei personaggi a tre soli, com’è tradizione nella festa teatrale), altri rimandano a quella francese: le scene con coro e balletto, l’orchestrazione raffinata, la ricerca timbrica. Fondamentali sono i presupposti drammatici che Calzabigi fornisce al musicista. Il libretto semplifica la sceneggiatura, eliminando le tradizionali coppie di personaggi secondari che nell’opera metastasiana interferiscono con la coppia principale; Calzabigi riduce il numero delle scene e le riunisce in cinque quadri monumentali, separati da mutazioni sceniche. L’azione, ridotta ai nodi essenziali, è ripartita tra i due protagonisti e il coro che partecipa attivamente al dramma, ed è costruita in modo da far risaltare le passioni umane elementari rinunciando alla rappresentazione allegorica e astratta della virtù.
L’apporto specifico del musicista, nell’Orfeo come nelle successive opere “riformate”, consiste nella ricerca di una continuità drammatica che è ottenuta in primo luogo con l’immobilità scenica e la dilatazione dei tempi. Gluck costruisce scene ad ampia campata, nelle quali il pezzo chiuso, insidiato continuamente da aperture recitanti, ha un’importanza minore che nell’opera italiana coeva; il recitativo, viceversa (al recitativo secco, Gluck preferisce il recitativo accompagnato, sostenuto in genere dai soli archi), tende frequentemente alla declamazione ariosa. Lo stile di canto bandisce la gratuita esibizione virtuosistica, la coloratura non giustificata da intenti espressivi; l’intonazione del testo è prevalentemente sillabica, ridotta nell’estensione, attentissima alle valenze espressive e alla perfetta declamazione della parola.
Come nella tragédie lyrique, al coro spetta un ruolo importante: non si limita a intervenire nei soliti luoghi deputati dell’opera italiana (il finale, i momenti rituali), ma è rilevante interlocutore del protagonista, nei cui confronti si pone, adeguandosi a una simbologia classica, come la voce della comunità contrapposta all’individuo. Il lento incedere del ritmo armonico, la declamazione corale omoritmica, che procede per valori ampi, creano effetti possenti e prestano alle pagine corali gluckiane un tono oratoriale, elevato e solenne, paragonabile a quello delle grandi pagine corali händeliane. Rilevante è anche la funzione dell’orchestra, piegata alla definizione di situazioni affettive o ambientali, utilizzata per sottolineare i risvolti psicologici dei personaggi. Per Gluck, che ricerca costantemente la varietà e l’espressività nel colore orchestrale e utilizza attentamente le risorse strumentali a fini teatrali, la sperimentazione timbrica è parte sostanziale e non accessoria della creazione musicale.
Con la carica dirompente rappresentata dalle novità del loro linguaggio, le opere “riformate” prodotte dal binomio Gluck-Calzabigi costituiscono un prodotto artistico molto lontano dall’opera seria intesa come semplice successione di arie collegate da recitativi. Esse danno attuazione pratica a quei principi di riforma drammatica che da decenni, ormai, costituiscono l’oggetto primario del dibattito sull’opera in musica.
Parigi e la querelle gluckisti-piccinnisti
All’inizio degli anni Settanta la fortuna di Gluck a Vienna inizia a declinare. Il musicista si prepara allora a esordire a Parigi, l’unico centro, all’epoca, capace di dare risonanza internazionale ai fenomeni musicali. Sfruttando abilmente le relazioni personali, Gluck si fa ridurre a libretto da un letterato aristocratico, François Leblanc du Roullet, l’Iphigénie en Aulide di Racine. Assieme al librettista, Gluck riporta strategicamente sui giornali il vecchio dibattito sulla lingua francese e il canto, all’interno del quale avevano espresso le loro opinioni, vent’anni prima, Rousseau e gli enciclopedisti; annuncia al “Mercure de France” la sua nuova opera che va in scena all’Académie Royale nel 1774.
Seguono, successivamente, i rifacimenti francesi delle opere viennesi: Orphée et Euridice (1774), Alceste (1776), Armide (1777), Iphigénie en Tauride (1779), Echo et Narcisse (1779).
A Parigi, le innovazioni delle opere viennesi di Gluck si innestano sul terreno della tragédie lyrique. Il compositore va oltre la semplice revisione: confeziona nuove versioni delle vecchie opere adattandole al gusto francese, sostituisce al registro di soprano del protagonista maschile quello di tenore, aggiunge nuovi pezzi vocali e strumentali, rimpolpa la scrittura orchestrale.Gluck presta maggiore attenzione, soprattutto, alla definizione psicologica dei personaggi, che si fanno più complessi e sfaccettati.
A Parigi le opere di Gluck suscitano un’impressione profonda, ma ancora una volta fanno da esca per lo scoppio delle vecchie polemiche sul primato della musica italiana e francese, rinfocolate dal richiamo del compositore, che interviene sul “Mercure de France”, all’antica querelle. Un gruppo di letterati, con Marmontel a capo, risponde agli argomenti di Gluck e Du Roullet e gli contrappone un italiano, Niccolò Piccinni; la polemica che ne nasce è passata alla storia come querelle fra gluckisti e piccinnisti. Del musicista italiano è esaltata la vena melodica, tipicamente napoletana (la si vorrebbe innestare sulla tragédie lyrique francese), che viene polemicamente contrapposta agli accenti affannosi e drammatici delle opere gluckiane. Si ripescano i vecchi argomenti della querelle des bouffons che ora, però, sono svuotati di significato e rappresentano un mero esercizio retorico. La polemica, che mantiene qualcosa di accademico, non risveglia le passioni di un ventennio prima.
Il teatro musicale gluckiano ha un’influenza profonda sul teatro francese e una rapida risonanza europea. Le innovazioni musicali, che iniziano a circolare dopo le prime opere allestite a Parigi, trovano ampia eco nel campo della tragédie lyrique, soprattutto ad opera di due figure di musicisti italiani internazionalizzatisi: Antonio Sacchini e Antonio Salieri –nelle opere del secondo, soprattutto, molte scene sono ricalcate su quelle gluckiane corrispondenti –.
Ma ben oltre i confini del teatro francese, il linguaggio gluckiano contribuisce efficacemente a conferire una dignità nuova allo spettacolo dell’opera in musica; in Germania e in Italia, dove esercita un influsso duraturo, il musicista diviene l’emblema di una “maniera” cui s’ispireranno in larga misura, fra gli altri, Cherubini, Spontini e Mayr.