Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nato pochi mesi prima di Shakespeare, morto violentemente (ucciso in una rissa di taverna), a soli 29 anni, Christopher Marlowe è sempre stato oscurato nella fama critica dal più noto collega. Studi più recenti hanno però ampiamente analizzato la sua biografia, a dir poco misteriosa, e hanno anche messo in luce la sua grandezza e originalità nel panorama del teatro elisabettiano e del tardo Rinascimento inglese.
Uno sguardo sull’epoca
L’influsso del luteranesimo e quello del Rinascimento italiano entrano in Inghilterra quasi contemporaneamente, dando origine a un’epoca tormentata e piena di conflitti, in cui gli aspetti più cupi della religione si insinuano nella rinascimentale fiducia nell’uomo, avvelenandone la serenità. Contemporaneamente si afferma un movimento di tipo naturalistico (influenzato dagli scritti di Giordano Bruno e Niccolò Machiavelli), per il quale la sola realtà è quella dell’effettualità empirica; ne nasce quindi una tormentosa confusione per gli animi, la cui fede tradizionale viene scossa da nuove concezioni della natura e dell’uomo.
Questa è l’epoca delle persecuzioni dei protestanti contro i cattolici, ma anche quella dei liberi pensatori, delle letterature “profane” italiane e francesi, e dei dibattiti sulle grandi questioni quali il rapporto con Dio e l’interpretazione delle Scritture, e soprattutto della controversia fra i seguaci del sistema aristotelico e dell’universo tolemaico, e i neoplatonici. Si ossequia la ragione e, contemporaneamente, ci si rifugia in tutto ciò che racchiude in sé l’idea del mistero; da ciò l’uso frequente dei termini di “ateismo” e di “magia”. In questa situazione si sviluppa l’opera di Marlowe, che vive in pieno tutte le contraddizioni di un’epoca di transizione fra tradizione e modernità.
La vita
Christopher Marlowe nasce il 26 febbraio 1564 a Canterbury, da John Marlowe, calzolaio e conciatore di pelli, benestante, e da Katherine Arthur, figlia di un ministro del culto. La sua carriera scolastica, anche se non sempre regolare, è di tutto rispetto, con una ricca preparazione nell’ambito della teologia, della letteratura e della retorica classica, che si ritroveranno nel suo linguaggio poetico. È probabile, dato il lungo soggiorno all’università, che il poeta fosse in principio avviato alla carriera ecclesiastica, ma che le proprie convinzioni lo abbiano spinto a mutare idea. I suoi studi di autori italiani dissidenti con la Chiesa, come Giordano Bruno, e la sua frequentazione dell’ambiente degli University Wits (un gruppo di autori teatrali formatisi nelle università e per questo chiamati “talenti universitari”) e della cosiddetta School of Night intorno a Sir Walter Raleigh, ne fanno un personaggio discusso.
Presto si crea intorno a lui la fama di ateismo, favorita anche dalla sua vita dissoluta, e il sospetto di magia bianca. Altri fatti misteriosi fanno supporre il suo coinvolgimento in attività spionistiche: il 29 giugno 1587, il Consiglio privato della Regina spedisce all’università di Cambridge una lettera in difesa di Marlowe, ove si accenna a una missione imprecisata svolta dal poeta in qualità di attendente o dipendente di qualche personaggio importante, tra spia e diplomatico. A cominciare dal 1587 abbiamo notizie della sua produzione letteraria, di drammaturgo e di fine traduttore (o rifacitore) dei classici, da Ovidio a Lucano. È di questo periodo la tragedia Didone, regina di Cartagine, mentre scritte fra il 1587 e il 1588 sono le due parti del Tamerlano il Grande.
Si suppone che da questo momento si trasferisca a Londra o nei dintorni, con brevi periodi a Scadbury, nella proprietà del suo protettore Thomas Walsingham, dove pare inizi la composizione del poemetto Ero e Leandro. Negli anni fra il 1589 e il 1593 si assiste a una grande produzione dell’artista in campo teatrale: prima L’eccidio di Parigi, poi L’ebreo di Malta, infine Edoardo II. Per quanto riguarda la datazione della Tragica storia del dottor Faust continuano ancor oggi le incertezze: per alcuni è precedente al 1590, per altri risalirebbe al 1593 e sarebbe quindi la sua ultima opera, quasi un testamento.
Il 18 maggio 1593 il Consiglio privato ordina a Henry Maunder, messaggero della Camera di Sua Maestà, di recarsi a casa del signor Thomas Walsingham, nel Kent, o in qualunque altro luogo si trovi Christopher Marlowe, e di arrestarlo. Marlowe viene probabilmente arrestato (grazie alla delazione dell’informatore Richard Baines), per motivi religiosi durante la violentissima campagna svolta dal puritano arcivescovo Whitgift per sradicare ogni forma di dissidenza. Il 20 maggio Marlowe si presenta di fronte al Consiglio privato, che gli ordina di rimanere a Londra per accertamenti ma, probabilmente a causa della peste, Marlowe decide di allontanarsi, e si ferma a Deptford.
Qui lo troviamo nella taverna di Eleanor Bull in compagnia di Ingram Frizer (protetto e forse agente di Walsingham); ci sono inoltre Nicholas Skeres (sedizioso dipendente del conte di Essex), e Robert Poley (avventuriero, spia e delinquente).
Si dice che, dopo cena, a causa di una lite scoppiata per il conto dell’osteria, Frizer uccida Marlowe. La repentina assoluzione, concessa all’omicida per legittima difesa, sembra a molti biografi indizio di una possibile falsificazione dei rapporti ufficiali, tesi così a mascherare il deliberato intento di eliminare dalla scena politica un personaggio pericoloso, o almeno scomodo.
Da qui comincia la sua leggenda.
Intrighi e misteri
Chi è l’uomo Christopher Marlowe? Una risposta può venire dal curioso ritratto che ne fa lo scrittore inglese Anthony Burgess in un divertente libro – Un cadavere a Deptford –, una biografia romanzata dove un immaginario giovane attore del tempo racconta in flashback il suoMarlowe (detto familiarmente Kit), come lo ha conosciuto in vita, e ci dà la sua versione della morte. È questo, di Burgess, un tipico pastichepost-moderno, e una delle tante opere che hanno accompagnato il quadricentenario della morte del grande drammaturgo elisabettiano. Da quel 30 maggio del 1593 (registrato con poche parole stringate nel burocratico verbale di polizia steso nel corso dell’inchiesta), è nata la leggenda di un uomo violento e ribelle, ateo e miscredente, omosessuale e provocatore, coinvolto in loschi e illeciti traffici politici, forse una spia. E nasce anche contemporaneamente un grande giallo che potrebbe avere come titolo “Chi ha veramente ucciso Christopher Marlowe?”. Di congetture serie e scherzose ne sono state fatte tante, come quelle provocatorie che Beniamino Placido riportava in un suo articolo della fine degli anni Ottanta, quando uscì la bella traduzione italiana del Dottor Faust a cura di Nemi D’Agostino: “Che fu ucciso, sì, ma non nel 1593, bensì cinque anni più tardi a opera dell’invidioso rivale Ben Jonson. Che fu ucciso, questo è sicuro, ma ad opera di un grande rivale ancora più invidioso, William Shakespeare”. O quelle di Guido Fink che, riprendendo il gioco in un articolo del 1993 sul Messaggero, rilegge quell’ipotesi e scrive: “Se davvero vogliamo riaprire un caso archiviato 400 anni fa, suggerirei che il colpevole non può essere che Shakespeare: non perché sospetti la sua presenza a Deptford quella sera, ma perché penso che il suo teatro, partito dalle stesse radici di quello del collega, lo abbia di fatto tradito e reso arcaico, facendoci precipitare nella modernità labirintica delle sottigliezze psicologiche e delle interpretazioni incessanti”. E qui Fink, pur nella sua ammirazione per Marlowe, si mette nella scia di coloro che fanno una chiara graduatoria di valore, all’interno della drammaturgia elisabettiana, fra Shakespeare e gli altri.
Anthony Burgess
Su Kit che è un uomo, ma rassomiglia un gatto
Un cadavere a Deptford
Ho detto gatto, ovvero Kit, e in realtà Kit aveva qualcosa del gatto. Ammiccava spesso con i suoi occhi verdi e, come i gatti, evitava di fissare lo sguardo per paura di terribili aggressioni, o di infamie, o di ingiunzioni, o di chissà che altro. I suoi occhi non si lasciavano coinvolgere neppure durante l’atto sessuale, o, per lo meno, non di frequente: d’altra parte, il sodomita rifugge i colloqui di sguardi perché troppo eloquenti sulla comunione (pur anco temporanea) dei cuori. Sui sentimenti di Kit non posso avere certezze, ma posso azzardare ipotesi, o almeno credo. Del suo viso felino posso aggiungere, invece, che il naso era largo di narici, freddo e umido. Il labbro inferiore, al contrario, era ardente e sensuale. Sopra quello superiore, lungo e tipico delle fisionomie del Kent, spuntavano baffi più felini che umani. Anche la barba era rada: forse Kit non raggiunse mai la villosità dell’adulto. I suoi capelli ricordavano una messe abbondante, ma non di grano. Evocavano piuttosto un incendio di covoni di fieno. Quando, ancora indugiando il secco, già minacciava lampi e saette, gli si rizzavano in testa. Sul suo corpo nudo ho notato pochi peli, e come una criniera rada su un membro di buone proporzioni. Kit aveva la pelle liscia, arti aggraziati, il ventre piatto. Posso testimoniare che è falso che avesse un capezzolo in più.
A. Burgess, Un cadavere a Deptford, trad. it. a cura di L. Salerno, Milano, Garzanti, 1995
Ma proprio sulla difesa dei grandi fondatori del canone occidentale o sull’attacco alla “bardolatria” di coloro che considerano Shakespeare uno dei tanti e privilegiano il quadro politico-culturale, si è scatenata un’ennesima polemica all’interno delle scuole critico-interpretative negli anni Novanta.
Quattro secoli dopo
La biografia fittizia di Burgess è uno dei tanti libri usciti sulla scia delle celebrazioni, ma anche il cinema e il teatro sembrano avere riscoperto i testi marloviani negli ultimi anni. Del Dottor Faust, per esempio, oltre a un magistrale adattamento del regista teatrale Giorgio Strehler negli anni Ottanta è da menzionare la rilettura che ne ha fatto il coreografo francese Maurice Béjart, dove Mefistofele si innamora di Faust, ed è lui che si traveste da Elena per sedurre quell’eterosessuale sbadato e rampante che è Faust, troppo preso dalle sue ambizioni. Per citare solo pochi esempi significativi degli anni Novanta in Italia, ricordiamo il Tamerlano il Grande messo in scena da Carlo Quartucci, dove una compagnia poliglotta alterna l’italiano, l’inglese, il greco e il persiano, ricostruendo la tragedia come una serie di frammenti che evocano una storia passata, i trionfi di Tamerlano, il suo amore per Zenocrate, la sua fine. O l’Edoardo II di Giancarlo Cobelli, dove il re recupera nella morte un desiderio di spiritualità opposto alla ferocia del potere. Sempre da Edoardo II è tratto il film di Derek Jarman, magistrale interpretazione del regista inglese, che si concentra sulla violenza delle passioni e del potere, e sull’aspetto dell’omosessualità.
Fra i libri, vale la pena ricordare un’altra biografia fittizia, anche se meno efficace di quella di Burgess, The Slicing Edge of Death. Who Killed Christopher Marlowe?, di Judith Cook, e la seria ricerca di un giovane studioso inglese, Charles Nicholl il quale nel suo The Reckoning (Il conto) del 1992, mira a scoprire, sulla base di documenti dell’epoca, la verità storica di quanto successe in quella famosa notte, al di là della versione ufficiale. E, mosso dal contrasto stridente fra la grandezza del personaggio e l’assurdità della sua morte, ipotizza una specie di grande complotto di Stato, in un’epoca che vede nascere il primo vero servizio segreto organizzato. Rileggere oggi Marlowe, la sua vita e la sua morte, come una drammatica avventura, può essere allora (per lo studioso come per il lettore comune che si voglia improvvisare detective), un’esperienza divertente, perché sfida il nostro gusto del gioco, dell’operazione investigativa, che segue le tracce, riempie i vuoti, illumina le oscurità e svela i misteri. Ma può anche risultare un gioco più amaro, nel confronto con la nostra epoca di intrighi e di complotti, di corruzione e di inganni, di scomparse o morti misteriose, quasi sempre meno tragica di quanto sia stata la vita di Marlowe, che è almeno filtrata attraverso la sua opera.
Rileggere oggi l’opera di Marlowe è un’impresa ancora più ardua, perché inevitabilmente dobbiamo insieme rileggere quattro secoli di critica marloviana cercando di sfatare miti e leggende, aggiungendo modestamente una piccola nota, una frangia al tessuto della tradizione, al palinsesto che ci troviamo di fronte.
Importante sarebbe, prima di tutto, cercare di sfuggire all’ineludibile confronto con Shakespeare (nato, guarda caso, nello stesso 1564), a quel destino che ha sempre legato Marlowe, nella storiografia letteraria, al cliché del precursore o predecessore di Shakespeare, a lui subordinato nella graduatoria di valore, sempre secondo.
Quello che ci compete è di cercare di dare a Marlowe quello che è di Marlowe, di vedere la sua opera, pur collocata nell’epoca e in rapporto con gli altri grandi sulla scena elisabettiana, nella sua peculiarità e, diciamolo, nella sua originalità.
Marlowe mito-poieta
Nella produzione di nuovi miti che accompagna la nascita dell’età moderna, Marlowe è decisamente senza pari. Dal Tamerlano il Grande, che rappresenta l’insaziabile desiderio di possedere il mondo, il sublime della regalità, all’Ebreo di Malta, sinonimo dell’avidità e della brama di ricchezza, al Dottor Faust, simbolo – più forte di qualunque altro nella modernità – della sete di conoscenza, Marlowe ha esplorato la più vasta fenomenologia del potere e dell’onnipotenza. Nelle sue opere la gara si ingaggia non tanto e non solo fra gli eroi – possenti e sovrumani overreachers – e la società che sfidano con le loro azioni e parole, ma soprattutto fra il poeta e se stesso, nella facoltà mito-poietica del suo “discorso grande e sonoro”, “con parole altisone”. Se l’argomento, nella sua essenza, è sempre quello del potere, questo adombra in modo evidente anche quello della lotta per la palma della gloria poetica. Marlowe ha piena consapevolezza dell’uso delle parole, e della capacità di convincere con la sua alta e magniloquente retorica i lettori/spettatori a rivivere sulla pagina scritta o nella finzione scenica la realtà del racconto. La prima conquista di Tamerlano non avviene con le armi, ma con le arti dell’oratoria, con le sue “parole convincenti”. In un suo saggio del 1968, il critico David Daiches esamina il rapporto fra linguaggio e azione in Marlowe, e in particolare nel Tamerlano, nel passaggio fra l’uso delle “parole come spade” (che ritroveremo anche nell’Amleto), alla retorica tout court intesa come forma di azione. “La poesia – scrive Daiches – non è tanto usata per interpretare l’azione, ma per incarnarla”. E Tamerlano, poeta sublime, costruisce non solo il suo impero, ma se stesso come personaggio. L’opposizione fra il debole re Micete e il futuro dominatore del mondo non sta tanto nel potere delle armi, quanto nell’arte delle parole.
L’ambigua affermazione dello stesso Micete, più avanti nel dramma, “È un bel mestiere, quello di poeta”, si chiarisce se letta alla luce del lungo elogio messo in bocca a Tamerlano della bellezza (bellezza di Zenocrate e bellezza della poesia), dove la domanda “Che cos’è la bellezza?” diventa, nel corso dei versi, “Che cos’è la poesia?”.
Ripercorrendo velocemente l’opera di Marlowe, si possono identificare due percorsi, il primo che va dal Tamerlano a Edoardo II, e il secondo che va dall’Ebreo di Malta al Dottor Faust, secondo una lettura dell’uso del sublime in tutte le sue sfumature, dal pathos al bathos, dal grandioso al grottesco. C’è sempre, infatti, un doppio registro nel discorso di Marlowe, di affermazione e di negazione, di ambiguità, che si inserisce nel grande dibattito metafisico del pensiero occidentale sull’eterna lotta fra la vita e la morte, sulla perenne sfida e ribellione all’umano destino dimortalità. Nel Tamerlano, come nell’Edoardo II, il discorso si incentra sul potere, sulla sovranità, e sul suo correlativo oggettivo, la corona. Se essere re è superiore all’essere Dio, il valore reale della sovranità è legato, paradossalmente, al valore simbolico della corona. Tutta la prima parte del Tamerlano mostra il passaggio dell’oggetto “corona” da una mano all’altra, da un capo all’altro. Il povero, imbelle Micete, indegno di indossarla, la perde giocato dalla furbizia e dall’ironia del discorso di Tamerlano. E cade nel grottesco quando cerca di salvare la corona nascondendola in un buco, come se conservare quel simbolo significasse realmente conservare il potere. Passando dall’antica corte di Persia all’Inghilterra più familiare all’autore, il grottesco diventa patetico nell’Edoardo II, quando il re sconfitto spera di fermare il tempo, di dilazionare la deposizione e la morte tenendo ancora per un po’ la corona sul capo. In questo dramma, l’imbelle re Micete si è trasformato nel dissoluto re Edoardo, dedito ad amori omosessuali alle spese dell’infelice sposa, la regina Isabella. Nell’Ebreo di Malta, il grottesco è di casa, dal Prologo pronunciato da Machiavelli – in chiave apertamente e provocatoriamente revisionistica della leggenda antimachiavellica in Inghilterra – al rapporto fra Barabba l’ebreo e il mondo cristiano. Ancora più di Shylock nel Mercante di Venezia, Barabba è un grande personaggio da leggersi non necessariamente in chiave antisemita; forse ha ragione il critico Harold Bloom quando lo considera il personaggio più grandioso di Marlowe, quello che, come il suo autore, ha maggiormente sfidato le convenzioni morali e artistiche del suo tempo. Per cui si può dire che, se Marlowe è “ateo”, lo è come Barabba, in quanto portavoce di una feroce satira non tanto contro la religione in sé, ma contro tutti i pregiudizi e tutte le convenzioni. L’ironia del destino, o meglio della Fortuna (importante concetto rinascimentale), lega Barabba a Faust, entrambi superiori alla massa, soli nella loro sfida. Così la battuta di Barabba, “Barabba è nato a una sorte migliore”, pare corrispondere al lungo monologo iniziale di Faust nel suo studio, che Harry Levin ha definito “un vero inventario del pensiero rinascimentale”. In tutta la sua complessità questo monologo – dove Faust rifiuta successivamente tutti i tipi di conoscenza per giungere, infine, alla scelta della magia – è non solo l’ironica presentazione dell’uomo superiore, ma anche il riconoscimento del suo fallimento, cioè della mortalità. Un’ironia che viene accentuata nell’opposizione tra Faust e Mefistofele, quest’ultimo forse da considerarsi il vero uomo moderno, quando con malinconica sicurezza afferma che l’inferno è là dove noi siamo.
Christopher Marlowe
Prologo, parla il Machiavelli
L’ebreo di Malta
MACHIAVELLI: Benché la gente creda che Machiavelli sia morto, l’anima sua era solamente volata di là dalle Alpi, ed ora che anche il duca di Guisa è morto, essa è venuta dalla Francia a visitare questo paese ed a folleggiare con i suoi amici. Forse a qualcuno è odioso il nome mio, ma coloro che m’amano, mi difendano dalla lingua di costoro; e sappiano essi che io sono Machiavelli: non faccio conto degli uomini, tanto meno delle loro parole. Sono tanto più ammirato da coloro che più mi odiano. Parlino pure alcuni contro le opere mie; pur mi leggono, e così giungono sino al trono di Pietro; se mi avranno posto in bando, morranno avvelenati dai miei ambiziosi seguaci. La religione per me non è che un giochetto da fanciulli, e sono ben certo che non v’è altro peccato all’infuori dell’ignoranza. “Gli uccelli dell’aria parleranno dei delitti passati!”. Ho vergogna di udire simili sciocchezze. Molti usano parlare del diritto alla corona: che diritto ebbe Cesare all’impero? La forza per prima fece i re, ed allora le leggi sono state più certe, quando, come quelle di Dracone, furono scritte nel sangue. Da tal principio si deduce che una fortezza saldamente costrutta ha assai maggior virtù di imperio di quanta non ne posseggano le lettere; se Falaride avesse soltanto ottemperato a questa massima, mai non avrebbe muggito, in un toro di metallo, dell’invidia dei grandi. Dagli uomini piccoli e meschini che io sia pure invidiato, non commiserato! Ma dove vado a parare? Non sono venuto, io, qua in Inghilterra per tener conferenze, ma per presentare la tragedia di un ebreo, che sorride al veder come le sue casseforti son colme: denari acquistati non senza usare i miei sistemi. Solo questo io domando: onoratelo come merita, e non lo trattate meno bene, perché mi assomiglia.
C. Marlowe, “L’ebreo di Malta” in Teatro elisabettiano, prefazione di M. Praz, trad. it. G. Melchiori, Firenze, Sansoni, 1981
Christopher Marlowe
Patto con il Diavolo
La tragica storia del dottor Faust, Atto I, scena III
FAUST:
E voi chi siete, soci di Lucifero?
MEFISTOFELE:
Infelici caduti con Lucifero,
ribelli a Dio con Lucifero
e dannati per sempre con Lucifero.
FAUST:
Dannati dove?
MEFISTOFELE:
All’inferno.
FAUST:
E come mai ne sei fuori?
MEFISTOFELE:
Ma qui è inferno, non ne sono fuori.
Ho visto il volto del Signore
e so cos’è il cielo. E tu credi
che non mi tormentino diecimila inferni
vedendomi tolta quell’estasi? Ah, Faust,
non farmi queste domande meschine
che subito mi angosciano e mi atterriscono.
FAUST:
Come, il grande Mefistofele s’addolora
perché gli hanno tolto il paradiso?
Impara da Faust a essere forte come un uomo
e disprezza la felicità che hai perduta.
E ora torna da Lucifero e digli questo:
poiché Faust è incorso nella morte eterna
per i suoi pensieri disperati contro Giove,
digli che è pronto a cedergli l’anima
se lo risparmia per ventiquattr’anni
per fargli vivere tutte le voluttà
e averti sempre al mio servizio
per darmi tutto ciò che ti chiedo,
per dirmi tutto ciò che ti domando,
uccidere i miei nemici, aiutare i miei amici
e obbedire sempre ai miei ordini.
Va’, torna dal potente Lucifero
e vieni a mezzanotte nel mio studio
a dirmi le sue decisioni.
MEFISTOFELE:D’accordo.
Esce.
FAUST:
Avessi tante anime quante sono le stelle,
le darei tutte per Mefistofele.
Con lui sarò imperatore del mondo,
lancerò un ponte sull’aria
e passerò l’oceano col mio esercito,
salderò i monti intorno al mare d’Africa,
ne farò un continente con la Spagna
e saranno entrambe vassalle del mio regno.
L’imperatore vivrà per mia clemenza
e così ogni potente in Germania.
Ora ho ciò che volevo,
vivrò studiando la mia arte
finché lui non torna.
Escono FAUST, LUCIFERO e i diavoli.
C. Marlowe, La tragica storia del dottor Faust, trad. it. di N. D’Agostino, Milano, Guanda, 1980
I miti creati dalla poesia di Marlowe hanno superato la prova del tempo, e talvolta anche il nome dell’autore. Ma è così importante sapere chi era Marlowe, come è vissuto e, soprattutto, come è morto? Alla domanda “Chi ha ucciso Christopher Marlowe?” possiamo a questo punto rispondere che non è stato sicuramente William Shakespeare, il quale anzi gli ha dedicato una sofferta epigrafe, se leggiamo come riferite a lui le parole di Touchstone in Come vi piace: “Quando i versi di un uomo non possono essere compresi e lo spirito di lui non può essere assecondato da quel precoce figlio che è l’intelletto, ciò ammazza l’uomo più che un grosso conto in un alberguccio” (atto III, scena 3).