Chronik der Anna Magdalena Bach
(RFT/Italia 1967, 1968, Cronaca di Anna Magdalena Bach, bianco e nero, 93m); regia: Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; produzione: Straub-Huillet/Kuratorium Junger Deutscher Film/Hessischer Rundfunk/Telepool/RAI/ IDI/Franz Seitz/Filmfonds; sceneggiatura: Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; fotografia: Ugo Piccone, Saverio Diamanti, Giovanni Canfarelli; montaggio: Jean-Marie Straub, Danièle Huillet; suono: Louis Hochet, Lucien Moreau; scenografia: Danièle Huillet; costumi: Casa d'Arte Firenze, Vera Poggioni, Renata Morroni.
Il film percorre la vita di Johann Sebastian Bach attraverso i ricordi della seconda moglie Anna Magdalena, le lettere, i documenti, gli editti reali, i manoscritti, la musica e gli spartiti. Le esecuzioni si alternano ai ricordi e ai documenti: i viaggi a piedi del giovane Bach fino ad Amburgo per ascoltare buoni organisti, i servigi prestati alla corte di Weimar, le difficoltà economiche, la morte di due figli in tenera età, l'incarico di direttore presso il Collegium Musicum a Lipsia dove incominciano le incomprensioni sui suoi metodi di insegnamento, incomprensioni sotto cui si celano dispute di potere. In seguito Bach si appella a sua altezza reale, ottiene il titolo di compositore di corte e si prodiga perché i suoi figli possano trovare una loro strada. A causa di improvvisi problemi alla vista, detta le sue ultime composizioni e, proprio mentre si pensa a un miglioramento, spira dopo una forte febbre.
Frutto di un lavoro di ricerca e di documentazione durato dieci anni (era il primo progetto che Jean-Marie Straub e Danièle Huillet avrebbero voluto realizzare), Chronik der Anna Magdalena Bach è un film indimenticabile, per alcuni semplici motivi: per il modo in cui la musica viene filmata; per come riesce a far percepire concretamente il suono in presa diretta, e, conseguentemente, per l'importanza che vi assume l'organizzazione dello spazio filmico; per l'impalpabile sensazione di non aver mai visto in precedenza una simile storia d'amore: una storia in cui una donna parla e ricorda la vita del proprio marito, muta e malinconica testimone di un'esistenza trascorsa tra lutti, momenti di sconforto e dedizione totale alla musica. Il film si compone secondo blocchi costituiti da materia musicale, a cui fanno da contrappunto quelli che Straub ha chiamato ‒ rifacendosi a Stockhausen ‒ 'punti'. Non tanto episodi della vita di Bach, e neppure vere e proprie sequenze, ma attimi d'esistenza, compressi a volte in pochi fotogrammi: un primo piano all'interno di una carrozza, uno screzio costruito in due inquadrature, una gabbia con uccellino appesa alla finestra, un volto di donna, le onde del mare, le nubi che scorrono mentre il vento scuote gli alberi, un blocco di pellicola nera.
Che cosa mostra dunque Chronik der Anna Magdalena Bach? Persone che compiono un vero lavoro davanti alla macchina da presa, immerse nella musica e concentrate nella loro esecuzione. Semplicemente. Da questo punto di vista il film si propone come una sorta di documentario, nella sua accezione più essenziale: osservazione di un avvenimento, concreto approccio verso il reale. Si tratta in fondo di una questione di distanze: i piani appaiono svuotati di ogni intenzione, se non quella di voler impressionare sulla pellicola un evento musicale. Distanza significa quindi equilibrio: nessuna concessione 'spettacolare' e nessun virtuosismo interpretativo. Ciò che emerge è la materia musicale, la grana del suono, il precipitato delle note. Spesso la macchina da presa si sofferma, immobile, sull'esecuzione di un brano musicale. È il caso della prima inquadratura del film, in cui possiamo già riconoscere, in nuce, il cuore dell'opera: si tratta di un piano ravvicinato che comprende il musicista, il clavicembalo e lo spartito, e che improvvisamente, con un lento movimento di macchina, si allarga a rivelare l'intera orchestra (se dovessimo trovare un precedente al metodo qui utilizzato per filmare la musica di Bach, segnaleremmo paradossalmente A Night at the Opera ‒ Una notte all'Opera, Sam Wood 1935, con i fratelli Marx). Tutto il film non è che questo: note e spartiti, strumenti musicali, corpi esecutori. Blocchi musicali, a volte circoscritti da lenti movimenti di macchina: carrellate in avanti, laterali, indietro. Essenzialità e concretezza della messa in scena: disposizione all'ascolto, alla captazione delle onde sonore. Musica che riecheggia nello spazio: nessuna scenografia, solo luoghi reali che la macchina da presa percorre e misura (la sala da pranzo di Apollo, presso l'Opera dell'allora Berlino Est… Qui, mentre la musica invade la sala, la macchina da presa segue lo sguardo di Bach sul soffitto intarsiato da tele di ragno).
Ciò che colpisce di Chronik der Anna Magdalena Bach è dunque la dimensione concreta (blocchi di spazio e di tempo, di materia cinematografica), impressione che si evince pure dal senso claustrale del film, immerso e chiuso in stanze reali, navate di chiese, residenze e castelli. Tocca alle parole di Anna Magdalena, recitate recto tono, il compito di donare la sensazione di un fuori, certificato anche dalla luce naturale che filtra dalle immense finestre e si diffonde nelle sale di corte, oppure illumina gli interni di uno studio. Luce che lambisce il volto e il corpo di Anna Magdalena, ma che ‒ in termini sintomatici ‒ sembra distante da Bach. Che cosa significa questa luce? Quella luce che infine Johann Sebastian Bach afferma di poter sopportare, prima di morire? È il sintomo di un mondo esteriore che esiste, e a cui il compositore contrappone l'amore per gli spartiti musicali, i meccanismi di un clavicembalo, la riflessione e lo studio, come se il suo universo si concentrasse intorno a una scrivania su cui far ruotare concatenazioni di note. Ma è anche quella luce che infine lo sfiora nell'ultima inquadratura, quando, immobile, ci appare finalmente nei pressi di una finestra, un'apertura: quella luce che ci fa pensare enigmaticamente al finale di un film di Robert Bresson. Del resto Danièle Huillet e Jean-Marie Straub prima di decidersi a girare Chronik der Anna Magdalena Bach, film rimasto esemplare della loro esigente, irriducibile idea di cinema, ne avevano proposto la regia allo stesso Bresson. Forse perché, come in Le journal d'un curé de campagne (Diario di un curato di campagna, 1951) anche qui, infine, "tutto è grazia".
Interpreti e personaggi: Gustav Leonhardt (Johann Sebastian Bach), Christiane Lang (Anna Magdalena), Paolo Carlini (Dr. Hölzel, consigliere), Ernst Castelli (Steger, consigliere aulico), Hans-Peter Boye (Born, consigliere al capitolo), Joachim Wolf (rettore), Rainer Kirchner (sovrintendente), Eckart Brüntjen (prefetto Kittler), Walter Peters (prefetto Krause), Kathrien Leonhardt (Catharina Dorothea Bach), Anja Fährmann (Regine Susanna Bach), Katja Drewanz (Christine Sophie Henrietta Bach), Bob van Asperen (Johann Elias Bach), Andreas Pangritz (Wilhelm Friedemann Bach), Bernd Weikl (cantante nella Cantata BWV 205), Wolfgang Schöne (cantante nella Cantata BWV 82), Karl-Heinz Lampe (cantante nella Cantata BWV 42), Nikolaus Harnoncourt (principe di Anhalt-Cöthen), Bernhard Wehle (voce soprano nella Cantata BWV 140), Christa Degler (voce di Anna Magdalena Bach nella Cantata BWV 244a).
J.-M. Straub, Il Bachfilm. Tribune der Jungen Deutschen Films: III. Jean-Marie Straub (intervista a cura di F. Grafe, E. Patalas), n. 11, November 1966 (trad. it. in "Cinema & Film", n. 4, autunno 1967).
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Il cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, a cura di P. Spila, Roma 2001.
Sceneggiatura: in "Cahiers du cinéma", n. 200-201, avril-mai 1968.