CIBELE (Κυβέλη, Cybĕle)
Divinità adorata dalle popolazioni preelleniche dell'Asia Minore, dalle quali la ricevettero i Greci. In Asia, e soprattutto in Frigia e in Lidia, questa dea impersonava il concetto d'una grande divinità femminile, madre feconda degli dei e degli uomini. In origine, non portava alcun nome proprio, si chiamava semplicemente la Gran Madre o la Madre; fra le più antiche designazioni della dea, che di solito ricordavano i luoghi del suo culto (come quelle di Sipilene e Dindimene, da due monti della Frigia; di Berecinzia, dall'antica città omonima presso il fiume Sangario), prevalse alla fine quella di Κυβέλη, dal nome, Κύβελα o Κύβελον, di un monte della Frigia, ora non più identificabile. Con questo nome la ricevettero i Greci: esso comincia a comparire, nel secolo VI, in Ipponatte (fr. 121 Bergk), e, nella forma definitiva, per la prima volta in Pindaro (fr. 80 Bergk). Un'altra Dea Madre conoscevano i Greci: quella delle genti pregreche di Creta passata nella religione greca col nome di Rea. La confusione delle due dee (facilitata anche dall'identità del nome di due rispettivi luoghi di culto: il M. Ida dell'isola di Creta e il M. Ida della regione di Troia) compare per la prima volta nei tragici (p. es. Soph., Philoct., 391, Eurip., Bacch., 58) e divenne via via sempre più frequente; ma ad una completa identificazione e sovrapposizione delle due divinità non si arrivò mai: in molte parti della Grecia, come ad Atene, in Arcadia, in Olimpia, i due culti coesistevano paralleli e distinti.
La dea Cibele sembra rispecchiare in sé le caratteristiche della regione e della gente frigia, in mezzo alla quale il suo culto prese forma e sviluppo; ond'è che C. ci apparisce al tempo stesso come dea della natura e dell'agricoltura. Nel primo aspetto, essa è la Madre Terra, che genera dal suo seno la vegetazione spontanea dei boschi e dei monti, una vera divinità feconda, identificata spesso con Afrodite; suo dono sono i tesori che la terra nasconde nel suo seno, specie quell'oro, portato dai fiumi della Frigia, che fece di Mida, figlio suo e fondatore del suo culto, l'uomo più ricco del mondo; e il ferro, che i Dattili lavoravano nelle grotte del M. Ida. Nel secondo aspetto, essa è la protettrice della coltivazione del frumento e della vite (Lucr., II, 612; cfr. Herod., II, 2), della vita umana civilmente ordinata (onde la sua frequente identificazione con Demetra), dell'edificazione di città (onde gli epiteti di mater turrita o turrigera, e l'attributo della corona turrita).
Ma il primo aspetto è quello che prevalse decisamente nel culto, di carattere orgiastico. Le cerimonie e i miti a cui esse s'informavano simboleggiavano la natura che risorge ad ogni primavera, e poi intristisce e muore al sopraggiungere dell'inverno.
La vera festa del culto di C., che, col mito di Attis, simboleggiava appunto il morire e il rifiorire della natura, era quella di Pessinunte, città della Frigia: essa appartiene alla categoria dei riti di mistero; n'era parte notevole la strepitosa processione che seguiva l'immagine della dea; la festa si chiudeva, come poi anche quella romana, col bagno del simulacro della dea.
Dalla Frigia la religione di C. si diffuse largamente nelle provincie greche d'Asia, specialmente nella Lidia, e di qui nelle colonie dell'Ellesponto e della Propontide e nella Grecia propriamente detta, specialmente nel Peloponneso e in Beozia, dove Pindaro fu un fervente adoratore della dea, alla quale aveva dedicato un'edicola.
Durante la seconda guerra punica, e precisamente nell'anno 205 a. C., il culto di C. fu introdotto anche in Roma, per suggerimento dei libri sibillini. Attalo, re di Pergamo e signore della Frigia, che aveva probabilmente poco prima trasferito da Pessinunte a Pergamo la sacra pietra meteoritica riguardata come la più antica immagine della dea, la consegnò ben volentieri a un'ambasceria romana, che Ia scortò con gran pompa fino a Roma (Liv., XXIX, 10, 14; Ovid., Fasti, IV, 255 segg.; ecc.). Deposta momentaneamente nel tempio della Vittoria sul Palatino (Liv., XXIX, 14, 13), fu poi trasferita nell'apposito tempio eretto sullo stesso colle e dedicato il 10 aprile del 191 a. C.: ivi la dea fu venerata con la denominazione ufficiale di Mater deum Magna Idaea Palatina (Corp. Inscr. Lat., XII, 405). In quell'occasione, si tennero grandi ludi scenici (Liv., XXXVI, 36, 4), che d'allora in poi divennero regolari, col nome di ludi Megalenses, e si celebravano ogni anno dal 4 al 10 aprile. Augusto riedificò, nell'anno 3 d. C., il tempio della dea ch'era stato distrutto da un incendio e rese più magnifico il culto della Gran Madre Idea, da lui riguardata come la rappresentante della patria troiana della sua gente.
Il culto della dea C. in Roma è descritto da Ovidio, Fasti, IV, 337 segg. Il culto romano della Gran Madre era affidato a sacerdoti forestieri provenienti dal paese d'origine della dea. Membri principali di questo sacerdozio, inibito ai cittadini romani, erano i Galli (evirati), presieduti da un Archigallus; né mancavano sacerdotesse.
Lasciando da parte l'informe pietra nera di Pessinunte (ἄγαλμα δυπετές), il tipo più comune di rappresentazione della dea era quello di una divinità matronale seduta in trono, in mezzo ai suoi due leoni, col timpano in una mano e la corona murale sulla testa. Siffatte rappresentazioni non risalgono più indietro della fine del sec. V, e nella maggior parte, anzi, sono di epoca ellenistica o romana.
Bibl.: Preller-Robert, Griechische Mythologie, Berlino 1894, I, p. 638 segg.; Rapp, art. Kybele, in Roscher, Lexikon d. griech. u. röm. Mythol., II, coll. 1638 segg.; Schwenn, art. Kybele, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XI, coll. 2250-2298; Göhler, De Matris Magnae apud Romanos cultu, Meissen 1886; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 317 segg.; Graillot, Le culte de la Mère des dieux, Parigi 1915.