CIBELE (Κυβέλη, Κυβήβη; Cybele; in hittito Kubaba)
Divinità le cui origini si identificano probabilmente nella grande divinità femminile, venerata dall'epoca micenea, sia in Asia che in Grecia, con manifestazioni di culto diverse, personificazione della natura e della fecondità e signora delle fiere.
In Anatolia il suo culto si precisò nella dea protettrice dei Frigi, la Mater Kubile, e nella Kybebe dei Lidi, adorata come dea indigena a Sardi. A causa della comune natura di divinità della riproduzione, essa venne identificata con l'Astarte dei Fenici, con l'Atargatis dei Siriaci, con la Mylitta (Ishtar) dei Babilonesi, con l'Urania (Ilat) degli Arabi. Per i Greci essa era la Μήτηρ Μεγάλη o la Μήτηρ ϑεῶν, che veniva talora assimilata con Rhea, con Afrodite, con Artemide; era anche conosciuta con epiteti che avevano riferimenti geografici, quali la Mèter Dindyméne, Sipylène, Idaia. Essendo stata collegata in Lidia con Sabazio e in Frigia con Attis, anche in Grecia entrò in connessione con quest'ultimo. In età ellenistica C., pur serbando l'antico carattere naturalistico, era ormai divenuta anche dea protettrice dell'agricoltura, della vita civile, delle città. Pergamo e altri centri d'Asia Minore si vantavano di possedere le più venerande immagini xoaniformi. Verso la fine della guerra annibalica, per suggerimento dei libri sibillini, Roma introdusse il culto, trasportando solennemente da Pessinunte la pietra nera, simbolo della dea, concessa da Attalo di Pergamo (nove aprile del 204 a. C.). Il primo tempio della Magna Mater Deum fu dedicato il 10 aprile 191 a. C. sul Palatino. Furono inoltre istituiti i Ludi Megalenses (rappresentazioni di carattere sacro) in onore della dea. Il culto fu però sorvegliato, il sacerdozio proibito agli Italici, a causa delle sue pratiche ripugnanti all'etica e al diritto romani. Fu riconosciuto ufficialmente dallo Stato sotto Claudio; in seguito ebbe grande impulso e si estese nelle province. La sua evoluzione verso credenze esoteriche, con relative cerimonie di iniziazione e di purificazione, fu dovuta probabilmente ai contatti con la religione mitriaca.
La tipologia primitiva della Magna Mater è stata riconnessa a quella della dea alata, signora delle fiere, indicata generalmente col nome di Artemis Persica, che appare in età micenea nel mondo mediterraneo. Ma negli scavi d'Asia Minore gli strati più arcaici hanno restituito alla luce immagini diverse della antica Madre; il tipo aniconico, quello di signora delle belve con leoni rampanti, quello della dea stante che porta le mani ai seni, quello della divina nutrice di fanciulli.
Le prime raffigurazioni della dea chiaramente identificabili sono quelle che compaiono sui rilievi siro-hittiti, tra la fine del II e l'inizio del I millennio a. C. Il nome Kubaba si trova inciso vicino ad una figura femminile su un rilievo proveniente da Malatia e attualmente nel Museo Archeologico di Ankara, datato alla fine del II millennio; nel rilievo, sotto un ampio disco solare alato, si vede il dio dell'uragano, con in mano la folgore, in piedi su un leone, di fronte alla dea Kubaba, seduta, sorretta da un toro (da notare lo scambio degli animali sacri tra le due divinità); la dea ha sul capo un alto copricapo cilindrico e tiene nella mano destra un timpano (?), nella sinistra una melagrana. Un po' posteriore è un rilievo (Museo Archeologico di Ankara) proveniente dal palazzo di Katuwa, re di Karkamis, che regnò intorno al 900 a. C.; qui la dea, che sembra essere stata la protettrice della città, è raffigurata seduta su una sedia dall'alto schienale, sopra un leone accovacciato; in mano tiene i soliti attributi, mentre un ampio mantello le scende dal capo, dove si sovrappone al copricapo cilindrico, fino ai piedi; il mantello è chiuso nella parte inferiore, in modo da assumere l'aspetto di una specie di tunica. Altra probabile raffigurazione di Kubaba si ha in un rilievo da Birecik, datato all'VIII sec. a. C., conservato al British Museum; la dea è in piedi, senza il leone, con in mano gli attnbuti usuali, e indossa una lunga veste provvista di corte maniche; il capo è coperto dalla tiara cilindrica.
Rappresentazioni arcaiche della dea si sogliono riconoscere in rilievi intagliati con arte primitiva nella roccia delle montagne della Cappadocia e della Frigia. La tipologia orientale della Grande Madre appare in un rilievo sul monte Sipilo; essa è seduta portando le mani ai seni, nel gesto caratteristico della divinità femminile, che impersona il principio della fecondità della natura. Secondo Pausania (iii, 22, 4), gli abitanti di Magnesia del Sipilo credevano di possedere la più antica immagine della dea, opera di Broteas, figlio di Tantalo; forse si trattava di una scultura xoaniforme, o forse del rilievo stesso sopraccennato. Nell'arte greca C. penetrò attraverso la Ionia, insieme al suo culto; infatti le più antiche rappresentazioni si riferiscono a monumenti di ambiente ionico. Nelle città microasiatiche e nelle colonie ioniche del VI sec. a. C. è ormai fissata la tipologia della dea seduta in trono con rigida frontalità, fra i leoni, oppure con un piccolo leone sulle ginocchia; frequente è la figura ad altorilievo entro un naìskos, tipo di rappresentazione che, attraverso l'epoca classica e l'ellenismo, sarà ripetuta fino dall'arte romana. Tali statuette e rilievi arcaici sono venuti alla luce dalla necropoli di Kyme e da Thasos, ove la dea era oggetto di venerazione. All'inizio del V sec. a. C., va ascritto un rilievo thasio a Vienna, in cui le offerenti avanzano verso una nicchia archiettonica entro la quale siede la dea.
Le inquadrature architettoniche sono forse il ricordo delle grotte o nicchie scavate nelle montagne dell'Anatolia, entro cui era rappresentata la Grande Madre Idea. Si è anche avanzata l'ipotesi che all'arte thasia si debba ascrivere il grande rilievo di Villa Albani, da interpretarsi in tal caso come l'offerta di una famiglia alla Grande Madre nel suo carattere di dea kourotròphos. Nel fregio del lato settentrionale del tesoro dei Sifni a Delfi (525 circa a. C.), fra gli dèi combattenti contro i giganti appare C. sul carro trascinato dai leoni in corsa. Il culto di C. passò alla Grecia propria, forse dalla Ionia settentrionale, o forse direttamente dalla Lidia al Peloponneso. Certamente al tempo dei Pisistratidi il santuario della dea era stabilito, se non dentro la città di Atene, nel sobborgo di Agra, ma delle prime immagini del culto in Attica o altrove poco sappiamo, nonostante la recente proposta di identificazione di un prototipo in statuette di Marsiglia. Sconosciuta rimane anche la statua scolpita in Tebe per commissione di Pindaro da Aristomedes e Sokrates (Paus., ix, 25, 3), forse intorno al 460 a. C. (il poeta morì nel 441 a. C.); né rimane copia di quella tavola crisoelefantina destinata a deporvi le corone dei vincitori nel Metròon di Olimpia, che Kolotes aveva decorato con la triade divina Zeus, Hera e C. (Paus., v, 20, 2). Caratteri d'arte ancora severa ha una statua seduta della Grande Madre nella Collezione Doria-Pamphìlj, ma pare siano da ascriversi ad autore neo-classico, piuttosto che a un originale del V sec. a. C. Si credette di identificare in tale opera la C. di Agorakritos, ipotesi ora esclusa. La grande statua del Metròon ateniese, che la tradizione dice costruito in seguito alla peste del 430 nell'Agorà, quando l'oracolo delfico ordinò di fondarvi il culto della dea del Didimeo, era, secondo Pausania (1, 3-4), opera di Fidia; Plinio, invece (Nat. hist., xxxvi, 17) la dà ad Agorakritos (v.), attribuzione preferibile per la cronologia. Dell'aspetto di questa opera famosa sappiamo ciò che ne dice Arriano (Geographi min., iii, p. 56, Per. Pont. Eux., 9): era simile alla Rhea di Phasis nella Colchide, sedeva cioè avendo i leoni ai lati del trono e tenendo il timpano. È nota la confusione concettuale fra le due divinità, che portò alla identità delle rappresentazioni figurate. La C. dell'Agorà, riprodotta e rielaborata con grande frequenza, esercitò una visibile influenza sui tipi statuari fino in età romana. Si è proposto di identificarla nell'archetipo di due statue, purtroppo inutile, ad Atene e a Berlino; a qualche studioso è parso di poter riconoscere l'originale in una testa velata rinvenuta presso l'Eleusinion e ora a Boston. Altri ha ritenuto copia relativamente fedele una statua del Metròon di Livadia. Dal punto di vista tipologico la si conosce attraverso i rilievi, fra cui primo quello dal Pireo a Berlino, che mostra la dea di profilo: l'imponente figura velata con i leoni ai lati del trono, tiene nella destra avanzata una phiàle e stringe con la sinistra il timpano. Lungo il IV e III sec. a. C. si distribuiscono numerosi rilievi del tipo del naìskos provenienti da Atene e dal Pireo, che la riproducono con qualche variante, talora col pòlos in testa. Simili doni votivi a edicola provengono anche dall'Asia Minore (musei dell'Ermitage, di Berlino e di Smirne); la dea vi è raffigurata di preferenza col kàlathos. Tale C. appare anche nelle statuette e nelle terrecotte, rinvenute sia nella Grecia propria che in Asia Minore, che si ispirano, più o meno alla lontana, all'opera di Agorakritos.
Quella di Agorakritos non fu però l'unica statua originale di C. della seconda metà del V sec. a. C.; a prova di ciò si può addurre una C. seduta, nel Museo dell'Ermitage, con leone a destra e timpano a sinistra del trono. Negli stessi rilievi attici si incontrano molti elementi estranei alla statua dell'agorà di Atene sopra citata. Particolarmente importante il motivo del leoncino sulle ginocchia della dea, motivo noto dai ritrovamenti arcaici di Kyme e della colonia focese Massalia, che ritorna nei rilievi del IV-III sec., sia nell'Attica, sia in Asia Minore. Questa tipologia, d'origine orientale, ha fatto ricordare l'accenno di Diodoro a una statua di Rhea con due leoni sulle ginocchia, che stava in un tempio di Babilonia (Bibl. Hist., ii, 9, 5). Nei naìskoi stessi si trova anche lo schema del leone sotto i piedi della dea a guisa di sgabello. La Grande Madre è ormai entrata a far parte del pantheon greco e da tutto il mondo ellenico provengono rilievi votivi in cui compare al fianco degli dèi dell'Olimpo o di divinità minori, o assiste a episodi del mito, spesso insieme a Hermes Kàdmilos. Continua, tuttavia, fino in epoca ellenistica il tipo attico, commisto a elementi tradizionali riferibili a uno o più simulacri del culto della Ionia. Agli archetipi arcaici microasiatici risalgono, evidentemente, lo schema entro il naìskos e le vesti ioniche, chitone e mantello; anche il kàlathos, il leone sulle ginocchia, le varianti del panneggio parlano di originali estranei alla cerchia attica. Il tipo della C. stante fra i leoni fece la sua apparizione probabilmente nel IV sec. a. C.; cosi C. è rappresentata talvolta anche nei naìskoi con patera e timpano. Notevole un rilievo votivo conservato a Venezia, che riproduce forse simulacri del culto di C. e Attis: la dea, stante, stringe nella destra lo scettro e porta il kàlathos. Al IV sec. a. C. è stato riferito anche l'originale di una statua di C. seduta, nei Giardini Vaticani, avvolta in un panneggio, che rivela la sua indipendenza dalle opere del V sec. Essa porta la corona turrita, come dea protettrice della città, in cui fu dedicata; è questo un aspetto di C. che assume importanza in età ellenistica e che in epoca imperiale diverrà preponderante nelle rappresentazioni della dea. Statue, statuette e teste della Grande Madre, copie di età romana e rielaborazioni, ancora insufficientemente studiate, si incontrano spesso nei musei (Vaticano, Palazzo Mattei, Museo delle Terme, Laterano, Louvre, ecc.); attributo comune è il krèdemnon gettato sulla corona turrita. Sappiamo da Plinio (Nat. hist., xxxv, 108) che Nikomachos aveva dipinto la Madre degli dèi in leone sedentem. Questa tipologia di C. venne adottata in età ellenistica in due grandi rappresentazioni di gigantomachia: l'ara di Pergamo e il fregio del tempio di Atena Poliàs a Priene. Lo schema e il panneggio delle due figure sono però diverse e si è supposto che quella di Priene dipendesse da un prototipo anteriore. Resta tuttora in sospeso la questione della esistenza di un archetipo scultoreo e della relazione fra i rilievi e l'opera pittorica. In età romana C. sul leone fu riprodotta, come si vedrà, a tutto tondo. Il trasporto a Roma della pietra di Pessinunte nel 204 a. C. e l'inaugurazione nel 191 a. C. del tempio sul Palatino, sono ricordati dal rilievo di un'ara nei Museo Capitolino dedicata alla Madre degli dèi e a Navisalvia (la vestale Claudia Quinta) e da monete di Faustina Madre; sull'una e sulle altre si vede una figura divina su trono, al posto della pietra nera. Nel tempio palatino restaurato da Metello (110 a. C.), l'aerolito era incastrato al posto della testa in una statua argentea seduta su trono (Ovid., Fasti, iv, 179 ss., 347 s.), ma nella ricostruzione compiuta da Augusto, oltre questa veneranda immagine, doveva essere stata collocata un'altra statua. La nuova C. è conosciuta attraverso un rilievo della base augustea di Sorrento, una gemma incisa, e medaglioni adrianei; la statua rappresentava C. seduta su alto trono ornato da volute, con leoni ai lati, portava velo e corona turrita, poggiava il braccio destro sul timpano, piegando il sinistro ad arco con un oggetto in mano. Non era dunque copia d'opera greca, ma probabilmente una rielaborazione di artista augusteo. Sui medaglioni posteriori C. porta il ramo di pino e davanti a lei compare la figura di Attis. Negli scavi del tempio non si è rinvenuta la C. augustea, ma una statua acefala, derivata alla lontana dal tipo attico, con una dedica datata al 192 d. C. Il simulacro della dea sul carro era portato processionalmente nell'ultimo giorno delle grandi feste di marzo dal santuario palatino al fiume Almone per la lavatio. Una immagine di queste pompe annuali con la statua portata dai fedeli è rimasta in una pittura pompeiana della casa Reg. IX, 7, I. In età romana si verifica una ripresa dell'antico motivo artistico di C. sulla quadriga tirata dai leoni: compare nella monetazione repubblicana e viene ripreso, nel periodo del massimo fiorire del culto in Roma, nei conî di Faustina, di Antonino Pio, di Giulia Domna. Su un piccolo carro bronzeo al Metropolitan Museum di New York, la dea è sola sul carro, velata, con corona turrita. Altrettanto la G. da Formia alla Gliptoteca Ny-Carlsberg di Copenaghen, forse anch'essa su carro in atto di guidare i leoni, interessante opera flavio-traianea, che, più di una variante del tipo di Agorakritos, è da considerarsi una rielaborazione di esso attraverso opere ellenistiche. Sola con i leoni al passo, appare infine la dea nella nota ara di Villa Albani dedicata nel 295 d. C. da Scipione Orfito. Invece nella patera argentea di Parabiago le sta al fianco Attis; i leoni sono lanciati al galoppo, come nelle monete degli Antonini e nei contorniati del tardo Impero. La patera, ritenuta prima di età antonina, è stata in seguito attribuita alla rinascenza classicheggiante teodosiana. Difatti sotto Teodosio erano ancora in uso le processioni metroache (Amm. Marc., xxiii, 3, 7). È noto che C. sulla sua tensa apriva la pompa circense e che nel Circo Massimo la sua statua sul leone stava presso l'obelisco. Conosciamo questa scultura dal mosaico di Cecilianus (v.) e dal rilievo di un sarcofago della Sala Rotonda al Vaticano; una piccola copia fa parte della raccolta Doria-Pamphilj. L'opera si ricollegava evidentemente a prototipi ellenistici, forse al tipo Priene; portava la corona turrita e teneva nella sinistra lo scettro.
Sacerdozio. - L'organizzazione del sacerdozio di Cibele in Asia Minore e in Grecia, la complicata gerarchia ed il cerimoniale di età classica, sono poco noti. La supremazia di Pessinunte (dove i sacerdoti portavano il nome di Attis) pare fosse di ordine spirituale, ma non implicava autorità fuori del territorio. In età ellenistica compare l'appellativo di Gallos (Γάλλος), di incerta etimologia, indicante un addetto al culto di grado inferiore al sacerdote vero e proprio, che assume però grande importanza rispetto alla diffusione del culto, destando via via l'interesse anche delle popolazioni occidentali. I Galli onoravano la dea con riti orgiastici, canti, danze; sottoponendosi alla flagellazione e giungendo al sacrificio della virilità, come offerta suprema e assimilazione ad Attis. Il termine di "Archigallo" (᾿Αρχίγαλλος) ebbe evidentemente origine in Oriente per indicare una superiorità gerarchica, di cui però non si conosce il carattere. Plinio (Nat. hist., xxxv, 70) menziona fra le pitture di Parrasio un Archigallus pervenuto in proprietà di Tiberio, che lo pose nel suo cubicolo. E però discutibile che si trattasse veramente della rappresentazione di un sacerdote di Cibele, o di quella di un giovane eunuco; ed è stata posta in dubbio anche la lezione archigallum, sostituendola con un possibile ἀρχίγαμος (nova nupta).
Nessun elemento di questa celebre opera è giunto fino a noi, e neppure di rappresentazioni figurate ellenistiche. Si può tutt'al più intuire l'aspetto solenne dell'alto clero della dea nell'esercizio della liturgia dalle fonti letterarie. Il gran sacerdote di Pessinunte, quando venne a Roma nel 102 a. C., si presentò nel Foro indossando una lunga tunica ricamata in oro e portando in testa una corona d'oro (Diod., xxxvi, 13; Plut., Marios, 17); era questa ultima l'insegna particolare del sacerdozio della Magna Mater, che si trova raffigurata nei monumenti dell'età imperiale, e di cui un esemplare in bronzo dorato è posseduto dai Musei di Berlino.
È noto che lo Stato romano, pur accogliendo il culto della Gran Madre e in seguito anche quello di Attis, li disciplinò e li sorvegliò fin dall'inizio, Pare che il riordinamènto del culto avvenisse sotto Claudio con l'esclusione dei Galli dal sacerdozio vero e proprio, la cui autorità si concentro nell'Archigallus; riconosciuto ufficialmente dallo Stato, quest'ultimo poteva essere un civis romanus e vivere coniugalmente. Sacerdoti e sacerdotesse provvedevano ai riti sacri presso i santuarî della dea, sorti in varie parti d'Italia. Rappresentazioni figurate dei sacerdoti di C. sono tramandate da rilievi funerarî o commemorativi. L'alternarsi dei caratteri occidentali e orientali può mettersi in relazione con le mansioni, ufficiali o meno, del personaggio rispetto al culto autorizzato, poiché la divinità straniera in Roma doveva essere pregata scientia peregrina et externa, mente domestica et civili. In una stele vaticana (Galleria dei Candelabri) la Sacerdos Maxima della Mater deum, Laberia Felicia, vissuta nel primo secolo dell'Impero, è raffigurata sacrificante su di un'ara con l'aquila di Giove, stringendo nella mano sinistra un festone di quercia. Essa indossa l'abito di una matrona romana e porta le vittae sacerdotali. Invece un rilievo da Lanuvio al Museo Capitolino, databile forse all'età di Antonino, rappresenta un sacerdote con caratteri e attributi spiccatamente orientali, sì da far credere che si tratti di un Frigio. È imberbe e ha pettinatura femminea, coperta dal mantello; porta una corona fogliata con medaglioni recanti l'effigie di Zeus Idàios, e due Attis ai lati, orecchini, torques, lunghe vittae, sul seno un pendaglio in forma di naiskos col busto di Attis. Indossa una tunica a finissime pieghe con lunghe maniche strette al polso. Nella destra tiene una melagrana e tre ramoscelli di mirto (?), nella sinistra una coppa colma di frutta. Appoggiata alla spalla ha la frusta o flagello con astragali. Nel campo della stele si vedono i crotali, il tamburello, un flauto diritto ed uno curvo, la cista mistica, alludenti alle cerimonie in onore della dea. L'insistenza delle fonti letterarie sulle vesti femminee e sui volti dipinti dei galli (chiamati sprezzantemente semiviri) fa credere che si tratti di uno di costoro, e con questa interpretazione concorda la presenza degli strumenti musicali e del flagello.
Particolare interesse hanno alcuni ritrovamenti avvenuti nella necropoli dell'Isola Sacra presso Ostia, un coperchio di sarcofago e due rilievi, appartenenti per certo al sepolcro di un archigallo. Questi giace sul letto nelle sue vesti orientali: tunica frangiata con maniche strette al polso, brache, calzari e mantello; una fascia frangiata gli cinge la vita. Nella destra tiene il ramo di pino sacro ad Attis, ai suoi piedi è la cista mistica. Le dita sono cariche di anelli e al polso destro è un alto bracciale, l'occabus, su cui si vede la figura di C. con due divinità ai lati. In testa aveva probabilmente la corona, ora mancante, con la qualè è raffigurato nei rilievi. Questi ultimi hanno anche maggiore importanza, in quanto rappresentano l'archigallo officiante; nell'uno si appresta a sacrificare a C., la cui immagine seduta, con corona turrita, posta fra due fiaccole, ha davanti un piccolo Hermes; nell'altro si accosta con due fiaccole accese al sacro pino, sotto il quale è la statuetta di Attis. Il sacerdote ha la corona fogliata con due testine della dea e l'occabus, insegne del suo ministero, ma indossa la tunica e la toga contabulata, come cittadino romano in funzione sacerdotale. Il ritratto del vecchio archigallo e i panneggi suggeriscono di datare il monumento nella seconda metà del III sec. d. C. È noto che l'archigallo di Porto aveva assunto importanza e privilegi notevoli (Fragm. Vat., 47).
Bibl.: A. Conze, Hermes-Kadmilos, in Arch. Zeit., XXXVIII, 1880, p. i ss.; S. Reinach, Statues archaïques de Cybèle, in Bull. Corr. Hell., XIII, 1889, p. 555 ss.; G. Radert, Cybèle, Bibl. Univ. Mid., XIII, Bordeaux 1909; H. Graillot, Le culte de Cybèle mère des dieux, Bibl. des Ec. franç., 107, Parigi 1912; W. Froehner, Terres cuites d'Asie, Parigi 1881, t. 4, n. 44; Beschreibung der antiken Skulpturen, Berlino 1902, nn. 691-705; A. von Salis, Der Altar von Pergamon, Berlino 1912, p. 60 ss.; A. von Salis, Die Goettermutter des Agorakritos, in Jahrbuch, XXVIII, 1913, p. i ss.; Museum of Fine Arts Bulletin, XIV, 1916, n. 82, pp. 9-11; O. Waldhauer, Antike Sculpturen der Ermitage, Berlino 1928-36, III, nn. 248-257; J. N. Svoronos, Athener Nationalmuseum, tavv. CXVI-CXX, CLXXXXVIII, CCXXXIX, CCXL; G. E. Rizzo, La base di Augusto, Roma 1933, p. 39 ss.; H. von Schoenebeck, Christlitche Sarkophagplastik, in Röm. Mitt., LI, 1936, p. 242 ss.; A. Bartoli, Il culto della Mater deum Magna Idaea sul Palatino, in Mem. Pont. Acc. Arch., VI, p. 230, figg. 3-5; G. Calza, Il santuario della Magna Mater a Ostia, in Mem. Pont. Acc. Arch., VI, p. 183 s.; R. Calza, Sculture rinvenute nel santuario della Magna Mater, in Mem. Pont. Acc. Arch., VI, p. 207 ss.; A. Levi, La Patera di Parabiago, Roma 1935, p. 9 ss., t. I-III; H. P. L'Orange, Der spätantike Bildschmuck des Kostantinsbogen, Berlino 1939, figg. 27-28; Photographische Einzelaufnahmen, 784 (W. Amelung), 2189, 2345, 2627; C. Picard, Manuel, II, Parigi 1939, pp. 88, 96, 542 s.; E. Langlotz, Phidiasprobleme, Francoforte 1947, pp. 65 ss., 107; G. Becatti, Problemi fidiaci, Milano 1951, pp. 238 ss.; F. K. Dörner, in Jahrbuch für Kleinasiatische Forschung, II, 1951-52, pp. 94-96; E. Akurgal, Phrygische Kunst, Ankara 1955, pp. 99-100 (sul culto delle rocce); M. Vieyra, Hittite Art, 2300-750 B. C., Londra 1955 (sulle raffigurazioni siro-hittite); Ch. Picard, in Numen, IV, 1957, pp. 1-23.
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